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William Hart

L'ARTE DI VIVERE

La tecnica di meditazione
Vipassana secondo S. N. Goenka

traduzione di

MARIA ANGELA PALA e PIERLUIGI GONFALONIERI

Biblioteca Rizzoli Universale


INTRODUZIONE

Supponete di avere la possibilità di liberarvi da tutte le responsabilità sociali per dieci giorni e di poter vivere in un luogo
tranquillo, appartato e protetto da ogni occasione di disturbo. In tale luogo si provvederà alle vostre esigenze fisiche
fondamentali di vitto e alloggio, mentre alcuni volontari baderanno a che, nei limiti del ragionevole, non vi manchi nulla.
In cambio, ci si aspetterà da voi solo che evitiate i contatti con gli altri e, a parte le attività essenziali, trascorriate tutte le
ore di veglia con gli occhi chiusi, mantenendo la mente focalizzata su un ben determinato oggetto di attenzione.
Accettereste l’offerta?
Supponete di aver semplicemente sentito dire che una tale possibilità esiste e che persone come voi non solo hanno la
volontà ma anche il desiderio di trascorrere il proprio tempo libero in questo modo. Come definireste la loro attività?
Fissarsi l’ombelico, potreste dire; o anche contemplazione, fuga o ritiro spirituale; autointossicazione o autoricerca;
introversione o introspezione. Sia in senso negativo che positivo, l’impressione comune che si ha in merito alla
meditazione è che essa sia un ritiro dal mondo. Anche se, ovviamente, esistono tecniche che hanno tale funzione, la
meditazione non è necessariamente una fuga. Può anche essere un mezzo per incontrare il mondo al fine di comprenderlo
e di comprendere se stessi.
Ogni essere umano è condizionato a presumere che il mondo reale sia al di fuori, che per vivere si debba entrare
in contatto con una realtà esterna, cercando input, sia fisici che mentali, dal di fuori. La maggior parte di noi non ha mai
considerato la possibilità di recidere i legami con l’esterno per vedere ciò che accade all’interno. L’idea di agire in tal
modo ci sembrerebbe probabilmente come scegliere di trascorrere ore e ore a fissare le righe di uno schermo televisivo.
Preferiremmo esplorare l’altra faccia della luna o il fondo dell’oceano piuttosto che le profondità nascoste dentro di noi.
In realtà l’universo esiste per ognuno di noi solo quando lo sperimentiamo con il corpo e con la mente. Non è mai altrove,
ma sempre qui-e-ora. Esplorando il qui-e-ora di noi stessi possiamo esplorare il mondo. Senza indagare il nostro mondo
interiore, non potremo mai conoscere la realtà: conosceremo soltanto le nostre convinzioni o le nostre concezioni
intellettuali su di essa. Osservandoci, invece, possiamo arrivare a conoscere la realtà direttamente e imparare a gestirla in
modo positivo e creativo.
Un metodo per esplorare il mondo interiore è la meditazione Vipassana. È un modo pratico di esaminare la realtà del
proprio corpo e della propria mente, di portare alla luce e di risolvere qualsiasi problema vi sia nascosto, di sviluppare
nuovi potenziali incanalandoli verso il bene proprio e degli altri.
Nell’antica lingua indiana pàli Vipassana significa «introspezione, osservazione e comprensione profonda della realtà,
così come essa è». È l’essenza dell’insegnamento del Buddha, l’esperienza concreta delle verità da lui proclamate; egli
stesso ha fatto quella esperienza attraverso la pratica della meditazione e quindi ha prima di tutto insegnato la
meditazione. Le sue parole testimoniano la sua esperienza di meditazione, come pure le istruzioni particolareggiate su
come procedere per fare diretta esperienza della verità.
Tutto questo è ampiamente accettato, ma rimane il problema di come comprendere e seguire le istruzioni date dal
Buddha.
Infatti, mentre le sue parole sono state tramandate dai testi riconosciuti come autentici, al di fuori di un contesto di pratica
viva l’interpretazione delle sue istruzioni su come meditare appare difficile. Ma se esiste una tecnica che si è mantenuta
per innumerevoli generazioni e produce risultati identici a quelli descritti dal Buddha, e se essa si conforma in modo
preciso alle sue istruzioni e ne chiarisce dei punti che a lungo sono sembrati oscuri, allora sicuramente merita di essere
indagata. E questa tecnica è Vipassana: straordinaria per la sua semplicità, per l’assenza di qualsiasi dogma e, soprattutto,
per i risultati offerti.
La meditazione Vipassana viene insegnata in corsi della durata di dieci giorni, aperti a chiunque sinceramente desideri
imparare la tecnica e possieda le attitudini sia fisiche che mentali per farlo. Per tutti e dieci i giorni i partecipanti non
escono mai dal luogo in cui si tiene il corso e non hanno alcun contatto con il mondo esterno. Si astengono dal leggere e
dallo scrivere e sospendono ogni altra pratica, religiosa o no, attenendosi esattamente alle istruzioni ricevute. Per l’intero
periodo del corso seguono un codice morale di base che comprende l’astensione da ogni attività sessuale e da ogni
sostanza intossicante. Per i primi nove giorni del corso osservano il silenzio fra loro, mentre sono liberi di discutere i
problemi inerenti la meditazione con il maestro e i problemi materiali con la direzione.
Durante i primi tre giorni e mezzo i partecipanti praticano un esercizio di concentrazione mentale preparatorio alla tecnica
di Vipassana vera e propria, che viene fatta conoscere il quarto giorno. Gli altri elementi vengono introdotti giorno per
giorno, in modo che alla fine del corso la tecnica è stata presentata nel suo insieme secondo uno schema generale. Al
decimo giorno il silenzio finisce e i meditatori fanno ritorno a un genere di vita più aperto ai contatti con gli altri. Il corso
si conclude nella mattinata dell’undicesimo giorno.
L’esperienza di questi dieci giorni riserva probabilmente numerose sorprese ai meditatori. La prima è che la me-
ditazione è un lavoro duro! Si sperimenta subito che essa non ha niente a che vedere con il luogo comune che la
rappresenta come una sorta di inattività o di rilassamento. È infatti necessaria un’applicazione continua per
guidare consciamente i processi mentali in un determinato modo. Si viene esortati a mettercela tutta, seppure
senza tensione, ma finché non si impara come fare, l’esercizio può essere frustrante o persine estenuante.
Un’altra sorpresa è che, tanto per cominciare, le conoscenze profonde ottenute con l’auto-osservazione non sono
probabilmente tutte piacevoli e beatificanti. Di norma siamo molto selettivi nelle opinioni su noi stessi. Quando
ci guardiamo allo specchio, badiamo di assumere la posa più lusinghiera, l’espressione più gradevole. Allo stesso
modo ognuno di noi ha un’immagine mentale di sé che, mentre enfatizza le qualità migliori, minimizza i difetti
e omette del tutto alcuni lati del nostro carattere. Vediamo l’immagine che desideriamo vedere, non la realtà.
La meditazione Vipassana, però, è una tecnica per osservare la realtà da ogni angolazione. Invece che con
un’immagine di sé attentamente costruita, il meditatore si confronta con una verità completa, non censurata.
E certi aspetti di essa saranno difficili da accettare.
Talvolta,può sembrare che, attraverso la meditazione, invece di trovare la pace intcriore non si trovi altro che
turbamento. Tutto, nel corso, può apparire insostenibile, inaccettabile: l’orario pesante, la sistemazione, la
disciplina, le istruzioni e i consigli del maestro, la tecnica stessa.
Un’altra sorpresa, tuttavia, è che le difficoltà a un certo momento scompaiono. Gradualmente i meditatori impa-
rano a fare sforzi senza sforzo, a mantenere un’attenzione rilassata, un coinvolgimento distaccato. Invece di
combatterla, vengono completamente assorbiti dalla pratica. A quel punto la scomodità della sistemazione non
sembra più importante, la disciplina diventa un utile supporto, le ore passano rapidamente, inosservate. La mente
diviene calma come un lago di montagna all’alba, che rispecchia perfettamente i dintorni e nello stesso tempo
rivela le sue profondità a quelli che lo guardano più da vicino.
Quando si fa strada questa chiarezza, ogni momento è pieno di conferme, di bellezza, di pace.
Così il meditatore scopre che la tecnica funziona realmente. Ogni passo può sembrare a volte un salto enorme,
ma ci si accorge che è possibile compierlo. Alla fine dei dieci giorni si nota chiaramente quale lungo viaggio si è
compiuto dall’inizio del corso. Il meditatore si è sottoposto a un processo analogo a un’operazione chirurgica per
incidere col bisturi una ferita purulenta. Mettere a nudo la lesione e premere per rimuovere il pus è doloroso, ma
senza di questo la ferita non può guarire. Una volta che il pus è stato rimosso, ci si è liberati sia di esso che del
dolore e ci si avvia verso la guarigione. Allo stesso modo, passando attraverso i dieci giorni di corso, il
meditatore libera la mente da alcune delle sue tensioni e acquista una salute mentale migliore. Il metodo
Vipassana ha lavorato in profondità, producendo cambiamenti interni che persistono dopo la fine del corso.
Il meditatore verifica che tutta l’energia mentale acquisita durante il corso, tutto ciò che ha imparato, può essere
applicato nella vita quotidiana a proprio vantaggio e per il bene degli altri. La vita diviene più armoniosa,
fruttuosa e felice.
La tecnica Vipassana insegnata da S. N. Goenka è quella che egli ha imparato dal suo maestro birmano, ora
defunto, Sayagyi U Ba Khin, al quale era stata insegnata da Saya U Thet, un maestro di meditazione assai
conosciuto in Birmania nella prima metà del nostro secolo. A sua volta Saya U Thet era stato allievo di
Ledi Sayadaw, un famoso monaco birmano vissuto tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900. Risalendo più indietro
nel tempo, non si ricordano altri nomi di insegnanti di questa tecnica, ma coloro che la praticano ritengono che
Ledi Sayadaw abbia appreso la meditazione Vipassana da maestri tradizionali, che l’avevano mantenuta in vita
per intere generazioni, fin dall’antichità, allorquando l’insegnamento del Buddha era stato per la prima volta
introdotto in Birmania. Non c’è dubbio che la tecnica concordi con le istruzioni del Buddha sulla meditazione,
con il significato più semplice e più letterale delle sue parole.
E, cosa più importante, produce dei buoni risultati, personali, tangibili e immediati.
Questo libro non è un manuale di fai-da-te per praticare la meditazione Vipassana, e chiunque lo usi in tal modo
lo fa a proprio rischio e pericolo. La tecnica deve essere appresa esclusivamente attraverso un corso, dove c’è
l’ambiente adatto ad aiutare il meditatore e una guida adeguatamente istruita. La meditazione è una cosa seria, e
specialmente la tecnica Vipassana, che affronta gli stati mentali profondi. Non ci si dovrebbe mai avvicinare ad
essa con leggerezza o per caso.
Il nostro proposito è solo quello di offrire una visione generale del metodo Vipassana, nella speranza che questo
aiuti ad ampliare la comprensione degli insegnamenti del Buddha e della tecnica di meditazione che ne
costituisce l’essenza.
CAPITOLO PRIMO

LA RICERCA
Ognuno di noi cerca la pace e l'armonia, perché è ciò che manca alla nostra vita. Tutti vogliamo essere felici; lo consideriamo
un nostro diritto. La felicità è la meta a cui tendiamo, anche se spesso è difficile da ottenere.
Tutti noi di quando in quando sperimentiamo l'insoddisfazione: turbamenti, irritazione, disarmonia, sofferenza.
Anche se in questo momento siamo liberi da tali negatività, tutti possiamo ricordare un periodo in cui ci hanno tormentato e
anche prevedere quando torneranno.
In ogni caso, tutti noi dobbiamo affrontare la sofferenza della morte.
La nostra insoddisfazione personale, inoltre, non resta limitata a noi stessi: al contrario, tendiamo a farne partecipi gli altri.
L'atmosfera attorno a una persona infelice si carica di inquietudine, cosicché chiunque entri in contatto con lei finisce col
sentirsi agitato e infelice.
In tal modo le tensioni individuali, combinandosi fra loro, creano tensioni sociali.
E’ questo il problema fondamentale della vita: la sua natura insoddisfacente. Avvengono cose che non vogliamo, e le cose
che vogliamo non avvengono. E ignoriamo come e perché tale processo si realizzi, proprio come ignoriamo quale sia il nostro
inizio e quale la nostra fine.
Venticinque secoli fa, nell'India settentrionale, un uomo decise di indagare questo problema: il problema della sofferenza
umana. Dopo anni di ricerca e di tentativi condotti con vari metodi, scoprì una via per ottenere una
comprensione profonda della realtà della propria natura e sperimentare la vera libertà dalla sofferenza. Avendo raggiunto la
meta più alta, ossia la liberazione dall'infelicità e dai conflitti, dedicò quel che gli restava della vita ad aiutare gli altri a fare
ciò che lui stesso aveva fatto, mostrando loro la via per liberarsi.
Questa persona — Siddhattha Gotama, noto come il Buddha, «l'Illuminato» — ha sempre dichiarato di non essere altro che
un uomo. Come accade a tutti i grandi maestri, su di lui sono fiorite numerose leggende, ma'nonostante le storie meravigliose
che si raccontano sulle sue passate esistenze e sui suoi poteri magici, tutti i racconti concordano sul fatto che non si è mai
dichiarato di origine divina o ispirato da un dio. Quali che fossero le sue particolari doti, erano doti eminentemente umane,
che egli aveva portato alla perfezione. Di conseguenza, tutto ciò che egli ha realizzato è nelle possibilità di qualsiasi essere
umano che agisca come lui.
Il Buddha non ha insegnato né una religione né una filosofia né un sistema di credenze. Chiamò il suo insegnamento
Dhamma, ovvero «legge», la legge della natura. Non aveva alcun interesse nei dogmi o nelle speculazioni oziose. Al
contrario, offriva una soluzione pratica e universale per un problema universale. « Ora come sempre » diceva « parlo della
sofferenza e di come eliminarla. »' Rifiutò persino di discutere su tutto ciò che non avesse a che fare con l'eliminazione delle
miserie umane.
Tale insegnamento, insisteva, non era qualche cosa che aveva inventato o che gli era stato rivelato da una divinità. Era
semplicemente la verità, la realtà che attraverso i suoi sforzi era riuscito a scoprire, così come tanti avevano fatto prima di lui
e come tanti avrebbero fatto dopo di lui. Affermava di non avere il monopolio della verità e non rivendicava un'autorità
particolare come maestro, né perché la gente aveva fede in lui né per la natura evidentemente logica di ciò che insegnava. Al
contrario, affermava che è giusto dubitare e provare tutto ciò che va oltre la propria esperienza:

Non credete a tutto ciò che vi si dice né a tutto ciò che è stato tramandato dalle generazioni passate, e neppure a ciò che è opi-
nione corrente o che dicono i testi sacri. Non accettate qualcosa come vera semplicemente basandovi su una deduzione o su
un'illazione, sull'apparenza esteriore o sulla parzialità di una certa prospettiva o in base alla sua plausibilità o perché il vostro
maestro vi dice che è così. Ma quando voi, da soli, direttamente riconoscete: «Questi principi non sono benefici, sono
biasimevoli, condannati dai saggi, se adottati e messi in pratica producono danno e sofferenza », allora li dovete abbandonare.
E quando da soli, direttamente, riconoscete: «Questi principi sono benefici, non biasimevoli, lodati dai saggi, se adottati e
messi in pratica conducono al benessere e alla felicità », allora li dovete accettare e mettere in pratica.2

L'autorità più alta è la propria esperienza della verità. Nulla deve essere accettato solo in base alla fede.
Dobbiamo esaminare ogni cosa per vedere se è logica, pratica, benefica. Neanche l'aver esaminato un insegnamento uti-
lizzando la ragione è sufficiente per accettarlo intellettualmente come vero.
Se vogliamo trarre beneficio dalla verità, dobbiamo sperimentarla direttamente.
Solo allora potremo sapere che è realmente vera.
Il Buddha, come lui stesso ha sempre sottolineato, insegnava solo ciò che aveva sperimentato direttamente e incoraggiava gli
altri a sviluppare da soli tale conoscenza e quindi divenire essi stessi l'autorità a cui riferirsi: « Ognuno di voi sia un'isola per
se stesso, sia un rifugio per se stesso; non c'è altro rifugio. Sia la verità la vostra isola, sia la verità il vostro rifugio; non c'è
altro rifugio ».3
L'unico vero rifugio nella vita, l'unico terreno solido su cui posare, la sola autorità che può dare una guida e una protezione
sicura è la verità, il Dhamma, la legge della natura, sperimentata e verificata di persona. Quindi, nel suo insegnamento il
Buddha ha sempre dato la più grande importanza all'esperienza diretta della verità.
Spiegava nel modo più chiaro possibile quello che aveva sperimentato, così da fornire agli altri delle linee di condotta da
elaborare per giungere alla personale realizzazione della verità. Egli ha detto: « L'insegnamento che ho presentato non ha due
versioni separate, una esteriore e una segreta. Nulla è stato tenuto nascosto nel pugno chiuso del maestro».4 La sua non era
una dottrina esoterica per pochi eletti: al contrario, egli desiderava far conoscere la legge della natura in modo chiaro ed
esauriente, cosicché ne potesse beneficiare il maggior numero di persone possibile.
Non era nemmeno interessato a fondare una setta o un culto incentrato sulla sua persona. La personalità di colui che insegna,
egli affermava, è di minor importanza rispetto all'insegnamento. Il suo proposito era di mostrare agli altri come liberarsi, non
di farli diventare ciecamente devoti. A un seguace che gli dimostrava eccessiva venerazione, disse: «Che cosa ottieni a vedere
questo corpo, che è soggetto al disfacimento? Chi vede Dharnma, vede me, chi vede me, vede Dhamma ».5
La devozione nei confronti di un'altra persona, per quanto santa essa sia, non è sufficiente a liberare qualcuno; non ci può
essere liberazione o salvezza senza l'esperienza diretta della realtà. Pertanto la supremazia è della verità e non di chi ne parla.
Si deve rispettare chiunque insegni la verità, ma la via migliore per mostrare tale rispetto è lavorare per realizzare la verità.
Quando verso la fine della vita gli furono tributati onori eccessivi, il Buddha commentò: « Non è così che si onora un
Illuminato, non è così che gli si mostra rispetto, non è così che deve essere stimato, o riverito, o venerato. Piuttosto sono il
monaco e la monaca, il seguace e la seguace laici che procedono con costanza lungo il sentiero di Dhamma, dal primo passo
fino alla meta ultima, è chi pratica il Dhamma operando nel giusto modo, che onorano, stimano, rispettano, riveriscono e
venerano al massimo grado l'Illuminato».6
Ciò che il Buddha ha insegnato era una via che ogni essere umano può seguire. Chiamò questa via il Nobile Ottuplice
Sentiero, ossia una pratica divisa in otto parti fra loro collegate. È nobile nel senso che chi segue il sentiero è destinato a
diventare un uomo dal cuore nobile, una persona santa, liberata dalle sofferenze.
È un sentiero che porta a una comprensione profonda della natura, della realtà, un sentiero di realizzazione della verità. Per
risolvere i nostri problemi, dobbiamo vedere come è realmente la nostra situazione. Dobbiamo imparare a riconoscere la
realtà apparente, superficiale e anche a penetrare al di là delle apparenze per percepire le verità più sottili sino alla verità
ultima, e quindi sperimentare la libertà dalla sofferenza. Qualsiasi nome scegliamo di dare a questa verità di liberazione, sia
esso nibbàna, «paradiso », o qualsiasi altro, non ha importanza. La cosa importante è farne esperienza.
Il solo modo per sperimentare direttamente la verità è di guardare dentro noi stessi, di osservarci. Per tutta la vita siamo stati
abituati a guardare fuori. Siamo sempre interessati a ciò che accade fuori, a ciò che fanno gli altri. Raramente, se non mai,
abbiamo cercato di esaminare noi stessi, la nostra struttura mentale e fisica, le nostre azioni, la nostra realtà. Perciò siamo
degli sconosciuti ai nostri stessi occhi. Non comprendiamo quanto sia dannosa questa ignoranza, quanto rimaniamo schiavi
delle nostre forze interiori di cui non siamo consapevoli.
Questa oscurità interiore deve essere scacciata dalla conoscenza della verità. Dobbiamo conseguire la comprensione profonda
della nostra stessa natura per comprendere la natura dell'esistenza. Pertanto, il sentiero che il Buddha ha mostrato è il sentiero
dell'introspezione, dell'auto-osservazione. Egli ha detto: «"Proprio all'interno di questo corpo, che contiene la mente con le
sue percezioni, ho potuto conoscere l'universo, la sua origine, la sua cessazione».7 L'intero universo e le leggi della natura per
mezzo delle quali esso opera devono essere sperimentati all'interno di noi stessi. Possono essere sperimentati solo all'interno
di noi stessi.
Il sentiero è anche un sentiero di purificazione. Ricerchiamo la verità su noi stessi non per un'oziosa curiosità intellettuale
quanto piuttosto con uno scopo ben preciso. Osservandoci, diventiamo consapevoli per la prima volta delle nostre reazioni
condizionate, dei pregiudizi che oscurano la nostra visione mentale, che ci nascondono la realtà e producono sofferenza.
Identifichiamo le tensioni accumulate interiormente che ci turbano e ci rendono infelici e comprendiamo che possono essere
rimosse. Impariamo gradualmente come permettere loro di dissolversi; e le nostre menti diventano pure, calme e felici.
Il sentiero è un processo che richiede un'applicazione continua. Possono sopraggiungere improvvise intuizioni, ma sono il
risultato di uno sforzo continuo. È necessario lavorare passo per passo; del resto, ad ogni passo i benefici sono immediati.
Non seguiamo il sentiero nella speranza di accumulare benefici da godere solo nel futuro, o di ottenere, dopo la morte, un
paradiso che ora possiamo solo immaginare. I benefici devono essere concreti, vividi, personali, sperimentati qui-e-ora.
E, soprattutto, è un insegnamento da praticare. Avere semplicemente fede nel Buddha o nel suo insegnamento non ci aiuterà a
liberarci dalla sofferenza; né lo farà una comprensione meramente intellettuale del sentiero. Questo ha valore solo se ci ispira
a mettere in pratica l'insegnamento. Solo la pratica concreta di ciò che il Buddha ha insegnato darà risultati concreti e
cambierà in meglio la nostra vita. Il Buddha ha detto:

