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egemonia Presso i Greci, il potere di comandare conferito allo Stato pi importante nellambito di alleanze o leghe di Stati.

Si esplicava soprattutto nel comando militare delle forze alleate. Lo Stato egemone non doveva intervenire negli affari degli alleati n violarne lautonomia: altrimenti le. si sarebbe trasformata in impero, come avvenne, per es., nellambito della lega delio-attica, in cui Atene da egemone divenne citt-tiranno. DallOttocento il concetto di e. stato utilizzato dalla storiografia come criterio per interpretare la tendenza degli Stati a estendere la propria potenza, e dunque in relazione ai problemi di equilibrio fra i paesi nella storia dEuropa. Nella cultura italiana del Risorgimento (V. Gioberti), il termine perde il connotato economicopolitico-militare per assumere quello etico - politico. Ugualmente inteso da A. Gramsci per capire determinati passaggi della storia europea in relazione alla politica delle classi e dei gruppi sociali; nei Quaderni dal carcere le. la capacit di una classe, un gruppo sociale o intellettuale, una formazione politica, di attrarre, influenzare e dirigere politicamente altre classi. imperialismo Politica di potenza e di supremazia di uno Stato tesa a creare una situazione di predominio, diretto o indiretto, su altre nazioni, mediante conquista militare, annessione territoriale, sfruttamento economico o egemonia politica. Dal punto di vista dottrinale limperialismo poggia sullidea che i popoli pi forti abbiano il diritto di imporsi su quelli pi deboli. Diritto internazionale Il diritto internazionale il sistema di norme e principi volti a regolare i rapporti tra Stati e altri soggetti internazionali. La sua nascita storicamente legata alla formazione degli Stati sovrani e indipendenti, che, in seguito alla Pace di Westfalia (1648), hanno dato vita al primo nucleo della odierna comunit internazionale. Data la struttura paritaria di tale comunit, il diritto internazionale si caratterizza per il fatto che le funzioni di produzione, accertamento e attuazione coercitiva delle norme sono svolte, in mancanza di organi sovraordinati agli Stati, dai soggetti stessi, secondo il modello del decentramento funzionale. Il diritto internazionale un ordinamento giuridico separato e distinto rispetto agli ordinamenti interni degli Stati; quale diritto che regola le relazioni tra i soggetti internazionali, altres distinto dal diritto internazionale privato, che ha invece ad oggetto la disciplina di rapporti interindividuali implicanti potenziali conflitti tra legge nazionale e legge straniera. Le fonti del diritto internazionale. Principali fonti di produzione delle norme giuridiche internazionali sono gli accordi conclusi dai soggetti su base consensuale e valevoli solo nei rapporti reciproci (Trattati) e la consuetudine, obbligatoria per tutti i soggetti (Consuetudine. Diritto internazionale). Altre fonti sono gli atti unilaterali ai quali il diritto internazionale ricollega determinati effetti giuridici (Atti giuridici unilaterali. Diritto internazionale) e gli atti di organizzazioni internazionali, nel caso in cui a queste sia attribuito il potere di creare, con proprie risoluzioni, diritti e obblighi per gli Stati membri. economia internazionale Locuzione con cui ci si riferisce alle condizioni che risultano dalle relazioni commerciali e finanziarie tra Stati. Tali condizioni hanno una notevole importanza sia per i singoli sistemi economici che per il benessere collettivo. Il funzionamento di un sistema economico si pu sempre considerare come il frutto dell'interazione tra comportamento dei mercati e scelte di politica economica. Nel caso dell'e. i. questa interazione resa pi complicata dal fatto che non esiste un'autorit di governo del sistema internazionale, anche se, naturalmente, nel sistema sono presenti numerose istituzioni preposte alla regolazione delle relazioni economiche tra paesi e aree. Di conseguenza il governo dell'e. i. implica non solo la messa in atto di specifiche politiche, ma anche la definizione di regole che, nell'impossibilit di essere imposte ai partecipanti al sistema, in quanto sono stati sovrani, devono essere da questi accettate volontariamente. La cooperazione internazionale consiste appunto nella definizione e nella messa in atto di tali regole.

Movimento Qualsiasi forma di comportamento diffuso che si produce fra una pluralit di individui per reazione a particolari stimoli, situazioni, avvenimenti, pressioni sociali. I comportamenti collettivi danno luogo a un quando gli individui in esso coinvolti appaiono caratterizzati da un sentimento di solidariet e le loro azioni si inseriscono in un disegno di mutamento sociale. In questo senso, alla base del m. collettivo vi la sperimentazione, da parte dei protagonisti, di una comune condizione di vita (di disagio, di tensione, di entusiasmo) che produce leffetto di mobilitare intorno a una particolare credenza generalizzata, ovvero a una data ideologia, determinate masse o gruppi sociali in vista di una meta (condivisa) di cambiamento dellordine esistente. Tra le teorie sociologiche relative ai m. collettivi un filone di studi rappresentato da autori che tendono a interpretarli come comportamenti collettivi, irrazionali e pulsionali. Nelle ricerche sul collective behaviour (comportamentismo) condotte nellambito della cosiddetta scuola di Chicago durante gli anni 1920 i m. collettivi sono invece considerati come fenomeni che fanno parte della vita sociale; per la teoria generale formulata da N.J. Smelser(1963) e per tutto lindirizzo struttural-funzionalista essi costituiscono una risposta a fattori di disturbo che si manifestano in uno dei livelli della vita sociale (valori, norme, motivazioni), con la funzione di eliminare il disturbo attraverso forme di mobilitazione collettiva positivamente orientate al raggiungimento degli equilibri generali del sistema sociale. F. Alberini, riprendendo la lezione di M. Weber in merito alla distinzione fra il momento genetico dellinvenzione sociale e il momento funzionale della quotidianit, individua nello stato nascente di un m., nel vissuto collettivo che pu informare una nuova solidariet, la forma di transizione fra un assetto sociale e un altro. partito Organizzazione che persegue lobiettivo della gestione del potere politico mediante il processo di competizione elettorale ovvero quando non entrano regole democratiche di competizione elettorale attraverso la designazione diretta dei propri membri nei ruoli di governo. 