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CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

CAPITOLO 2
DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

2.1 Cenni di preistoria e protostoria.

Poiché resti di ominidi datati circa mezzo milione di anni fa sono stati
scoperti sui colli Albani1 e a Torrimpietra, sul litorale tirrenico nei pressi di
Roma2, è probabile che anche il territorio falisco fosse sparsamente popolato
da tribù di cacciatori-raccoglitori negli intervalli tra le fasi parossistiche dei
vulcani dell’Alto Lazio, a quel tempo attivi. La presenza umana nel territorio
ha però lasciato numerose impronte dalla fine dell’ultima glaciazione, oltre
10.000 anni fa. Lo homo sapiens sapiens elesse come proprio il territorio
Vicano, geologicamente nuovissimo, in virtù del clima mite e salubre,
dell’abbondanza di acque sorgive, dei terreni ricchi di vegetazione e
selvaggina. Caverne naturali scavate dai torrenti nelle pareti tufacee delle
forre ospitarono comunità paleolitiche che lasciarono pietre e ossa lavorate.
Il concentrarsi degli studi sulle numerose grotte che si aprono lungo i
costoni a picco lambiti da corsi d’acqua o in prossimità di sorgenti hanno
permesso infatti di riconoscere una intensa frequentazione di questo tipo di
riparo, mentre solo rarissime tracce attestano l’esistenza di abitati all’aperto
(ad esempio nel territorio di Corchiano e di Sutri).

1
P.CHIARUCCI, Il Lazio Antico dalla protostoria all’età medio-repubblicana, in Collana
di studi sull’Italia Antica 3. Edizioni Paleani, Roma 1987.
2
T.W. POTTER, Storia del paesaggio dell’Etruria meridionale: archeologia e
trasformazioni del territorio. NIS, Roma 1985.

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Le caverne naturali furono spesso allargate e nuove grotte furono


scavate, prima con strumenti di pietra, poi di metallo. Si formarono comunità
di cavernicoli in posizioni naturalmente protette, spesso difese da mura
poderose e fossati.
“Cavernette Falische”, così vengono chiamate dal Rellini3 i ripari in
grotta distribuiti nei territori di Corchiano, Gallese e Civita Castellana, lungo i
corsi d’acqua tributari del Tevere, in primo luogo il Treja, il Rio Maggiore, il
Rio Vicano, il Rio Fratta, il Rio delle Sorcelle ed altri ancora.
Si tratta per lo più di cavità di dimensioni limitate (che solo in alcuni
casi assumono il rilievo di vere e proprie caverne), talvolta frequentate già nel
Paleolitico4 (come la Caverna di Terra Rossa e il Riparo Lattanti nel territorio
di Corchiano)5. Molte grotte delle forre sono state utilizzate senza soluzione
di continuità dalla protostoria fino ai giorni nostri: come tombe in epoca
etrusca, come abitazioni, santuari e monasteri nel medioevo, poi come stalle,
ovili o ripostigli.

3
U. RELLINI, Cavernette e Ripari preistorici nell’Agro Falisco, in Monumenti Antichi dei
Lincei XXVI, 1920, coll 5-172, riedito in M.A. Fugazzola Delpino in Testimonianze di
cultura appenninica nel Lazio. Firenze 1976.
4
Il Paleolitico è suddiviso in tre fasi: Paleolitico inferiore (fino a 100.000 anni fa); medio
(fino a 40.000 anni fa); superiore (fino a circa 10.000 anni fa).
55
Nell’ambito delle “cavernette falische” particolare spicco assumono le tre caverne
cosiddette dell’Acqua, della Stipe e Grotta del Vannaro nel territorio di Corchiano per il
carattere cultuale della frequentazione, perdurante, nelle caverne dell’Acqua e della Stipe,
ancora in età romana.

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Esempio di cavernetta falisca presso il Rio Fratta (Corchiano).

Il progressivo passaggio dall’attività venatoria alla pastorizia e


all’agricoltura avvenne circa 7000 anni fa6 ed è riassunto dal Potter7.
Lo studioso documenta abitudini di transumanza ovina dagli altopiani
vulcanici, lungo le forre e verso gli alti pascoli appenninici.
Nonostante le lacune e la frammentarietà della documentazione, è
possibile ricostruire per questo periodo un’economia prevalentemente basata
sull’agricoltura e sull’allevamento del bestiame e solo in minor misura sulla
caccia, mentre si può gia cogliere negli scambi culturali e materiali con altri
6
Il Neolitico comprende il periodo che va dal 10.000 al 3000 a.C.
7
T.W. POTTER, Storia del paesaggio…, op. cit.

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territori dell’Italia peninsulare e in particolare con l’area adriatica (attestati


dalle importazioni consistenti di ossidiane, pietre verdi per accette e
ceramiche) il caratterizzarsi dell’agro falisco come il territorio-cerniera nella
vasta rete di traffici imperniati sulla valle tiberina, che avrà il suo pieno
sviluppo nell’età del Ferro.
Infatti fin dall’epoca villanoviana (inizio I° millennio a.C.), il territorio
si trova sulla direttrice di scambi tra le aree di Veio e Bologna, direttrice in
competizione con i flussi commerciali mediterranei passanti attraverso i centri
etruschi marittimi8.
La frequentazione di ripari in grotta, benché sembri essere prediletta
nel periodo neolitico, mostra una certa continuità nell’età del Bronzo9.
Studi recenti hanno evidenziato per l’età del Bronzo, fino alla fase del
Bronzo recente, una occupazione piuttosto frazionata del territorio, con
insediamenti localizzati in posizioni aperte e distribuiti su pendii lungo la fitta
rete idrografica confluente nel Tevere.