Una persona può recitare alla perfezione molti testi, ma se non li mette in pratica è sventata come il bovaro che conta solo le
mucche degli altri: non gode delle ricompense proprie della vita di un ricercatore di verità.
Un'altra persona può essere capace di recitare solo poche parole dei testi, ma se conduce una vita di Dhamma, procedendo
passo dopo passo verso la meta finale, allora può godere delle ricompense della vita di un ricercatore di verità.8

Il sentiero deve essere seguito, l'insegnamento deve essere messo in pratica, altrimenti l'esercizio è privo di senso. Non è
necessario definirsi un buddista per praticare questo insegnamento. Le etichette sono irrilevanti. La sofferenza non fa
distinzioni, ma è comune a tutti: quindi il rimedio, per essere utile, deve essere ugualmente applicabile a tutti.
Né la pratica è riservata agli eremiti che si sono allontanati dalla vita ordinaria. Sebbene sia necessario dedicare un
determinato periodo all'apprendimento, una volta che questo sia concluso, si deve applicare l'insegnamento alla vita
quotidiana. Chi lascia la propria casa e le responsabilità del mondo per seguire il sentiero ha la possibilità di lavorare più
intensamente, di assimilare l'insegnamento più profondamente e quindi di progredire più rapidamente. D'altra parte, chi è
coinvolto nella vita mondana, impegnato a far fronte a molte e diverse responsabilità, può dedicare solo un tempo limitato
alla pratica. Ma Dhamma deve essere applicato sia da coloro che hanno lasciato le loro case, sia dai capifamiglia.
Solo se viene applicato, Dhamma da dei risultati. Se questa è veramente la via che conduce dalla sofferenza alla pace, allora,
man mano che progrediamo nella pratica la nostra vita quotidiana deve diventare più felice, più armoniosa, apportatrice di
pace interiore. Nello stesso tempo i nostri rapporti con gli altri devono diventare più pacifici e armoniosi. Invece di aumentare
le tensioni della società, dobbiamo essere capaci di fornire un contributo positivo che accrescerà la felicità e il benessere di
tutti. Per seguire il sentiero dobbiamo vivere la vita di Dramma, della verità ,della purezza. Questo è il modo giusto di seguire
l’insegnamento. Dramma, correttamente praticato , è l’arte di vivere.

Domande e risposte

DOMANDA: Voi fate riferimento al Buddha. Insegnate quindi il buddismo?

SATYA NARAYAN GOENKA: Non mi occupo di « ismi ».Insegno Dhamma, e cioè quello che ha insegnato il Buddha.
Egli non ha mai insegnato un « ismo » o una dottrina settaria. Ha insegnato qualcosa da cui chiunque, quale che sia la sua
provenienza, può trarre beneficio: un'arte di vivere. Rimanere nell'ignoranza è dannoso per tutti: sviluppare la saggezza è un
bene per tutti. Così, chiunque può praticare questa tecnica e trame beneficio. Un cristiano diventerà un buon cristiano, un
ebreo diventerà un buon ebreo, un musulmano un buon musulmano, un indù un buon indù, un buddista un buon buddista.
Ognuno deve diventare un buon essere umano, altrimenti non potrà mai essere un buon cristiano, un buon ebreo, un buon
musulmano, un buon indù, un buon buddista. Come diventare buoni esseri umani: è questa la cosa più importante.

Voi parlate del condizionamento. Questo tipo di esercizio non è anch'esso una forma di condizionamento della mente, anche
se positivo?

Al contrario, è un processo di decondizionamento. Invece di imporre qualcosa alla mente, automaticamente rimuove le
qualità non benefiche, cosicché rimangono solo quelle positive e benefiche. Eliminando la negatività, esso scopre la
positività, che è la natura fondamentale di una niente pura.

Ma il fatto che per un determinato periodo di tempo si debba sedere in una certa posizione e dirigere l'attenzione in un certo
modo, non è una forma di condizionamento?

Se fate questo come un gioco o come un rito meccanico, allora indubbiamente condizionate la mente. Ma sarebbe un uso
sbagliato di Vipassana, mentre quando la tecnica viene praticata in modo corretto vi rende capaci di sperimentare
direttamente la verità, da soli. E da questa esperienza si sviluppa naturalmente la comprensione, che distrugge tutti i
condizionamenti precedenti.

Non è egoistico dimenticare il mondo e limitarsi a starsene seduti a meditare tutto il giorno?

Lo sarebbe se fosse fine a se stesso, ma è un mezzo per raggiungere un fine che non è affatto egoistico: una mente sana.
Quando il vostro corpo è malato, andate in ospedale per recuperare la salute. Non rimanete là per tutta la vita, ma
semplicemente per recuperare la salute, di cui poi farete uso nella vita ordinaria. Allo stesso modo, frequentate un corso di
meditazione per ottenere la salute mentale che utilizzerete nella vita di tutti i giorni per il bene vostro e degli altri.

Rimanere felici e in pace anche quando ci si confronta con la sofferenza altrui non è forse pura insensibilità?

Essere sensibili alle sofferenze degli altri non significa che si debba diventare tristi. Al contrario, dovete rimanere calmi ed
equilibrati così da poter alleviare le sofferenze altrui. Se anche voi diventate tristi, accrescete l'infelicità attorno a voi; non
aiutate gli altri e non aiutate voi stessi.
Perché è necessario un corso di dieci giorni per apprendere questa tecnica?

È certo che se poteste fermarvi per un periodo più lungo sarebbe ancor meglio! Ma dieci giorni sono il tempo minimo che
consente di comprendere lo schema della tecnica.

Perché dobbiamo rimanere per dieci giorni nel luogo in cui si tiene il corso?

Perché siete qui per compiere un'operazione alla mente. Così come le operazioni chirurgiche devono essere fatte in ospedale,
in sale operatorie protette da fonti di infezioni, così qui, dentro i confini del luogo dove si tiene il corso, l'operazione sulla
vostra mente può essere compiuta senza essere disturbati da influenze esterne. Quando il corso finisce, anche l'operazione è
finita e voi siete pronti a rientrare in contatto con il mondo.

Questa tecnica guarisce malattie fisiche?

Sì, come risultato secondario. Molti disturbi psicosomatici spariscono spontaneamente allorché le tensioni mentali si
dissolvono. Se la mente è turbata, le malattie sono portate a svilupparsi. Quando la mente diviene calma e pura, scompaiono
automaticamente. Ma se vi prefiggete come scopo la cura di un malessere fisico invece della purificazione della niente, non
raggiungerete né l'uno né l'altro risultato. Ho appurato che chi segue il corso con lo scopo di curare una malattia fisica fissa
l'attenzione solo su questo per tutto il periodo del corso: "Oggi va meglio? No, non va meglio... Oggi sto migliorando? No,
niente miglioramento". E tutti i dieci giorni se ne vanno in questo modo. Ma se l'intenzione è semplicemente quella di
purificare la mente, allora molti malanni scompariranno automaticamente, come risultato della meditazione.

Qual è secondo voi lo scopo della vita?

Uscire dall'infelicità. Gli esseri umani hanno la meravigliosa capacità di scavare a fondo dentro di sé, di osservare la realtà e
uscire dalla sofferenza. Non usare questa capacità significa sprecare la propria vita. Utilizzatela per vivere una vita sana e
felice.

Voi parlate di « essere sopraffatti » dalla negatività. Cosa pensate del caso contrario, cioè di « essere sopraffatti» dalla
positività, per esempio dall'amore?

Quella che voi definite « positività » è la natura reale della mente. Quando la mente è libera dal condizionamento, è sempre
piena d'amore — amore puro — e ci si sente in pace e felici. Se si rimuove la negatività, allora rimane la positività, rimane la
purezza. Che tutto il mondo possa essere sommerso da questa positività!
CAPITOLO SECONDO

IL PUNTO DI PARTENZA
La fonte della sofferenza è dentro ciascuno di noi. Quando avremo imparato a conoscere profondamente la nostra propria
realtà, allora avremo trovato la soluzione al problema della sofferenza. «Conosci te stesso»: tutti i saggi
lo hanno consigliato. Dobbiamo iniziare a conoscere la nostra propria natura, altrimenti non potremo
mai risolvere i nostri problemi o i problemi del mondo.
Ma in realtà che cosa sappiamo di noi? Ognuno di noi è convinto di essere importante, unico, ma la conoscenza che abbiamo
di noi stessi è solo superficiale. A livelli più profondi, non ci conosciamo affatto.
Il Buddha ha esaminato il fenomeno dell'essere umano indagando la sua propria natura. Lasciando da parte ogni pregiudizio,
ha esplorato la realtà interiore e compreso che ogni essere è un insieme di cinque aggregati, quattro mentali e uno fisico.
La materia
Cominciamo con l'aspetto fisico. È il più ovvio, la nostra parte più visibile, subito percepita dai sensi, ma quanto poco la
conosciamo in realtà! Possiamo controllare il corpo superficialmente: si muove e agisce secondo la volontà cosciente.
Ma a un altro livello, tutti gli organi interni funzionano fuori dal nostro controllo, senza che noi sappiamo come. A un livello
più sottile, non abbiamo la percezione delle incessanti reazioni biochimiche che avvengono dentro
ogni cellula del corpo. Ma questa non è ancora la realtà ultima del fenomeno materia.
In definitiva il corpo, che sembra solido, è composto di particelle subatomiche e di spazi vuoti.
Persino queste particelle subatomiche non hanno una solidità reale; il tempo di esistenza di una di esse è molto meno di un
trilionesimo di secondo. Le particelle nascono e svaniscono continuamente, passando dentro e fuori dallo stato di esistenza,
come un flusso di vibrazioni.
Questa è la realtà ultima del corpo, di tutta la materia, scoperta dal Buddha 2500 anni fa.
Con le loro ricerche, gli scienziati moderni hanno riconosciuto e accettato questa realtà ultima dell'universo materiale, senza
tuttavia divenire delle persone liberate, illuminate. Con la loro curiosità essi hanno indagato la natura dell'universo
utilizzando l'intelletto e affidandosi agli strumenti per verificare le loro teorie.
Il Buddha, al contrario, era motivato non soltanto dalla curiosità quanto piuttosto dal desiderio di trovare una via d'uscita dalla
sofferenza.
Nella sua ricerca non usò altri strumenti tranne la propria mente.
La verità che scoprì non fu il risultato di una razionalizzazione, bensì della sua esperienza diretta.
Ecco perché riuscì a liberarsi. Scoprì che l'intero universo materiale era composto da particelle, chiamate in pàli kalàpa, «
unità indivisibili». Nelle loro infinite varianti queste unità possiedono le qualità fondamentali della materia: massa, coesione,
temperatura e movimento. Si combinano per formare strutture che sembrano avere una qualche permanenza, ma che di fatto
sono tutte composte di minuscole kalàpa, che sono in uno stato di continuo sorgere e sparire. Questa è la realtà ultima della
materia: un costante flusso di onde o particelle.
Questo è il corpo che ciascuno di noi chiama « me stesso ».
La mente
Insieme con i processi fisici, c'è il processo psichico, la mente.
Sebbene non possa essere toccata o veduta, sembra ancor più intimamente connessa a noi stessi che non i nostri corpi:
possiamo immaginarci un'esistenza futura senza il corpo, ma non possiamo immaginare tale esistenza senza la mente. E di
essa, tuttavia, conosciamo ben poco, e ben poco siamo in grado di controllarla.
Quanto spesso essa rifiuta di fare ciò che vogliamo, e fa ciò che non vogliamo! Il nostro controllo sulla mente cosciente è già
abbastanza debole, ma l'inconscio sembra addirittura fuori del nostro potere e della nostra comprensione, pieno di forze che
forse non approveremmo o di cui non siamo consapevoli.
Così come esaminò il corpo, il Buddha esaminò anche la mente e scoprì che, essenzialmente, nella sua totalità, essa consiste
di quattro processi: coscienza (vinnàna), percezione (sanno), sensazione (vedano) e reazione (san-khàra). II primo processo,
la coscienza, è la parte recettiva della mente, l'atto di consapevolezza indifferenziata
o cognizione. Registra semplicemente gli eventi fenomenici, la recezione di ogni input fisico e mentale.
Annota i dati grezzi dell'esperienza senza assegnare etichette o dare giudizi di valore.
II secondo processo mentale è la percezione, l'atto di riconoscere.
Questa parte della mente identifica qualsiasi cosa sia stata annotata dalla coscienza.
Distingue, etichetta e divide in categorie i dati grezzi e li valuta, in modo positivo o negativo.
La fase successiva della mente consiste nella sensazione.
Di fatto, appena un input viene ricevuto, sorge la sensazione, il segnale che qualcosa è avvenuto.
Fino a quando l'input non è stato valutato, la sensazione rimane neutrale.
Ma una volta che si sia attribuito un valore, la sensazione diviene piacevole o spiacevole, a seconda della valutazione data.
Se la sensazione è piacevole, si avverte il desiderio di prolungare e intensificare l'esperienza.
Se, al contrario, è spiacevole, quello di mettervi fine, di scacciarla.
La mente reagisce con sensazioni di piacere o di avversione.1 Per esempio, quando l'orecchio funziona normalmente e si ode
un suono, la cognizione è al lavoro.
Quando il suono viene riconosciuto come «parole», con connotazioni positive o negative, la percezione comincia a
funzionare.
Poi segue la sensazione. Se le parole sono di approvazione, nasce una sensazione piacevole. Se sono insulti, nasce una
sensazione spiacevole.
Tutto questo è subito seguito da una reazione. Se la sensazione è piacevole, si inizia a provarne piacere e si desidera una
quantità maggiore di parole di approvazione. Se la sensazione è spiacevole, si inizia a provarne dispiacere, e si vuole che le
ingiurie finiscano.
Lo stesso processo avviene ogni volta che gli altri sensi ricevono un input: coscienza, percezione, sensazione, reazione.
Queste quattro funzioni mentali sono anche più fluttuanti delle effimere particelle che compongono la realtà materiale.
Ogniqualvolta i sensi vengono in contatto con un oggetto, i quattro processi mentali sopravvengono con la rapidità del
fulmine e si ripetono ad ogni contatto; del resto si verificano così rapidamente che non si è consapevoli di cosa stia
avvenendo. È solo quando una particolare reazione si ripete per un lungo periodo e ha preso una forma definita e intensa
che se ne è consapevoli a livello conscio.
L'aspetto più singolare di questa descrizione dell'essere umano non consiste in ciò che include, ma in ciò che omette.
Occidentali od orientali, cristiani o ebrei, musulmani o indù, buddisti o atei o altro ancora, tutti noi abbiamo la certezza
congenita che, da qualche parte dentro di noi, esiste un Io, un'identità permanente.
Senza rifletterci, operiamo presupponendo che la persona che è esistita dieci anni fa sia essenzialmente la stessa di oggi e
la stessa che esisterà tra dieci anni: forse anche la stessa che esisterà in una vita futura dopo la morte.
Quale che sia la filosofia, la teoria o il credo che noi consideriamo veri, di fatto ognuno vive con una convinzione ben
radicata: « Io ero, io sono, io sarò ».
Il Buddha ha sfidato questa istintiva affermazione di identità. E nel farlo non ha esposto un'altra visione speculativa per
combattere le teorie altrui, bensì ha ribadito più e più volte che non stava proponendo un'opinione, ma semplicemente
descrivendo la verità che aveva sperimentato e che ogni persona comune può sperimentare. « L'Illuminato ha messo
da parte tutte le teorie » diceva « perché ha visto la realtà della materia, della sensazione, della percezione, della reazione e
della coscienza, il loro sorgere e svanire ».2 Nonostante le apparenze, aveva scoperto che ogni essere umano in realtà è una
serie di eventi separati ma collegati fra loro. Ogni evento è il risultato del precedente e lo segue senza soluzione di continuità.
La progressione ininterrotta di eventi intimamente connessi da l'apparenza della continuità, dell'identità, ma si tratta solo di
una realtà apparente e non della verità ultima.
Possiamo dare un nome a un fiume, ma in realtà è un flusso d'acqua che non smette mai di scorrere. Possiamo pensare alla
luce di una candela come a qualcosa di costante, ma, se la osserviamo da vicino, vediamo che in realtà la fiamma nasce da
uno stoppino che brucia per un istante ed è subito rimpiazzata da una nuova fiamma, istante dopo istante. Parliamo della luce
di una lampadina elettrica senza fermarci mai a pensare che in realtà, come i1 fiume, essa è un flusso costante: in questo caso
un flusso di energia prodotta da oscillazioni ad altissima frequenza, che avvengono dentro il filamento. In ogni momento,
qualcosa di nuovo nasce come prodotto del passato, per essere rimpiazzato da qualcos'altro nel momento seguente.
La successione degli eventi è così rapida e continua che è difficile da discernere. In un determinato punto del processo non è
possibile affermare che ciò che sta avvenendo è uguale a ciò che è avvenuto in precedenza, né si può dire che non lo sia.
Ciò nondimeno, il processo avviene.
Allo stesso modo, il Buddha comprese che una persona non è un'entità finita e immutabile, ma un processo che fluisce
momento per momento. Non c'è un «essere » reale, ma soltanto un flusso che va, un processo continuo di divenire.
Naturalmente nella nostra vita quotidiana dobbiamo trattare gli altri come persone provviste di una natura più o meno
definita, non mutevole; dobbiamo accettare le apparenze esterne, la realtà apparente, altrimenti non riusciremo a funzionare.
La realtà esteriore è una realtà, ma solo quella superficiale. A livelli più profondi, la realtà è che l'intero universo, animato e
inanimato, è in costante stato di divenire: di nascere e svanire. Ognuno di noi, di fatto, è un flusso di particelle subatomiche in
costante mutamento, e insieme ad esso mutano, ancor più rapidamente dei processi fisici, i processi di coscienza, di perce-
zione, di sensazione e di reazione.
Questa è la realtà ultima del sé con cui ognuno di noi deve fare i conti. È questo il corso degli eventi in cui siamo implicati.
Se saremo in grado di comprenderlo con esattezza, attraverso l'esperienza diretta, troveremo la strada che ci condurrà fuori
dalla sofferenza.
Domande e risposte
DOMANDA: Quando parlate di «mente», non sono sicuro di cosa volete intendere. Mi è impossibile localizzare la mente.

