Storia della cucina - La cucina medievale
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Storia della cucina - La cucina medievale - ROBERT MARCHESE
ruscello
1. La cucina medievale
(Tratto da:http://www.castellarquato.com/cucina/medioevale.html
Medioevo indica un lasso di tempo di quasi dieci secoli, dalla caduta dell’impero romano, la caduta di Romolo Augustolo nel 476, alla fine della guerra dei cent’anni nel sec. XV quando nascono i liberi comuni e si avvia il Rinascimento.
Il periodo è così ampio che si suole dividere poi in alto e basso medioevoe nella comune accezione si considera medioevo il periodo che va dall’anno 1000 al 1400.
Certo è che le invasioni barbariche danno un duro colpo alle abitudini alimentari delle popolazioni, scompare la cucina delle case patrizie romane e resta immutata la cucina della povera gente che deve combattere col male di sempre: la fame.
I più vecchi ricettari e le memorie dei cuochi del passato, da cui si possono dedurre le caratteristichedell’alimentazione nel medioevo, i gusti, la tavola dei nostri antenati, risalgono più o meno al Trecento.
La cucina medievale poteva essere rozza e poco raffinata a seconda che si trattasse della cucina del povero contadino, dei frati nelconvento o la corte di un feudatario. Gradualmente rinacque una cucina basata su quello che offriva il territorio. Le erbe aromatiche selvatiche furono accompagnate in seguitoda quelle orientali fornite dal commercio.
Non è del tutto vero che salse e spezie servissero a camuffare i sapori e gli odori dovuti alla cattiva conservazione dei cibi e in specie delle carni, esse erano deputate ad arricchire i sapori (qualche volta era l’unico condimento) e conferire nobiltà alla vivanda e a dare lustro al padrone di casa.
La cucina medioevale divenne, nell’arco di quasi mille anni, un’arte con molta dedizione e molta inventiva, una ricerca continua dettata dalla necessità, la scopertadella delicatezza del latte di mandorle, del miele, o dell’acqua di rose, la forza dell’agrodolce, il fascino esotico di spezie sconosciute.
Gli uomini e le donne del Medioevo erano senz’altro dei forti mangiatori e per i loro pasti, e soprattutto per i loro banchetti, erano realizzate enormi quantità di cibi. Il gusto dell’epoca prediligeva la sovrapposizione dei sapori, tipico è il caso dell’agrodolce, e il largo uso del miele, delle erbe aromatiche e spezie. Le spezie che incominciavano ad arrivare dall’oriente erano molto care e rappresentavano per i nobili ricchi uno status simbol da esibire.
L’uso dello zucchero risale all’anno mille portato dagli arabi che iniziarono la coltivazione della canna in Spagna e Marocco, ma divenne di largo consumo solo nel 1500, dopo la scoperta dell’America, unitamente all’arrivo del cacao e caffè, bevande che non potevano fare a meno dello zucchero.
La gran parte dei ricettari danno solo indicazioni piuttosto vaghe circa le quantità, i tempi di cottura e il ricercatore deve sperimentare e colmare le lacune senza snaturare il sapore dei piatti.
2. La storia dell’alimentazione
La storia dell’alimentazione evidenzia elementi di continuità tra Medioevo e Rinascimento ed età Moderna nella quale si migliora e si codificano le preparazioni già note.
La stessa continuità non si nota tra cultura romana e medievale, che condusse aun’arretratezza riguardo alla cultura culinaria e gastronomica dell’Età di mezzo.la gastronomia esisteva, malgrado i richiami alla morigeratezza e le restrizioni della Chiesa, proprio nei conventi ci sono numerose codificazioni di norme e pratiche che resteranno invariate per molti secoli (per esempio la badessa Ildegarda di Binden o il Taillevert (vedi § 3.6), al secolo Guillaume Triel dal 1373 alla corte di Francia e Mastro Martino).
http://cookbookhistory.wordpress.com/
http://www.cucinamedievale.it/2009/12/apicio/
Nel Medioevo non era importante solo la quantità enorme dei cibi sulle tavole dei signorie la loro presentazione spettacolare. Eranoportate a tavola interi vitelli o maiali, ma si prestava cura anche alla qualità delle preparazioni.
Tra XV e XVI secolo il modo di mangiare rivela piacevoli aspetti; ovviamente sempre su un livello sociale decisamente alto, per il povero il problema fondamentale non era cosa e come mangiare, ma semplicemente riuscire a farlo.
I differenti regimi alimentari, oscillanti tra Fame e Abbondanza, sono un fedele specchio delle tensioni e degli squilibri che percorrevano la società del tempo.
