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Una lettura di alcuni dei pi importanti dipinti del Caravaggio (1571-1610) attraverso le pagine di Roberto Longhi (1890-1970), maestro

indiscusso degli studi artistici del nostro paese e figura eminente della cultura europea del Novecento. Massimo critico darte, Longhi fu anche grande scrittore. Piazza de lumi entro il gran fiotto dombre: linvenzione di un verso endecasillabo compendia il metodo compositivo del Caravaggio. La sua prosa inimitabile riesce a tradurre il fatto figurativo e a renderlo leggibile anche senza lausilio del corredo illustrativo. Basandosi proprio su questo assunto, Gianfranco Contini raccolse i principali saggi longhiani sulla pittura italiana e li pubblic, nel 1973, in un famoso Meridiano Mondadori, Da Cimabue a Morandi, senza note n apparati figurativi, per far conoscere il livello espressivo dello scrittore e diffondere la sua prosa fuori dai canali strettamente specialistici. La monografia sul Caravaggio (prima edizione, 1952; seconda edizione - Editori Riuniti-1968) lultimo scritto di ampio respiro licenziato da Longhi prima della morte e il principale fra i tardi lavori longhiani. In questopera, lautore torna, per lultima volta, su un argomento appassionatamente indagato in numerosi interventi precedenti, a cominciare dalla tesi di laurea (1911), che gi avevano trovato un momento di felice sintesi in una famosa mostra del 1951 a Milano, che stabil la completa rivalutazione del naturalismo caravaggesco.

Roberto Longhi, Caravaggio, da Da Cimabue a Morandi, Mondadori 1973. pp. 801-875 N:B: I titoli fra parentesi quadra sono una redazione di M.Severi [Primi quadri da lui nello specchio ritratti, p. 810] Educato in quella cerchia di provincia lombarda di cui si dato qui un breve abbozzo e giunto a Roma, giova crederlo, gi con quel suo chiodo fisso di una pittura fedele alla realt, era prevedibile che, nella citt tra manieristica e bigotta di Sisto V, egli dovesse sembrare un irregolare, se non proprio un eretico. A Roma non si chiedeva verit alla pittura, ma devozione o nobilt; nobilt di soggetti e di azioni, a qualunque mitologia appartenessero, e secondo uninventiva che poteva oscillare dalla tetraggine della stretta Controriforma alla volante ma vacua fantasia degli ultimi manieristi: dal Pulzone e dal Muziano, insomma, al Barocci e al DArpino.() E, infatti, valga il vero: gi il primo biografo competente, perch pittore anche lui, ci asserisce che i primi quadri del Caravaggio furono da lui nello specchio ritratti. Che mai significa? Si giunti a proporre che, forse per risparmiare la spesa del modello, egli non attendesse che a dei successivi, continui autoritratti; proposizione assurda, oltre che smentita da tutti gli esemplari restanti, salvo quello del Bacchino malato. Ma allora, perch ritrarre quei tanti modelli diversi nello specchio? () Ogni nuova personale verit nellarte una nuova scoperta che gli idoli artistici precedenti miravano a precludere. Che cosa aveva impedito sino a lui di rendere fedelmente ci che egli chiam per primo un pezzo di realt, se non lantica fabula de lineis et coloribus che egli avvertiva ormai come mitologia da lasciare finalmente cadere? Guardava intorno a s e la realt gli appariva in pezzi bloccati di universo dove non era luogo n a contorni, n a rilievi, n a colori come formule astrattive. E perch la rtina, da s sola, ha un campo visivo sempre sfocante, svagante, non era meglio stagliarlo come ci appare nel quadro veridico dello specchio che ci d sempre l unit del frammento immerso nella sua luce: una specie di realt-acquario? E possibile insomma che, naturalizzando lantica metafora che la pittura deve essere il rispecchiamento della realt, il Caravaggio, da schietto San Tommaso, provasse di attenersi al sodo dello specchio vero che gli dava finalmente il vano della visione ottica gi colmo di verit e privo di vagheggiamenti stilizzanti. Cos egli venne a scoprire - e fu quasi una scoperta scientifica, fu in ogni caso unesperienza la sua personale, empirica camera ottica; ci che meno sorprende ai tempi del Porta e, ormai, di Galileo. Daccordo che, da grande spirito qual era, egli non poteva che scoprire il senso poetico, la portata sentimentale di una realt allora tutta sconosciuta, anche