SATYA NARAYAN GOENKA: E ovunque, in ogni atomo. Ovunque sentite qualcosa, là c'è la mente. La mente sente.

Dicendo mente allora non volete indicare il cervello?


Oh no, no. Qui in Occidente si pensa che la mente sia solo nella testa. È un concetto sbagliato.

La mente è in tutto il corpo?

Sì, tutto il corpo contiene la mente, tutto il corpo!

Lei parla dell'esperienza dell'Io solo in termini negativi. Non ha un lato positivo? Non c'è un'esperienza dell'Io che riempie la
per sona di gioia, di pace, di estasi?

Con la meditazione si scopre che tali piaceri sensoriali vanno e vengono. Se questo Io realmente ne gioisse, se fossero « miei»
piaceri, allora l'Io dovrebbe avere qualche potere su di essi. Ma essi nascono e svaniscono al di fuori del mio controllo.
In questo caso, che cos'è l'Io?

Non sto parlando di piaceri sensoriali, ma di quelli a un livello molto profondo.

A quel livello l'Io non ha alcuna importanza. Quando si raggiunge quel livello, l'ego si dissolve. C'è solo gioia. La questione
dell’io allora non si pone neppure.

D'accordo, invece di Io diciamo allora l'esperienza della persona.

È la sensazione stessa che sente; nessuno la sente. Le cose stanno solo avvenendo, ecco tutto. Ora, a voi sembra che ci debba
essere un Io che sente, ma con la pratica finirete col raggiungere il livello in cui l'ego si dissolve. E a quel punto questa
domanda non avrà più ragione di essere.

1o sono venuto qui perché sentivo che il mio Io aveva bisogno di venire qui.

Sì. È vero. Per gli scopi convenzionali, non possiamo sfuggire dall'Io o dal «mio». Ma attaccarci ad essi, considerarli reali nel
senso ultimo ci porterà solo sofferenza.

Mi domando se ci sono delle persone che provocano la nostra sofferenza.

Nessuno vi causa sofferenza. La sofferenza nasce dentro di voi, allorché generate tensioni nella mente. Sapendo come evitarlo
diventa facile rimanere in pace e felici in ogni situazione.

E quando qualcuno ci fa del male?

Non dovete permettere che qualcuno vi faccia del male. Ogni volta che qualcuno fa qualcosa di sbagliato, fa male agli altri e
nello stesso tempo a se stesso. Se gli permettete di fare del male, lo incoraggiate a farlo. Dovete usare tutta la vostra forza per
fermarlo, ma solo con benevolenza, con compassione e simpatia per quella persona. Se agite con odio o ira, allora aggravate
la situazione. Ma voi non potete avere benevolenza per tale persona a meno che la vostra mente non sia calma e in pace. Una
volta che avrete appreso con la pratica a sviluppare la pace dentro di voi, il problema potrà essere risolto.

A quale scopo cercare pace dentro di noi quando non c'è pace nel mondo?

11 mondo sarà in pace solo quando la gente sarà in pace e felice. Il cambiamento deve partire a livello individuale. Se la
foresta si inaridisse e voi voleste ridarle vita, dovreste innaffiare ogni albero. Se volete un mondo di pace, dovete imparare a
essere in pace con voi stessi. Solo allora potrete portare la pace nel mondo.

Posso capire come la meditazione sia in grado di aiutare persone infelici, disadattate, ma per chi si sente soddisfatto della
sua vita, che è già felice?

Chi è soddisfatto dai piaceri superficiali della vita ignora i turbamenti profondi della mente. Si illude di essere una persona
felice, ma i suoi piaceri non sono duraturi e le tensioni generate nell'inconscio si accresceranno, per apparire prima o poi al
livello mentale conscio. Quando accade ciò, questa cosiddetta persona felice diventa triste. E allora, perché non iniziare a
lavorare qui-e-ora per allontanarsi da una simile situazione?

Voi insegnate Mahàyàna o Hinayàna?


Nessuno dei due. La parola yana di fatto significa « veicolo che vi porterà alla meta finale », ma oggi gli si da erroneamente
una connotazione settaria. Il Buddha non ha mai insegnato qualcosa di settario. Ha insegnato il Dhamma, che è universale.
È questa universalità che mi ha attratto verso l'insegnamento del Buddha, ed è da esso che ho tratto giovamento. Quindi è
questo Dhamma universale che offro a tutti con tutto il mio amore e la mia compassione. Per me, il Dhamma non è né
Mahàyàna né Hinayàna, né alcuna setta.
CAPITOLO TERZO

LA CAUSA IMMEDIATA

Il mondo reale non regge il paragone con quello delle fiabe, in cui ognuno vive felice per sempre. Non possiamo
nasconderci la verità, e cioè che la vita è imperfetta, incompleta, insoddisfacente: la verità dell'esistenza della sofferenza.
Assodata questa realtà, ciò che è importante sapere è se la sofferenza abbia una causa e, in caso affermativo, se sia
possibile rimuovere tale causa in modo che anche la sofferenza possa essere rimossa.
Se gli avvenimenti che provocano la nostra sofferenza sono semplicemente delle circostanze casuali su cui non abbiamo
alcun controllo o influenza, allora siamo impotenti e possiamo lasciar perdere il tentativo di cercare una via d'uscita.
Se invece le nostre sofferenze sono dettate da un essere onnipotente che agisce in modo arbitrario e imperscrutabile,
all’ora dobbiamo scoprire come propiziarci tale essere in modo che sia benevolo.
Il Buddha ha compreso che la nostra sofferenza non è solo un prodotto del caso. Ci sono delle cause dietro ad essa,
esattamente come ci sono cause per tutti i fenomeni: la legge di causa ed effetto — kamma — è universale e fondamentale
per l'esistenza; e non esistono cause al di là del nostro controllo.

Kamma
Alla parola kamma (o, nella più conosciuta forma sanscrita, karmà) viene generalmente attribuito il significato di «fato».
Purtroppo le connotazioni di questa parola sono proprio il contrario di ciò che il Buddha intendeva con kamma.
Il fato è qualcosa che sta fuori del nostro controllo, è il decreto della provvidenza, ciò che è stato pre-ordi-nato per ognuno
di noi. Tuttavia, kamma letteralmente significa « azione ». Proprio le nostre azioni sono la causa di tutto ciò che
sperimentiamo:
« Tutti gli esseri compiono i loro atti, sono eredi dei loro atti, hanno origine dai loro atti, sono legati ai loro atti; i loro atti
sono il loro rifugio. Così come i loro atti sono vili o nobili, altrettanto lo saranno le loro esistenze».
Tutto ciò in cui ci imbattiamo nella nostra vita è il risultato delle nostre azioni. Di conseguenza, tutti possiamo diventare
padroni del nostro destino diventando padroni delle nostre azioni. Ognuno di noi è responsabile delle azioni che danno
origine alla propria sofferenza. Ognuno di noi ha i mezzi per porre fine alla sofferenza provocata dalle proprie azioni.
Il Buddha ha detto:

Ciascuno è maestro di se stesso; Ciascuno costruisce il proprio futuro.

Così, ognuno di noi è come un uomo che non ha mai imparato a guidare e siede con gli occhi bendati al volante di un'auto
in corsa su una strada piena di traffico. Non è possibile che egli raggiunga la destinazione senza incidenti. Anche se può
pensare di essere lui a guidare la macchina, in realtà è la macchina a guidare lui. Se vuole evitare un incidente e fare in
modo di arrivare a destinazione, deve togliersi la benda dagli occhi, imparare a guidare il veicolo e condurlo fuori
pericolo il più rapidamente possibile. Analogamente, noi dobbiamo diventare consapevoli di ciò che facciamo, e quindi
imparare a compiere quelle determinate azioni in grado di condurci dove vogliamo realmente andare.

Le tre categorie di azioni


Ci sono tre categorie di azioni: fisica, verbale e mentale. Normalmente diamo maggiore importanza alle azioni fisiche,
meno alle azioni verbali e meno ancora alle azioni mentali.
Colpire una persona ci sembra un'azione più grave che insultarla, ed entrambe appaiono più pesanti di una malevolenza
inespressa nei suoi confronti. Di fatto, sarebbe questo il giudizio conforme alle leggi emanate dagli uomini in ogni paese.
Ma secondo Dhamma, la legge della natura, l'azione mentale è la più importante.
Un'azione fisica o verbale assume un significato completamente diverso a seconda delle intenzioni con cui la si compie.
Un chirurgo usa il bisturi per operare d'urgenza un uomo in pericolo di vita, ma l'intervento non ha successo e il paziente
muore; un assassino usa il pugnale per colpire a morte la sua vittima: fisicamente le due azioni sono simili, con gli stessi
effetti, ma mentalmente sono agli antipodi. Il chirurgo agisce per compassione, l'assassino per odio. I risultati ottenuti
sono radicalmente diversi, perché diversa è l'azione mentale.
Allo stesso modo, nel caso della parola, la cosa più importante è l'intenzione.
Un uomo discute con un collega e lo ingiuria, definendolo pazzo. Esprime ira.
Lo stesso uomo vede suo figlio che gioca nel fango e teneramente lo chiama pazzo. Esprime amore.
In entrambi i casi sono state pronunciate le stesse parole, ma per esprimere due opposti stati mentali.
È l'intenzione delle nostre parole che determina il risultato. Parole e azioni, e i loro effetti esterni, sono mere conseguenze
dell'azione mentale. Essi si giudicano in relazione alla natura dell'intenzione che esprimono.

L'azione mentale è il vero kamma, la causa che darà i risultati nel futuro.
Comprendendo questa verità il Buddha ha annunciato:

La mente precede tutti i fenomeni, la mente è la cosa più importante, ogni cosa è fatta dalla mente.
Se con una mente impura parlate o agite, allora la sofferenza vi seguirà, come la ruota di un carro segue l'animale da
tiro.
Se con una mente pura parlate e agite, allora la felicità vi seguirà come un'ombra che non svanisce mai.

La causa della sofferenza


Ma quale azione mentale determina il nostro destino? Se la mente non consiste di nient'altro che di conoscenza,
percezione, sensazione e reazione, quale di queste da origine alla sofferenza? Ognuna di esse è coinvolta in qualche
misura nel processo della sofferenza. Le prime tre, tuttavia, sono principalmente passive. La coscienza recepisce soltanto i
primi dati dell'esperienza, la percezione li inserisce in una categoria, la sensazione segnala ciò che è accaduto nei passaggi
precedenti.
Il lavoro di queste tre azioni mentali è quello di assimilare di mano in mano le informazioni subentranti. Ma quando la
mente inizia a reagire, la passività lascia il passo all'attrazione o alla repulsione, al piacere o al dispiacere. Questa reazione
mette in moto una nuova catena di eventi, all'inizio della quale c'è la reazione, sankhàra. Ecco perché il Buddha ha detto:

Qualsiasi sofferenza sorga ha una reazione quale causa.


Se tutte le reazioni cessassero, allora non ci sarebbe più sofferenza.

Il vero kamma, la vera causa della sofferenza, è la reazione della mente. Ogni fugace reazione di piacere o dispiacere può
non essere molto forte e può non dare molti risultati, ma può avere un effetto cumulativo. La reazione è ripetuta momento
per momento, intensificandosi a ogni ripetizione e sviluppandosi verso la bramosia o l'avversione: è ciò che nel suo primo
sermone il Buddha ha definito tanhà, letteralmente «sete»: cioè l'abitudine mentale all'insaziabile bramosia di ciò che non
c'è, la quale implica una uguale e irrimediabile insoddisfazione per ciò che c'è. E man mano che bramosia e
insoddisfazione aumentano di intensità, più profonda sarà la loro influenza sui nostri pensieri, sui nostri discorsi e sulle
nostre azioni: e maggiore la sofferenza che provocheranno.
Alcune reazioni, ha detto il Buddha, sono come linee tracciate su uno specchio d'acqua: appena disegnate, si cancellano.
Altre sono come linee tracciate sulla sabbia: se sono state disegnate al mattino, spariranno durante la notte, eliminate dalla
marea o dal vento. Altre sono come linee incise profondamente nella roccia con scalpello e martello.
Anch'esse scompariranno a causa dell'erosione, ma ci vorrà molto molto tempo.
Ogni giorno, per tutta la vita, la nostra mente continua a generare reazioni: eppure se alla fine di ciascun giorno cerchiamo
di ricordarle, non saremo in grado di richiamarne alla memoria che una o due, ossia quelle che quel giorno ci hanno
maggiormente impressionato. Così, se cerchiamo di ricordare tutte le reazioni che abbiamo avuto nel corso di un mese,
saremo capaci di rammentarne solo una o due che in quel mese ci hanno impressionato più profondamente. E allo scadere
di un anno saremo capaci di ricordare solo una o due reazioni che in quell'anno hanno lasciato l'impressione più profonda.
Le reazioni profonde di questo tipo sono assai pericolose e conducono a un'immensa sofferenza.
Il primo passo per emergere da tale sofferenza è quello di accettarne la realtà, non come un concetto filosofico o un
articolo di fede, ma come un dato della nostra stessa esistenza. Se accetteremo questo e comprenderemo che cos'è la
sofferenza e perché soffriamo, cesseremo di essere guidati e saremo noi a cominciare a guidare.
Imparando a comprendere la nostra natura, potremo incamminarci sul sentiero che conduce alla fine della sofferenza.

Domande e risposte
DOMANDA: La sofferenza non è forse una parte naturale della vita? Perché dobbiamo cercare di sfuggirle?

SATYA NARAYAN GOENKA: Siamo ormai così immischiati con la sofferenza che esserne esenti ci sembra innaturale.
Ma quando sperimenterete la reale felicità della purezza mentale, allora vi renderete conto che questo è uno stato naturale
della mente.

L'esperienza della sofferenza può nobilitare una persona e aiutarla a fortificare il carattere?

Sì. Questa tecnica infatti utilizza deliberatamente la sofferenza come uno strumento per rendere nobile una persona.
Ma ciò accadrà solo se questa persona imparerà a osservare oggettivamente la sofferenza.
Se rimane attaccata alla sua sofferenza, l'esperienza non la nobiliterà ed essa rimarrà sempre infelice.

Controllare le proprie azioni non è una sorta di repressione?

No. Si impara solo a osservare oggettivamente ciò che avviene. Se qualcuno è adirato e cerca di nascondere la sua
collera, di sopportarla, allora, sì, c'è repressione. Ma osservando la collera, scoprirete che automaticamente essa svanisce.
Vi liberate dalla collera quando imparate a osservarla oggettivamente.

Se continuiamo a osservare noi stessi, come possiamo vivere in modo naturale? Saremmo così impegnati a guardarci che
non potremmo agire liberamente o spontaneamente.
Non è questo ciò che le persone verificano dopo aver completato un corso di meditazione. Qui imparate un training
mentale che vi metterà in grado di osservarvi nella vita quotidiana ogni volta che ne avrete bisogno. Non è che si debba
continuare a esercitarsi a occhi chiusi tutto il giorno per tutta la vita, ma così come la forza che si acquista attraverso
l'esercizio fisico vi aiuta nella vita quotidiana, analogamente questo esercizio mentale vi fortificherà.
Quella che viene chiamata « azione libera e spontanea » è in realtà una reazione cieca, sempre pericolosa. Imparando ad
osservarvi, scoprirete che è possibile mantenere l'equilibrio della mente tutte le volte che vi trovate in una situazione
difficile. È questo equilibrio che vi mette in grado di scegliere liberamente come agire.
Compirete allora un'azione reale, che è sempre positiva e sempre di beneficio per voi e per gli altri.

Esistono avvenimenti fortuiti, eventi accidentali senza una causa?

Nulla avviene senza una causa. È impossibile. Talvolta i nostri sensi limitati e il nostro intelletto non la possono di-
scernere con chiarezza, ma questo non significa che non ci sia.

Voi affermate che ogni cosa nella vita è predeterminata?

Certamente le nostre azioni passate daranno dei frutti, buoni o cattivi. Sono esse a determinare il tipo di vita che
conduciamo, la situazione generale in cui ci troviamo. Ma ciò non significa che qualsiasi cosa ci accada sia predestinata,
stabilita dalle nostre azioni passate, e che non possa accadere nient'altro. Non è così. Le nostre azioni passate influenzano
il corso della nostra vita dirigendola verso esperienze piacevoli o spiacevoli. Ma le azioni presenti sono ugualmente
importanti. La natura ci ha dato la capacità di essere padroni delle nostre azioni presenti: con tale padronanza possiamo
cambiare il nostro futuro.