1. I primordi Nelle societ tradizionali il diritto di esercitare lautorit e la partecipazione alla lotta per la distribuzione dei diritti e degli obblighi si basavano su privilegi, frequentemente ereditari, o su immunit istituzionali. La Rivoluzione francese distrusse questo sistema, creando tra i cittadini unastratta uguaglianza e affermando il principio che ogni potere legittimo deve fondarsi sulla volont popolare, da esprimersi tramite rappresentanti. Le prime forme embrionali del moderno p. politico furono costruite da raggruppamenti instabili di parlamentari e, in occasione delle competizioni elettorali, da comitati che si formavano a sostegno delle loro candidature. Solo con lallargamento del suffragio, e spesso come conseguenza di determinate procedure del sistema elettorale (per es., la registrazione degli elettori, lo scrutinio plurinominale, lo scrutinio di lista), si svilupparono i moderni p. politici. Nel definitivo assetto del sistema politico negli Stati occidentali, i p. che avevano ricevuto legittimazione andarono perdendo progressivamente le caratteristiche originarie di classe, di denominazione religiosa ecc., per assumerne altre connaturate con le diverse funzioni che storicamente si trovavano a svolgere sia in qualit di mediatori (al governo o allopposizione) sia come rappresentanti (delle vecchie e delle nuove categorie e classi sociali, cui il p. si era rivolto per allargare la propria forza). Nellanalisi storica si possono distinguere 3 fasi nel processo di formazione e trasformazione dei p. moderni. La prima riguarda la divisione politica avvenuta in seno alla classe dominante; la seconda riguarda la nascita dei p. di classe e la risposta venuta dai p. borghesi; la terza riguarda la collaborazione dei p. di classe alla gestione del potere in seno alla societ capitalistica, nonch le trasformazioni dei p. di classe una volta raggiunto il potere per via rivoluzionaria. 2. La nascita dei p. moderni Inizialmente il pensiero politico si pronunci negativamente sullesistenza dei raggruppamenti che preludono ai p. politici. T. Hobbes in Inghilterra li considerava Stati nello Stato e quindi fonte di anarchia. Il pensiero rivoluzionario francese fu contrario ai corpi intermedi e la Dichiarazione dei diritti del 1789 sanc la libert di opinione, ma non menzionava quella di riunione e di associazione. Negli Stati Uniti la Costituzione prevedeva che diventasse presidente il candidato che avesse riportato la maggioranza dei voti e vicepresidente il suo concorrente pi prossimo. Tuttavia, si manifestarono ben presto differenziazioni di interessi che lo sviluppo economico tendeva a stabilizzare. In Inghilterra si fece strada una contrapposizione parlamentare tra whig e tory. Negli

Stati Uniti la Costituzione fu emendata nel 1804, per riconoscere il principio delle candidature contrapposte alle cariche di presidente e vicepresidente. In Francia invece le divisioni politiche per lungo tempo non poterono avere piena espressione a causa delle limitazioni imposte dai regimi che si susseguivano. Conservatori e liberali iniziarono in Inghilterra il loro processo di trasformazione in p. moderni con il primo allargamento del suffragio, nel 1832, quando il sistema elettorale consigli la costituzione di societ per la registrazione degli elettori. Queste diventarono poi macchine elettorali locali, raggruppate nellUnione nazionale dei conservatori nel 1867 e nella Federazione nazionale dei liberali nel 1877. Negli Stati Uniti una nuova classe politica simpose a quella dei federalisti attraverso modifiche istituzionali che attivavano gli strati inferiori della societ. Sotto la presidenza Jefferson si realizz il sistema del frazionamento del potere pubblico, cui era in larga misura possibile accedere per via elettiva; sotto la presidenza Jackson fu portato alle estreme conseguenze il sistema della divisione delle spoglie (spoils system), secondo il quale era riconosciuto al presidente il diritto di nominare e revocare una parte consistente di funzionari pubblici. Lindebolimento dellautorit lasciava spazio alla macchina dei partiti. Le sue funzioni riguardavano, fin dallora, la soddisfazione dei bisogni privati, che non trovavano adeguata considerazione da parte della struttura pubblica, e lattribuzione di privilegi politici che permettessero ai privati di acquisire vantaggi economici. Il sistema delle elezioni primarie dirette, che assunse rilievo giuridico alla fine del 19 sec., pose un limite allarbitrio dei boss o capi in seno ai p., che aveva raggiunto lapice dopo la sostituzione del metodo del caucus (riunione ristretta di notabili per designare i candidati del p.) con quello della convenzione (assemblea di delegati di primo grado o di grado superiore, eletti dagli elettori del p., per designare i candidati). 3. P. di classe e p. borghesi Negli altri paesi il problema dellintegrazione si pose con il sorgere di nuove classi come prodotto dello sviluppo economico e con il loro organizzarsi. Quanto pi erano lontane le prospettive di una piena legittimazione del ruolo politico delle nuove classi, tanto prima sembrava manifestarsi la loro autonomia politica. Nella Germania imperiale la socialdemocrazia tedesca si svilupp negli anni intorno al 1860, in modo tale da rappresentare ben presto un modello organizzativo per i movimenti operai degli altri paesi. Al movimento operaio era permesso di esistere legalmente, con una propria identit politica, ma gli era impedito laccesso ai centri di potere. I dirigenti socialdemocratici accettarono questa soluzione, mirando a salvaguardare innanzi tutto lunit e la forza del movimento operaio. La struttura di base del p. fu la sezione. Lalternarsi di condizioni permissive e repressive da parte del sistema dominante favoriva allinterno del movimento socialista labitudine a una prassi moderata e nel contempo ladesione a unideologia marxista radicale. Il rafforzamento del p. socialdemocratico fece sorgere uno strato di parlamentari e di funzionari che non vivevano pi per, ma grazie al movimento operaio. Trasformatasi da mezzo in fine, lorganizzazione, che in periodi di relativa tranquillit riusciva a strappare importanti conquiste per il ceto operaio, rivel la sua intrinseca debolezza nel periodo successivo alla Prima guerra mondiale. Situazioni analoghe si verificarono in altri paesi europei. La strada che imboccarono le socialdemocrazie europee fu, negli anni 1920 e 1930, dove possibile, quella della collaborazione con i p. borghesi (governo MacDonald in Gran Bretagna, Repubblica di Weimar, fronti popolari). Altrove, invece, le difficolt della classe dominante borghese