non avendone piena coscienza. La sua ostinata deferenza al vero pot anzi dapprima confermarlo nella ingenua credenza che fosse locchio della camera a guardare per lui e a suggerirgli tutto. Molte volte egli dovette incantarsi di fronte a quella magia naturale; e ci che pi lo sorprese fu di accorgersi che allo specchio non punto indispensabile la figura umana; se, uscita questa dal campo, esso seguita a rispecchiare il pavimento inclinato, lombra sul muro, il nastro lasciato a terra. Che cosa potesse conseguire a questa risoluzione di procedere per specchiatura diretta della realt, non difficile intendere. Ne conseguiva la tabula rasa del costume pittorico del tempo che, preparandosi gli argomenti in carta e matita per via di erudizione storico-mitologica e di astrazione stilizzante, aveva elaborato una partizione in classi del rappresentabile, che, trasposta socialmente, non poteva idoleggiarne che i gradini pi alti. Ma il Caravaggio si rivolgeva alla vita intera e senza classi, ai sentimenti semplici e persino allaspetto feriale degli oggetti, delle cose che valgono, nello specchio, al pari degli uomini, delle figure. () Cominci del resto con dipinti che non erano neppure in grado di intitolarsi. E gi molto che i biografi scrivano per esteso: un putto morso da un racano che tiene in mano, un fanciullo che monda una pera con il cortello (). E quando si avvert chessi celavano anche un nuovo contenuto, si cerc di correre ai ripari infliggendo loro una condanna morale. Essa verr codificata circa mezzo secolo dopo, quando si concluder che il Caravaggio non aveva dipinto che i simili; un gradino appena pi in su del Bamboccio che addirittura dipinse i peggiori; e cio, diciam pure, la povera gente che fa soggetto di strada, ma non di historia. E perch questo del soggetto feriale fu il pensiero fisso del Caravaggio fin dai primissimi giorni, si pu star sicuri che, su quella via, egli non sarebbe mai riuscito a farsi largo, ma soltanto a mettersi in cattiva luce come pittore di novit sospette perch senza decoro. Che, avvertendone tuttavia linnegabile talento pittorico, gli si chiedesse presto ben altro, e chegli non potesse rifiutarvisi se voleva crescere e primeggiare come uomo dellarte, cosa altrettanto certa, naturale, umana. Guai a dimenticare che a quei giorni quasi non si dipingeva che per soggetti imposti, su commissione, e che questa era appannaggio esclusivo o di ordinatori ecclesiastici o di nobili collezionisti discretamente colti anche in favole antiche. () [Bacco, Galleria degli Uffizi, Firenze, pp. 814-815] Dopo i primi dipinti di vena lombarda, come il Ragazzo del fruttaiolo e lautoritratto vagamente arieggiante un Bacchino convalescente, ma che sincorona per ischerzo non avendo in suo dominio che un rametto dedera, due pesche duracine e due grappolini duva da tavola, il pi dichiarato Bacco con alcuni grappoli duve diverse singolfa subito in una polemica palese per chi rievochi nel corso del secolo i Bacchi di Michelangelo o del Sansovino, o persino quelli del Bellini e di Tiziano. Recuperi, codesti, di unantichit vista con occhi diversi, se nel primo caso gravano di pi sullapologia del corpo umano e nellaltro sullaccordo corale tra uomo e natura egualmente magnificati, in ci almeno convengono, nel non aver nulla da spartire con questo torpido e assonnato garzone dosteria romanesca, incoronato a caso da pampini dogni colore, con un calice di lusso (lunico rimasto nellosteria?) tenuto