Ma certamente anche le azioni degli altri ci influenzano.

Naturalmente. Siamo influenzati da chi ci circonda e dall'ambiente, così come noi li influenziamo. Se ad esempio la
maggioranza è favorevole alla violenza, allora possono avvenire guerre e distruzioni, provocando immani sofferenze.
Ma se la gente incomincia a purificare la mente, allora non può esserci violenza. La radice del problema è nella mente di
ogni essere umano, e dato che la società è composta di individui, se ogni persona inizia a cambiare, cambierà anche la
società e guerre e distruzioni diventeranno eventi rari.

Come possiamo aiutarci l'un l'altro se ognuno di noi deve confrontarsi con i risultati delle proprie azioni?

Le nostre azioni mentali influenzano gli altri. Se nella mente non generiamo altro che negatività, tale negatività ha un
effetto pericoloso su quelli che entrano in contatto con noi. Se colmiamo la mente di positività e benevolenza verso gli
altri, questo avrà un effetto giovevole su coloro che ci circondano. Non potete controllare le azioni, il kamma degli altri,
ma potete
diventare padroni di voi stessi per esercitare un influsso positivo su coloro che vi stanno intorno.

Perché essere ricchi è un buon karma? Se è cosi, significa forse che la maggior parte di coloro che vivono in Occidente
hanno un buon karma e la maggior parte di coloro che vivono nel Terzo mondo hanno un cattivo karma?

La ricchezza da sola non è un buon karma. Se diventate ricchi ma restate infelici, qual è l'utilità della vostra ricchezza?
Essere ricchi e anche felici, realmente felici: è questo un buon karma. La cosa più importante è essere felici, ricchi o no.

Non è forse innaturale non reagire mai?

È ciò che sembra a coloro che hanno esperienza solo degli errati schemi abituali di una mente impura. Ma è naturale per
una mente pura rimanere distaccata, piena d'amore, compassione, benevolenza, gioia ed equanimità. Dovete imparare a
sperimentarlo.

Come possiamo essere coinvolti nella vita senza reagire?

Invece di reagire, imparate ad agire, ad agire con una mente equilibrata.


Il meditatore di Vipassana non diventa inattivo come un vegetale. Impara ad agire positivamente.
Quando sarete in grado di cambiare gli schemi abituali da reazione ad azione, allora avrete ottenuto qualcosa di grande
valore. E Vipassana porta a questo cambiamento.
CAPITOLO QUARTO

LA RADICE DEL PROBLEMA

« La verità della sofferenza deve essere esplorata fino alla radice», ha detto il Buddha.1 Nella notte in cui raggiunse
l'illuminazione, sedette risoluto a non alzarsi finché non avesse compreso come nasce la sofferenza e come può essere
sradicata.

Definizione della sofferenza

II Buddha si rese conto chiaramente che la sofferenza esiste. È un fatto incontrovertibile, per quanto spiacevole possa essere.
La sofferenza inizia con l'inizio della vita. Non abbiamo alcun ricordo conscio dell'esistenza intrauterina, ma l'esperienza
comune è che veniamo alla luce piangendo. La nascita è un grande trauma.
Iniziata la vita, siamo tutti costretti ad affrontare la sofferenza delle malattie e della vecchiaia. Per quanto malati possiamo
essere, per quanto vecchi e decrepiti, nessuno di noi vuole morire, perché la morte è una grande infelicità.
Ogni creatura vivente deve far fronte a tutte queste sofferenze. E mentre la nostra vita scorre, siamo costretti ad affrontare
altre sofferenze, una varietà di dolori sia fisici che mentali. Siamo immersi nell'infelicità e la felicità ci sfugge. Non riusciamo
ad avere ciò che vogliamo e, al contrario, otteniamo ciò che non vogliamo. Sono tutti casi di sofferenza evidenti per chiunque
si fermi a riflettere. Ma il futuro Buddha non era soddisfatto delle limitate spiegazioni dell'intelletto. Continuò ad esplorare
dentro di sé per sperimentare la vera natura della sofferenza e scoprì che « l'attaccamento ai cinque aggregati costituisce la
sofferenza».2 A livello più profondo, la sofferenza è l'attaccamento eccessivo che ognuno di noi ha sviluppato per il proprio
corpo e per la propria mente, con le sue cognizioni, percezioni, sensazioni e reazioni. La gente si attacca con forza alla
propria identità — al proprio essere fisico e mentale — quando in realtà ci sono solo processi in evoluzione, Questo
attaccamento a un'idea irreale di sé, a qualcosa che di fatto è in costante mutamento, è sofferenza.

L’attaccamento

Ci sono diversi tipi di attaccamento. Per prima cosa c'è l'attaccamento all'abitudine di cercare la gratificazione dei sensi.
Un tossicomane si droga perché desidera sperimentare la sensazione piacevole che la droga gli procura, anche se sa che
drogandosi aumenta la sua dipendenza. Analoga è la nostra dipendenza da desideri sempre nuovi: non appena un desiderio è
soddisfatto, ne creiamo un altro. L'oggetto è secondario; in realtà noi facciamo in modo di prolungare all'infinito lo stato di
desiderio, in quanto esso fa sorgere in noi una sensazione piacevole che vogliamo continuare a provare.
Il desiderare diventa un'abitudine che non possiamo abbandonare, una dipendenza. E proprio come un drogato gradualmente
sviluppa assuefazione nei confronti della sostanza che assume abitualmente e quindi ha bisogno di dosi sempre maggiori, così
più cerchiamo di soddisfare i nostri desideri, più essi diventano forti, si trasformano in bramosia. È una via senza uscita,
perché finché desidereremo ardentemente qualcosa, non potremo mai essere felici.
Un altro grande attaccamento si ha verso l'Io, l'ego, l'immagine che abbiamo di noi stessi. Per ciascuno di noi, l'Io è la
persona più importante del mondo. Ci comportiamo,come calamite che accentrano automaticamente sopra se stesse la
limatura di ferro. Se riflettiamo un attimo, tutti noi istintivamente cerchiamo di sistemare il mondo a nostro piacimento,
cercando di attrarre ciò che è piacevole e di respingere ciò che è spiacevole. Ma nessuno di noi è solo al mondo; ciascun Io è
costretto a entrare in conflitto con un altro. Il modello che ognuno cerca di creare è disturbato dai campi magnetici degli altri
e noi stessi siamo soggetti a repulsioni e ad attrazioni. Il risultato non può essere altro che infelicità e sofferenza.
Né limitiamo l'attaccamento all'Io, ma lo estendiamo al «mio», a tutto ciò che ci appartiene. Sviluppiamo un grande
attaccamento a ciò che possediamo, perché è collegato a noi e sostiene l'immagine dell'Io. Questo attaccamento non
causerebbe problemi se quello che chiamiamo « mio » fosse eterno e l'Io ne potesse godere eternamente. Ma, nella realtà,
prima o poi l'Io viene separato dal «mio». Il tempo della separazione deve necessariamente venire, e in quel momento la
sofferenza sarà tanto più intensa quanto più grande è l'attaccamento al « mio ».
Ma l'attaccamento va anche oltre: si estende alle nostre opinioni e alle nostre convinzioni. Quale che sia il loro contenuto,
siano esse giuste o sbagliate, se siamo attaccati ad esse certamente ci renderanno infelici. Siamo tutti convinti che le nostre
opinioni e tradizioni siano le migliori e ogni volta che le sentiamo criticare ne restiamo colpiti. Se cerchiamo di spiegare le
nostre opinioni e gli altri non le accettano, anche in questo caso ci turbiamo. Non siamo capaci di riconoscere che ognuno ha
le proprie convinzioni. Invece di perdersi in futili discussioni sulla validità o meno delle varie opinioni, sarebbe più proficuo
lasciare da parte le nozioni preconcette e cercare di vedere la realtà. Ma il nostro attaccamento alle opinioni ci impedisce di
far questo e così restiamo infelici.
Infine, c'è l'attaccamento alla religione e alle relative cerimonie. Tendiamo ad attribuire più importanza alle manifestazioni
esteriori della religione piuttosto che al loro significato intrinseco e pensiamo che chi non compie tali cerimonie non può
essere una persona veramente religiosa. Dimentichiamo che senza la sua essenza, l'aspetto formale della religione è un guscio
vuoto.
Recitare devotamente le preghiere o partecipare assiduamente alle funzioni non ha valore se la mente rimane colma di ira,
risentimento e malevolenza. Per essere veramente religiosi dobbiamo sviluppare un'attitudine religiosa: purezza di cuore,
amore e compassione per tutti. Tuttavia l'attaccamento alle forme esteriori della religione ci induce a dare maggiore
importanza alla lettera piuttosto che allo spirito. Perdiamo l'essenza della religione e quindi rimaniamo infelici.
Tutte le nostre sofferenze, di qualunque genere possano essere, sono collegate all'uno o all'altro di questi attaccamenti.
Attaccamento e sofferenza vanno sempre di pari passo.

I! Sorgere Condizionato: la catena di causa ed effetto da cui trae origine la sofferenza.

Che cosa provoca l'attaccamento? Come sorge? Analizzando la sua propria natura, il futuro Buddha scoprì che esso si
sviluppa a causa di reazioni mentali momentanee di piacere e dispiacere. Le reazioni brevi e inconsce della mente si ripetono
e si intensificano momento per momento, fino a trasformarsi in potenti attrazioni e repulsioni e in tutte le nostre forme di
attaccamento. L'attaccamento non è altro che la forma sviluppata di una reazione transitoria. È questa la causa immediata
della sofferenza.
Che cosa provoca le reazioni di piacere e dispiacere? Andando ancora più a fondo, il Buddha osservò che esse sono causate
da una sensazione: proviamo una sensazione piacevole e iniziamo ad amarla; ne proviamo una spiacevole e iniziamo a
rifiutarla, a respingerla.
Ora, perché queste sensazioni? Che cosa le provoca? Analizzandosi ancor più profondamente, egli vide che sorgono a causa
di un contatto: contatto dell'occhio con una cosa visibile, contatto dell'orecchio con un suono, contatto del naso con un odore,
contatto della lingua con un sapore, contatto del corpo con un oggetto tangibile, contatto della mente con un pensiero,
un'emozione, un'idea, una fantasia o un ricordo. È con i cinque sensi fisici e con la mente che noi sperimentiamo il mondo.
Ogni volta che un oggetto o un fenomeno entra in contatto con una di queste sei basi dell'esperienza, si produce una
sensazione, piacevole o spiacevole.
E perché questo contatto è il primo a prodursi? Il futuro Buddha vide che il contatto avviene proprio in quanto esistono le sei
basi sensoriali, ovvero i cinque sensi fisici più la mente. Il mondo è pieno di innumerevoli fenomeni: visioni, suoni, odori,
sapori, oggetti, pensieri ed emozioni. Per tutto il tempo in cui i nostri recettori sono in funzione, il contatto è inevitabile.
E perché esistono le sei basi sensoriali? Perché sono gli aspetti essenziali del fluire della mente e della materia.
Perché allora questo flusso di mente e materia? Che cosa lo provoca? Il futuro Buddha comprese che il processo sorge a causa
della coscienza, l'atto cognitivo che separa il mondo in conoscente e conosciuto, soggetto e oggetto, l'Io e gli « altri ».
Da questa separazione deriva l'identità, la « nascita ». Ad ogni istante la coscienza sorge e assume una specifica forma
mentale e fisica. Nell'istante successivo, di nuovo, la coscienza prende una forma leggermente diversa.
La coscienza fluisce e muta attraverso tutta l'esistenza. Alla fine arriva la morte, ma la coscienza non si ferma: senza alcun
intervallo, nell'istante successivo, assume una forma nuova. Da un'esistenza a un'altra, vita dopo vita, il fluire della coscienza
continua.
Qual è dunque la causa di questo fluire della coscienza? Egli ne vide il sorgere da una reazione. La mente è costantemente
reattiva e ogni reazione da forza al fluire della coscienza, così da perpetuarsi nell'istante successivo. Più una reazione è forte,
più grande è l'impulso che suscita. La reazione leggera dì un istante sostiene il fluire della coscienza solo per un istante.
Ma se quella reazione momentanea di piacere o dispiacere si intensifica in bramosia o avversione, guadagna forza e sostiene
il fluire della coscienza per molti istanti, per minuti, per ore. E se la reazione di bramosia o avversione si intensifica ancora,
sostiene il flusso per giorni, mesi, anni. E se durante la sua vita una persona tende a ripetere e a intensificare certe reazioni,
esse sviluppano una forza sufficiente a sostenere il fluire della coscienza non solo da un istante all'altro, da un giorno all'altro,
da un anno all'altro, ma da una vita all’altra.
E che cosa provoca queste reazioni? Osservando la realtà a un livello più profondo, egli comprese che le reazioni avvengono
a causa dell'ignoranza. Siamo inconsapevoli del fatto che reagiamo, e altrettanto inconsapevoli della vera natura di ciò a cui
reagiamo. Siamo all'oscuro della natura impermanente e impersonale della nostra esistenza e ignoriamo che l'attaccamento a
essa ci procura soltanto sofferenza. Non conoscendo la nostra vera natura, reagiamo alla cieca. Non sapendo neppure di aver
reagito, persistiamo nelle nostre reazioni cieche e permettiamo loro di intensificarsi. Così, a causa dell'ignoranza, diventiamo
prigionieri dell'abitudine a reagire.
Ecco come la ruota della sofferenza inizia a girare:

Se sorge l'ignoranza, c'è la reazione;


se sorge la reazione, c'è la coscienza;
se sorge la coscienza, ci sono la mente e la materia;
se sorgono la mente e la materia, ci sono i sei sensi;
se sorgono i sei sensi, c'è il contatto;
se sorge il contatto, c'è la sensazione;
se sorge la sensazione, ci sono il desiderio e l'avversione;
se sorgono il desiderio e l'avversione, c'è l'attaccamento;
se sorge l'attaccamento, c'è i! processo del divenire;
se sorge il processo del divenire, c'è la nascita;
se c'è la nascita, ci sono l'invecchiamento e la morte, insieme a dolore, lamenti, sofferenze fisiche e mentali, tribolazioni.
In questo modo sorge l'intera massa della sofferenza.3

Da questa catena di causa ed effetto — il sorgere condizionato — siamo stati condotti nel nostro presente stato di esistenza,
ad affrontare un futuro di sofferenza.
Alla fine la verità gli fu chiara : la sofferenza inizia con l'ignoranza della realtà della nostra vera natura, del fenomeno
etichettato come Io. E la causa successiva di sofferenza è il sankhàra, l'abitudine mentale alla reazione. Accecati
dall'ignoranza, generiamo reazioni di bramosia e di avversione che si sviluppano in attaccamento, il quale conduce a tutti i
generi di infelicità. L'abitudine a reagire è il kamma, il modellatore del nostro futuro. Dunque la reazione sorge solo a causa
dell'ignoranza circa la nostra vera natura. Ignoranza, bramosia e avversione sono le tre radici da cui nascono tutte le
sofferenze della nostra vita.

La via d’uscita della sofferenza

Avendo compreso cosa sia la sofferenza e quale ne sia l'origine, il futuro Buddha affrontò il problema successivo: come si
può far cessare la sofferenza? Ricordando la legge del kamma, la legge di causa ed effetto: «Se questo esiste, quello avviene;
quello sorge dal sorgere di questo. Se questo non esiste, quello non avviene; quello cessa dal cessare di questo».4 Nulla
accade senza una causa. Se la causa viene sradicata, allora non ci saranno effetti. In tal modo, il processo del sorgere della
sofferenza può essere invertito:

Se l'ignoranza è sradicata e finisce del tutto, la reazione finisce;


se la reazione finisce, la coscienza finisce;
se la coscienza finisce, la mente e la materia finiscono;
se la mente e la materia finiscono, i sei sensi finiscono;
se i sei sensi finiscono, il contatto finisce;
se il contatto finisce, la sensazione finisce;
se la sensazione finisce, il desiderio e l'avversione finiscono;
se il desiderio e l'avversione finiscono, l'attaccamento finisce;
se l'attaccamento finisce, finisce il processo del divenire;
se il processo del divenire finisce, la nascita finisce;
se la nascita finisce, l'invecchiamento e la morte finiscono,
insieme a dolore, lamenti, sofferenze mentali e fisiche e tribolazioni.
Così finisce l'intera massa della sofferenza.5

Se mettiamo fine all'ignoranza, allora non ci saranno reazioni cieche con il loro seguito di sofferenze di vario genere. E se non
vi sarà più sofferenza, allora sperimenteremo la vera pace, la vera felicità. La ruota della sofferenza può trasformarsi nella
ruota della liberazione.
Questo è ciò che Siddhattha Gotama ha fatto per conseguire l'illuminazione. Questo è ciò che ha insegnato a fare agli altri.
Egli ha detto:

Compiendo delle azioni negative


vi contaminate.
Non compiendo azioni negative
vi purificate.6

Ognuno di noi è responsabile delle reazioni che causano la nostra sofferenza. Accettando questa responsabilità, possiamo
imparare ad eliminare la sofferenza.

II flusso delle esistenze successive

Con la Ruota del Sorgere Condizionato il Buddha ha spiegato il processo di rinascita o samsàra. Nell'India dei suoi tempi
questo concetto era comunemente accettato come un dato di fatto, mentre oggi, per molti, può sembrare una dottrina estranea,
forse insostenibile. Prima di accettarla o rifiutarla, dovremmo tuttavia comprendere di che cosa si tratta e di che cosa non si
tratta. Samsàra è il ciclo delle esistenze ripetute, la successione delle vite passate e future. Le nostre azioni sono le forze che
ci spingono di vita in vita. Ogni vita, di basso o alto grado, sarà come sono state le nostre azioni, vili o nobili. Sotto questo
aspetto il concetto non differisce in sostanza da quello di molte religioni che predicano un'esistenza futura in cui riceveremo
la ricompensa o il premio per le nostre azioni in questa vita. Il Buddha ha però compreso che anche nell'esistenza più
esaltante può esservi sofferenza. Quindi non dobbiamo lottare per avere una rinascita fortunata, dal momento che nessuna
rinascita è completamente fortunata. Il nostro scopo, piuttosto, dovrebbe essere la liberazione da tutte le sofferenze.
Quando ci liberiamo dal ciclo delle sofferenze, sperimentiamo una felicità pura più grande di qualsiasi piacere del mondo.
Il Buddha ha insegnato una via per sperimentare tale felicità proprio in questa vita.
Samsàra non è l'idea popolare della trasmigrazione di un'anima o di un sé che mantiene un'identità fissa attraverso ripetute
reincarnazioni. Questo, ha detto il Buddtia, è proprio ciò che non accade, e ha ripetutamente affermato che non esiste
un'identità immutabile che passa da una vita all'altra: « Proprio come da una mucca proviene il latte, dal latte la cagliata, dalla
cagliata il burro, dal burro fresco il burro chiarificato, dal burro chiarificato la scrematura grassa. Quando c'è il latte, non si
pensa che sia cagliata o burro fresco o burro chiarificato o scrematura. Analogamente, ogni volta va considerato reale solo lo
stato di esistenza presente e non il passato né il futuro ».7 Il Buddha non riteneva che un ego fisso si reincarnasse in esistenze
successive e neppure che non ci fossero esistenze passate o future. Al contrario, egli ha compreso e insegnato che il processo
del divenire continua da un'esistenza all'altra, per tutto il tempo in cui le nostre azioni gli danno impulso. Anche se non si
crede che ci sia un'altra esistenza oltre la presente, la Ruota del Sorgere Condizionato ha ancora la sua importanza.
Ogni momento in cui ignoriamo che le nostre reazioni sono cieche, creiamo della sofferenza che sperimentiamo qui-e-ora.
Se eliminiamo l'ignoranza e smettiamo di reagire ciecamente, faremo esperienza della pace che ne deriva, qui-e-ora.
Il paradiso e l'inferno esistono qui-e-ora, possono essere sperimentati in questa vita, in questo corpo. Il Buddha ha affermato:
« Anche se [qualcuno crede] che non ci sia un altro mondo, né una ricompensa futura per le buone azioni né una punizione
per le cattive, già in questa stessa vita può vivere felicemente, mantenendosi libero dall'odio, dalla malevolenza e dall’ansia ».
Sia che crediamo o non crediamo in esistenze passate o future, dobbiamo tuttavia affrontare i problemi della vita presente,
problemi causati proprio dalle nostre reazioni cieche. La cosa più importante per noi è di risolvere questi problemi ora, fare
dei passi avanti per porre fine alla nostra sofferenza ponendo fine all'abitudine a reagire, e in tal modo sperimentare ora la
felicità della liberazione.