8
M.P. BAGLIONE, Il Tevere e i Falisci, Quaderno del Centro di Studio per l’archeologia
etrusco-italica 12: Il Tevere e le altre vie d’acqua del Lazio antico- Settimo incontro del
Comitato per l’Archeologia Laziale, p.124 CNR (Roma) 1986.
F. DELFINO, Rapporti e scambi nell’Etruria Meridionale Villanoviana con particolare
riferimento al Mezzogiorno, Quaderni del Centro di Studio per l’archeologia etrusco-italica
13: Archeologia nella Tuscia II, CNR (Roma) 1876.
9
L’età del Bronzo è suddivisa in quattro fasi: bronzo antico (prima metà del II millennio
a.C.); medio ( metà II millennio a.C.); recente (XIII-XII sec. a.C.); finale (fine del II-inizio
del I millennio a.C.).

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Insediamento presso il Colle del Vallone (Corchiano).

Pochissimi gli scavi sistematici che possono fornire dati utili ad una
ricostruzione dell’assetto socio-economico degli insediamenti di questa fase:
vanno ricordati a questo proposito, oltre lo scavo della Grotta del Vannaro
(Corchiano), quello dell’insediamento di Monte Venere a quota 600 m. s.l.m.,
sul lago di Vico (Caprarola), probabilmente di sponda e occupato fino alla
media età del Bronzo, e soprattutto gli scavi condotti a Narce (Calcata), sul
terrazzo fluviale lungo la riva sinistra del fiume Treja10.

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Scavi condotti dalla Soprintendenza alla Preistoria e all’Etnografia e dalla Scuola
Britannica.

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Gli scavi stratigrafici di Narce hanno messo in evidenza per questo sito
una continuità di insediamento anche nel periodo del Bronzo finale, ma
sembra trattarsi di un’eccezione rispetto ad un ben diverso comportamento
attestato nel territorio nel momento del passaggio dal Bronzo recente al
Bronzo finale.
In quest’ultima fase (culturalmente definita protovillanoviana e
convenzionalmente posta tra la metà del XII e la fine del X sec. a.C.), infatti,
la distribuzione degli insediamenti cambia radicalmente, passando dalle
posizioni aperte del periodo precedente all’occupazione di rilievi,
naturalmente fortificati, o difesi, nei lati più accessibili, da fortificazioni
artificiali.
Il fenomeno sembra allontanare l’agro falisco dai modelli di sviluppo
unitario dell’insediamento nell’età del Bronzo riconosciuti per l’Etruria, dove
è invece attestato un brusco abbandono delle sedi protovillanoviane all’inizio
dell’età del Ferro11 e dove gli abitati, esclusivamente agricoli, erano distribuiti
in modo radiocentrico verso il nucleo principale e non presentavano traccia
di fortificazioni; si presuppone quindi un sistema dove la popolazione viveva
in insediamenti unifamiliari sparsi sui propri campi, modello questo ripreso
dai romani.
Va invece osservato che nell’Agro falisco gli insediamenti del Bronzo
finale sembrano direttamente ricollegabili allo sviluppo dei principali centri
dell’età del Ferro.

11
L’età del Ferro è posta tra l’inizio del IX secolo e la fine del III secolo a.C.

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In questo senso particolare rilievo assumono le testimonianze dei due


siti più importanti del territorio: Falerii Veteres e Narce12. Non è senza
significato infatti che il più vasto insediamento del Bronzo finale attestato in
quest’area, quello di Vignale (Civita Castellana, con estensione di circa 13
ha), venga a costituire in seguito il primo nucleo dell’abitato e poi l’acropoli
di Falerii.
Analogamente per Narce, l’insediamento sulla altura naturalmente
fortificata dalla castellina, benché non scavato, dovette assumere, nella fase di
sviluppo dell’abitato, funzione di acropoli.
Nell’età del Ferro il territorio falisco vide la fioritura di importanti
centri, abitati da popolazioni etnicamente e linguisticamente distinte dalle
vicine genti etrusche con le quali confinavano ad ovest: i Falisci. A sud i poco
netti confini geografici con il contiguo agro capenate ed una certa affinità
nelle manifestazioni più antiche della cultura materiale hanno reso frequente
l’uso del termine ‘falisco-capenate’ per indicare i molteplici aspetti di una
vasta entità territoriale13. Il Tevere, sulla cui sponda destra gravita il territorio,
separa i Falisci dai Sabini e, più a nord, dagli Umbri.
Benché accerchiati in età storica da parlanti etrusco e sabino, i Falisci
conservarono, seppure alterato da infiltrazioni dialettali, il proprio patrimonio
12
Narce è un insieme di diversi centri successivamente delimitati in Calcata, Mazzano e
Faleria. Il centro di essa era localizzato tra Mazzano e Calcata. Il nome antico della città è
a tutt’oggi sconosciuto, anche se recenti studi tendono a ritenere sempre più probabile la
sua identificazione con Fescennium. Il nome di Narce è quindi un nome convenzionale, in
quanto si è dato a tutto il centro falisco nel suo complesso il nome della collina di Narce, la
più importante delle alture interessate dai resti antichi.
13
La diversità etnico-linguistica dei Falisci rispetto alle popolazioni limitrofe è adombrata
già dalle fonti letterarie di età classica, che parlano di un’origine pelasgica o argiva,
ricordando come fondatore della ‘capitale’ Falerii, l’argivo Halesus (<Falesos),
discendente del mitico Agamennone.