leziosamente con la sinistra (da un mancino dunque, ma perch ritratto dallo specchio!), in contrasto col vassoio di terraglia rustica e con la caraffa comune; a non parlar di quello stramazzo ad uso di triclinio plebeo. In tanto palese impaccio, laspetto del quadro sembra, col consenso ironico del pittore, gi pronto a sopportare qualunque pesante motteggio popolare trasteverino (me sembri tal e quale un Bacco in India, o qualcosa di simile); ma, nei punti di sutura pi sottile tra tema e visione, il pensiero, per quei tempi, pi moderno che non sia stata, tanto pi vicina a noi, la Barista di Manet al banco di zinco delle Folies Bergre. [Il suonatore di liuto, Museo dellErmitage, San Pietroburgo, p. 818] Il Caravaggio non manc di insistere nellambito di quel realismo feriale che ebbe un seguito lunghissimo nei seguaci dogni nazione e risorger, come soggetto pretestuale, nelle tranches de vie della pittura moderna (). In questmbito rientra anche il ritratto cos semplice, ma intimamente episodico, della Sposa romana perdutosi a Berlino nel 1945; e cos pure quello che, a detta del Caravaggio stesso, fu il pi bel pezzo, che facesse mai: il Suonatore di liuto passato dal cardinale Del Monte al Giustiniani ed oggi a Leningrado. La bilancia di luce, ombra e penombra che avvolge nella stanza il giovane incantato e lambisce il tavolo visto in tralice nello specchio, rende la perfetta equivalenza mentale tra la figura e la mirabile natura morta di fiori e

frutta a sinistra, e il famoso riflesso della camera entro la caraffa (e non gi, per malposta e bigotta sottigliezza manieristica, nella pupilla). Cos, meno sorprende che il Caravaggio possa instaurare, negli stessi giorni, la rubrica, per Roma affatto nuova, della natura morta per s sola. Uscito che sia il Bacco dal vano colmo dello specchio, vi restano ancora il vassoio di frutta, il nastro dimenticato; receduto il suonatore o il commensale dal tavolo, vi rimangonon ancora lo strumento di bellezza indecifrata o Il Postpasto non consumato: la caraffa smezzata, languria e il melone affettati, la pera intatta e la mela mezza, le mosche che saltellano sulla propria ombra. Seguita cos la realt nella vita di queste cose silenti e ferme sotto il crescere o il diminuire della luce e dellombra; una forma dincanto quasi autonomo che sembra portato dalle cose lasciate a se stesse, ma che pure riflettono lo sguardo inclinato delluomo e, in primis, di colui che lha prodotto, quellincanto. Unaltra eretica innovazione, insomma, alla quale il pittore teneva moltissimo come dimostrano le sue stesse parole riferite dal pi intelligente fra i suoi amici: e il Caravaggio disse che tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure. Sorprende che lamico trascrivesse un motto cos fondamentale nel contesto di una lettera critica dove, classificando la pittura in dodici gradi, dal basso allalto, non poneva la specialit di fiori e frutta che al quinto posto. Non intendendo cio ,(), che con quel motto il Caravaggio aveva annullata la distinzione tra una natura superiore glorificata nelluomo e una inferior natura, come il Rinascimento aveva chiamato queste cose () che si andavano dipingendo per bizzarria o svago decorativo; o magari per acrostico figurale come nel passabilmente stupido Arcimboldi a Milano; ma sempre senza presa diretta di verit; e che, del resto, si relegavano in cucina o nelle stanze della servit. Ai giorni stessi del Caravaggio poi, che pure aperse la nuova strada ma fu inteso da pochi (che oggi stanno lentamente recuperandosi e che vanno da Tommaso Salini al nipote di lui Mario dei Fiori), la natura morta tent di rimontare di classe almeno con la scelta scrupolosa degli oggetti di pregio: bicchieri di Murano, cristalli di Boemia, antipasti e dolciumi sceltissimi; bocconi, come si diceva, da cardinali. [La canestra di frutta (Pinacoteca Ambrosiana; Milano), p. 