Domande e risposte

DOMANDA: Ci possono essere bramosie e avversioni benefiche: per esempio combattere contro l’ingiustizia, bramare la
libertà, temere i malanni fisici?

SATYA NARAYAN GOENKA: Avversione e bramosia non possono mai essere benefiche. Vi renderanno sempre tesi e infe-
lici. Se agite avendo nella mente bramosia e avversione, sia pure spinti da uno scopo encomiabile, il mezzo usato per
raggiungerlo non è sano. Certo dovete agire per proteggervi dai pericoli. Potete farlo sopraffatti dalla paura, ma in questo
modo sviluppate un complesso di paure che alla lunga saranno dannose. Oppure, avendo odio nella mente, potete avere
successo combattendo contro l'ingiustizia, ma quell'odio diverrà un complesso mentale dannoso. Dovete combattere contro
l'ingiustizia, dovete proteggervi dai pericoli, ma potete farlo con una mente equilibrata, senza tensioni. E potete lavorare in
modo equilibrato per raggiungere qualcosa di buono, per amore degli altri. Una mente equilibrata è sempre utile e darà i
risultati migliori.

Cosa c'è dì sbagliato nel desiderare cose materiali per assicurarsi una vita più confortevole?

Se è un'esigenza reale, non c'è nulla di sbagliato purché lo facciate con il dovuto distacco. Per esempio, se avete sete e
desiderate dell'acqua, non c'è nulla di dannoso in questo. Avete bisogno di acqua e quindi fate in modo di ottenerla e placare
la vostra sete. Ma se questo diventa un'ossessione, non potrà aiutarvi: anzi, vi fa del male. Dovete lavorare per ottenere ciò di
cui avete necessità. Se non riuscite a ottenere qualcosa, ebbene dovete sorridere e tentare ancora, in un modo diverso.
Se ci riuscite, rallegratevi di ciò che avete ottenuto, ma senza attaccamento.

Che cosa potete dire circa la pianificazione del futuro? Si potrebbe chiamare attaccamento?

Ancora una volta, dipende da quanto siete attaccati ai vostri piani. Ognuno deve provvedere al suo futuro. Se i vostri progetti
non hanno successo e iniziate a lamentarvi: questa è la prova del fatto che contavate troppo su di essi. Ma se non avete
successo e riuscite ugualmente a sorridere pensando: "Ho fatto del mio meglio. In che cosa ho fallito? Proverò ancora!",
allora state lavorando in modo distaccato e restate felici
.
Fermare la Ruota del Sorgere Condizionato sembra una specie di suicidio, di auto-annullamento. Perché dovremmo volerlo?

Cercare l'annientamento della vita è certamente dannoso, così come attaccarsi alla vita. Ma, al contrario, si impara a
permettere alla natura di fare il suo lavoro, senza desiderare ardentemente nulla, neanche la liberazione.
Ma avete detto che non appena la catena dei sankhàra ha termine, allora anche la rinascita si ferma.

Sì, ma questa è una cosa ben lontana. Interessatevi ora della vita presente! Non preoccupatevi per il futuro. Rendete buono il
presente, il futuro sarà automaticamente buono. Certamente, allorché vengono eliminati tutti i sankhàra che sono responsabili
di una nuova nascita, il processo di vita e morte si ferma.

Non è forse questo un annullamento, un'estinzione?

L'annullamento dell'illusione dell'Io, l'estinzione della sofferenza. Questo è il significato della parola nibbàna: l'estinzione del
bruciare. Bruciamo costantemente nella bramosia, nell'avversione, nell'ignoranza. Quando il bruciare si ferma, l'infelicità si
ferma, e ciò che rimane è solo positivo. Ma descriverlo in parole non è possibile, perché è qualcosa che va al di là del campo
sensoriale. Dovete sperimentarlo in questa vita, solo così saprete di che cosa si tratta. Allora la paura dell'annullamento
scomparirà.

Cosa accade poi alla coscienza?

Perché preoccuparsene? Non aiuta nessuno speculare su qualcosa che può solo essere sperimentato, non descritto.
Questo non fa che distrarre dallo scopo reale, che è lavorare per arrivarci. Quando raggiungerete quel livello, ne gioirete e
tutte le domande spariranno. Non avrete altre domande! Lavorate per raggiungere quello stadio.

Come può funzionare il mondo senza attaccamento? Se i genitori sono distaccati, allora non si prenderanno certamente cura
dei figli. Come è possibile amare ed essere coinvolti nella vita senza attaccamento?

Distacco non significa indifferenza; è corretto chiamarlo «santa indifferenza». Come genitori, dovete assumere la
responsabilità di prendervi cura dei vostri figli con tutto l'amore possibile, ma senza attaccamento. Dovete fare il vostro
dovere per amore. Supponete di aver cura di un malato e che, nonostante le vostre attenzioni, questi non si ristabilisca.
Non iniziate a lamentarvi, sarebbe inutile. Con mente equilibrata, cercate di trovare un altro modo di aiutarlo.
Questa è la santa indifferenza: né inazione né reazione, ma un'azione concreta e positiva con una mente equilibrata.

Molto difficile.

Sì, ma è ciò che bisogna imparare.


CAPITOLO QUINTO

LA PRATICA DELLA CONDOTTA MORALE

II nostro compito è di eliminare la sofferenza sradicandone le cause: ignoranza, bramosia e


avversione. Per conseguire questo scopo, il Buddha ha scoperto, seguito e insegnato una via
pratica. Ha chiamato questa via il Nobile Ottuplice Sentiero.
Una volta, alla richiesta di spiegare la via con parole semplici, il Buddha ha detto:

Astenersi dalle azioni malvagie,


compiere solo azioni buone,
purificare la mente:
questo è l'insegnamento delle persone illuminate.

E' un'esposizione molto chiara, che può essere accettata da tutti. Tutti sono d'accordo sul fatto che
si dovrebbero evitare azioni dannose e compiere solo quelle benefiche. Ma come definire ciò che
è benefico e ciò che è dannoso, ciò che è buono e ciò che
è nocivo? Quando cerchiamo di far ciò ci basiamo sulle nostre opinioni, sulle convinzioni
tradizionali, sulle nostre preferenze e i nostri pregiudizi e di conseguenza otteniamo definizioni
parziali e settarie che sono accettabili per qualcuno ma inaccettabili per altri. In luogo di tali
ristrette interpretazioni il Buddha ha offerto una definizione universale di buono e dannoso, di
pietà e colpa. Ogni azione che reca danno agli altri, che disturba la loro pace e armonia, è
un'azione colpevole, un'azione dannosa.

Ogni azione che aiuta gli altri, che contribuisce alla loro pace e armonia, è un'azione pia,
un'azione valida. Inoltre, la mente viene veramente purificata non attraverso cerimonie religiose
o esercizi intellettuali, ma sperimentando direttamente la propria realtà e lavorando
sistematicamente per rimuovere i condizionamenti che danno origine alla sofferenza.
Il Nobile Ottuplice Sentiero può essere diviso in tre livelli di educazione:, sīla samādhi e paññā.
Sīla è la pratica morale, l'astensione da tutte le azioni dannose sia fisiche che verbali.
Samādhi è la pratica della concentrazione, che sviluppa l'abilità di controllare e dirigere
coscientemente i propri processi mentali.
Paññā è la saggezza, lo sviluppo di una osservazione e comprensione profonda, purificatrice,
della propria natura.

I! valore della pratica morale

Chiunque desideri praticare Dhamma deve iniziare con la pratica di Sīla. Questo è il primo passo,
senza il quale non si può avanzare. Dobbiamo astenerci da tutte le azioni, parole e gesti che
recano danno agli altri. È una cosa facile da capire, in quanto la società richiede un simile
comportamento per evitare la propria disgregazione. Ma, in effetti, ci asteniamo da tali azioni non
solo perché danneggiano gli altri, ma anche perché danneggiano noi stessi. È impossibile
commettere un'azione cattiva — insultare, uccidere, rubare o violentare — senza che ciò generi
grande agitazione mentale, bramosia, avversione. Queste manifestazioni momentanee di bramosia
e avversione sono causa di infelicità ora, e più ancora in futuro. Il Buddha ha detto:

Bruciare ora, bruciare in futuro,


chi fa del male soffre doppiamente.
Essere felice ora, essere felice in futuro,
la persona virtuosa gioisce doppiamente.
Non dobbiamo aspettare fin dopo la morte per sperimentare il paradiso e l'inferno; possiamo
sperimentarli in questa vita, dentro di noi. Quando commettiamo un'azione negativa
sperimentiamo il fuoco dell'inferno della bramosia e dell'avversione. Quando compiamo
un'azione positiva sperimentiamo il paradiso della pace interiore. Quindi non è solo per il bene
degli altri che ci asteniamo da parole e gesti nocivi, ma a nostro stesso beneficio, per evitare di
danneggiare noi stessi.
C'è anche un'altra ragione per intraprendere la pratica di Sīla. E l'aspirazione a esaminarci, a
vedere nel profondo della nostra realtà. Fare questo richiede una mente molto calma e tranquilla.
È impossibile vedere nelle profondità di uno specchio d'acqua quando è agitato. L'introspezione
richiede una mente calma, libera da qualsiasi turbamento. Ogni volta che si commette un'azione
negativa, la mente è pervasa dall'agitazione. Quando ci si astiene da tutte le azioni negative, sia
fisiche che verbali, solo allora la mente ha la possibilità di raggiungere uno stato di pace tale per
cui può avvenire l'introspezione.
C'è ancora un'altra ragione per cui Sīla è essenziale: chi pratica Dhamma sta lavorando verso lo
scopo ultimo della liberazione da tutte le sofferenze. E mentre è assorbito in questo compito non
può essere coinvolto in azioni che rinforzerebbero proprio le abitudini mentali che cerca di
sradicare. Ogni azione che danneggia gli altri è necessariamente causata e accompagnata da
bramosia, avversione e ignoranza. Commettere tali azioni significa retrocedere di due passi per
ogni passo che si fa in avanti sul sentiero, cioè impedire ogni progresso verso la meta.
La pratica di Sīla, inoltre, non solo è necessaria per il bene della società nel suo complesso, ma
per il bene di ogni suo membro; e non solo per il benessere materiale di una persona, ma anche
per consentirle di progredire lungo il sentiero di Dhamma.
Tre parti del Nobile Ottuplice Sentiero rientrano nell'ammaestramento di Sīla: giusta parola,
giusta azione, giusti mezzi di sussistenza.

Giusta parola

Bisogna parlare in modo puro e benefico. La purezza si raggiunge eliminando l'impurità, e quindi
in primo luogo deve esserci chiaro che cosa significhi linguaggio impuro. In esso sono compresi
atti quali: dire bugie, cioè dire più o meno la verità, riferire racconti che possono seminare ziz-
zania tra amici, calunniare e diffamare, pronunciare parole dure che disturbano gli altri e che non
hanno buoni effetti, darsi a pettegolezzi inutili e chiacchiere senza senso, che sono solo tempo
perso sia per chi le fa che per chi le ascolta. Astenersi da questo linguaggio impuro porta au-
tomaticamente a un giusto parlare.
Non si tratta però di un concetto esclusivamente negativo. Chi pratica la giusta parola, ha spiegato
il Buddha:

È colui che dice la verità ed è fermo nella sua sincerità, degno di fede, sicuro, leale con gli altri.
Riconcilia i litiganti e incoraggia l'unità. Ama l'armonia, ricerca l'armonia, gioisce dell'armonia
e crea armonia con le sue parole. Il suo dire è garbato, piacevole per l'orecchio, gentile, scalda il
cuore, è cortese, gradevole a molti. Egli parla al momento opportuno, secondo i fatti, secondo ciò
che è utile, secondo il Dhamma e il Codice di condotta. Le sue parole meritano di essere
ricordate, sono tempestive, ben ragionate, ben scelte e costruttive.

Giusta azione

Anche l'azione deve essere pura. Come già a proposito della parola, dobbiamo comprendere in
che cosa consista l'azione impura, in modo da potercene astenere. Nel comportamento impuro
sono compresi atti quali: uccidere una creatura vivente, rubare, condurre una vita sessuale
disdicevole, per esempio commettere adulterio o violenza carnale, o intossicarsi fino a non essere
più in sé e non sapere quello che si dice o si fa. Evitare queste cinque azioni impure porta
automaticamente a un giusto comportamento. Anche questo non è un concetto esclusivamente
negativo. Descrivendo chi pratica la corretta azione fisica, il Buddha ha detto: « Lasciando da
parte il bastone e la spada, egli è attento a non recar danno a nessuno, pieno di gentilezza, alla
ricerca del bene per tutte le creature viventi. Libero da ogni ambiguità, la sua stessa condotta è
quella di un essere puro ».

I precetti morali

Per la gente comune, coinvolta nella vita sociale, la via per seguire la giusta parola e la giusta
azione è quella di osservare i Cinque Precetti, che sono:
1. astenersi dall'uccidere qualsiasi creatura vivente;
2. astenersi dal rubare;
3. astenersi da una condotta sessuale biasimevole;
4. astenersi dal dire il falso;
5. astenersi da sostanze intossicanti.
Questi Cinque Precetti sono il minimo essenziale necessario per tenere una condotta moralmente
accettabile e devono essere seguiti da chiunque desideri praticare il Dhamma.
A volte, nel corso della vita, può presentarsi la possibilità di accantonare temporaneamente —
forse per pochi giorni, forse solo per un giorno — i problemi quotidiani per purificare la mente e
lavorare per la liberazione. È il tempo da dedicare a una seria pratica di Dhamma, e di
conseguenza la propria condotta deve essere ancor più attenta che nella vita ordinaria. È
importante inoltre evitare azioni che possano distrarre dall'opera di autopurificazione
o interferire con essa. È in questo periodo che si osservano gli otto precetti. Questi comprendono i
cinque precetti di base, con una modifica: invece di astenersi solo da una condotta sessuale
biasimevole, ci si astiene da ogni attività sessuale. Inoltre ci si impegna a non mangiare fuori del
tempo previsto (ovvero dopo mezzogiorno), ad astenersi da ogni piacere sensuale e ornamento
fisico, nonché dall'uso di letti troppo confortevoli. La richiesta di astinenza sessuale e i precetti
addizionali favoriscono la calma e l'attenzione necessarie per il lavoro interiore, e aiutano a
liberare la mente da tutte le interferenze esterne. Gli Otto Precetti devono essere seguiti solo nel
periodo dedicato alla pratica intensiva di Dhamma. Quando il periodo è concluso, come guida per
la condotta morale i laici possono fare di nuovo capo ai Cinque Precetti.
Infine ci sono i Dieci Precetti per chi ha scelto di vivere senza casa, come gli eremiti e i monaci
mendicanti. Questi Dieci Precetti sono comprensivi dei primi otto, con il settimo diviso in due
parti più un ulteriore precetto: astenersi dall'accettare denaro. Gli eremiti devono sostentarsi
solamente con la carità ricevuta per essere liberi di dedicarsi completamente al lavoro di
purificazione della mente a beneficio proprio e di tutti. I precetti, siano essi cinque, otto o dieci,
non sono delle vuote formule dettate dalla tradizione: sono, letteralmente, «passi per proseguire
nel cammino », dei mezzi molto pratici per ottenere la certezza che le proprie parole e le proprie
azioni non recano danno né agli altri né a se stessi.

Giusti mezzi di sussistenza

Ogni persona deve sostentarsi in modo appropriato. Ci sono due criteri per stabilire un giusto
modo di guadagnarsi la vita. Innanzitutto, non dovrebbe essere necessario trasgredire i Cinque
Precetti nel proprio lavoro, perché chi si comporta in questo modo, ovviamente, danneggia gli
altri. Inoltre, non si dovrebbe far nulla che incoraggi gli altri a trasgredire i precetti, dal momento
che anche questo causa danno. I nostri mezzi di sussistenza non dovrebbero comportare danni
agli altri esseri, né direttamente né indirettamente.
Per cui ogni mezzo di sussistenza che richieda l'uccisione sia di esseri umani che di animali, è
chiaramente un mezzo di sussistenza non giusto. Ma anche se l'uccisione viene compiuta da altri
e si ha a che fare semplicemente con le parti dell'animale macellato — la pelle, la carne, le ossa e
così via — anche questo non è un giusto mezzo di sussistenza, perché si è dipendenti dalle cattive
azioni altrui. Vendere liquori o droghe può essere molto remunerativo, ma anche se non li si
consuma personalmente, l'atto di vendere incoraggia gli altri a fare uso di sostanze intossicanti e
quindi a danneggiarsi. Gestire una casa da gioco consente forti guadagni, ma tutti quelli che la
frequentano si procurano un danno. Vendere veleni o armamenti — armi, munizioni, bombe,
missili — è un buon affare, ma nuoce alla pace e all'armonia dei popoli. Nessuno di questi è un
mezzo di sussistenza corretto.
Anche se un certo tipo di lavoro può in effetti non recare danno ad alcuno, se però è compiuto con
l'intenzione di danneggiare gli altri non è un giusto mezzo di sussistenza. Il medico che spera in
un'epidemia o il commerciante che spera in una carestia non praticano un giusto modo di sus-
sistenza.
Ogni essere umano è membro della società. Rispondiamo ai nostri obblighi nei confronti della
società con il lavoro che facciamo, servendo il nostro prossimo in modi diversi. In cambio
riceviamo dei mezzi di sussistenza. Anche un monaco, un eremita ha un preciso lavoro per mezzo
del quale si guadagna le elemosine che riceve: il lavoro di purificare la sua mente per il bene e il
beneficio di tutti. Se inizia a sfruttare gli altri, ingannando la gente con riti magici o con false
affermazioni di grande crescita spirituale, allora egli non pratica un giusto modo di sussistenza.
Qualsiasi remunerazione ci viene data in cambio del nostro lavoro, deve essere utilizzata per
sostentarci e sostentare chi dipende da noi. Se c'è un'eccedenza, almeno una parte dovrebbe essere
restituita alla società per venire utilizzata a favore di altri. Se c'è l'intenzione di essere utili alla
società e agli altri, allora il nostro lavoro è un giusto mezzo di sussistenza.