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linguistico, riconducibile ad un originario fondo latino, epigraficamente


documentato dalla metà del VII sec. a.C. fino alle iscrizioni della fase più
recente del III-II sec. a.C.
Sebbene i centri principali sorgano a distanza dal Tevere, la loro storia
risulta intimamente connessa alla funzione di grande via di comunicazione
attraverso l’Italia centrale svolta dal fiume, cui la fitta rete di affluenti offriva
ampie possibilità di diramazioni laterali. Non è un caso che i principali centri
del territorio falisco si sviluppino lungo il corso del più importante affluente
del Tevere, il Treja: più a sud Narce e più vicino alla foce, a nord, Falerii
Veteres.
Per la sua particolare posizione geografica l’agro falisco viene così ad
assumere una specifica connotazione di area di passaggio, costituendo uno dei
nodi nevralgici nel quadro del sistema di comunicazioni imperniato sulla valle
del Tevere e precipuamente finalizzato al commercio con l’entroterra centro e
nord-italico, oltre che al commercio dei metalli del distretto toscano14.
Il controllo delle vie di comunicazione attraverso la valle tiberina
dovette essere alla base dell’accumulo di ricchezza che si manifesta nelle
comunità falische a partire dalla seconda metà dell’VIII sec. a.C. soprattutto a
Narce, il centro più meridionale del territorio, e forse solo in un momento
appena successivo a Falerii.

14
A conferma di ciò la documentazione archeologica mostra, da un lato, l’arrivo precoce,
già nell’VIII sec. a.C., di oggetti di importazione provenienti dal mondo greco e orientale,
segni tangibili degli interessi commerciali gravitanti sulla bassa e media valle del Tevere,
dall’altro, l’interazione di influssi culturali di diversa provenienza, che si sovrappongono
ad una cultura che pure presenta fin dall’età più antica spiccati caratteri di originalità.

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Carta dell’agro falisco e dei territori limitrofi.


Fonte: DE LUCIA BROLLI A.M., Civita Castellana. Il Museo Archeologico
dell’Agro Falisco. Roma 1991.

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Nel corso del VI e V sec. a.C., l’agro falisco è intensamente interessato


dal commercio attico, che vi giunge copioso con prodotti ceramici15.
È in questa fase che Falerii consolida la posizione di centro egemone
della ‘nazione’ falisca, lasciando in seconda linea Narce, che mostra invece,
come sembra emergere dalla documentazione delle necropoli, una certa
contrazione16.
Falerii, la città che si è ormai estesa a tutto il pianoro oggi occupato da
Civita Castellana, mostra la sua ricchezza non solo per l’estensione delle
necropoli dai notevoli corredi funerari, ma anche per il numero e l’importanza
dei santuari.
Anche i centri settentrionali del territorio, in particolare Corchiano e
Vignanello, partecipano di questa fioritura almeno fin dal periodo
orientalizzante, accompagnando la rapida ascesa di Falerii, che conosce nel
IV sec. a.C. il periodo di maggior splendore, nonostante le varie e alterne
vicende dei conflitti con Roma.

15
Dapprima a figure nere e successivamente a figure rosse, anche di altissima qualità, e con
opere di maestri insigni della ceramografia greca.
16
Non è improbabile tuttavia, ma l’ipotesi necessita di ampie verifiche, che questo centro
meridionale, così strettamente legato a Veio fin dalle più antiche manifestazioni della sua
cultura e che nel corso dell’età arcaica erige ben due santuari suburbani, segno di un certo
benessere economico, risenta in parte dei costumi funerari attestati a Veio, Capena e nel
Latium Vetus, dove essi risultano improntati ad una rigorosa severità.

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2.2 Il paesaggio prima di Roma.

L’aumento progressivo della temperatura, intorno ai 12-15 mila anni


fa, portò alla trasformazione del paesaggio: la prateria si coprì di terreni
boscati con specie decidue come querce e noccioli, la vegetazione prese ad
assumere un aspetto del tutto simile a quello odierno.
Nel Neolitico medio un’economia mista con la compresenza di
attività legate all’allevamento, alla pastorizia, all’agricoltura e alla caccia,
segnò il primo attestarsi di insediamenti nelle aree interne, in particolare
lacustri, come il monte Venere sul lago di Vico. Qui era più semplice sfruttare
tutte le condizioni ambientali di un territorio pianeggiante e ricco di acque.
La pratica di allevamento del bestiame era ancora relativamente
primitiva, le forme animali domestiche erano, ad eccezione del cavallo e
dell’asino, simili alle odierne: ovini, caprini, bovini e suini. Questi venivano
utilizzati soprattutto come fonte proteica che integrava quella della caccia.17
Anche il sistema tecnico-produttivo agricolo fu testimone di una
condizione primitiva ma già determinante in un processo di modifica delle
strutture del paesaggio. Il sistema di coltivazione a ‘campi liberi’
(prearatorio), fondato sul debbio, presupponeva ancora uno spostamento delle
comunità, anche se molto limitato. Il debbio, basato su piccoli appezzamenti
dai contorni non definiti, determinati dall’irregolare allargarsi del fuoco e sui
quali si interveniva con la vanga o la zappa, doveva durare produttivamente
tre o quattro anni dopo dei quali la comunità era costretta a spostarsi in terreni

17
L. CALOI, M.R. PALOMBO, C. ROMEI, La fauna e l’allevamento. In Etruria
meridionale conoscenza, conservazione e fruizione. Atti del Convegno di Viterbo 28/29
novembre - 1 dicembre 1985. Roma: 1988.

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limitrofi. I campi abbandonati venivano, dopo qualche anno, riutilizzati con la


medesima pratica del debbio, dando così al paesaggio il disegno di macchie
informi al centro dei boschi.18
Probabilmente fu in questo momento che cominciò il processo di ri-
creazione continua del paesaggio, non solo a fini produttivi ma anche come
presa di possesso del territorio attraverso la codificazione di percorsi lungo i
quali sarebbero sorti siti stabili dotati di proprie caratteristiche urbanistiche. I
percorsi di transumanza, segnati dagli armenti, divenivano i primi segnali
fermi nel paesaggio. Tale sistema avrebbe comportato il passaggio da un
regime di nomadismo o di transumanza più o meno disordinato, a uno di
alpeggio regolato, che si sarebbe sviluppato e organizzato successivamente
nella prima età del Bronzo.
Con l’intensificarsi dell’allevamento si scoprì la funzione
rivitalizzante del letame animale e ciò contribuì alla graduale scomparsa del
sistema del debbio. Di conseguenza le comunità andarono a stabilirsi in siti
relativamente stabili, in genere su promontori in buona posizione strategica
alla confluenza di due valli fluviali. In alcuni casi non tutta la comunità
affrontava gli spostamenti stagionali: in pianura esistevano dei siti stabili dove
l’attività prevalente era quella agricola e della caccia.
Per quanto nei sistemi di coltivazione fosse ancora presente la tecnica
prearatoria (debbio, sistema a campi ed erba), faceva la sua comparsa, con
l’uso di aratri più o meno rudimentali, l’agricoltura aratoria. Questo sistema

18
E.SERENI, Città e campagna nell’Italia preromana, in Studi sulla città antica. Atti del
convegno di studi sulla città Etrusca e Italica preromana. Bologna, 1970.