819] Il Caravaggio aveva invece dipinto la cestina comune dellaffittacamere colma di frutta a buon mercato; dove, perci, accanto alla mela sana, non mancava mai quella bacata; cos come nei pampini del Bacco, accanto alle foglie virenti, ci sono anche quelle vizze e scolorite, come Dio manda. Proprio quella cestina, finita a Milano nel museo di Federico Borromeo, veniva a trovarsi accanto alle lussuose specialit sul tipo di Flegel o di Jan Brueghel. Il contrasto non poteva essere pi schietto. Se per il cardinal Federico lo avvertisse davvero, questa unaltra faccenda (.) [La nuova via, p. 829] Gi qualche antico biografo non mancava di avvertire che, in codeste opere, [Giuditta, Santa Caterina], in confronto a quelle trasparenti delladolescenza, il Caravaggio cominciava a ringagliardire gli scuri. La cosa, l per l, sorprende anche noi che, versati nei fatti della pittura naturalistica posteriore, quasi ci saremmo attesi che il Caravaggio puntasse subito sulla pittura limpida e obbiettiva degli spagnoli o dei nordici, Velzquez, Hals o Vermeer. La verit che ogni pittore non d alla fine che ci che il mondo gli chiede.(...) La chiesta era allora del quadro di evento sacro e patetico: questo a spingere il Caravaggio sulla nuova via. Gli scuri che si ringagliardiscono sono dunque pur essi, preventivamente, affare di contenuto: che, fortunatamente, nellocchio di un grande pittore, porter con s anche una forma atta ad incidere rapidamente sul contenuto stesso. Questo il costante circolo di scambio fra arte e mondo sociale. Ben vero che lantico biografo, formalizzante come ogni strenuo idealista, dice che egli escogit gli scuri gagliardi per dar rilievo alli corpi: E che altro poteva dire chi, a spiegare una cos ostica rivoluzione, ardua persino per chi la fece, non aveva a disposizione altra grammatica da quella cinquecentesca? Anche il Caravaggio avvertiva il pericolo di ricadere nellapologetica del corpo umano, sublimata da Raffaello e da Michelangelo, e persino nel chiaroscuro melodrammatico del Tintoretto. Ma ci che gli andava balenando era ormai non tanto il rilievo dei corpi quanto la forma delle tenebre che li interrompono. L era il grumo drammatico della realt pi complessa chegli ora intravedeva dopo le calme specchiature delladolescenza. E la storia dei fatti sacri, di cui ora si impadroniva, gli appariva come un seguito di drammi brevi e risolutivi la cui punta non pu indugiarsi sulla durata sentimentale della trasparenza, anzi inevitabilmente sinveste del lampo abrupto della luce rivelante fra gli strappi inconoscibili dellombra. Uomini e santi, torturatori e martiri si

sarebbero ora impigliati in quel tragico scherzo. Per restare fedele alla natura fisica del mondo, occorreva far s che il calcolo dellombra apparisse come casuale, e non gi causato dai corpi; esimendosi cos dal riattribuire alluomo lantica funzione umanistica dirimente di eterno protagonista e signore del creato. Perci il Caravaggio seguita, e fu fatica di anni, a scrutare laspetto della luce e dellombra incidentali. Inutile, a questo punto, chiedersi se vi siano stati stimoli particolari al mutamento. Quanto pi alti i frangenti, sempre ve ne furono. Dalla vita stessa? Meglio non indagare in quel mare di miseria che gli cresceva attorno, anche doppiato il capo della povert materiale. Dallarte? Nel bene e nel male, tanto poteva servirgli riguardare, obtorto collo, un brano di Michelangelo o di Raffaello o qualche modello antico (e concludere che tutto questo era gi stato fatto e perci perento), quanto sbirciare il DArpino o i suoi accoliti sui palchi di San Giovanni in Laterano (al solo fine di rinfocolarsi nellindignazione che pur un pungolo a fare tuttaltro). O mormorare accanto al Giustiniani sullarrivo dei primi quadri bolognesi a Roma e poi di Annibale in persona; smozzicando che proprio il meglio di quei dipinti sera gi visto