La pratica di sīla in un corso di meditazione Vipassasia

La giusta parola, la giusta azione e i giusti mezzi di sussistenza dovrebbero essere messi in pratica
perché hanno un senso sia per noi che per gli altri. Un corso di meditazione Vipassana offre la
possibilità di applicare tutti questi aspetti di sīla . E un periodo destinato alla pratica intensiva di
Dhamma e quindi tutti i partecipanti si attengono agli Otto Precetti. Tuttavia, chi frequenta il
corso per la prima volta e chi ha dei problemi di salute godono di un trattamento speciale, in
quanto possono consumare un pasto leggero la sera. Per questa ragione tali persone seguono
formalmente solo i Cinque Precetti, anche se sotto tutti gli altri aspetti osservano effettivamente
gli Otto Precetti.
Oltre ai precetti, tutti i partecipanti devono osservare il silenzio fino all'ultimo giorno del corso.
Possono parlare con l'insegnante o con gli organizzatori, ma non con gli altri meditatori. In questo
modo si limitano al minimo le distrazioni e le persone possono vivere e lavorare in spazi ristretti
senza disturbarsi a vicenda. In questa atmosfera calma, tranquilla e pacifica, è possibile dedicarsi
al delicato compito dell'introspezione.
In cambio della loro attività di introspezione, i meditatori ricevono cibo e alloggio, il cui costo è
stato sostenuto da altri. In tal modo, durante il corso, essi vivono più o meno come veri monaci,
contando sulla carità di altri. Compiendo il proprio lavoro nel modo migliore, per il bene proprio
e degli altri, i meditatori che partecipano a un corso di Vipassana praticano un modo corretto di
sussistenza. La pratica di sīla è parte integrante del sentiero di Dhamma. Senza di essa non ci
sarebbero progressi sul sentiero, perché la mente rimarrebbe troppo agitata per indagare la realtà
interiore. Ci sono quelli che insegnano che lo sviluppo spirituale è possibile senza sīla.
Qualsiasi cosa dicano di fare, tali persone non seguono l'insegnamento del Buddha. Senza
praticare sīla è possibile sperimentare vari stati di estasi, ma è un errore considerare questi ultimi
come realizzazioni spirituali. Certamente senza sīla non si può mai liberare la mente dalla
sofferenza e sperimentare la verità ultima.

Domande e risposte

DOMANDA: Compiere un'azione giusta è una forma di attaccamento?

SATYA NARAYAN GOENKA: No, è semplicemente fare del proprio meglio, comprendendo che i
risultati sono al di là del nostro controllo. Fate il vostro lavoro e lasciate i risultati alla natura, a
Dhamma: « Ciò che deve accadere, accadrà ».

Allora dobbiamo essere disposti a commettere degli errori?

Se commettete un errore, accettatelo e cercate di non ripeterlo la prossima volta. Se vi


capita di sbagliare ancora, sorridete di nuovo e cercate una via diversa. Se potete sor-
ridere di fronte al fallimento, non c'è attaccamento. Ma se il fallimento vi deprime e il
successo vi esalta, c'è senz'altro attaccamento.

Allora l'azione corretta è solo lo sforzo dì fare, non il risultato?

Esatto. Il risultato sarà automaticamente buono se la nostra azione è buona. Dhamma se ne


prenderà cura. Non abbiamo il potere di scegliere il risultato, ma possiamo scegliere la nostra
azione. Fate solo il meglio che potete.

E un'azione sbagliata fare del male a un altro accidentalmente?

No. Ci deve essere l'intenzione di fare il male ad un essere particolare e si deve riuscire a
provocare un danno; solo allora un'azione negativa è completa. sīla non dovrebbe essere portato
all'estremo, il che non è né pratico né benefico. D'altra parte, è ugualmente pericoloso essere così
sventati nelle azioni da far male agli altri e poi scusarsi per il fatto che non se ne aveva
l'intenzione. Dhamma ci insegna a essere consapevoli.

Qual è la differenza tra comportamento sessuale corretto e comportamento sbagliato? E una


questione di volontà?

No. Il sesso ha un suo posto nella vita di un laico. Non deve essere forzatamente soppresso,
perché l'astinenza forzata produce tensioni che a loro volta creano altri problemi, altre difficoltà.
Tuttavia, chi da libero sfogo alle urgenze sessuali e si permette di avere relazioni sessuali con
chiunque, ogniqualvolta nasce una passione, non potrà mai liberare la sua mente dalle passioni.
Evitando questi due estremi ugualmente pericolosi, Dhamma offre una via di mezzo, una sana
espressione della sessualità che permette lo sviluppo spirituale, e cioè una relazione sessuale tra
un uomo e una donna che si sono impegnati l'uno con l'altro. E se entrambi i partner sono
meditatori di Vipassana, quando la passione sorge, entrambi la osservano. Questo non è né
repressione né licenza. Per mezzo dell'osservazione è possibile liberarsi facilmente dalla passione.
A volte una coppia avrà ancora dei rapporti sessuali, ma gradualmente raggiungerà lo stadio in
cui il sesso non ha più alcun significato. Questo è lo stadio dell'astinenza reale, naturale, in cui la
mente non è neppure sfiorata dall'idea della passione. Questa astinenza da una gioia che va oltre
ogni soddisfazione sessuale. Ci si sente sempre contenti, armoniosi. Si deve imparare a
sperimentare questa autentica felicità.
In Occidente molti pensano che i rapporti sessuali tra due adulti consenzienti sono leciti.

Questa opinione è molto lontana da Dhamma. Chi ha rapporti sessuali con una persona, e poi con
un'altra e poi con un'altra ancora, moltiplica la sua passione e la sua infelicità. Bisogna essere
impegnati con una sola persona o scegliere il celibato.

Cosa pensate dell'uso di droghe per sperimentare altri stati di coscienza e di realtà diverse?

Alcuni studenti mi hanno riferito che con l'uso di droghe psichedeliche sono passati attraverso
esperienze simili a quelle che hanno incontrato con la meditazione. Sia che questo sia o non sia
vero, avere un'esperienza indotta da una droga è una forma di dipendenza da un agente esterno.
Dhamma, invece, vi insegna a diventare padroni di voi stessi così da poter sperimentare la realtà a
vostro piacimento, ogni volta che lo desiderate. Un'altra differenza molto importante è che l'uso
di droghe fa perdere a molti l'equilibrio mentale e li danneggia, mentre l'esperienza della verità
fatta con la pratica di Dhamma rende i meditatori più equilibrati, senza arrecare danno a se stessi
o ad altri.

// quinto precetto significa astenersi da sostanze intossicanti o astenersi dal diventare


intossicato? Dopo tutto, bere con moderazione, senza ubriacarsi, non mi sembra particolarmente
dannoso. Oppure affermate che bere anche un solo bicchiere di alcol significa contravvenire a
sīla?

Bevendo anche solo una piccola quantità, alla lunga si sviluppa un desiderio per l'alcol. La gente
non se ne accorge, ma fa il primo passo verso la dipendenza, che è certamente dannosa per tutti.
Ogni dipendenza inizia da un solo bicchiere. Perché fare il primo passo verso la sofferenza? Chi
pratica seriamente la meditazione e un giorno beve un bicchiere di vino senza pensarci o per
convenienza sociale, quel giorno scoprirà che la sua meditazione è debole. Dhamma non va
d'accordo con l'uso di sostanze intossicanti. Chi desidera veramente svilupparsi in Dhamma, deve
rimanere libero da tutte le sostanze intossicanti. Questa è l'esperienza di migliaia di meditatori.
I due precetti concernenti il comportamento sessuale scorretto e l'uso di sostanze intossicanti
devono essere ben compresi dagli occidentali.

La gente spesso dice: « Se ti fa sentir bene, deve essere giusto ».

Perché non vede la realtà. Quando fate un'azione con avversione, automaticamente diventate
consapevoli del turbamento mentale che questa provoca. Quando però fate un'azione spinti dalla
bramosia, essa sembra piacevole al livello superficiale della mente, ma c'è agitazione a un livello
più profondo. Vi sembra di star bene solo per ignoranza. Quando comprendete che con tali azioni
vi fate del male, naturalmente non le fate più.

Mangiare carne è contravvenire a sīla?

No, a meno che chi compie quest'atto non abbia lui stesso ucciso l'animale. Se una persona trova
della carne preparata per lei, e la gradisce come qualsiasi altro cibo, non c'è trasgressione. Ma,
certamente, mangiando carne, si incoraggia indirettamente qualcun altro a trasgredire il precetto
uccidendo. Mangiare carne, poi, è dannoso anche a un livello più sottile. Ad ogni istante gli
animali generano bramosia e avversione, sono incapaci di osservarsi e di purificarsi la mente.
Ogni fibra del loro corpo è permeata di bramosia e avversione. Questo è il messaggio che le
persone ricevono allorché non mangiano dei cibi vegetariani. Un meditatore cerca di sradicare
bramosia e avversione, e quindi troverà utile evitare tali cibi.
È questo il motivo per cui durante un corso la dieta è vegetariana?

Sì, è la cosa migliore per la meditazione Vipassana.

Raccomandate una dieta vegetariana anche nella vita quotidiana?

È utile anche questo.

Per un meditatore è accettabile arricchirsi?

Se praticate Dhamma, siete felici anche se non vi arricchite. Ma se vi arricchite e non praticate
Dhamma restate infelici. Dhamma è più importante. Chi vive nel mondo,deve sostentarsi, deve
guadagnarsi da vivere onestamente, con il duro lavoro, e non c'è niente di sbagliato in questo: ma
fatelo con Dhamma.

Se capita che il proprio lavoro abbia un effetto negativo, se ciò che si fa può essere usato in
modo negativo, è questo un mezzo improprio di sussistenza?

Dipende dalle intenzioni. Se a una persona interessa solo accumulare denaro, e quindi pensa:
« Non mi importa che gli altri siano danneggiati, finché faccio soldi», questo è un modo
sbagliato di guadagnarsi da vivere. Ma se ha l'intenzione di essere utile alla società e, nonostante
questo, qualcuno è danneggiato, non può essere biasimata per questo.

La società per cui lavoro produce uno strumento che fra le altre cose è usato per ottenere dati
sulle esplosioni atomiche. Mi hanno chiesto di occuparmi di questo prodotto e in qualche modo
non mi sembra giusto.

Se una certa cosa verrà utilizzata solo per fare del male ad altri, certamente non dovete essere
coinvolti. Ma se può essere usata sia per scopi positivi che negativi, non siete responsabili
dell'uso che altri possono farne. Fate il vostro lavoro con l'intenzione che gli altri lo utilizzino
esclusivamente a fini leciti. Non c'è nulla dì sbagliato in questo.

Che ne pensate del pacifismo?

Se per pacifismo si intende l'inazione di fronte all'aggressione, certamente è sbagliato. Dhamma


insegna ad agire

E cosa pensate dell'uso della resistenza passiva, insegnato dal Mahatma Gandhi e da Martin
Luther King?

Dipende dalla situazione. Se un aggressore non capisce altro linguaggio che quello della forza, si
deve usare la forza fisica, mantenendo sempre l'equanimità. Altrimenti si deve usare la resistenza
passiva: non per paura, ma come un atto di coraggio morale. Questa è la via di Dhamma e questo
è ciò che Gandhi aveva insegnato a fare alla gente. Fronteggiare a mani vuote un'aggressione
armata richiede coraggio; per farlo si deve essere preparati a morire. La morte arriverà certamente
prima o poi. Si può morire con paura o con coraggio. Gandhi era solito dire ai suoi seguaci che
dovevano affrontare un'opposizione violenta: «Che le ferite siano sul vostro petto e non sulle
vostre spalle». Egli ha raggiunto il suo scopo, perché Dhamma era in lui.
Voi stesso avete detto che la gente può avere meravigliose esperienze durante la meditazione pur
senza osservare i precetti. Non le sembra dogmatico e categorico sottolineare così fortemente la
condotta morale?

Ho visto, sulla base dell'esperienza di molti studenti, che chi non da importanza a sīla non può
fare progressi sul sentiero. Queste persone possono frequentare i corsi per anni e avere
meravigliose esperienze di meditazione, ma senza che nella loro vita ci siano cambiamenti.
Restano agitati e infelici perché stanno solo giocando con Vipassana, così come hanno giocato
con altri metodi. Persone così sono dei veri perdenti. Quelli che vogliono davvero servirsi di
Dhamma per cambiare la propria vita in meglio, debbono praticare sīla il più attentamente
possibile.
CAPITOLO SESTO

LA PRATICA DELLA CONCENTRAZIONE

Con la pratica di sīla tentiamo di controllare le nostre parole e le nostre azioni fisiche. Tuttavia, le cause della sofferenza
si trovano nelle nostre azioni mentali. Misurare soltanto le nostre parole e azioni è inutile se la mente continua a ribollire
fra bramosie, avversioni e azioni mentali dannose. Sdoppiati in questo modo, non potremo mai essere felici. Prima o poi
bramosia e avversione proromperanno e ci spingeranno a trasgredire sīla, danneggiando noi stessi e gli altri.
Il nostro intelletto ci avverte che è sbagliato commettere azioni dannose: dopo tutto, per migliaia di anni le religioni
hanno predicato l’importanza della morale. Ma quando sopraggiunge una tentazione, essa sovrasta la mente e allora
si trasgredisce sīla. Un alcolizzato può essere perfettamente conscio che non dovrebbe bere perché l’alcol gli fa male,
ma, quando il desiderio nasce, egli cerca l’alcol e si intossica. Non può fermarsi, perché non ha alcun controllo sulla sua
mente. Ma quando si impara a non commettere un’azione mentale dannosa, diviene facile trattenersi da parole e azioni
dannose.
Poiché il problema ha origine nella mente, dobbiamo confrontarci con esso a livello mentale; e per farlo dobbiamo
intraprendere la pratica di bhàvanà, che significa letteralmente «sviluppo mentale» e che, nel linguaggio comune, si
designa con il termine «meditazione». Sin dai tempi del Buddha, il significato della parola bhàvanà era diventato vago
in quanto la pratica era caduta in disuso.In tempi recenti è stata utilizzata in riferimento a qualsia-si tipo di esercizio
mentale o di elevazione spirituale, persino ad attività come leggere, parlare, ascoltare o riflettere su Dhamma. Il termine «
meditazione », come viene per lo più tradotto il sostantivo pàli bhàvanà, viene usato anche in riferimento a svariate attività,
dal rilassamento mentale ai sogni a occhi aperti e alle libere associazioni fino all’autoipnosi. Tutto questo è ben lontano da
ciò che il Buddha intendeva significare con bhàvanà. Con questo termine egli si riferiva a specifici esercizi mentali, a tecni-
che precise per concentrare e purificare la mente.
Bhàvanà comprende due importanti parti o sezioni: la concentrazione (samàdhi) e la saggezza (panna). La pratica della
concentrazione è anche definita « sviluppo della tranquillità» (samatha-bhàvanà) e quella della saggezza «sviluppo della
comprensione profonda» (vipassanà-bhàvana).
La pratica di bhàvanà inizia con la concentrazione, che è la seconda suddivisione del Nobile Ottuplice Sentiero.
È l’azione benefica di imparare a controllare i processi mentali, per padroneggiare la propria mente. Tre parti del
sentiero si collocano sotto questo tipo di pratica: il giusto sforzo, la giusta consapevolezza e la giusta concentrazione.

Il giusto sforzo
E il primo passo della pratica di bhàvanà. La mente viene facilmente sopraffatta dall’ignoranza, facilmente influenzata
dalla bramosia e dall’avversione. Sta a noi rinforzarla, così che diventi salda e stabile, uno strumento utile per esaminare la
nostra natura ai livelli più profondi, per scoprire e quindi rimuovere i nostri condizionamenti.
Il medico che desidera diagnosticare la malattia di un suo paziente, preleverà un campione di sangue e lo esaminerà al
microscopio: e per far questo innanzitutto dovrà metterlo a fuoco e fissarlo in questa posizione. Solo allora sarà possibile
osservare il campione, scoprire la causa della malattia e determinare la cura appropriata per eliminarla. Allo stesso modo
noi dobbiamo imparare a mettere a fuoco la mente, fissarla e mantenerla su un singolo oggetto di attenzione. In tal modo la
trasformiamo in uno strumento atto ad esaminare la nostra realtà più sottile e profonda.
Il Buddha ha indicato varie tecniche per concentrare la mente, adattandole alle caratteristiche di ciascuna persona che
andava da lui per ricevere l’insegnamento. La tecnica più appropriata per esplorare la realtà interiore, la tecnica che
il Buddha stesso praticò, è quella dell’ànàpàna-sati, la « consapevolezza della respirazione ».
La respirazione è un oggetto su cui concentrare l’attenzione alla portata di tutti, perché tutti respiriamo dal momento in cui
veniamo alla luce fino al momento in cui moriremo. È un oggetto di meditazione universalmente accessibile e
universalmente accettabile. Per iniziare la pratica di bhàvanà, i meditatori si siedono, assumono una posizione eretta e
confortevole e chiudono gli occhi. Dovrebbero stare in una stanza tranquilla, senza possibilità di distrazioni. Volgendosi dal
mondo esteriore a quello intcriore, essi constatano che l’attività più preminente è il loro respiro; per cui rivolgono
l’attenzione a questo oggetto: il respiro che entra ed esce dalle loro narici.
Non si tratta di un esercizio di respirazione, ma di un esercizio di consapevolezza. Lo sforzo non è quello di controllare il
respiro, ma di prendere coscienza di come il respiro stesso si manifesta: se è lungo o corto, pesante o leggero, forte o delicato.
Si fissa l’attenzione sul respiro il più a lungo possibile, senza alcuna distrazione che rompa la continuità della
consapevolezza.
Tutti i meditatori si accorgono subito di quanto sia difficile. Se ci sforziamo di concentrarci sulla respirazione, iniziamo a
lamentare dei dolori alle gambe. Se cerchiamo di eliminare tutti i pensieri che ci distraggono, ecco che ci si presentano
alla niente migliaia di cose: ricordi, progetti, speranze, timori. Una di queste ci cattura l'attenzione e dopo un po' ci rendiamo
conto che abbiamo completamente dimenticato il respiro. Iniziamo di nuovo, con rinnovata determinazione, e di nuovo, poco
dopo, ci rendiamo conto che la mente è sgusciata via a nostra insaputa. Chi è che controlla? Quando ci si dedica a questo
esercizio, diviene subito chiaro che di fatto la mente è al di fuori del nostro controllo. Come un bambino viziato che prende
un giocattolo, si annoia e ne prende un altro, e poi un altro ancora, la mente corre da un pensiero, da un oggetto di attenzione
a un altro, fuggendo dalla realtà.
Questa è un'abitudine radicata della nostra mente, è il modo in cui si è sempre comportata durante la nostra vita. Ma una
volta che iniziamo a indagare la nostra vera natura, questa distrazione deve cessare. Dobbiamo cambiare gli schemi mentali
abituali e imparare a rimanere nella realtà. Cominciamo facendo in modo di fissare l'attenzione sul respiro. Quando notiamo
che essa sta divagando, con calma e pazienza riportiamola di nuovo indietro. Se non ci riusciamo, riproviamo una seconda
volta e magari una terza. Sorridendo, senza tensione, senza scoraggiarci, continuiamo a ripetere l'esercizio. Dopo tutto, le
abitudini di una vita non si cambiano in pochi minuti. Il compito richiede una pratica continua e ripetuta, molta calma e pa-
zienza. Ecco come sviluppare la consapevolezza della realtà. Questo è il giusto modo di compiere degli sforzi.
Il Buddha ha descritto quattro tipi di giusto sforzo:
— prevenire l'insorgere di stati d'animo malvagi e
nocivi;
— abbandonarli qualora dovessero sorgere;
— generare stati d'animo benefici che ancora non ci
sono;
— mantenerli senza interruzione, sviluppandoli fino al
la piena maturità e perfezione.
praticando la consapevolezza del respiro, si praticano contemporaneamente tutti e quattro i tipi di sforzo sopraelencati.
Sedendoci tranquilli e fissando l'attenzione sul respiro senza che intervengano altri pensieri, inneschiamo e manteniamo un
salutare stato di autoconsapevolezza. Ci sforziamo di non cadere in distrazioni o in assenze, di non perdere di vista la realtà.
Se sorge un pensiero, non lo seguiamo ma riportiamo di nuovo la nostra attenzione sul respiro. In tal modo, sviluppiamo la
capacità della mente di rimanere concentrata su un determinato oggetto di attenzione e di resistere alle distrazioni: due
qualità essenziali per la concentrazione.