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però, per tutta la durata del bronzo, rimase ancora precario, e così i campi
venivano abbandonati o sfruttati a pascolo19.
Nel Bronzo medio e finale la pressione demografica accentuò lo
sfruttamento di tutte le risorse ambientali. Vi fu una diminuzione degli
ovicaprini, un incremento dell’allevamento di bovini e suini e la riduzione
della pratica della caccia. Un forte sviluppo lo ebbe anche l’agricoltura con un
incremento qualitativo e quantitativo di graminacee e leguminose.
Tra la metà del XII e la fine del X secolo a.C., la distribuzione degli
insediamenti passava da una localizzazione generalmente in luoghi aperti e in
prossimità dei fiumi, a delle posizioni naturalmente fortificate e meglio
difese: i tavolati tufacei, le alture collinari dei monti Cimini e Sabatini e le
aree pianeggianti in prossimità delle rive lacustri.
Ma è all’inizio del I millennio a.C. che si verificò un ulteriore
cambiamento nel sistema produttivo dell’Agro Falisco. La causa fu un
consistente aumento della popolazione con la conseguente diversa
utilizzazione del suolo: si iniziò ad applicare il sistema del maggese biennale
(o sistema dei ‘due campi’), il quale si estese su territori sempre più vasti,
consentendo una produzione controllata e stabile attraverso il riposo annuale
di una parte del terreno agricolo. Intorno ai maggiori insediamenti si
formavano nelle campagne numerose aziende rurali a stretto contatto con il
centro principale. Da un sistema insediativo polinucleare, dove i siti erano
distribuiti senza particolari gerarchie lungo le principali vie di comunicazione
naturali, si passava a una concentrazione degli insediamenti e a un modello
mononucleare verso il quale convergevano tutte le attività.
19
E. SERENI, Città e campagna…, op. cit.

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L’espansione demografica e l’allargamento delle superfici coltivate


furono rese possibili dalla diffusione ormai in tutta l’Etruria del sistema dei
‘due campi’, testimoniato dal prevalere dei cereali superiori, come il
frumento, su quelli inferiori, come il farro e il miglio utilizzati nel sistema del
debbio.
La trasformazione del paesaggio tramite la modifica delle strutture
territoriali e tecnico-produttive sarebbe divenuta inarrestabile già dall’VIII
secolo a.C., a seguito dei progressi del maggese biennale. L’aspetto del
paesaggio agrario, dapprima una tessitura a chiazze non nettamente delimitate
da pascoli, radure e cespuglieti secondo il sistema a ‘campi liberi’, veniva
ridelineato dal lavoro dell’aratro e dal maggese biennale. Aratro e maggese
impressero una tessitura ortogonale segnata dai percorsi rettilinei del vomere
e sottolineata, più tardi, dalle prime piantate (vite nel VII-VI secolo e olivo
nel VI). Queste forme, associate alle opere di irrigazione e drenaggio e con la
viabilità interpoderale, avrebbero in seguito costituito le fondamentali unità
metriche di delimitazione del terreno.
Lo sviluppo dell’agricoltura introdusse l’uso di sistemi di drenaggio
delle acque meteoritiche. Nell’Agro Falisco il sistema era costituito di
cunicoli, veri e propri condotti orizzontali scavati nel tufo con fondo piatto e
tetto concavo, che avevano le dimensioni sufficienti per accogliere un uomo
per lo scavo e per la manutenzione. I cunicoli, collegati con l’esterno da un
sistema di pozzi verticali distanti tra loro 30 metri ca., venivano tracciati in

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modo da convogliare le acque meteoriche dagli avvallamenti sui pianori in


direzione delle forre20.
In età arcaica arrivarono animali importati dall’Oriente quali il
cavallo, il gallo, il gatto ed ebbero un forte incremento i suini, mentre
l’allevamento degli ovicaprini subì un calo.
Un elemento particolare del paesaggio agrario dell’Etruria fu la
diffusione della coltivazione della vite, allevata su lunghi tralci che si
appoggiavano a dei sostegni vivi. Si trattava di un sistema diverso da quello
ad ‘alberello basso’ o a ‘palo secco’ utilizzato nella Magna Grecia. Quello
etrusco evitava il contatto dei tralci con i terreni umidi e permetteva una
coltura promiscua con i cereali. Esso altresì, con la vite maritata a sostegni
vivi quali olmi, aceri, querce e pioppi, introdusse segni lineari nel paesaggio21.
Per quanto riguarda l’organizzazione agricola praticata dalle
popolazioni su questi territori, la terra doveva essere coltivata sia da lavoratori
semiliberi, che da piccoli proprietari e contadini liberi. In questo modo le
coltivazioni aumentarono, ma l’avvento della grande proprietà terriera e
l’istituto della schiavitù spinto alle estreme conseguenze, ne decretarono una
grave flessione. Discreta era dunque la molteplicità di produzioni: tra i cereali
troviamo il farro, la spelta, il grano tenero, l’orzo, l’avena, il panico, il miglio
e la segale. A Falerii era fiorente la coltivazione del lino.