nel controllo dello sviluppo dei rispettivi paesi, e le prospettive autoritarie di una parte di essa, impedirono quella soluzione, a causa dellaffermazione dei p. nazionalisti, fascisti, nazionalsocialisti. In una prima fase questi presentarono caratteristiche non di p. ma di movimento sociale. Una volta al potere, sidentificarono nel nuovo regime, diventando p. unici. Loro caratteristica, sul piano dellorganizzazione, fu di avere una struttura fortemente gerarchizzata, non elettiva, e di inquadrare le masse (anche militarmente) senza riconoscere loro alcun diritto a una partecipazione attiva ai processi decisionali del partito. Una strada alternativa alla collaborazione con i p. borghesi fu indicata dalla Rivoluzione dottobre e dalla Terza internazionale, cui fecero capo fino al 1943 i p. comunisti di tutto il mondo. La vittoria in Russia and allala bolscevica della socialdemocrazia, che aveva fatto propria la teoria del p. dei rivoluzionari di professione, enunciata da Lenin nel Che fare? (1902). Subito dopo, il partito davanguardia fu trasformato in partito di massa, ma allinterno prevalse una pratica burocraticoautoritaria, che si riflett anche sui p. comunisti degli altri paesi, i quali fecero propria la teoria staliniana della costruzione del socialismo in un solo paese e furono condizionati dalle oscillazioni

della stessa politica estera sovietica. Questa situazione fu modificata solo a partire dagli anni 1950, con lavvio di una certa distensione internazionale, grazie agli avvenimenti interni al mondo comunista che ne scossero il monolitismo ideologico, e il riconoscimento da parte dellURSS delle vie nazionali al socialismo. I rapporti internazionali influenzarono profondamente la linea e la stessa concezione organizzativa dei p. comunisti. Nel quadro della ripartizione mondiale delle zone dinfluenza tra URSS e USA (1943-90), i p. comunisti, cos strutturati, divennero in Europa orientale p. unici o egemoni, identificandosi con il regime; in Occidente si prodigarono per il mantenimento dellunit antifascista, fonte della loro legittimazione. Dopo la fase della guerra fredda, i maggiori p. comunisti dellOccidente attenuarono progressivamente le caratteristiche di organizzazione di combattimento e accentuarono quelle tradizionali dei p. di massa del movimento operaio. In concomitanza del crollo dei regimi socialisti nellEst europeo (1989-90) alcuni di questi p. (tra cui litaliano) sciolsero, anche nella denominazione, i legami con la tradizione comunista. Alla fine del 20 sec. nei paesi democratici i p. si sono evoluti in formazioni di collegamento tra interessi e tradizioni, meno ideologiche e pi orientate alla formulazione di un programma. Presidenzialismo Sistema e prassi di governo caratteristici di una Repubblica presidenziale; in senso polemico, la tendenza a una gestione egemonica e autoritaria del potere da parte del presidente di una Repubblica, come conseguenza delleccessiva concentrazione di poteri nella sua persona. Anche, latteggiamento di chi favorevole alla costituzione di una Repubblica presidenziale. La forma di governo presidenziale caratterizzata, nel quadro di una rigida separazione dei poteri, da un esecutivo affidato a un presidente della Repubblica che espresso direttamente dal corpo elettorale, dura in carica per un periodo di tempo predeterminato, non soggetto a un rapporto di fiducia con il Parlamento, non ha il potere di scioglierlo ed a capo dellapparato burocratico e militare: espressione tipica di questa forma di governo sono gli USA. Il presidenzialismo semipresidenzialismo, invece, presenta, fondendoli tra loro, elementi del governo parlamentare (come la fiducia del Parlamento nei confronti del governo e il potere del presidente della Repubblica di scioglimento delle Camere) con elementi del governo presidenziale (come lelezione popolare del presidente della Repubblica). In particolare, i sistemi politici semipresidenziali si distinguono per il meccanismo dellesecutivo diarchico: invece di basarsi sul principio della separazione dei poteri, viene ricercata una loro integrazione, attraverso la creazione di un potere intermedio (il governo) che faccia da raccordo fra liniziativa presidenziale e il controllo parlamentare. Prototipo e modello della forma di governo semipresidenziale il regime che fu adottato nella Francia della Quinta Repubblica in seguito alle modifiche costituzionali del 1958. Le esperienze contemporanee di altri paesi, come Portogallo, Austria, Irlanda, Finlandia, costituiscono altrettante varianti specifiche di questo stesso modello. Colonialismo In et moderna e contemporanea, l'occupazione e lo sfruttamento territoriale realizzati con la forza dalle potenze europee ai danni di popoli ritenuti arretrati o selvaggi. Per molti versi la storia del colonialismo pu essere fatta iniziare con la scoperta dell'America da parte di C. Colombo (1492).

Una rivoluzione copernicana: Norberto Bobbio e i diritti Il titolo di questo intervento richiama quello di uno dei libri pi noti di Norberto Bobbio e insieme ne evidenzia uno dei temi principali: il "fondamento" dei diritti. Vorrei ricordare in primo luogo brevemente cosa intende Bobbio per "et dei diritti" (1.1) e come egli critica la pretesa di un "fondamento assoluto" (1.2). In secondo luogo, vorrei mostrare come nella riflessione sui diritti Bobbio abbia affrontato alcuni temi cruciali, spesso anticipando il dibattito contemporaneo sul problema della trasformazione storica dei diritti e la loro origine nei processi sociali (2.1), sulle questioni dello status deontico dei diritti e del nesso diritti/doveri (2.2), sul contrasto fra universalismo e relativismo (2.3), sul rapporto fra le diverse "generazioni dei diritti" e i diritti sociali (2.4), sul tema della tutela internazionale dei diritti in relazione alla proposta del "pacifismo istituzionale" (2.5). In terzo luogo, cercher di argomentare la tesi che la ricerca di Bobbio sui diritti entrata in tensione con l'opzione teorico-giuridica per il giuspositivismo normativistico (3.1) con quella epistemologica per l'empirismo logico (3.2) e con quella storiografica per l'approccio analitico (3.3): per sviluppare le intuizioni di Bobbio ed affrontare i problemi che ha posto nell'ambito della teoria dei diritti, occorre prendere congedo da queste visioni. 