1.1. La conservazione dei cibi
L’acqua contenuta nei tessuti organici favorisce la proliferazione microbica, per questo motivo la conservazione dei cibi risulta un insieme di accorgimenti tesi a eliminare il più possibile l’acqua dai cibi.
Si consumavano i più svariati tipi di carne: ogni tipo di volatile, compresi cigni, pavoni, cicogne, i grandi ungulati della foresta, vi era molta più carne nelle foreste che nelle stalle della penisola e la caccia era fondamentale nel sistema alimentare.
Nella gerarchia gastronomica il maiale occupava il gradino più basso tra gli animali e fu a lungo il tipo di carne più consumato dalle classi medie.
Il maiale era conservato mediante salatura, pulito e svuotato delle interiora era appeso cosparso di sale ed era denominatomezzena - o ridotto in parti salate singolarmente come i prosciutti; gli insaccati richiedevano sapienti miscele di carne, sale, pepe, spezie, alcune si sono tramandate fino a noi, e quindi avevano un costo elevato ed erano destinati alle classi alte.
Le genti del Medioevo non furono grandi consumatrici di pesce, in genere, a quello di mare, preferivano quello d’acqua dolce anche d’allevamento in grandi peschiere. Le motivazioni erano semplici: era più facile da catturare, più accessibile, richiedeva mezzi meno costosi per essere pescato e il suo prezzo al consumo era più basso. I numerosi giorni di digiuno imposti dalla Chiesa imponevano la rinuncia alla carne, ma non accennavano all’obbligo di mangiare pesce.
Dalle fredde acque dell’Europa Settentrionale però si commerciava in tutta Europa l’aringa, fino a costituire per i paesi costieri un vero e proprio business; già nel XVI secolo le aringhe erano salate imbottate direttamente in mare, sulle navi con cui erano pescate.
La preparazione dei cibi risentedella conservabilitàdei medesimi. Nel Medioevo la conservazione era quella ereditata dai romani poiché profonde edefficaci innovazioni si avranno solo a partire dal XVIII e XIX secolo. I quattro elementi
cui si ricorreva per evitare la corruzione dei generi alimentarieran, e sono ancora, la refrigerazione o il congelamento, la disidratazione o l’essicazione, la salatura a secco o in salamoiael’affumicatura.
Era nota anche l’acidificazione, per fermentazione (si produce acido lattico) come i cavoli per crauti o l’aggiunta di aceto per la conservare verdure: peperoni, sedano, carote, cetrioli etc.in alcune località anche mele semiselvatiche.
La conservazione sotto grasso fuso o sott’olio, è ancora oggi usata per i sottoli di verdura o certi insaccati come le salcicce di cinghialeo certe carni come quella dell’oca conservata in anfore ricoperte di sugna fusa e lasciata raffreddare.
Le granaglie erano fatte essiccare e poi poste nei granai o in anfore sigillate. I granai erano spesso fosse scavate in rocce calcaree che assorbivano l’umidità residua evitando l’umidità da condensazione e quindi l’istaurarsi di muffe.
Nel Medioevo esistevano, nel Nord Europa, nelle regioni alpine e prealpine in particolar modo, depositi di neve e ghiaccio e le proprietà conservanti della refrigerazione erano note da tempo. Si usavano locali - detti neviere, ghiacciaie, nevaie, parzialmente interrate, in pietra e isolati dalle escursioni termiche con paglia o lolla di riso, il ghiaccio e la neve erano accumulati nelle stagioni fredde e si poteva porre gli alimenti, in apposite gabbie o locali comunicanti con la ghiacciaia. Le ghiacciaie nelle varie tipologie hanno resistito fino all’inizio del ‘900 e nelle vecchie cascine o nei conventi sono tuttora visibili.
Nel regime alimentare di tutte le classi sociali fondamentali erano i cereali e i legumi secchi, la loro conservazione fu sempre un urgente problema di sopravvivenza. Potevano essere immagazzinati sotto forma di chicchi interi o già macinati in farina, isolati dall’umidità, per evitare, la germinazione intempestiva, o la presenza di microorganismi e muffe che ne compromettessero la commestibilità.
Era diffusa l’essiccazione al sole e all’aria. Sappiamo però che potevano anche essere tostati e utilizzati lungo tutto l’arco dell’anno. Dovevano essere anche preservati da insetti e dai roditori.
La maggior parte delle piante coltivate è stata importata nell’antichità dall’Oriente (vite e olivo) e in età moderna dalle Americhe (pomodoro, mais, soia patate, cacao i più conosciuti). Le castagne rappresentavano una grande risorsa per le classi povere, il castagno cresceva spontaneo sulle colline e basse montagne, in climi umidi e su terreni non calcarei, del Mediterraneo occidentale. Le castagne erano consumate fresche, o essiccate al sole, e poi in appositi locali in cui si alimentava un fuoco lento e per lungo tempo nei metati
o alla grata
.