20
G.CASORIA, La flora e le risorse agricole, in Etruria Meridionale, conoscenza,
conservazione, fruizione. Atti del convegno di Viterbo 29-30 novembre – 1 dicembre,
Roma 1985.
M. CASCIANELLI, Gli Etruschi e le acque. Ebe, Roma 1991.
21
E. SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano. Laterza, Bari 1979.

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Nel settore frutticolo troviamo il melo, il pero, il filo e il melograno;


tra gli ortaggi le fave, i piselli, le lenticchie, i ceci, i lupini, la cicerchia, le
cipolle, l’aglio, le carote, le rape, i cavoli e i finocchi.22
Fin verso il IV secolo a.C., oltre alla popolazione, aumentarono anche
le terre coltivabili e i siti dispersi nella campagna. A tutto ciò si sarebbe
associata un’espansione commerciale e la contemporanea fortificazione dei
centri maggiori in conseguenza dell’espansionismo di Roma.

2.3 Il periodo classico.

Fin dal V sec. a.C. la posizione geografica dell’agro falisco, incuneato


nell’ambito del territorio etrusco, portò le sue popolazioni a schierarsi a
fianco degli Etruschi contro le mire espansionistiche romane.
Tra il 402 e il 395 a.C. l’alleanza tra Falisci, Capenati e Veienti provocò
gravi ritorsioni da parte dei Romani, che saccheggiarono ripetutamente il
territorio. Dopo la caduta di Veio e di Capena (396-395 a.C.), con l’entrata di
Nepi e Sutri nella sfera politica romana, Falerii diviene l’interlocutore
principale di Roma; stretta d’assedio da Camillo23, è costretta ad un trattato di
pace nel 394 a.C.; la sua partecipazione poi alla guerra romano-tarquinese del
357-351 a.C., come alleata di Tarquinia, è seguita da una tregua che si
conclude con un nuovo trattato nel 343 a.C.

22
G. CASORIA, La flora e le risorse…, op. cit.
23
Camillo riuscì ad avere ragione della città solo grazie al tradimento di un maestro di
scuola (Livio V, 27).

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Nonostante tutto ciò, il IV sec. a.C. è per Falerii particolarmente


fecondo sul piano artistico e monumentale.
La ripresa delle ostilità con Roma nel 293 a.C. segna una nuova
sconfitta per Falerii,che stringe con il vincitore un trattato di pace perpetua,
interrotta tuttavia da una nuova ribellione, dopo la prima guerra punica, nel
241 a.C.
Dopo un breve assedio la città è conquistata e distrutta (solo i santuari
continuano ad essere frequentati), la popolazione viene trasferita in un sito di
pianura meno difendibile, a 5 km di distanza, e costretta a fondare una nuova
città, Falerii Novi, mentre metà del territorio è confiscato da Roma.
La definitiva conquista romana nel dicembre del 241 a.C. ad opera del
console Marcio Rutilio24 porta ad una brusca frattura nella storia della
regione, perché determina nel tempo un netto cambiamento dell’assetto
territoriale. Da un lato vecchi centri e città egemoni quali Narce e Falerii
Veteres cessano di esistere come entità urbane; e se Falerii Novi viene a
sostituirsi alla città distrutta, assorbendone le sopravvissute forze umane, con
le relative tradizioni religiose e funerarie, a Narce sarà possibile cogliere solo
qua e là, sulla base delle attuali conoscenze, labili tracce di un popolamento
sparso nelle campagne per aumentare la produzione agricola, il quale troverà
solo in età medioevale una nuova espressione urbana non nel sito dell’antica
città falisca, ma nei centri limitrofi di Mazzano e Calcata, Carbognano,
mostrano tracce di una certa continuità di vita ancora nel II sec. a.C., attestata
dalla presenza di iscrizioni falische recenti. Drammatica è anche la situazione
24
L’armatura del console, probabilmente dono votivo ad un santuario falisco scavato
clandestinamente, è stata recentemente acquistata dal Getty Museum di Los Angeles, dove
è ora in esposizione.