altrove pi schietto e che questa verit dimidiata tornava a macinar colori e non carne comegli faceva (e come si dice che Annibale stesso gli abbia riconosciuto). Quanto ai quadri veneti, ne conobbe i migliori quando giunsero da Ferrara, nel 1599, forse scortati dal suo rivale DArpino; ma a quella data egli aveva gi dipinto a San Luigi le tavole a pi riprese cancellate, variate e corrette, della sua nuova realt. Nulla di meglio, perci, che guardar subito ad esse. [Dipinti per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, Roma, pp.831-839] Le vicende dei due famosi dipinti, una volta accertato chessi cadono nel cuore dellultimo decennio del secolo e, specificando, dopo la fase speculare di adolescenza e prima della grande maniera personale che si apre col secondo San Matteo, potrebbe anche omettersi nei particolari cos poco decifrabili sulle carte. Ben presto sentiamo aprirsi la vicenda dei due grandi pensieri per San Luigi: la Vocazione e il Martirio di San Matteo. E per prendersi dalla Vocazione. Che il primo e palese spunto mentale dellartista sia stato di raffigurarla come una scena di giocatori dazzardo () indice di quasi immediato attacco con le precedenti opere di soggetto feriale, coi Bari soprattutto; mentre del pari segno di giovanile e spregiudicata esperienza (o inesperienza) che il Caravaggio ardisca cimentarvisi proprio in unopera di gran mole e di pubblica destinazione chiesastica. E stata anche rievocata, e opportunamente, la preziosa indicazione di un biografo germanico (il Sandrart), che il Caravaggio, per il suo dipinto, avesse tratto qualcosa dallincisione dello Holbein con i Giocatori e la Morte; indicazione assai pi portante che non fosse stata sul finire del Cinquecento quella di Federico Zuccari quando tacciava il Caravaggio di plagio da unimprobabile opera di Giorgione: calunnia presto rinforzata, in quella stessa cerchia ostile, con il disegno alla giorgionesca (oggi agli Uffizi) insidiosamente atteggiato a guisa di modello per il dipinto di San Luigi, dal quale invece desume; e con tali refusi da svelare subito linganno. Giovi insistere che la incisione holbeiniana ben altrimenti significativa, proprio per la concezione poetica di un tema di vita dissoluta che si cangia ad un tratto per forza di un destino che sopravviene: la Morte nello Holbein, il Cristo salvatore nel Caravaggio; due simboli di eternit nel senso di quei tempi e per due diverse nazioni. Rest fermo anche per il Caravaggio (da quella stampa) che il pi dello svolgimento del tema era nella tavolata dei giocatori; e cos ne provenne al Cristo un che di citazione iconografica suppletiva; e non pienamente risolta finch egli non intese quanto pi risolutivo, anche come struttura di luce e di ombra, fosse lappello creato dalla folata di luce radente che penetra, nello stanzone, col Cristo, e con la velocit del suo raggio lo precede. Ed in questa parte, infatti, che lesame radiografico ha rivelato le corretture pi forti. Su questo punto, insomma, il Caravaggio dovette meditare in un secondo tempo, quando cio, su quelliniziale impianto di scena mondana che anche la scelta dei colori vividi mostra legato allo spirito dei primi anni (il giovinetto piumato visto di fronte probabilmente lo stesso modello della Buona Ventura), procedette a rinforzare via via ombre e luci fino a un colmo drammatico che richiama limmagine poetica dello Eliot (rispondenza significativa, anche se casuale, tra un pittore della fine del Cinquecento e un poeta neoelisabettiano) (). Ma che il pittore, rinforzando con gli strati successivi della esecuzione il quadrante della partitura tra la luce e lombra, venisse sempre pi a gravare sulla fatale rilevanza dellevento, questo il segno di una nuova capitale esperienza che succede a quella dello specchio degli anni adolescenti; ed lesperienza ad uso pittorico (leggi poetico) della camera oscura.

