Roland Barthes, scrittore e uomo d’intelletto, scrive nel 1980, pochi
mesi prima di morire, il libro “La Camera Chiara”. Più che un saggio questo libretto, edito da Einaudi, è una raccolta di riflessioni sull’arte fotografica. Tra le molteplici considerazioni racchiuse nel testo ce ne sono alcune di particolare interesse; ad esempio il rapporto tra fotografia e morte. Barthes afferma che la morte è sempre presente in una fotografia. Il risulatato finale (sulla carta) è la rappresentazione di qualcosa che “è stato” e quindi è morto. Ma il fascino della fotografia, secondo Barthes, sta proprio qui : al momento dello scatto il fotografo registra l’esatto istante in cui quella cosa o quella persona muore. Dice lo scrittore : “Tutti questi giovani fotografi che si agitano nel mondo consacrandosi alla cattura dell’attualità non sanno di essere degli agenti della morte. Se la morte in una società come la nostra deve avere una sua collocazione, allora essa si trova nella fotografia che sostituisce in questo caso le religioni.” Infatti nessuna religione intende la morte come qualcosa di definitivo. Essa è soltanto il veicolo per passare ad un altro stato di coscienza, come la vita eterna nel Cristianesimo o la reincarnazione nel Buddismo. Se in questa società la morte, come concetto astratto, si colloca nella fotografia, la motivazione è giustificata soltanto dal desiderio che ognuno di noi ha, di voler conservare il ricordo della nostra vita anche dopo la morte. Il ricordo, infatti, mitizza il passato. Partendo dal presupposto che tutto quello che nasce deve prima o poi morire, Barthes ci chiarisce maggiormente questo suo concetto. Tutto nasce , dicevamo, per morire ed anche la fotografia non può sottrarsi a questa fondamentale legge della vita. La carta è deperibile, il soggetto ritratto è pur sempre mortale. Come un organismo vivente, la fotografia è generata da granuli d’argento che germinano, fioriscono un attimo e poi invecchiano. Attaccata dalla luce e dall’umidità essa impallidisce, ingiallisce, si attenua e svanisce. Quando la fotografia non esisteva, la Società usava erigere monumenti in memoria di qualcosa o di qualcuno che “era stato” , ciò che si fa oggi con la fotografia. Il monumento aveva il compito di rendere mito una persona o un fatto affinchè rimanesse vivo nella memoria per sempre. Oggi la fotografia funge da monumento, utilizzando una realtà passata, che può essere pubblica, come la foto giornalistica, oppure privata come l’album di famiglia. Soltanto la fotografia può interpretare la morte come atto finale, poichè ferma il ricordo di un momento irripetibile, qualcosa che esiste eslusivamente nel momento preciso dello scatto : la vita ed il ricordo di essa.