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della campagna; circa l’80% delle fattorie identificate nell’agro falisco risulta
abbandonato, con molta probabilità in conseguenza della conquista romana
del territorio.
Non è senza significato infatti che i pochi insediamenti rurali che
attestano una continuità di occupazione si trovino invece nel territorio di
Nepi, che mostra ancora una volta quindi la sua posizione privilegiata in
Il giallo storico di Falerii Novi
quanto colonia romana fin dal 383 a.C.
Eutropio, storico latino del IV sec. d.C., descrive così la distruzione di Falerii Veteres da
parte Lo
dei spopolamento
Romani: “ i nuovi della campagna
consoli viene d’altra
Quinto Lutazio e Aulo parte
Manlioadmossero
incidere su quel
guerra ai
Falisci, la cui città era un tempo assai potente. In sei giorni presero la città, causando
complesso di attività
ai nemici 15.000 morti agricole che costituiva
e accordando ai superstiti la base
una produttiva
pace, prendendosidelperò
territorio.
metà del
loro territorio”.
Per le gravi ripercussioni sul piano economico, dunque, Roma dovette
Secondo i testi storici, infatti, i potenti colonizzatori romani nell’ultima e decisiva
guerra contro
cercare di far ilfronte
fiero al
popolo Falisco,difurono
fenomeno particolarmente
abbandono spietati e sanguinari.
delle campagne, attraverso
Falerii Veteres, capitale falisca ornata con bellissimi templi urbani e suburbani è
una politica diincendiata
saccheggiata, occupazione e dirasa
ed infine intensa utilizzazione
al suolo. del suolo,privati
Gli abitanti superstiti, che dovette
d’armi,
cavalli, beni mobili e schiavi, furono trasferiti in una zona pianeggiante a circa 6 km di
avere i suoi
distanza, in unfrutti,
ampiosepianoro
in etàtufaceo
repubblicana assistiamo
ricco di acque sorgive, allo sviluppo
solcato dal fossodiRio
nuove
del
Purgatorio, dove nacque la nuova città, Falerii Novi.
ville rustiche e fattorie disseminate in ogni angolo del territorio25.
Recentemente alcuni archeologi hanno fatto un monitoraggio del sottosuolo, reso
possibile da una moderna strumentazione magnetica, il quale ha permesso d’individuare
con assoluta certezza l’ubicazione d’aree urbane con templi, portici e lastricati sinora
non interessati da scavi ed indagini archeologiche.
L’ipotesi storica di questa squadra di archeologi si può sintetizzare in una strategica
alleanza tra i due popoli: un patto, l’ultimo stipulato nella diatriba storica tra Falisci e
Romani. I Romani integrarono questo popolo lasciando loro libertà di culto e futura
sopravvivenza grazie alla costruzione della Via Amerina, tracciato viario realizzato
nell’espansionismo verso il centro-Italia, ed i Falisci, da par loro, si occuparono di
edificare Falerii Novi nello stesso territorio in cui era già insediato un piccolo villaggio
falisco.
Questa ricostruzione di eventi, totalmente diversa da ciò che abbiamo letto ed imparato
nei testi storici e nei libri di approfondimento locali, presenta in pratica un’integrazione
del popolo falisco nel processo di “romanizzazione” del centro Italia.
Indagini archeologiche e fortunosi ritrovamenti archeologici provenienti dall’area
extraurbana di Falerii Novi in loc. Pradoro, forniscono elementi di conferma a questa
nuova ricostruzione storica. In una tomba a camera composta da più di 70 loculi, una
campagna di scavi effettuata tra il 1990 e il 1995 dalla Soprintendenza Archeologica per
25 l’Etruria meridionale riporta alla luce, tra gli oggetti, diversi frammenti di grandi vasi di
Una colonia Iunonia, recentemente identificata con Falerii Veteres e che si pone
ceramica a superficie
tradizionalmente argentata:viene
in età graccana, crateri, vasi e lampade
ricordata a muro con decorazioni figurate
dalle fonti.
a rilievo prodotti negli ultimi decenni del III sec. a.C.; produzione destinata, secondo tali
studiosi, alle classi sociali ricche provenienti da Falerii Veteres. Se ai Falisci superstiti
tutto era sequestrato, come potevano permettersi quei ricchi corredi?
Come mai alcune famiglie provenienti da Falerii Veteres, nella nuova città aumentarono
il loro prestigio sociale e ricoprirono alte cariche pubbliche? È possibile che scendendo
a patto con i Romani si sia evitato, con astuzia,35 il pesante tributo di sangue storicamente
descritto? Di sicuro nel sottosuolo di Falerii Novi è nascosto qualche capitolo di storia
che ci appartiene…
CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

Se Nepi e Sutri, entrate precocemente fin dall’inizio del IV sec. a.C.


nell’orbita romana, non sembrano risentire il contraccolpo della caduta di
Falerii Veteres, ben diversa è la situazione dei centri più settentrionali, alcuni
dei quali declinano rapidamente, come Corchiano, Grotta Porciosa, e
l’insediamento di Ponte sul Ponte; altri, ad esempio Vignanello e

36
CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

Fonte: DE LUCIA BROLLI A.M., L’Agro Falisco. Roma, Quasar 1991.

La necessità di rapidi collegamenti con Roma portò, subito dopo la


conquista del territorio, alla creazione di due importanti arterie stradali, che
volutamente lasciano da parte i principali centri falisci, come Falerii Veteres:
la via Amerina (dopo il 241 a.C.) e la via Flaminia ( 220 a.C.), mentre alla
viabilità terrestre si affiancava senz’altro il comodo tramite del fiume Tevere,
i cui scavi erano ben collegati con una fitta rete viaria.

37
CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

A partire dal III sec. d.C. la popolazione rurale decresce vistosamente e


molte proprietà agricole e città vengono completamente abbandonate.
Aumentano le precipitazioni e le valli rese insalubri dalle frequenti
inondazioni sono parzialmente abbandonate. La popolazione, come quindici
secoli prima, cerca rifugio sulle antiche acropoli dove è più facile difendersi
dalle incursioni dei barbari. Una stima dell’evoluzione della popolazione del
territorio è stata fatta dal Potter26.
Al quadro così delineato sembrerebbe opporsi la documentazione
offerta dalle aree cimiteriali cristiane identificate nel territorio, che mostrano
un alto numero di sepolture, evidenziando un notevole popolamento delle
campagne e delle città (Nepi, Faleri Novi) ancora in questa epoca.27

2.4 Il paesaggio della conquista romana.


26
T.W.POTTER, op. cit.;
27
Che tuttavia debbano essersi verificati dopo il II sec. d.C. momenti di crisi pare
suggerirlo il ricordo epigrafico di provvedimenti presi dall’imperatore Gallieno (264-268
d.C.) per risollevare l’economia della Colonia Faliscorum, Falerii Novi, di cui
probabilmente era originario.

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CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

Come già accennato precedentemente, la conquista romana causò


l’evacuazione di tutti i siti di origine preromana e l’abbandono anche dei siti
rurali. Secondo il Potter “…più dell’ 80% dei 104 centri agricoli…decaddero
al tempo della conquista romana e il 50% non venne mai rioccupato”28. Pur
tuttavia, l’evento si completò anche con la simultanea fondazione di fattorie
agricole, e in così gran numero, che in epoca repubblicana sorpassarono
quelle del periodo precedente.
La distribuzione e le caratteristiche degli insediamenti agricoli
variavano secondo le dimensioni. C’era una prevalenza di piccole fattorie con
una superficie media di 1000 – 1400 mq. (43% del totale dei siti), una
consistente presenza di capanne e ricoveri utilizzati prevalentemente da
pastori (35% del totale) e un buon numero di ville rustiche dotate di terme,
porticati, rivestimenti marmorei e stucchi (22% dei siti).29
Il potenziamento delle attività agricole e la specializzazione delle
colture dovettero modificare notevolmente il paesaggio. Lo sviluppo del
maggese biennale e il piano geometrico dei lotti e dei campi, ereditato dagli
etruschi, furono perfezionati cercando l’integrazione tra agricoltura e
allevamento.