1. Il fondamento impossibile 1.1. Bobbio non era certo un ottimista. Si definiva, anzi "un depresso cronico, cio uno che sfoga la sua aggressivit su se stesso" (1). Ed era tutt'altro che incline all'enfasi retorica: nel 1995 sottolineava le differenze fra il progresso scientifico e il progresso morale: la distanza "tra la nostra sapienza di indagatori del cosmo e il nostro analfabetismo morale" (2). E anche la "grande invenzione della nostra civilt" (C.S. Nino) rappresentata dal "'nuovo ethos mondiale' dei diritti dell'uomo" (W. Kasper), "pi annunciata che eseguita". I diritti proclamanti nelle dichiarazioni internazionali sono sistematicamente violati in tutti i paesi. Le immagini di "mucchi di cadaveri abbandonati, intere popolazioni cacciate dalle loro case, lacere e affamate, bambini macilenti con le occhiaie fuori dalla testa che non hanno mai sorriso, e non riescono a sorridere prima della morte precoce" ci ricordano che "il nostro senso morale avanza, posto che avanzi, molto pi lentamente del potere economico, di quello politico, di quello tecnologico. Tutte le nostre proclamazioni dei diritti appartengono al mondo dell'ideale, al mondo di ci che dovrebbe essere, di ci che bene che sia" (3). Cinque anni prima, nell'introdurre L'et dei diritti, Bobbio era stato meno cauto, sostenendo che i diritti umani costituiscono "uno dei principali indicatori del progresso storico" (4). Bobbio riprende da Kant il concetto di "storia profetica". Per Bobbio Dal punto di vista della filosofia della storia, l'attuale dibattito sempre pi ampio, sempre pi intenso, sui diritti dell'uomo, tanto ampio da aver ormai coinvolto tutti i popoli della terra, tanto intenso da essere messo all'ordine del giorno delle pi autorevoli assise internazionali, pu essere interpretato come un "segno premonitore" (signum prognosticum) del progresso morale dell'umanit (5). Bobbio vede la "progressiva affermazione dei diritti dell'uomo" scandita da una serie di tappe. In primo luogo, la costituzionalizzazione (o anche positivizzazione) dei diritti (6) nelle costituzioni liberali e poi in quelle democratiche. In secondo luogo, laprogressiva estensione dei diritti allunga via via il catalogo delle libert, e poi introduce i diritti politici ed i diritti sociali. La terza tappa quella dell'universalizzazione, avviata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: al sistema internazionale viene affidata la protezione dei diritti, mentre l'individuo diviene un soggetto del diritto internazionale, che ha la possibilit - almeno in ipotesi - di agire contro il proprio Stato presso istanze superiori. Infine, il processo di specificazionedeclina i diritti in relazione a "esigenze specifiche di protezione sia rispetto al genere, sia rispetto alle varie fasi della vita, sia rispetto alle condizioni, normali o eccezionali, dell'esistenza umana" (7): diritti delle donne, dei bambini, degli anziani, dei malati, dei disabili, delle generazioni future; "i diritti dell'uomo nascono come diritti naturali universali, si svolgono come diritti positivi particolari per poi trovare la loro piena attuazione come diritti postivi universali" (8). Ma perch l'et dei diritti rappresenta questo signum prognosticum? E cosa caratterizza nel modo pi specifico l'et dei diritti? La risposta di Bobbio molto chiara. I codici normativi arcaici e tradizionali sono codici di doveri (o di obblighi), non di diritti. Dai Dieci comandamenti al Codice di Hammurabi, alle XII tavole troviamo sistemi morali o giudici "di norme imperative, positive o negative, di comandi o divieti" (9). Bobbio precisa che (10) "diritto e dovere sono come il retto e il verso di una medaglia. [...] Nella storia del pensiero morale e giuridico questa medaglia stata

guardata pi dal lato dei doveri che da quello dei diritti" (11). L'affermazione dei diritti dell'uomo, nelle teorie giusnaturalistiche moderne e poi nelle Dichiarazioni della fine del XVIII secolo rovescia la medaglia. Si passa dal codice dei doveri al codice dei diritti. una "rivoluzione copernicana" e "rappresenta un capovolgimento radicale nella storia secolare della morale" (12). A differenza di quanto avvenuto nella lunga tradizione del pensiero politico, si cominciato a guardare il rapporto fra governanti e governati non pi ex parte principis ma ex parte populi. Si via via affermata una concezione individualistica della societ e dello Stato, che ha soppiantato quella organica. "In questa inversione del rapporto fra individuo e stato viene invertito anche il rapporto tradizionale tra diritto e dovere. Nei riguardi degli individui vengono d'ora in avanti prima i diritti e poi i doveri; nei riguardi dello stato prima i doveri e poi i diritti" (13). 1.2. Ma quale legittimazione teorica ha l'et dei diritti? Bobbio ha esplicitamente riconosciuto l'impossibilit di rinvenire un "fondamento assoluto" dei diritti dell'uomo o diritti fondamentali. Non solo perch la "natura dell'uomo" si rivela un punto d'appoggio molto fragile, dato che possibile basare concezioni molto differenti dei diritti sulla stessa nozione di natura umana. Si tratta infatti, rileva Bobbio, di diritti mal definibili, e ci non permette di precisare i confini della categoria. In secondo luogo, i diritti dell'uomo sono mutati storicamente. In terzo luogo, i diritti dell'uomo sono eterogenei, e in molti casi esprimono pretese incompatibili: i diritti fondamentali di determinati soggetti collidono con i diritti fondamentali di altri soggetti. Infine, e questo il problema pi grave, in alcuni casi si rileva un'antinomia fra i diritti invocati dagli stessi soggetti: il caso dei diritti di libert contrapposti ai diritti sociali come poteri. E "due diritti fondamentali ma antinomici non possono avere, gli uni e gli altri, un fondamento assoluto" (14). D'altra parte, sostiene Bobbio, con l'adesione della maggior parte dei governi alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (15) il problema del fondamento ha trovato la sua "soluzione": la Dichiarazione rappresenta la manifestazione dell'unica prova con cui un sistema di valori pu essere considerato umanamente fondato e quindi riconosciuto: e questa prova il consenso generale circa la sua validit. I giusnaturalisti avrebbero parlato di 'consensus omnium gentium' o 'humani generis' (16). 2. L'et dei diritti: conflitti, doveri, relativismo, nuovi diritti, pace Nell'occuparsi dell'et dei diritti senza fondamento, Bobbio anticipa una serie di temi cruciali del dibattito contemporaneo. 