Questa nuova esperienza del Caravaggio non disdice al costante avvicendarsi delle idee artistiche; anzi, come gi la prospettiva ai tempi del Brunelleschi, essa costeggia le indagini tra naturalistiche, sperimentali e magiche della nuova epoca. Non maraviglierebbe che il Caravaggio dichiarasse dintendere ormai con le sue ricerche a una specie di magia naturale che era, fin dal 1558, il titolo di un libro famosissimo di Giambattista Porta. E quando, sul 1620, leggiamo in un biografo questa descrizione dello studio, dellatelier del Caravaggio: Un lume unito che venga dallalto senza riflessi, come sarebbe in una stanza con le pareti colorite di nero che cos avendo i chiari e lombre molto chiare e molto oscure, vengano a dar rilievo alla pittura, ma per con modo non naturale n fatto n pensato da altro secolo o pittori pi antichi, non sorprende che la definizione sia molto simile a quella della camera oscura, che negli anni quasi del Caravaggio il Porta ci descriveva come sua propria invenzione. () [p.837] Nel Caravaggio, invece, la realt stessa a venir sopraggiunta dal lume (o dallombra) per incidenza; il caso, lincidente di lume ed ombra diventano causa efficiente della nuova pittura (o poesia). Non v vocazione di Matteo senza che il raggio, assieme col Cristo, entri dalla porta schiusa e ferisca la turpe tavolata dei giocatori dazzardo. In effetto, lartista stagli questa sua descrizione di luce, questo poetico fotogramma, quando lattimo di cronaca gli parve emergere, non dico con un rilievo, ma con uno spicco, con unevidenza cos memorabile, invariabile, monumentale, come, dopo Masaccio, non sera pi visto. La luce che rade sotto il finestrone, spartita dallombra come in un quadrante regolabile, lascia riflessi fiochi sulla sordida impannata: sospende nellaria greve la mano del Cristo mentre lombra corrode il suo sguardo cavo; striscia sulle piume, si intride nelle guance, si specchia nelle sete dei giocatorelli; sosta su Matteo mentre, raddoppiando ancora con la destra la puntata, addita se stesso, quasi chiedesse: Vuol me? (e il viso scocca dallangolo delle palpebre sbarrate il ciglio dellombra); spiuma confusamente la canizie del vecchio importuno in occhiali; per ultimo, fruga viso e spalle del giocatore a capotavola che vorrebbe immergersi nellombra lurida della propria perplessit. Concepita dunque, di seguito alle cose pi giovanili, come evento di costume moderno (), la scena non poteva non intoppare nellostacolo del Cristo e dellapostolo che pur bisognavano di figurarvi ma che, in quel costume, non si ritrovavano; e il Caravaggio si ridusse, su quel punto, a concedere alquanto a una storica drappeggiatura, non senza soffrire di un contrasto che, soltanto nel corso del lavoro, la sopraggiunta unit drammatica di luceombra riuscir, otticamente, a velare; ma che non ancora il modo in cui il pittore sapr risolvere il problema pi tardi, dopo ben altre meditazioni di contenuto. Di fronte alla Vocazione, il Martirio del Santo. () Cos com, inutilmente sorretta nei primi piani dai nudoni retorici dei manigoldi scamiciati, lopera non va immune da alcuni odiosi ricordi manieristici che non mancano di riconfermare precocit e relativa immaturit dinvenzione, respingendo ancora di alquanto labbrivio del dipinto. E non che occorra trascurare, neppure in questo caso, la controparte pi geniale del giovine rivoluzionario. Sebbene si trattasse di una leggenda situata in Etiopia (), ..il Caravaggio () ha lardire di trasformarlo in un fattaccio di cronaca nera entro una chiesa romana dei suoi giorni. Violata la santit del luogo, vi entrata da pi parti la squadraccia dei bravi e il santo, gi trafitto, ora rovesciato sotto i gradini dellaltare dal manigoldo che sta per finirlo. Degli astanti, venuti per la messa, oltre il signorotto insolente che con un gesto fatuo sullelsa ribatte nel fodero la lama ormai inutile, taluni sembrano assistere attoniti; altri pi timorosi (e fra questi, strano a dirsi, il Caravaggio stesso che s fatto ora crescere baffi e moschetta come uno studente spavaldo) tirano a scampare come da una comune rissa di strada; altri ancora, nella luce di spiraglio (forse dalla porta laterale lasciata aperta