La ricognizione dell’Etruria meridionale: ville e fattorie del 100 d.C.

T.W. POTTER, Storia del paesaggio…, op. cit.


28

29
G. CERRI, P. ROSSI, La via Amerina e il suo paesaggio. Forme, colori e sensazioni di
un percorso storico e naturalistico tra Nepi, Civita Castellana e Orte. Ninfeo Rosa 5, Ed.
Biblioteca Comunale Civita Castellana 1999.

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CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

Fonte: SEBASTI R., Storia degli insediamenti nella zona del Parco suburbano del
Treja. Regione Lazio, Comuni di Mazzano R. e Calcata 1999.

L’obiettivo fu quello di un giusto equilibrio tra sfruttamento delle


potenzialità produttive del terreno e il completamento delle stesse con
sostanze organiche costituite principalmente dal letame.

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CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

L’agricoltura romana adottò due sistemi che diedero al paesaggio forme


diverse: il primo detto a ‘campo aperto’, dove non vi erano divisori e dopo il
raccolto i maggesi erano lasciati al pascolo promiscuo del bestiame di tutta la
comunità; il secondo detto dei ‘due campi’ (alternanza biennale maggese-
cereali) con un paesaggio a ‘campi chiusi’, delimitato strade vicinali, siepi e
alberate, dove l’integrazione della base foraggiera era assicurata con
l’assegnazione di speciali appezzamenti pubblici al pascolo promiscuo.30
La messa in atto del maggese biennale conferì una trama di segni
ortogonali al territorio attraverso la limitatio (divisione del suolo agrario)
realizzata attraverso il cardo e il decumanus, che composero non solo la
divisione dei campi, ma anche la viabilità pubblica.31
Le coltivazioni di maggiore importanza erano costituite dai cereali: il
farro, il miglio e il panico. Ma furono le piantate, costituite prevalentemente
dall’olivo e dalla vite, quest’ultima coltivata con il sistema promiscuo sia dell’
‘alberello’ sia del ‘palo vivo’,32 a dare al paesaggio falisco una nuova
immagine. Va ricordata la coltivazione del lino, pianta utilizzata nell’Agro

30
E. SERENI, Storia del…, op. cit.
31
Decumanus e cardo sono gli elementi costitutivi del paesaggio agrario romano; essi
determinano una limitatio regolare spesso in centurie, quadrati di 710 m. di lato equivalenti
a 2700 piedi per una superficie di 50 Ha; o in strigae o scama se il lotto risulta
rettangolare.
32
Il sistema di allevamento a ‘palo vivo’, chiamato anche ramputinum, consisteva nel
sostenere i tralci di vite tramite sostegni, di solito alberi, a differenza del sistema greco
(alberello) dove la vita cresceva senza sostegno. Le piante utilizzate per il ‘palo vivo’ erano
diverse, ma quelle preferite erano dotate di fogliame poco denso così da non togliere sole
alla vita: salice, olmo, frassino, fico, olivo, tiglio, acero e anche la quercia.
Il sistema a ‘sostegno morto’ si basava sull’utilizzo di semplici pali o da gioghi: il primo
poteva essere costituito da palanche, pali, canne; il giogo da pertiche, canne e corde.
R. BONACELLI, La Natura e gli Etruschi, in “Studi Etruschi”, II. Firenze 1928.

41
CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

Falisco soprattutto per la fibra dalla quale si ricavavano abiti, vele, reti da
caccia e da pesca.
Gli arboreti si diffusero relativamente tardi in relazione alla modifica
del sistema proprietario. Questo, verso la fine dell’età repubblicana, passò
dalla piccola proprietà a una concentrazione di fondi con l’utilizzo sempre
maggiore di manodopera servile.
Questa tendenza ad accentuare la proprietà terriera (latifundia) avrebbe
ridotto il numero delle piccole proprietà di contadini-coloni. La fine del ceto
agricolo e l’inizio della decadenza della coltura granaria si sarebbero
accompagnati anche a una trasformazione dell’assetto socio-economico.
Diverse zone furono inglobate nei latifondi e lasciate a un’economia
soprattutto pastorale che si accentuò in età imperiale.
Assunse importanza il trifoglio e le colture prative in generale, le quali
consentivano di ottenere il massimo rendimento produttivo.
La villa rustica, oltre a essere una grande azienda agraria, fu anche il
luogo dove la cultura romana esibì il proprio senso estetico e paesaggistico.
Roma sviluppò il concetto di verde legato al gusto del bello e del diletto
personale, tanto da arrivare, nelle grandi ville suburbane, alla trasformazione
di parti di territorio con funzioni diverse e legate a quanto di nuovo, dal punto
di vista architettonico e filosofico, proveniva dall’Oriente ellenizzato.
Il paesaggio subì un nuovo cambiamento e un ritorno, si può dire, al
sistema del ‘campo aperto’. Questo perché l’antico frazionamento della
proprietà, quello a ‘campi chiusi’, e il suo disegno in lotti, si dissolse in forme
aperte e meno rigide, forme che, nel Basso Impero, con la crisi della

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CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

manodopera servile, portarono il maggese biennale verso un sistema di campi


ed erba con lunghi periodi di riposo a pascolo.33
Fin dall’inizio del III sec. d.C., la situazione economica condusse a una
riduzione del numero dei siti agricoli occupati. Se ne sarebbero avvantaggiati
i boschi e la macchia, che in alcune aree avrebbero resistito sino ai nostri
giorni.34
Le forme del paesaggio agrario, che in età repubblicana e alto imperiale
riproducevano il controllo e il dominio geometrico della romanitas sulla
natura, col tempo si sarebbero avviate a un processo di degradazione
paesaggistica, ritornando a quella naturalitas di un territorio che, ancora oggi,
conserva i suoi tratti più selvaggi e caratteristici.