2.1. Per Bobbio i diritti, oltre ad essere "storici" ed a nascere "all'inizio dell'et moderna, insieme con la concezione individualistica della societ" (17), sono l'esito del conflitto sociale; i diritti umani sono nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libert contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre. [...] la libert religiosa un effetto delle guerre di religione, le libert civili, delle lotte dei parlamenti contro i sovrani assoluti, la libert politiche e quelle sociali, della nascita, crescita e maturit del movimento dei lavoratori salariati, dei contadini con poca terra o nullatenenti, dei poveri che chiedono ai pubblici poteri non solo il riconoscimento della libert personale e delle libert negative, ma anche la protezione del lavoro contro la disoccupazione, e i primi rudimenti d'istruzione contro l'analfabetismo, e via via l'assistenza per l'invalidit e la vecchiaia (18). Emergono quelli che Bobbio chiama i diritti della terza generazione - a cominciare da quelli ecologici - e della quarta generazione, relativi alla tutela del patrimonio genetico. Il catalogo dei diritti non predeterminabile, perch i diritti non nascono tutti in una volta. Nascono quando devono o possono nascere. Nascono quando l'aumento del potere dell'uomo sull'uomo, che segue inevitabilmente al progresso tecnico, cio al progresso della capacit dell'uomo di dominare la natura e gli altri uomini, crea o nuove minacce alla libert dell'individuo oppure consente nuovi rimedi alla sua indigenza (19). Come abbiamo visto, per Bobbio la rivoluzione copernicana dell'et dei diritti si lega all'affermazione della concezione individualistica della societ. Sullo sfondo dell'et dei diritti Bobbio vede l'" 'individualismo metodologico', secondo cui lo studio della societ deve partire dallo studio delle azioni degli individui" come indirizzo "dominante" nelle scienze sociali". E senza "l'individualismo ontologico, che parte dal presupposto [...] dell'autonomia di ogni individuo rispetto a tutti gli altri e della pari dignit di ciascuno, e l'individualismo etico, secondo cui ogni individuo

una persona morale", sostiene Bobbio, "il punto di vista dei diritti dell'uomo diventa incomprensibile" (20). L'idea che vi sia un nesso fra l'individualismo (nelle sue varie dimensioni) e l'affermazione della teoria dei diritti soggettivi molto diffusa. Secondo una linea interpretativa solo nel XIV secolo, con l'elaborazione di un'ontologia individualistica e di un'etica volontaristica dai parte dei teologi francescani, in particolare Guglielmo di Ockham, che si sarebbe affermata una concezione compiutamente soggettivistica di ius (21). Ma secondo altri interpreti, come Brian Tierney, il diritto canonico dei primi secoli del secondo millennio esprimeva gi fondamentali caratteri della dottrina moderna dei diritti naturali soggettivi e tuttavia questo non presupponeva una visione individualistica, o atomistica, n sul piano ontologico n su quello sociale (22). E anche gli autori che successivamente hanno sviluppato sul piano filosofico e teologico la teoria dei diritti soggettivi - Ockham, ma anche Jean Gerson, Jacques Almain, John Mair, Conrad Summenhart, Francisco de Vitoria - non propongono affatto una visione atomistica della societ. Insomma, non si pu ricostruire una genealogia lineare che identifichi teoria dei diritti soggettivi e individualismo. Certo, molti contributi alla teoria dei diritti soggettivi - in primis quello di Hobbes - si fondano su una visione individualistica. Ma proprio il caso di Hobbes paradossale: sua la forma pi radicale di individualismo metodologico, ontologico ed etico. Tuttavia l'individualismo radicale di Hobbes funzionale a teorizzare la assolutezza del potere sovrano, l'insussistenza di qualsiasi diritto dei sudditi nei suoi confronti, l'assoluta illegittimit di ogni loro azione o rivendicazione contro il potere politico una volta che si sia costituito (23). Anche sul piano teorico, si pu contestare che la "rivoluzione copernicana" presupponga necessariamente una visione individualistica della societ. Lo stesso Bobbio sembra smentirlo, quando ricorda che la genesi dei diritti ha a che fare con i processi rivendicativi e con i conflitti sociali: attori di tali processi sono, con tutta evidenza, pi i gruppi che gli individui. D'altra parte se si auspica l'universalizzazione del linguaggio dei diritti, la sua estensione al di l del suo luogo di origine, impossibile non fare i conti con contesti culturali nei quali l'individualismo riesce difficilmente ad acclimatarsi. Ritengo tuttavia che, se reinterpretata, l'idea bobbiana che l'et dei diritti porta in primo piano l'individuo possa essere condivisa. Dal punto di vista normativo, credo che si possa assumere come punto di riferimento la condizione degli individui che nei differenti contesti soffrono maggiormente delle disuguaglianze, delle sperequazioni di reddito, risorse, potere, dei rapporti di subordinazione, delle discriminazioni, delle offese alla dignit e all'identit. L'individuo va considerato nella sua specificit culturale e sociale e nella sua differenza di genere; nasce in un contesto culturale, si forma in un rapporto dialettico (spesso antagonistico) con esso, non di rado richiede per la sua protezione la difesa di questo contesto culturale, ma rimane comunque, nella sua singolarit, il punto di riferimento anche per la valutazione delle differenze culturali. La definizione dei suoi diritti richiede un approccio flessibile incentrato sui suoi bisogni, che esclude sia il rigido universalismo della tradizione occidentale, sia la cristallizzazione del retaggio culturale. Le politiche che violano i diritti individuali al solo scopo di conservare le comunit non sono legittime, ma d'altra parte la "protezione concreta del soggetto" non coincide con la "protezione in astratto dei diritti soggettivi" (24). 2.2. Nell'imponente produzione bobbiana di teoria generale del diritto il tema dei diritti soggettivi non certamente centrale. A ben vedere, quello che appare come un disinteresse teorico di Bobbio per la nozione dei diritti pu trovare una ragione: l'adesione, non problematica, a una delle tesi che si sono affermate nel dibattito teorico-giuridico sui diritti soggettivi: la correlativit fra diritti e doveri. Nella sua tipologia delle norme Bobbio affronta il tema delle "norme attributive e privative" e introduce quello della "bilateralit" delle norme: generalmente, la norma giuridica nel momento stesso in cui crea in un soggetto una situazione di obbligo crea in un altro soggetto una situazione di potere e viceversa. Non vi obbligo senza potere [...] "Obbligo" e "potere" sono due termini conversi nel senso che l'uno non pu essere definito indipendentemente dal secondo e viceversa, e entrambi possono essere convertiti l'uno nell'altro, onde il dire che "A ha un obbligo nei confronti di B" equivale a dire che "B ha un potere nei confronti di A" (25).