La giusta consapevolezza

Osservare la respirazione è anche un mezzo per praticare la giusta consapevolezza. La nostra sofferenza discende
dall'ignoranza. Reagiamo perché non conosciamo la nostra realtà. La mente trascorre la maggior parte del tempo persa in
fantasie e illusioni, rivivendo esperienze piacevoli o spiacevoli e anticipando il futuro con impazienza o con paura. Mentre
siamo persi in tali bramosie o avversioni, non siamo consapevoli di ciò che sta avvenendo in questo istante, di ciò che stiamo
facendo ora. E tuttavia, per ciascuno di noi, questo istante, qui-e-ora, è proprio il più importante. Non possiamo vivere nel
passato, perché se ne è andato. Non possiamo vivere nel futuro, perché è sempre al di là della nostra portata. Possiamo vivere
solo nel presente.
Se siamo inconsapevoli delle nostre azioni presenti, siamo condannati a ripetere gli errori del passato e non potremo mai
riuscire a realizzare i nostri sogni nel futuro. Ma se siamo in grado di sviluppare la capacità di essere consapevoli del
momento presente, possiamo servirci del passato come di una guida per regolare le nostre azioni future, così da poter
conseguire il nostro scopo.
Dhamma è il sentiero del qui-e-ora. Pertanto dobbiamo sviluppare la nostra capacità di essere consapevoli del momento
presente. Abbiamo bisogno di un metodo per concentrare l'attenzione sulla nostra realtà del momento, e questo
metodo è la tecnica di ànàpàna-sati. La sua pratica sviluppa la consapevolezza di sé qui-e-ora: in questo momento
inspirando, in questo momento espirando. Praticando la consapevolezza del respiro, diventiamo consapevoli del
momento presente.
Un'altra ragione per sviluppare la consapevolezza del respiro è il desiderio di sperimentare la realtà ultima.
Concentrarsi sul respiro può aiutarci a esplorare qualsiasi cosa di noi che ci è ancora sconosciuta, a portare alla co-
scienza tutto ciò che è inconscio.
Tale concentrazione agisce da ponte fra la parte conscia e quella inconscia della mente, perché il respiro funziona sia
consciamente che inconsciamente. Possiamo decidere di respirare in un modo particolare, di controllare la respirazione.
Possiamo persino smettere di respirare per un po'. E tuttavia, quando interrompiamo i tentativi di controllare la
respirazione, essa continua senza alcuna sollecitazione.
Per esempio, possiamo iniziare a respirare intenzionalmente, con una certa forza, per poter fissare più facilmente la
nostra attenzione. Appena la consapevolezza del respiro diventa chiara e stabile, permettiamo al respiro di procedere
naturalmente, sia esso forte o leggero, profondo o superficiale, lungo o corto, veloce o lento. Non facciamo alcuno
sforzo per regolarlo, lo sforzo è solo quello di esserne consapevoli. Attraverso la consapevolezza della respirazione
naturale, possiamo cominciare a osservare il funzionamento automatico del corpo, un'attività che generalmente è
inconscia. Dall'osservazione della realtà grossolana del respiro intenzionale, siamo passati ad osservare la realtà più
sottile del respiro naturale. Abbiamo iniziato a muoverci oltre la realtà superficiale verso la consapevolezza di una
realtà più sottile.
Un'altra ragione per sviluppare la consapevolezza del respiro consiste nel fatto che essa ci permette di liberarci dalla
bramosia, dall'avversione e dall'ignoranza, divenendone in primo luogo consapevoli. È un'operazione in cui il respiro ci
può aiutare, in quanto agisce come riflesso del proprio stato mentale. Quando la mente è calma e in pace, il respiro è
regolare e non faticoso. Ma ogni volta che nella mente sorgono stati negativi, siano essi di ira, odio, paura o passione,
allora il respiro diventa più aspro, pesante e rapido, avvertendoci così del nostro stato mentale e consentendoci di
affrontarlo.
C'è però un'altra ragione per praticare la consapevolezza del respiro. Dal momento che il nostro scopo è conseguire una
mente libera da qualsiasi negatività, dobbiamo fare attenzione che ogni passo che compiamo verso tale scopo sia puro
e benefico. Anche allo stadio iniziale del conseguimento di samàdhi, dobbiamo usare un oggetto di attenzione benefico,
come lo è il respiro. Infatti non possiamo provare bramosia o avversione nei confronti del respiro, in quanto è una realtà
totalmente scissa sia dall'illusione che dalla delusione. Costituisce quindi un oggetto d'attenzione appropriato.
Nel momento in cui la mente è pienamente concentrata sul respiro, è libera dalla bramosia, libera dall'avversione, libera
dall'ignoranza. Per quanto breve possa essere tale momento di purezza, è tuttavia assai potente perché sfida tutti i nostri
condizionamenti passati. Tutte le reazioni accumulate sono stimolate e iniziano a manifestarsi come difficoltà di vario
tipo, mentali o fisiche, che ostacolano i nostri sforzi tesi a sviluppare la consapevolezza. Possiamo sperimentare
l'impazienza di progredire, che è una forma di bramosia, così come può sorgere avversione, sotto forma di collera e
depressione, perché i progressi ci sembrano lenti. Talvolta veniamo sopraffatti dalla sonnolenza e ci assopiamo non
appena ci sediamo a meditare. Talvolta siamo in uno stato di agitazione tale che non riusciamo a star fermi o
cerchiamo delle scuse per evitare di meditare. Talvolta, infine, lo scetticismo mina la volontà di lavorare: dubbi
ossessivi e irragionevoli sul nostro insegnante o sull’insegnamento stesso, oppure sulla nostra capacità di meditare.
Quando sorgono queste difficoltà, ci viene persine in mente di lasciar perdere completamente la pratica.
E in queste circostanze che dobbiamo comprendere che questi ostacoli sono una reazione al nostro successo nella
pratica della consapevolezza del respiro. Se perseveriamo, poco per volta essi spariranno e il lavoro diventerà più facile,
in quanto anche in questo primo stadio della pratica alcuni strati di condizionamento vengono sradicati dalla
superficie della mente. In tal modo, anche quando pratichiamo la consapevolezza del respiro, iniziarne a ripulire la
mente e ad avanzare verso la liberazione.

La giusta concentrazione

Fissare l'attenzione sul respiro sviluppa la consapevolezza del momento presente. E una giusta concentrazione consiste
nel mantenere questa consapevolezza momento per momento, il più a lungo possibile.
Anche nelle azioni quotidiane della vita ordinaria è richiesta la concentrazione, ma questa non è necessariamente
giusta concentrazione. Una persona può concentrarsi per soddisfare un desiderio sensuale o per prevenire una paura.
Un gatto aspetta con tutta l'attenzione concentrata sulla tana di un topo, pronto ad assalirlo non appena compare. Un
borsaiolo si concentra sul portafoglio della sua vittima, aspettandoli momento di prenderlo. Di notte, dal suo lettino,
un bimbo fissa impaurito l'angolo più oscuro della stanza, immaginando dei mostri nascosti nell’ombra. In nessuno di
questi casi c'è la giusta concentrazione, la concentrazione, cioè, che può essere usata per la liberazione. Samàdhi deve
avere come suo centro un oggetto che è libero da tutte le bramosie, da tutte le avversioni e da tutte le illusioni. Nel
praticare la consapevolezza del respiro si scopre quanto sia difficile mantenere una consapevolezza ininterrotta.
Nonostante la ferma determinazione di non distogliere l'attenzione dal respiro, in qualche modo essa scivola via
inosservata. Scopriamo di essere come un ubriaco che, cercando di camminare lungo una linea retta, procede invece a
zigzag.
Ed effettivamente siamo ubriachi, per la nostra ignoranza e le nostre illusioni, e così continuiamo a vagare nel passato o
nel futuro, nella bramosia o nell'avversione. Non possiamo rimanere sul giusto sentiero della consapevolezza prolungata.
I meditatori dovrebbero essere sufficientemente saggi da non farsi deprimere o scoraggiare da queste difficoltà, bensì
comprendere che ci vuole molto tempo per cambiare le abitudini mentali sedimentate nel corso di tanti anni e che ciò
può essere fatto solo attraverso un lavoro costante, ininterrotto, paziente e perseverante. Il nostro compito consiste
semplicemente nel riportare l'attenzione al respiro non appena notiamo che si è smarrita. Se possiamo far questo,
abbiamo compiuto un importante passo verso il cambiamento di tutte le abitudini vagabonde della nostra mente. E
attraverso una pratica ripetuta diventa possibile riportare di nuovo l'attenzione sul respiro sempre più rapidamente. Con
gradualità, i periodi di negligenza si accorciano sempre più, mentre aumentano quelli di samàdhi, di consapevolezza
prolungata.
Quando la concentrazione si rafforza, cominciamo a sentirci rilassati, felici e pieni di energia. A poco a poco il respiro
cambia, diviene più lieve, regolare, leggero, superficiale. A volte può sembrare che la respirazione sia del tutto cessata.
Di fatto, appena la mente si tranquillizza, anche il corpo si calma e il metabolismo rallenta, per cui è richiesto meno
ossigeno.

A questo livello, alcuni possono avere delle esperienze inusuali: vedere luci o avere visioni mentre siedono ad occhi
chiusi, o udire suoni fuori dall'ordinario, per esempio. Tutte queste cosiddette esperienze extrasensoriali sono dei
semplici segnali che indicano che la mente ha conseguito un più alto livello di concentrazione. In se stessi, questi
fenomeni non hanno importanza e non bisogna prestar loro attenzione. L'oggetto della consapevolezza rimane il
respiro, tutto il resto è distrazione. Né ci si deve aspettare tali esperienze: in alcuni casi avvengono, in altri no.
Tutte queste esperienze inusuali sono unicamente delle pietre miliari che segnalano un progresso sul sentiero. Talvolta
queste pietre miliari possono essere fuori vista, o noi possiamo essere così attenti al sentiero che tiriamo dritto senza
notarle. Ma se prendiamo una di queste pietre miliari come meta finale e ci aggrappiamo ad essa, cessiamo di fare
progressi. Dopotutto, sono innumerevoli le esperienze sensoriali inusuali che si possono avere. Coloro che praticano
Dhamma non cercano tali esperienze, ma piuttosto la comprensione profonda della realtà, così da ottenere la
liberazione dalla sofferenza.
Pertanto continuiamo a prestare attenzione solo al respiro. Non appena la mente acquista maggiore concentrazione, il
respiro diviene più leggero e più difficile da seguire, e quindi per rimanere consapevoli bisogna esercitare uno sforzo
ancora più grande. In tal modo continuiamo a levigare la mente, a rendere più acuta la concentrazione, fino a farla
diventare uno strumento con cui penetrare al di là della realtà apparente, in grado di osservare la realtà interiore più
sottile all'interno di noi stessi.
Esistono molte altre tecniche per sviluppare la concentrazione: ripetere una parola o fissarsi su un'immagine visiva o
anche compiere più e più volte una determinata azione fisica. Così facendo ci si assorbe nell'oggetto di attenzione e si
consegue uno stato beato di trance. Sebbene tale stato sia senza dubbio molto piacevole per tutta la sua durata,
quando finisce ci si ritrova catapultati nella vita ordinaria con gli stessi problemi di prima. Queste tecniche operano
sviluppando uno strato di pace e di gioia alla superficie della mente, ma in profondità il condizionamento rimane
intatto. Gli oggetti che queste tecniche utilizzano per conseguire la concentrazione non hanno alcun nesso con la nostra
realtà momento per momento. La beatitudine che si ottiene è sovrapposta, creata intenzionalmente piuttosto che sorta
spontaneamente dalle profondità di una mente purificata. Il giusto samàdhi non può essere un'intossicazione
spirituale. Deve essere libero da ogni artificio, da ogni illusione.
Anche nell'insegnamento del Buddha sono vari gli stati di trance —jhàna — che possono essere ottenuti. Al Buddha
stesso furono insegnati otto stati di assorbimento mentale prima di divenire illuminato, ed egli continuò a praticarli
per tutta la vita. Tuttavia, gli stati di trance da soli non poterono liberarlo. Perciò, quando insegnava gli stati di
assorbimento, sottolineava che la loro funzione era unicamente quella di aiutare a sviluppare la comprensione profonda
della realtà, al pari delle pietre che servono per attraversare un fiume. I meditatori sviluppano la facoltà della
concentrazione non per sperimentare stati di beatitudine o di estasi, quanto piuttosto per forgiare la mente come uno
strumento con cui esaminare la propria realtà e rimuovere i condizionamenti che causano sofferenza. Questa è la
giusta concentrazione.

Domande e risposte

DOMANDA: Perché insegnate agli studenti a praticare ànàpàna-sati concentrandosi sulle narici e non sull'addome?
SATYA NARAYAN GOENKA: Perché per noi ànàpàna-satì viene utilizzato come preparazione per la pratica di Vipassana, e in
questo tipo di Vipassana è necessaria una concentrazione particolarmente forte. Più l'area di attenzione è limitata, più forte
sarà la concentrazione. Per sviluppare la concentrazione a un tale grado, l'addome è troppo grande. L'area più adatta è quella
delle narici. Ecco perché il Buddha ci ha consigliato di lavorare su quest'area.

Mentre si pratica la consapevolezza del respiro, è permesso contare i respiri o dire « dentro » mentre si inspira e «fuori »
mentre sì espira?

No, non ci deve essere una continua verbalizzazione. Se ogni volta aggiungete una parola alla consapevolezza della
respirazione, gradualmente la parola diventerà predominante e vi dimenticherete completamente del respiro.
Direte « dentro » o « fuori » non facendo più attenzione all’atto dell'inspirare o dell'espirare. La parola diventerà un mantra.
Rimanete soltanto con il respiro, il semplice respiro, nient'altro che il respiro.

Perché la pratica di samàdhi non è sufficiente per la liberazione?

Perché la purezza mentale sviluppata con samàdhi è raggiunta principalmente per mezzo della soppressione, non
dell'eliminazione del condizionamento. È proprio come se qualcuno pulisse una cisterna di acqua fangosa aggiungendo una
sostanza che faccia precipitare la soluzione, per esempio l'allume. L'allume fa sì che le particelle di fango sospese
nell'acqua precipitino sul fondo della cisterna, lasciando l'acqua cristallina. Allo stesso modo samàdhi rende cristallini i
livelli superiori della mente, ma nell'inconscio resta un deposito di impurità. Per raggiungere la liberazione, queste impurità
latenti devono essere rimosse. E per rimuovere le impurità dalla profondità della mente si deve praticare Vipassana

.Non è dannoso dimenticare il passato e il futuro e prestare attenzione solo al momento presente? Dopotutto, non è così
che vivono gli animali? Sicuramente chiunque dimentichi il passato è condannato a ripeterlo.

Questa tecnica non vi insegnerà a dimenticare interamente il passato o a non avere interesse per il futuro. Ma l'abitudine
attuale della mente è quella di immergersi costantemente nei ricordi passati e in desideri, progetti o timori per il futuro e di
rimanere ignoranti del presente. Questa abitudine malsana ci rende la vita infelice. Con la meditazione si impara a
mantenere uno stabile punto d'appoggio nella realtà presente. Con questa solida base è possibile trarre la necessaria guida
dal passato e fare giuste previsioni per il futuro.

Trovo che, quando medito e la mente vaga, può sorgere una bramosia; poi penso che non devo sviluppare bramosia, e
comincio ad agitarmi. Come devo comportarmi in questi casi?

Per quale motivo essere agitati a causa della bramosia? Basta che accettiate il fatto: « Oh, guarda, c'è bramosia »; ecco
tutto. E ne uscirete fuori. Quando scoprite che la mente ha vagato, basta accettare questo fatto, e automaticamente essa
ritornerà al respiro. Non dovete creare tensioni perché c'è bramosia o perché la mente ha divagato; così facendo si crea
nuova avversione. Accettate la realtà, è sufficiente questo.

Tutte le tecniche di meditazione buddiste erano già praticate nello yoga. Che cosa c'era di veramente nuovo nella
meditazione insegnata dal Buddha?

Quello che oggi viene definito yoga è in realtà uno sviluppo posteriore. Patanjaìi visse circa 500 anni dopo i tempi del
Buddha e naturalmente il suo Yoga Sùtra mostra l'influenza dell'insegnamento del Buddha. Certo le pratiche yoga erano
note in India anche prima del Buddha ed egli stesso, prima di conseguire l'illuminazione, le sperimentò. Tutte queste
pratiche, tuttavia, erano limitate a sìla e a samàdhi, la concentrazione fino al livello dell'ottavo jhana, l'ottavo stadio di
assorbimento, che si trova ancora nel campo dell'esperienza sensoriale. Il Buddha scoprì il nono jhàna, Vipassana, cioè lo
sviluppo della comprensione profonda della realtà che porta il meditatore alla meta ultima al di là dell'esperienza sensoriale.

Mi accorgo di essere molto propenso a sminuire gli altri. Qual è il modo migliore per affrontare questo problema?