dallirruzione), levano le mani in gesti di stupore o di orrore. Nellaria bruna che ancora grava sul centro della scena quasi galleggia il nudo fortemente inciso dombre del carnefice (memore sempre di quello del Moretto nel San Pietro Martire di Bergamo): fiorisce come un petalo grasso la cotta del chierichetto che, fuggendo sulla destra, ancora ripete la reazione fisica, momentanea del Giovinetto morso dal ramarro, della Maddalena, dellIsacco che grida; poi, nella ingegnosa descrizione delloscurit che invade labside, il Caravaggio trova ancora modo dindugiarsi sullangelotto nudo, mentre si flette, dalla nube densa, a sporgere la palma del martirio; di osservare come si torca per la ventata dellala la fiamma della candelina; di perlustrare sulla destra, in penombra, la preziosa natura morta delle ampolline da messa nel bacile di peltro; un altro smorzato ricordo della fase speculare di adolescenza.()

[Secondo San Matteo e langelo, p. 854] Siamo al punto in cui il Caravaggio, quasi affatto risolta la lunga crisi, pu sorridere dellingenuo San Matteo che prima aveva fatto per laltare di San Luigi e chiede egli stesso, c da credere, di poterlo sostituire con una seconda invenzione che meglio accompagni, anche di proporzione, le due storie finalmente collocate sulle pareti della cappella Contarelli. Che il formato della tela dovesse, cos, crescere assai pi daltezza che di larghezza, non fu lultima ragione che sugger al Caravaggio di concedere, e per la prima volta, che gli angeli, almeno gli angeli, possano volare. E sia pure che la sua solita dialettica lo stimolasse a immaginarne uno sorretto in aria dallo schiocco dellenorme accappatoio, quasi a guisa di paracadute. Ma in tal forma, almeno secondo il decoro dellepoca, langelo poteva dar le sue spiegazioni ab alto e il santo, non pi duro di cervice come nella prima versione, semmai dorecchio, doveva, per sentir meglio quel che trascrivere nel registro aperto sul tavolo darchitetto, rizzarsi dallo sgabello; poggiandovi un ginocchio per e, ad ogni attacco di frase, prillandolo verso di noi fino a farlo sbandare nel vuoto, oltre il dipinto stesso. Questo forte effetto illusionistico, rinforzato dal punto di vista dal basso, trov poi un magico accordo sia con ladozione di un costume aulico, ma immanente, e cio che indossa bene ogni tempo e quasi non si pu datare, sia con linvenzione di un colore inedito, quasi fluorescente sulloscurit, e che accozza i due toni, affini e pur distinti, di giallo e arancione che si scorzano dallalto nella tunica e nel mantello del santo; per questa parte, una rivelazione gi rembrandtiana. Nellinsieme, tuttavia, non da negare che il quadro fa pi che una concessione al decoro richiesto dai tempi e dal luogo. Il manto ricade in basso con una falda lunga, lanceolata, elegante quasi come, pi tardi, nel Mochi; e di nuovo sboccia con eleganza di spali attorno alle mani cheran gi moderne; naturali, senza disegno, tutte a incisi tonali, a tacche, a tasselli, a cordelle di vene, tra rughe e pelle. In questo innegabile contrasto v riflessi dellambiente pittorico a quei giorni? Non polemica, come per linnanzi, ma discussione pacata con Annibale Carracci; nel maneggio del colore, una comprensione maggiore dei classici veneziani appena giunti da Ferrara. Del resto, un biografo ci avverte chegli us ogni sforzo per riuscire in questo secondo quadro; e lo sforzo era palesemente anche di cultura. Non indiscreto, insomma, ammettere che il Caravaggio voglia qui provarsi in una sua propria maniera grande, quasi una classicit inclusiva al proprio modo naturale. Ma ci non era senza pericoli, ch la classicit aveva una storia e una autorit troppo lunghe e fondate. [Dipinti per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, Roma, p. 856-859] Come egli evitasse quei pericoli subito dopo, si rileva, tra il 1600 e il 1601, vedendolo allopera nei due quadri commessigli da monsignor Tiberio Cerasi, tesoriere papale, per le pareti laterali della sua cappella in Santa Maria del Popolo, con la Crocefissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. E quando, dalla premessa del contratto, si colleghi lelogio dello egregius in urbe pictor con il fatto che il quadro dellaltare era stato invece commesso ad Annibale Carracci, non dubbio che la duplice scelta stia ad indicare i due pi famosi pittori di Roma. I due dipinti, che il committente voleva condotti su tavola di cipresso e anticipati da modelli, ebbero, com noto, una prima redazione, subito passata in altre mani e ci non gi perch non piacessero al committente, come pure si voluto insinuare (ch anzi chi li vide li dichiara quasi identici agli odierni), ma perch, da credere, fu il pittore stesso a volerli sostituire con altri nella sua tecnica preferita ad olio su tela.