Questa considerazione vale per tutti i tipi delle norme che Bobbio ha precedentemente analizzato: imperativi positivi e negativi, permessi negativi e positivi. Le norme corrispondenti Bobbio propone di chiamarle attributive, nel caso che conferiscano poteri, e privative, nel caso che sottraggano poteri. In questo modo Bobbio pu stabilire una serie di relazioni: di correlazione fra obbligo e potere, facolt e non potere; di opposizione fra obbligo e facolt, potere e non potere sono opposti. Fino qui Bobbio non ha usato il termine "diritto"; lo introduce ora: una delle maggiori fonti di confusione nella teoria giuridica deriva dal fatto che il termine "diritto" (nel senso di diritto soggettivo) viene usato, anche nel linguaggio tecnico, tanto per indicare la situazione di facolt (o permesso) quanto la situazione di potere; ma di queste due situazioni la prima rispetto all'obbligo l'opposto, la seconda il correlativo. Una volta collocate queste situazioni giuridiche al loro giusto posto, la confusione non pi possibile (26). Non difficile riconoscere l'eco di un saggio molto noto, pubblicato nel 1913 dal giurista statunitense Wesley N. Hohfeld, cui Bobbio fa esplicito riferimento (27). Hohfeld, lamentando l'uso "troppo ampio e indiscriminato" del termine right persegue una maggiore chiarezza intellettuale. Ci sarebbe possibile se si specificano una serie di accezioni di "diritto": il diritto in senso stretto, nell'accezione di "pretesa" [claim], e poi il "privilegio" (privilege, che alcuni propongono di tradurre "facolt" o libert), il "potere", l'"immunit". A questi quattro termini Hohfeld correga i rispettivi termini correlativi: non caso di diritto-pretesa il correlativo "dovere", negli altri tre casi, rispettivamente, "non-diritto", "soggezione", "incapacit"" (28). Nella voce "Norma" dell'Enciclopedia Einaudi Bobbio propone come tipico esempio di una norma attributiva l'etichetta "Riservata ai mutilati e agli invalidi" posta su una panchina pubblica: "l'effetto di quella norma una situazione che viene chiamata 'diritto' (nel senso di diritto soggettivo), ed non una facolt qualunque bens una facolt protetta" (29). Per Bobbio norme attributive si trovano in ogni sistema normativo. Propone gli esempi piuttosto triviali del "diritto" di iniziare la mano attribuito a chi scopre la carta pi alta e del "diritto" di battere il calcio d'inizio attribuito a chi ha vinto a testa o croce. Infatti la norma imperativa rivolta al soggetto passivo e la correlativa norma attributiva rivolta al soggetto attivo hanno le stesso significato, espresso in due differenti enunciati. Considerazioni analoghe valgono secondo Bobbio per la norme che attribuiscono poteri, sia privati che pubblici (30). Bobbio in ottima compagnia. Abbiamo gi citato Hohfeld, ma anche secondo la "dottrina pura del diritto" di Hans Kelsen "il diritto dell'uno esiste solo presupponendo il dovere dell'altro" (31). Questa tesi stata recentemente riproposta da Luigi Ferrajoli in Principia iuris (32). La tipologia di Hohfeld stata interpretata in modo da ricollegare fra loro tutti i termini (33) e di ricondurli alle tre modalit deontiche fondamentali obbligatorio, vietato, permesso, a loro volta interdefinibili (34). Ci significherebbe, nota Bruno Celano, che i diritti "non sono che parvenze, la cui sostanza resa dall'imposizione (ad altri) di doveri" (35). Bobbio, come abbiamo visto, aderisce a questa tesi (36), anzi sostiene esplicitamente che la funzione primaria delle norme quella prescrittiva (37). Ma la tesi della correlativit stata sottoposta a critiche importanti. David Lyons (38) ha sostenuto che vale solo per i diritti "passivi" (tipicamente, quelli che emergono in situazioni analoghe al rapporto creditore/debitore). Ma "alcuni diritti 'attivi' (diritti a fare cose), come la libert di parola, non corrispondono allo schema delineato" (39). Per Herbert Hart la tesi della correlativit non riesce a rendere conto del modo in cui il diritto civile considera gli individui (40): "all'individuo conferito dal diritto il controllo esclusivo, pi o meno estensivo, sul dovere di un'altra persona cosicch nell'area di condotta protetta da tale dovere il titolare del diritto un sovrano in miniatura al quale il dovere dovuto" (41). Il titolare del diritto pu esercitare una forma di controllo sul dovere correlativo, rinunciando ad esso o esigendolo, applicandolo o disapplicandolo (42). Per Neil MacCormick la titolarit di un determinato diritto, conferita dall'ordinamento giuridico, implica una vasta gamma di relazioni "atomiche" del tipo individuato da Hohfeld. Tali relazioni possono essere derivate dall'esistenza del diritto; ma dall'insieme delle relazioni non si pu derivare l'esistenza del diritto: si tratta di complessi concetti "istituzionali" (43). Si potrebbe allora sostenere che la teoria dei diritti di Bobbio caratterizzata da ambivalenza, se non rischia di essere affetta da una forma di schizofrenia. Da un lato Bobbio ha enfatizzato il significato storico della diffusione del linguaggio dei diritti, fino a parlare di una "rivoluzione copernicana" e di "rovesciamento radicale di prospettiva" (44). D'altro lato ha aderito alla tesi della

riduzione dei diritti ai doveri, che come abbiamo visto comporta il rischio di considerare il linguaggio dei diritti come inutilmente ridondante se non fonte di ambiguit. C' una via d'uscita? Nell'affrontare la questione della correlativit fra diritti e doveri, Joel Feinberg immagina Nessunluogo [Nowheresville], un mondo che ignora completamente la nozione di diritto soggettivo. Cosa manca a Nessunluogo? Precisamente "the activity of claiming", l'attivit di rivendicare. Per Feinberg l' "uso caratteristico" dei diritti, "e ci per cui sono specificamente adatti l'essere pretesi [claimed], richiesti, affermati, rivendicati": Avere diritti, naturalmente, rende possibile la rivendicazione; ma l'atto di rivendicare che conferisce ai diritti il loro specifico significato morale. Questa caratteristica dei diritti si ricollega in qualche modo alla consueta retorica su cosa significa essere umani. Avere diritti ci rende capaci di "alzarci in piedi da uomini", di guardare gli altri negli occhi e di sentirci fondamentalmente eguali a ciascun altro. Pensarsi come titolari di diritti significa sentirsi orgogliosi - legittimamente, non indebitamente -, significa avere quel minimo rispetto di se stessi che necessario per meritarsi l'amore e la stima degli altri [...] e ci che viene definita "dignit umana" pu essere semplicemente la capacit riconoscibile di avanzare pretese [to assert claims]. Dunque, rispettare una persona, o pensarla come titolare della [possessed of] dignit umana semplicemente pensarla come potenziale attore di rivendicazioni [maker of claims]. (45) A me sembra che alla tesi di Feinberg, che coglie la specificit del linguaggio dei diritti nell'espressione del claiming, si possa agevolmente ricollegare a quella di Bobbio che l'origine storica dei diritti va ricercata nei processi di rivendicazione e nei conflitti sociali (46). I diritti vengono dal basso (47) e la loro peculiarit di figura deontica esprime questo movimento; e forse questo alla radice di quel cambiamento gestaltico cui abbiamo fatto riferimento, la considerazione dei fenomeni politici non pi ex parte principis ma ex parte populi. 