Le altre specie di frutti nel Medioevo, anche quelle di crescita spontanea, erano cibi poco usati e comparivano solo sui deschi di lusso, consumati prevalentemente freschi o in preparazioni cotte; tra i frutti erano considerati meno nobili
quelli di macchia o cespuglio, come le fragole, i mirtilli, le more e più degni quelli di ramo perché più vicini al cielo e quindi a Dio. Si essiccavano i fichi, le carrube, le noci e le nocciole.
Nelle città tuttavia esisteva, negli ultimi secoli del Medioevo, un mercato della frutta che non dipendeva solo dalla produzione locale ma anche dalle importazioni a medio raggio.
Gli ortaggi ebbero un maggiore peso nella dieta quotidiana e molto diffusa era la loro conservazione secca, sott’aceto, sott’olioo in salamoia. I fagioli come altre leguminose, diventarono una riserva proteica importante per chi non poteva permettersi la carne, arrivarono in Europa solo in Età moderna insieme agli alti prodotti importati dalle Americhe.
C’erano però le cicerchie, il fagiolo dolico, fave e lenticchie.
3. Maestri di cucina del passato
3.1. Apicio e la cucina romana antica
La cucina romana rappresenta un grande patrimonio di documentazione storica, fortunatamente sono pervenuti fino a noi numerosi libri e documenti che descrivono, nell’arco del tempo le varie fasi di nascita, dalla cucna e abitudini degli Etruschi ai fasti dell’impero.
Fu la paura di morir di fame che spinse Apicio – racconta Seneca – al suicidio quando, rimasto solo con dieci milioni di sesterzi, ebbe paura di non poter più imbandire quei banchetti per i quali è rimasto famoso nella storia della gastronomia romana antica. Quindi morì per paura di morir di fame.
Il desiderio di soddisfare l’ingordigia dei partecipanti portò Apicio verso la magnificenza di una tavola adatta ai nuovi ricchi, ai nuovi nobili e ai potenti novi equites. Verso la fine del I secolo d.C., epoca in cui si credesia stato scritto il De Re Coquinaria, la frugalità e la modestia della tavola repubblicana sembravano scomparse per sempre.
Nel trattato non si fa cenno di quel famoso Lucio Licinio Lucullo morto nel I secolo d. C. che, ritornato a Roma dopo numerose campagne in Africa e in Oriente, visse con sfarzo e fasto orientale.
La sua tavola, per succulenza e magnificenza, è rimasta un ricordo sempre vivo nell’aggettivo luculliano
che, ancora oggi, rivela un piatto o un pasto particolarmente ricco e succulento. Non si fa cenno in esso neppure di Petronio Arbitro e della sua famosa Cena di Trimalcione narrata nel Satyricon.
Il De Re Coquinaria di Apicio, così com’è arrivato a noi, fu notevolmente ampliato nel IV secolo d. C.
Oltre alla creazione di piatti fantasiosi che vedono utilizzati lo struzzo, il colombo selvatico, la gru, il francolino e i beccafichi, nel trattato di Apicio si trovano una quantità incredibile di salse sofisticate, invitanti e stuzzicanti. Su tutte queste salse predomina il garume illiquamen, una salsa di colore scuro, di sapore acuto e d’odore acre che si ritiene inventata da Apicio.
Il liquamen era preparato mettendo in anfora di coccio le interiora di pesce mescolate a pezzi dello stesso o a pesciolini con sale e aglio, lasciando il tutto a decomporsi. Se vogliamo trovare un richiamo, nella cucina italiana, a questo liquamen dobbiamo ricorrere alla colatura di alici
molto nota in Campania. Garum e liquamen erano aggiunti a tutti i cibi, cotti o crudi.
Riguardo l’aspetto dei cibi, dice Apicio "Prope cocturam defritum mittis, coloras…" (Quando il cibo è quasi cotto aggiungi il defritume poi colora). Il defritum, o mosto cotto, diventa l’antenato dell’agresto e, in seguito, dei seicentesco "pomodoro". Apicio consiglia di colorare, inoltre, col vino, col vino cotto dolcificato, col passito o con l’aceto, dando a quest’ultimo un meritato primato nell’invito al cibo.
Il nome Apicio – in ambiente romano – era comune almeno a tre ghiottoni; per alcuni sono quattro, vissuti in diverse età. Il primo si fece notare per essersi scagliato contro la legge Fennia del