(.) Il Caravaggio, dopo le esperienze nella stanza con le parete tinte di nero, ormai signore delle tenebre e le disserra quel tanto che occorre a non diminuire mentalmente il suo tragico, virile pessimismo. Anche per gli uomini, ora a grandezza naturale per maggior certezza del fatto, non v quasi altro al mondo che la sopportazione della fine o una incondita, quasi incidentale, rivelazione. Sopita ogni polemica, il pittore sa che per una Crocefissione di San Pietro non ora pi bisogno di misurarsi con i giochi di forza massicci svolti circa sessantanni prima dallaltro Michelangelo nella cappella Paolina e neppure di gravare sulla crudelt degli aguzzini o, tanto meno, di aggiungerne di bercianti e scamiciati come a San Luigi. Le cose accadono con unevidenza incolpevole dove ognuno attende allopera sua. La desolazione insomma nel fatto stesso su cui sta allo spettatore di giudicare. Sulle rocce brune che saranno (con quella luce negli occhi) lultimo ricordo del martire, presso la cava di pozzolana o la calcara di San Pietro in Montorio, il pittore, impassibile, gira la fatica dei serventi (il cui gesto, doveroso riconoscerlo, di operai che si affaticano e non

di carnefici che incrudeliscano nella bisogna), tutti in giubboni e brache frusti, baveri sgualciti (e pur rifiorenti nel lume), piedi fangosi e con i pochi attrezzi: E riprende da vicino il santo, forse notissimo modello buono di via Margutta, che, gi infitto alla croce, ci guarda calmo, cosciente come un moderno eroe laico; mentre il mantello bigioazzurro va scivolando in angolo sotto lombra del badile brunito, accanto al pietrone friabile e caldo come un pane ancora impolverato dalla cenere del forno. Anche nella Conversione di San Paolo, fattasi inutile ogni disputa con Michelangelo (o magari con Taddeo Zuccari), il pittore si limita a sorridere di se stesso che tanti anni prima (otto o dieci, chi se ne ricorda pi?) aveva pensato cos confusamente sullo stesso argomento. Gli ritorna semmai il pi antico, toccante ricordo del suo Moretto a Sant Cels, cos spinto, cos ingenuo; ma pur caro ricordo per chi ora intenda che si pu far di pi e pi semplicemente. Mettersi, cio, come spettatore, dalla parte dello scavalcato che si ritrova a terra, e non sa come, tra i finimenti e le redini che spazzano al suolo; e si veda addosso la massa enorme del cavallone pezzato, la bava che cola dal morso e quellintrigo indecifrabile, tra quadrupede e servente, di vene nodose e varicose; tutto stampatogli in mente dun tratto da quel fascio di lume spiovente (ma non era forse la lanterna della scuderia?) che ora sigilla nelle sue palpebre richiuse laspetto delle pupille cieche nei busti romani. Con questo sottinteso discreto che sta per sommessa ironia dellerudizione corrente e che, eliminando fino allosso la tradizione iconografica del tempo, non manca di fermare un punto nellimmenso percorso mentale del maestro, questi licenzia il dipinto forse pi rivoluzionario in tutta la storia dellarte sacra. Non fosse che qui si trattava di un dipinto laterale, potrebbe anzi sorprendere che il Caravaggio riuscisse a pubblicarlo senza incorrere in un rifiuto o almeno in serie censure. E quasi si amerebbe sapere se, nel ceto dei dilettanti, manc chi, usando il titolo nel senso cinetico, galileiano, chiamasse il quadro la conversione di un cavallo; resta per lo stupore del biografo pi famoso nel rilevare che la storia affatto senza azione. Lo stupore verr corretto pi tardi dallelogio per il cavallo pomellato che simile al vero o, addirittura, mirabile. Ma queste sono gi frasi di amatori.

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