2.3. Bobbio stabilisce un nesso fra la questione dell'impossibilit del fondamento e il relativismo: non possibile un fondamento assoluto in quanto i diritti sono storicamente relativi. Con "relativismo" Bobbio sembra riferirsi qui alla pluralit delle visioni etiche, ma gi fin dalla fase di redazione della Dichiarazione era stato posto il problema del relativismo culturale: la questione dell'effettiva universalit della Dichiarazione e il rischio che finisse per esprimere "valori prevalenti nei paesi dell'Europa Occidentale e dell'America" (48) (settentrionale). Nonostante le critiche cui il relativismo culturale stato sottoposto, le ragioni di fondo delle preoccupazioni di fronte all'universalismo della Dichiarazione sono state riproposte dalle varie correnti dell'antropologia culturale (49). In particolare, Clifford Geertz (50) contesta l'idea che vi siano alcune caratteristiche dell' "Uomo" come tale, che "al di sotto" delle usanze che cambiano nel tempo e nello spazio vi siano degli "universali culturali". O meglio: contesta che tali universali culturali possano rivelarsi qualcosa di pi che categorie vuote ed astratte (51). L'approccio ermeneutico di Geertz apre la strada alla decostruzione del concetto stesso di cultura come un insieme chiuso, un tutto organico, che esprime qualcosa come l'"essenza" di una comunit umana (52). L'abbandono di una nozione essenzialista di cultura permette certamente di reimpostare la questione del confronto interculturale, evitando di assumere le culture come universi chiusi in contenitori incomunicabili, che si esprimono in linguaggi intraducibili. Ma ci non evita il problema di fondo sollevato dagli antropologi di fronte alla Dichiarazione del 1948: se un catalogo di principi fortemente connotato da una tradizione culturale (globalmente dominante), gli individui che non hanno conosciuto quella tradizione, o che sono stati colonizzati dagli esponenti di quella tradizione, sono comunque esposti al rischio dell'imperialismo culturale. E tutto questo pare confermato dalle indagini antropologiche sul campo, come quelle di Marc Aug (53) che mettono in questione l'universalit della stessa nozione di "individuo" (il soggetto dei diritti) e dalle specifiche ricerche di antropologia del diritto (54), da quelle di Norbert Rouland (55) a quelle di Boaventura de Sousa Santos. D'altronde l'esistenza di interpretazioni fortemente divergenti dei diritti umani all'ordine del giorno almeno fin dalla Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui diritti umani, tenuta a Vienna nel 1993, e non pu ormai essere rimossa dall'agenda della politica internazionale. In relazione a questa discussione non ci si pu non chiedere se la Dichiarazione del 1948 rappresenti davvero un caso di consensus omnium gentium. Tale argomento potrebbe venire riproposto in forma modificata: il linguaggio dei diritti umani, in realt, per quanto abbia un'origine

occidentale, parlato diffusamente in molti, differenti contesti culturali. Di particolare rilievo in questo senso sono le carte e le dichiarazioni dei diritti che fanno riferimento ad aree geografiche differenti da quella europea e nordamericana. La lettura di tali carte, tuttavia, lascia l'impressione che l'oggetto del consenso muti sensibilmente rispetto alla tradizione illuministico-liberale (56). Come ha sostenuto Charles Taylor "qualcosa come" un overlapping consensus sui diritti umani richiede il riconoscimento delle radici culturali occidentali del discorso sui diritti (57) e della specificit della nozione di diritto soggettivo, ci che la distingue della mera attribuzione di immunit o libert a determinati individui (58). Quando si parla di confronto interculturale sull'universalit dei diritti umani, insomma, si affrontano due questioni distinte: l'universalit del contenuto normativo espresso nel linguaggio dei diritti soggettivi e l'universalit della forma del diritto soggettivo, in definitiva dello stesso linguaggio dei diritti. La prima questione non credo possa essere risolta, come molti sostengono, riducendo al minimo il nucleo di principi su cui possiamo accordarci (59). Ma chi stabilisce quali tagli effettuare? Perch il catalogo minimo dei diritti assomiglia sempre a quello delle classiche libert civili teorizzate dal liberalismo occidentale? Occorre prendere sul serio, come sostiene Taylor, le differenze culturali e considerare la propria tradizione culturale accanto alle altre, guardando al le culture come entit in trasformazione, dai confini aperti. In un senso analogo Boaventura de Sousa Santos ha usato l'espressione "ermeneutica diatopica" (60): un processo di reinterpretazione delle tradizioni culturali che pu esprimersi in un atteggiamento di decostruzione e ricostruzione. Tutto ci "nella piena consapevolezza che vi saranno buchi neri, zone di irriducibili reciproche imperscrutabilit" (61). Teniamo comunque presente che il diritto offre specifiche risorse per questi processi (62): quello a cui si mira non un accordo sui principi ultimi. Si tratta piuttosto di decisioni e di compromessi politici (63), ottenuti a un livello diverso di quello della weberiana lotta mortale fra valori morali ultimi: contrasti insolubili sul piano morale possono trovare soluzioni nel medium giuridico, nel quale - per utilizzare una metafora di Habermas - l'alta tensione dei principi morali pu essere ridotta. Il problema dell'universalizzazione del linguaggio dei diritti e della forma diritto soggettivo pone altre questioni, ma consente di assumere un differente punto di vista. I diritti umani sono diritti, hanno quello specifico carattere tecnico-giuridico con la connotazione culturale che abbiamo richiamato. Se il linguaggio dei diritti rimanda all'attivit del claiming, all' "alzarsi in piedi", al conflitto sociale, sembra esprimere un atteggiamento tipico della modernit occidentale. Non si pu per escludere la possibilit di una qualche fusione di orizzonti anche su questo piano. Potrebbe essere proprio la connotazione attivistica e conflittuale, la forma del claiming, a dimostrarsi attraente nel linguaggio dei diritti al di l dei suoi luoghi di origine. Ci che i soggetti oppressi e discriminati all'interno delle culture "altre" riconoscono nel linguaggio occidentale dei diritti potrebbe essere proprio la capacit di formulare rivendicazioni, di esprimerle affermando la propria dignit, "camminando eretti". E non ultimo, appunto, potrebbero cogliere la possibilit di concettualizzare bisogni e interessi, in una forma tale da individuare tecniche giuridiche per garantirli e proteggerli. in questo senso che credo possa essere sviluppata l'analisi bobbiana dell'et dei diritti. Un linguaggio che permette di formulare la rivendicazione, un linguaggio, in senso letterale, emancipativo (ex-macipum: liberazione dalla schiavit) attraente per chi sottomesso, persino se lo ha imparato dai suoi padroni e se i suoi padroni lo hanno usato per sottometterlo. 2.4. Nel contesto dell'analisi sulle differenti "generazioni" dei diritti Bobbio si soffermato pi volte sui diritti sociali, lamentando peraltro che una parte della sinistra insegua la destra nel trascurarli. Il riconoscimento di tali diritti per Bobbio il "naturale completamento" della democrazia e segna la trasformazione dello Stato liberale nello Stato sociale. Bobbio segnala l'importanza dell'art. 22 della Dichiarazione universale, sul "diritto alla sicurezza sociale" di "ogni persona in quanto membro della societ". Qui Bobbio sembra derogare dalla concezione individualistica a dare credito alla visione della societ come "un insieme in cui le varie componenti sono interdipendenti, come accade in un organismo in cui la parte malata mette in pericolo il tutto" (64). Bobbio analizza le differenze fra i diritti sociali ("libert di" che richiedono l'intervento dello Stato e si ispirano al principio di uguaglianza) (65). Ma, da antico liberalsocialista, mostra qualche ottimismo sulla loro compatibilit.