33
“Non si tratta solo di un processo di degradazione del paesaggio agrario, ma anche di una
progressiva disgregazione delle sue forme più precise…..Da un regime e da un paesaggio
di ‘campi chiusi’ già si rileva la tendenza al passaggio ad un regime a ‘campi aperti, nel
quale tutte le terre del saltus, appunto sono aperte, dopo il raccolto, al pascolo promiscuo
delle greggi.” (E. SERENI, Storia del paesaggio…, op. cit.)
34
“Nell’Agro Falisco il 40% dei siti fu abbandonato nel 300 d.C. e il 50% alla fine del IV
secolo.” (T.W. POTTER, Storia del paesaggio…, op. cit.)

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CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

2.5. La rete stradale romana.

L’applicazione del concetto di decentramento urbano e d’attrazione dei


territori italici nella sfera romana trovò la sua esplicitazione materiale nella
realizzazione del sistema viario.
Nella conquista dell’Etruria meridionale e nel definitivo
assoggettamento e controllo delle popolazioni, i tracciati stradali
confermarono la volontà romana di non avere vincoli di carattere storico o
ambientale. A differenza del sistema viario falisco, destinato al traffico locale,
i romani impiantarono una rete stradale in funzione sia dell’organizzazione
territoriale (con finalità politico-militari) che dei collegamenti su lunghe
distanze, adottando solo in parte tratti stradali precedenti e senza esitare ad
abbandonarli qualora non fossero stati idonei alla strategia complessiva di
conquista.
Il primo concetto con il quale furono determinati i tracciati fu quello
d’isolamento dei nuclei urbani preesistenti o di rafforzamento di quelli
funzionali al controllo del territorio. Subito dopo la conquista di Falerii, fu
codificato nel 220 a.C. il tracciato definitivo della Via Flaminia in funzione
della conquista della Gallia Cisalpina. Il nuovo tracciato emarginò, di fatto, la
capitale falisca dagli scambi commerciali e ne svuotò il ruolo di centro
territoriale. La Via Cassia (probabilmente dal 154 a.C.) abbandonò l’antico
centro di Veio e penetrò, rafforzandola, la roccaforte strategica di Sutri.

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CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

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CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

La Via Amerina collegò in modo stabile Nepi alla Cassia, ma senza


toccare gli antichi centri falisci più a nord. I lavori per la via Amerina iniziano
prima delle guerre annibaliche, ma il Potter35 ricorda che i consoli Flacco e
Albino emisero contratti per la costruzione di alcuni suoi ponti solo nel 174
a.C. Rettilinea e pianeggiante, corre parallela alla Flaminia di cui costituisce
una variante veloce.
Complessivamente la via Amerina è lunga 52 chilometri, dall'antica
stazione di posta Mansio ad Vacanas (all'incirca l'odierna valle del Baccano)
sino ad Ameria, toccando le stazioni di Nepet, Falerii Novi, Castello Amerino.
Anche graficamente appare il valore strategico della posizione "fortificata" di
Nepi, importante "snodo" viario, ruolo che mantenne immutato sino al
periodo tardo antico, quando la Via Amerina divenne l'unico collegamento
per i bizantini tra Roma e l'Esarcato di Ravenna, stretto tra i
territori occupati dai longobardi.
Il secondo concetto fu la velocità di percorrenza. Questa, per ragioni
d’ordine militare o amministrativo, doveva consentire di raggiungere nel
minor tempo possibile le ragioni controllate dall’espansionismo romano.
Il concetto di velocità fu legato alla razionalizzazione del tracciato e al
percorso più breve e meno accidentato. Ciò naturalmente comportava ingenti
sforzi economici sia nella costruzione che nella manutenzione di ponti,
viadotti, tagliate rilevati e pavimentazioni.

35
T.W. POTTER, Roman Italy, British Museum Press, 1992.

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CAPITOLO 2

DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

I tracciati stradali erano definiti o da ingegneri militari (praefecti


fabrum) o, quando la realizzazione era civile, dai mensores o dagli architecti.
La dimensione della carreggiata variava secondo l’importanza e la mole
di traffico. Generalmente era di 14 piedi (4,10 m) per le strade di grande
comunicazione, larghezza che permetteva un comodo doppio senso di
marcia.36 La manutenzione delle strade era affidata ad un curator impegnato
nella gestione di tutti i problemi legati a una particolare via.
Oggi una parte della via Amerina è stata recuperata mediante una lunga
e appassionata opera del Gruppo Archeologico Romano e della
Soprintendenza Archeologica per l'Etruria Meridionale. È forse uno dei tratti
più spettacolari (ricco anche di suggestioni paesaggistiche, per l'alternarsi di
"panorami" diversi: il paesaggio delle "forre" poi quello fluviale e il
collinare). Inizia in località Tre Ponti (incrocia la SS 311, al km 10.300, tra
Nepi e Civita Castellana), e vi si possono osservare il caratteristico "basolato"
della via, le massicciate, le "tagliate", le opere di drenaggio e, soprattutto, i
ponti (sul fosso Tre Ponti e sul Fosso Maggiore). Intorno numerosi
insediamenti di necropoli, soprattutto in corrispondenza delle ampie e
profonde "tagliate".

36
L. QUILICI, Le strade. Viabilità tra Roma e Lazio. Quasar, Roma 1990.

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DALLA PREISTORIA ALLA ROMANIZZAZIONE

Strada romana Amerina – Tratto ben conservato nei pressi di Corchiano.

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