ritengo che il riconoscimento di alcuni diritti sociali fondamentali sia il presupposto o la precondizione di un effettivo esercizio dei diritti di libert. L'individuo istruito pi libero di uno incolto; un individuo che ha un lavoro pi libero di un disoccupato; un uomo sano pi libero di un malato (66). Come ha notato Bobbio, i diritti nascono quando il progresso tecnico, ossia il "progresso della capacit dell'uomo di dominare la natura e gli altri uomini, o crea nuove minacce alla libert dell'individuo oppure consente nuovi rimedi alla sua indigenza" (67). Di qui lo sviluppo di "nuovi diritti": Bobbio parlava gi di una "terza" e a una "quarta" generazione, successive a quella dei diritti civili e politici e a quella dei diritti sociali, citando i diritti all'ambiente non inquinato, alla privacy e all'integrit del proprio patrimonio genetico (68). Ma probabilmente la dinamica a cui allude Bobbio, incrociandosi con gli effetti combinati della globalizzazione e del pluralismo culturale, non genera solo nuove categorie di diritti. Anche alcuni diritti della prima generazione devono essere ridefiniti e/o tutelati in forme nuove (si pensi appunto alla riservatezza o all'esigenza di sviluppare la libert di manifestazione del pensiero in direzione dell'autonomia cognitiva (69), allo stesso diritto alla vita di fronte alle nuove guerre). E basti pensare alle modalit di relazione con la terra dei popoli indigeni, ben lontana dalla nozione di propriet ricavata dal diritto romano. dunque del tutto verosimile che questo processo richieda modifiche e ampliamenti dei cataloghi tradizionali dei diritti: non si pu imporre il pacchetto tradizionale (liberale-occidentale) di diritti ma piuttosto occorre aprirsi alla sovrapposizione e all'intreccio di diversi cataloghi, scritti in lingue differenti e a volte difficilmente traducibili, probabilmente senza che il parziale overlapping si risolva in una assoluta convergenza. Ci, in qualche misura, gi avvenuto: si pensi all'inclusione dei diritti economici e sociali nella stessa Dichiarazione universale, al Patto sui diritti economici, sociali e culturali, che include il diritto collettivo all'autodeterminazione dei popoli, al pur parziale riconoscimento dei diritti collettivi alla terra dei popoli indigeni nella Convenzione 169 dell'International Labour Organization e in alcune carte costituzionali. 2.5. Bobbio tendeva ad associare il tema dei diritti umani con quello della pace come "strettamente connessi. L'uno non pu stare senza l'altro" (70). La guerra compromette il diritto primario alla vita (71); essa mette a repentaglio i diritti di libert: in guerra anche un governo non autocratico pu essere indotto a comportarsi autocraticamente, e questo pu avvenire anche in una situazione di guerra potenziale, di "guerra fredda": Bobbio si riferiva esplicitamente ai paesi dell'America meridionale in cui all'epoca gli Stati Uniti favorivano e appoggiavo forme pi o meno sanguinarie di dittatura (72). La sovranit illimitata degli Stati, rende difficile o impossibile la protezione internazionale dei diritti umani (condizione per la tutela effettiva: se un singolo non pu rivolgersi ad un'istanza per far valere i suoi diritti anche contro lo Stato cui appartiene, i suoi diritti non sono garantiti). Infine Bobbio ritorna ai diritti sociali, o meglio al pi fondamentale di essi: "allo stato attuale della coscienza etica dell'umanit, si tende a riconoscere all'individuo non soltanto il diritto di vivere [...] ma anche il diritto di avere il minimo indispensabile per vivere" (73). Tale diritto compromesso data la quantit di risorse impiegate negli armamenti. La teoria dell'et dei diritti rimanda dunque all'orizzonte del pacifismo istituzionale, che tuttavia, nell'itinerario intellettuale di Bobbio, non esente da tensioni ed aporie. Se negli anni sessanta Bobbio aveva teorizzato la reductio ad absurdum della dottrina della guerra giusta e considerava la guerra come l'antitesi del diritto, altrettanto legibus soluta di "un terremoto o una tempesta" (74), nel 1991 ha utilizzato per la Guerra del Golfo l'espressione "guerra giusta" in quanto "fondata su un principio fondamentale del diritto internazionale che quello che giustifica la legittima difesa". Il punto che Bobbio, come altri intellettuali europei, ha pensato di cogliere nella fine della Guerra Fredda il momento storico che rendeva possibile il "pacifismo istituzionale" prefigurato nei progetti di Kant e di Kelsen all'indomani della Guerra fredda, con la speranza che le Nazioni Unite potessero svolgere la funzione di tutela della pace prevista nella loro Carta. In questo senso Desert Storm era legittimata come prima, pur imperfetta, forma di intervento della comunit internazionale a tutela del diritto internazionale. Ciononostante Bobbio non si opposto alla guerra per il Kosovo del 1999 - priva di ogni "autorizzazione" conforme al diritto internazionale. Tuttavia, Bobbio si mostrato tutt'altro che convinto dell'utilizzabilit della nozione di "guerra umanitaria", che - sosteneva - gli ricordava la crociata (75). E Bobbio ha rilevato pi avanti che "assistiamo ad una guerra che trova la sua giustificazione nella difesa dei diritti umani, ma che li difende violando sistematicamente anche i pi elementari diritti umani del Pese che vuole salvare" (76).

Emerge il carattere autocontraddittorio della "guerra per i diritti": un pesante intervento militare finisce per violare i diritti umani - a cominciare dal diritto alla vita - dei soggetti i cui diritti umani si vorrebbero tutelare. A ben vedere, questa tesi pu essere rafforzata se si sviluppano gli argomenti bobbiani contro il fondamento assoluto. Riconoscere la connotazione storica e culturale dei diritti umani e soprattutto ammettere l'indisponibilit di un fondamento universalistico toglie ai diritti lo status di principio primo assoluto, di istanza superiore non discutibile. L'universalizzazione dei diritti umani piuttosto ci che in questione e che richiede un'opera difficile, paziente e responsabile di confronto e di traduzione. In quest'ottica i diritti umani esprimono principi cui si attribuisce un valore fondamentale, ma che devono essere mediati e bilanciati con altri principi, a cominciare dalla la tutela della pace: insostenibile una posizione del tipo fiant iura, pereat mundus.

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