La meditazione. Se l'ego è forte, si cerca di sminuire gli altri, di abbassare la loro importanza e accrescere la propria. Ma la
meditazione dissolve naturalmente l'ego. E quando esso si dissolve, non è più possibile fare qualcosa che offenda un altro.
Lavorate e il problema si risolerà automaticamente.
A volte mi sento in colpa per ciò che ho fatto.

Sentirvi in colpa non vi aiuterà, vi causerà solo danno. La colpa non ha posto nel sentiero di Dhamma. Se vi accorgete di
aver agito in modo errato, accettate semplicemente il fatto senza cercare di giustificarlo o di nasconderlo. Potete anche
andare da qualcuno che rispettate e dirgli: « Ho fatto questo errore, ma in futuro starò attento a non ripeterlo ». E poi
meditate, e scoprirete di poter superare tutte le difficoltà.

perché tendo a rinforzare questo ego? Perché continuo a voler essere Io?

Questo è ciò che la mente è stata condizionata a fare, a causa dell'ignoranza. Ma Vipassana può liberarvi da questo
dannoso condizionamento. Invece di pensare sempre a voi stessi, imparerete a pensare agli altri.

Come succede questo?

Il primo passo è riconoscere quanto si sia egoisti ed egocentrici. A meno che non si comprenda questa verità, non si può
emergere dalla pazzia dell'amore di sé. Man mano che proseguirete nella pratica, vi accorgerete che anche il vostro amore
per gli altri è nei fatti un amore egoistico. Capirete di amare qualcuno perché vi aspettate qualcosa da lui, vi aspettate che si
comporti in un modo che vi piace: nel momento in cui questo qualcuno inizia a comportarsi in modo diverso, il vostro amore
sparisce. Così vi domanderete se amate questa persona o voi stessi. La risposta vi diventerà chiara, ma non cercandola a
livello intellettuale, bensì con la pratica di Vipassana. E una volta che avrete fatto questa esperienza diretta, potrete
iniziare a emergere dal vostro egoismo, imparando a sviluppare un amore reale per gli altri, un amore altruistico, a senso uni-
co: dare senza aspettarsi niente in cambio.

Io lavoro in una zona dove ci sono molti emarginati che chiedono l'elemosina.

Anche in Occidente? Pensavo che i mendicanti esistessero solo nei paesi poveri!

So che molti di questi emarginati hanno a che fare con la droga. Mi chiedo se dando loro dei soldi non li incoraggio a
drogarsi.

Ecco perché dovete fare attenzione che ogni donazione elargita venga utilizzata correttamente. In caso contrario non aiuta
nessuno. Invece di dare dei soldi a queste persone, renderete loro un vero servizio aiutandoli a uscire dalla tossicodipendenza.
Qualsiasi cosa decidete di fare, dovete farla con saggezza.

Quando voi dite «Siate felici», l'altra faccia della medaglia per me è « Siate tristi »!

Perché essere tristi? Uscite dalla tristezza!

Giusto, ma pensavo che stessimo lavorando per raggiungere un equilibrio.

È l'equilibrio che rende felici. Senza equilibrio, c'è la tristezza. Siate equilibrati, siate felici!

E non: « Siate equilibrati, non siate niente »?

L'equilibrio rende felici, non annulla. Si diventa positivi quando la mente è equilibrata.
CAPITOLO SETTIMO

LA PRATICA DELLA SAGGEZZA

Né sīla né samādhi sono insegnamenti esclusivi del Buddha. Entrambi erano già noti e praticati prima della sua
illuminazione; infatti, mentre stava cercando la via per diventare illuminato, il futuro Buddha aveva appreso samādhi
da due maestri con cui aveva studiato. Nel prescrivere le due pratiche il Buddha concordava con i maestri delle
religioni convenzionali. Tutte le religioni infatti insistono sulla necessità di un comportamento morale e offrono anche
la possibilità di ottenere degli stati di beatitudine sia per mezzo di preghiere, rituali, digiuni o altri esercizi di
austerità, sia con varie forme di meditazione. Lo scopo di tali esercizi è semplicemente quello di raggiungere uno stato
di assorbimento mentale profondo. Si tratta dell'« estasi » sperimentata dai mistici delle varie religioni.
Tale concentrazione, anche quando non è sviluppata fino al livello di trance, è molto utile. Acquieta la mente,
distogliendo l'attenzione da situazioni in cui altrimenti si reagirebbe con bramosia e avversione. Contare lentamente
fino a dieci per prevenire uno scoppio di ira è una forma rudimentale di samādhi. Altre forme, persino più ovvie, sono
la ripetizione di una parola o di un mantra o la concentrazione su un oggetto. Tutte funzionano: quando l'attenzione è
rivolta verso un certo oggetto, sembra che la mente divenga calma, piena di pace.
La calma acquisita in tal modo, tuttavia, non è una vera liberazione. Anche se è estremamente utile, la pratica
della concentrazione opera solo a livello mentale conscio. Quasi venticinque secoli prima dell'invenzione della moderna
psicologia, il Buddha scoprì l'esistenza dell'inconscio, che chiamò anusaya. Egli scoprì inoltre che bramosia e
avversione si possono controllare a livello conscio col distogliere l'attenzione, ma che, in realtà, questo non le elimina:
al contrario, le spinge in profondità, a livello inconscio, dove rimangono pericolose come sempre, anche se assopite.
Pertanto, nella mente a livello superficiale può esserci uno strato di pace e armonia, mentre in profondità c'è un vulcano
addormentato di negatività soppresse che prima o poi erutteranno con violenza. Il Buddha ha detto:

Se le radici rimangono intatte e solide nel terreno, un albero abbattuto butterà ancora fuori nuovi getti.
Se l'abitudine latente alla bramosia e all'avversione
[non viene estirpata alle radici,
la sofferenza risorgerà da capo continuamente.

Sino a quando il condizionamento rimane a livello inconscio, alla prima occasione esso darà vita a nuovi germogli,
provocando sofferenza. Per questo, persino dopo aver raggiunto i più alti stati conseguibili con la pratica della con-
centrazione, il Buddha non era convinto di aver raggiunto la liberazione. Stabilì dunque di continuare la sua ricerca per
trovare la via di uscita dalla sofferenza e il sentiero che conduce alla felicità.
Vide che c'erano due possibilità di scelta. La prima era il sentiero dell'autoindulgenza, che dava via libera al sod-
disfacimento di tutti i desideri. È questo il sentiero mondano, quello che segue la maggior parte della gente, con-
sapevolmente o no. Ma egli vide con chiarezza che non poteva portare alla vera felicità. Non esiste nessuno
nell'universo i cui desideri siano sempre soddisfatti, e nella cui vita ogni cosa desiderata si avveri senza che gli accada
mai nulla di indesiderato. Chi segue questo sentiero, inevitabilmente soffre quando non riesce a soddisfare i propri
desideri, cioè soffre per il disappunto e l'insoddisfazione. Ma soffre ugualmente quando ottiene ciò che desidera: soffre
per la paura che l'oggetto desiderato svanisca, che il momento della gratificazione si dimostri transitorio: come di fatto
è. Nel cercare, nell'ottenere e nel perdere ciò che desiderano, tali persone sono sempre agitate. Il futuro Buddha aveva
sperimentato questo sentiero di persona prima di abbandonare il mondo per farsi eremita, e quindi sapeva che esso non
porta alla pace.
L'alternativa è il sentiero dell'autocontrollo, dell'astenersi deliberatamente dal soddisfare i propri desideri. In India,
2500 anni fa, il sentiero dell'autocontrollo veniva portato all'eccesso, fino a evitare tutte le esperienze piacevoli e
infliggersi quelle spiacevoli: si pensava in tal modo di guarire dall'abitudine alla bramosia e all'avversione e, di
conseguenza, che la mente si sarebbe purificata. Del resto, queste pratiche rigide sono comuni alla vita religiosa di
qualsiasi parte del mondo e il futuro Buddha le aveva sperimentate per anni dopo aver abbandonato la vita laica. Aveva
provato diverse pratiche ascetiche fino a ridursi in uno stato di estrema magrezza, per poi scoprire che ancora non si era
liberato. Punire il corpo non purifica la mente.
L'autocontrollo non deve essere spinto a questi estremi: si può praticarlo in una forma più moderata astenendosi dal
gratificare i desideri che implicano azioni dannose. Questo tipo di autolimitazione sembra assai preferibile
all'autoindulgenza, perché, nel praticarlo, si evita almeno di compiere azioni immorali. Ma se l'autocontrollo viene
raggiunto solo con l'autorepressione, le tensioni mentali aumenteranno fino a un livello pericoloso. Tutti i desideri
soppressi si accumuleranno come acque in piena dietro la diga dell'autocontrollo. Un giorno la diga sarà costretta a
cedere e a dare via libera a una distruttiva inondazione.
Fino a quando la nostra mente non si libererà dai condizionamenti, non potremo essere né al sicuro né in pace. Per
quanto benefico,sīla non può essere mantenuto dalla pura e semplice forza di volontà. Anche samādhi può aiutare, ma si
tratta solo di una soluzione parziale che non opera ai livelli mentali profondi dove si trovano le radici del problema, le
radici delle impurità. Per cui, fino a quando queste radici rimarranno sepolte nell'inconscio, non ci potrà essere né una
vera e duratura felicità, né la liberazione.
Ma se è possibile rimuovere dalla mente le radici del condizionamento, allora non ci sarà pericolo di indulgere in azioni
dannose, né necessità di autorepressione, perché l'impulso stesso di compiere un'azione negativa sarà scomparso.
Liberati dalla tensione sia della ricerca che del rifiuto, ciascuno potrà vivere in pace.
Per rimuovere le radici è necessario un metodo col quale penetrare nelle profondità della mente e raggiungere le
impurità proprio dove esse si annidano. È questo il metodo scoperto dal Buddha: la pratica della saggezza, o panna, che
lo ha guidato all'illuminazione, chiamata anche vipassanā-bhāvanā, lo sviluppo della comprensione profonda della
propria natura, per mezzo della quale si possono riconoscere ed eliminare le cause della sofferenza.Questo è ciò che il
Buddha ha scoperto, ciò che egli ha praticato per raggiungere la sua liberazione e che ha insegnato agli altri per tutta la
vita, l'elemento peculiare del suo insegnamento al quale attribuiva la massima importanza. Egli ripeteva spesso che:

« Se è sostenuta dalla moralità, la concentrazione è molto fruttuosa, molto benefica.


Se è sostenuta dalla concentrazione, la saggezza è molto fruttuosa, molto benefica.
Se è sostenuta dalla saggezza, la mente si libera da tutte le impurità».

La moralità e la concentrazione — sīla e samādhi — sono preziose di per sé, ma il loro vero scopo è di condurre alla
saggezza.
È solo attraverso lo sviluppo di panna che troviamo il sentiero che sta a mezzo fra gli estremi dell'autoindulgenza e
dell'autorepressione. Con la pratica della moralità, evitiamo di compiere le azioni che provocano le forme più gravi di
agitazione mentale. Concentrando la mente, poi, la calmiamo ulteriormente e nello stesso tempo la prepariamo a
intraprendere il lavoro di autointrospezione. Ma solo sviluppando la saggezza saremo in grado di penetrare nella realtà
interiore e liberarci da ogni ignoranza e attaccamento.
Due parti del Nobile Ottuplice Sentiero riguardano la pratica dell'educazione alla saggezza: il giusto pensiero e la giusta
comprensione.

Il giusto pensiero

Prima di iniziare vipassanā-bhāvanā non è necessario sospendere tutti i pensieri durante la meditazione. I pensieri
possono ancora persistere, ma per iniziare a lavorare è sufficiente mantenere la consapevolezza momento per momento.
I pensieri possono rimanere, ma la natura del loro corso cambia. Con la consapevolezza del respiro, bramosia e av-
versione si sono calmati. La mente è divenuta tranquilla, almeno a livello conscio, e ha iniziato a pensare a Dhamma,
alla via per uscire dalla sofferenza. Le difficoltà che si sono presentate agli esordi della pratica della consapevolezza del
respiro ora sono terminate, o almeno sono state in parte superate. Si è pronti per il passo successivo: la giusta
comprensione.

La giusta comprensione

È questa la vera saggezza. Pensare alla verità non è abbastanza. Dobbiamo noi stessi realizzare la verità, dobbiamo
vedere le cose come sono realmente, non solo come appaiono. La verità apparente è anch'essa una realtà, ma è quella
che dobbiamo penetrare per sperimentare la nostra realtà ultima e così eliminare la sofferenza. Ci sono tre tipi di
saggezza: la saggezza ricevuta (suta-māyā panna), la saggezza intellettuale (cintā-māyā panna) e la saggezza basata
sull'esperienza (bhāvanā-mayā panna). Letteralmente, la frase suta-māyā panna significa « saggezza ascoltata»: la
saggezza imparata dagli altri, ad esempio leggendo libri o ascoltando discorsi o conferenze; è la saggezza di un'altra
persona che si decide di fare propria. L'accettazione può essere causata dall'ignoranza. Per esempio, le persone cresciute
in una comunità con una certa ideologia, una certa religione o altro, possono accettare senza discutere. Oppure
l'accettazione può essere causata dal desiderio. I capi della comunità possono dichiarare che accettare l'ideologia
stabilita, il credo tradizionale, garantisce un futuro meraviglioso; può anche darsi che affermino che tutti i fedeli, dopo
la morte, andranno in paradiso. Naturalmente la beatitudine del paradiso attrae molto, e così si accetta volentieri.
Oppure l'accettazione può provenire dalla paura. I capi intuiscono che la gente comincia ad avere dei dubbi e a fare
domande sull'ideologia della comunità, così ordinano di conformarsi al credo comune, minacciando punizioni terribili
se non ci si adegua ad esso: forse affermano anche che tutti quelli che non credono dopo la morte andranno all'inferno.
Naturalmente la gente non vuole andare all'inferno, così soffoca i suoi dubbi e adotta il credo della comunità.
Sia che venga accettata per cieca fede, per desiderio o per paura, la saggezza ricevuta non è la propria saggezza, né
qualcosa sperimentato di persona: è una saggezza presa a prestito.
Il secondo tipo di saggezza è la comprensione intellettuale. Dopo aver letto o ascoltato un certo insegnamento, ci si
riflette sopra e lo si esamina per stabilire se è davvero razionale, benefico e pratico. E se soddisfa a livello intellettuale,
lo si accetta come vero. Anche in questo caso si tratta di una conoscenza che non è la propria, ma solo un ragionamento
sulla saggezza che si è ascoltata.
Il terzo tipo di saggezza è quella che nasce dalla propria esperienza, dalla realizzazione personale della verità. È la
saggezza che si vive, la saggezza reale che porterà un cambiamento nella propria vita, mutando la natura stessa della
mente.
Nelle faccende del mondo, non sempre la saggezza basata sull'esperienza può essere necessaria o utile. È sufficiente
accettare l'avvertimento degli altri sul fatto che il fuoco è pericoloso, oppure convalidare i fatti con dei ragionamenti
deduttivi. È sconsiderato insistere a buttarsi tra le fiamme prima di accettare il fatto che il fuoco brucia. In Dhamma,
però, la saggezza che deriva dall'esperienza è essenziale, dal momento che solo essa rende capaci di liberarci dai
condizionamenti.
La saggezza che si acquisisce ascoltando gli altri e la saggezza acquisita con la ricerca intellettuale sono utili se ci
ispirano e ci guidano verso il terzo tipo di panna, la saggezza basata sull'esperienza. Ma se ci accontentiamo di accettare
la saggezza ricevuta senza discutere, questo diventa una forma di schiavitù, una barriera che non ci permette di ottenere
la comprensione a livello di esperienza. Per la stessa ragione, se ci accontentiamo solo di contemplare la verità, di
studiarla e comprenderla intellettualmente, ma non facciamo alcuno sforzo per sperimentarla direttamente, allora tutta
la nostra comprensione intellettuale, invece di un aiuto per la liberazione, diventa una schiavitù.
Ognuno di noi deve vivere la verità sperimentandola direttamente con la pratica di bhāvanā. Soltanto questa
esperienza vissuta libererà la mente. Anche la realizzazione della verità di qualcun altro non potrà liberarci; persino
l’illuminazione del Buddha potè liberare una sola persona, Siddhattha Gotama. Tutt'al più la realizzazione di qualcuno
può agire come ispirazione per altri, offrendo loro delle tracce da seguire, ma in definitiva ognuno di noi deve lavorare
per conto proprio. Come ha detto il Buddha:

Ciascuno di voi deve lavorare e compiere il proprio sforzo.


Coloro che hanno raggiunto la meta finale
vi mostreranno solamente la via.

La verità può essere vissuta, e sperimentata direttamente, solo all'interno di se stessi. Tutto ciò che è esterno è sempre
lontano da noi. Solo interiormente possiamo avere un'esperienza viva, diretta e autentica della realtà.
Dei tre tipi di saggezza, i primi due non sono peculiari dell'insegnamento del Buddha, poiché entrambi esistevano in
India prima di lui e anche ai suoi tempi c'era chi affermava di insegnare già qualsiasi cosa egli andava insegnando. Il
contributo specifico del Buddha al mondo è stata la via per realizzare personalmente la verità e sviluppare così la
saggezza basata sull'esperienza diretta, bhāvana-mayā panna. Questo modo per conseguire la realizzazione diretta della
verità è la tecnica di vipassanā-bhāvanā.

Vipassanā-bhāvanā

Vipassana viene spesso descritta come un lampo di comprensione profonda, un'improvvisa intuizione della verità.
La descrizione è corretta, ma di fatto c'è un metodo graduale che il meditatore può usare per avanzare fino al punto in
cui si diventa capaci di avere una simile intuizione. Questo metodo è detto vipassanā-bhāvanā, sviluppo della
comprensione profonda, comunemente chiamato meditazione Vipassana.
La parola passanā significa « vedere », quel tipo ordinario di visione che abbiamo quando apriamo gli occhi.
Vipassanā significa un tipo di visione speciale: l'osservazione della realtà all'interno di se stessi. Questa si raggiunge
prendendo come oggetto di attenzione le proprie sensazioni fisiche. La tecnica consiste nell'osservazione sistematica e
imparziale delle sensazioni dentro di sé, un'osservazione che svela la realtà totale della mente e del corpo.
Perché la sensazione? Innanzitutto perché è con la sensazione che sperimentiamo direttamente la realtà. Qualunque cosa
deve entrare in contatto con i nostri cinque sensi fisici o con la mente, altrimenti per noi non esiste. Queste sono le vie
d'accesso attraverso le quali sperimentiamo il mondo, le basi di tutte le nostre esperienze. E ogniqualvolta qualcosa
viene in contatto con queste sei basi sensorie, si ha una sensazione.
Il Buddha ha così descritto questo processo: « Se qualcuno prende due pezzetti di legno e li strofina l'uno contro l'altro,
dalla frizione si forma del calore e si produce una scintilla. Allo stesso modo, quale risultato di un contatto che si è
sperimentato come piacevole, sorge una sensazione piacevole, quale risultato di un contatto che si è sperimentato come
spiacevole, sorge una sensazione spiacevole, quale risultato di un contatto che si è sperimentato come neutro, sorge una
sensazione neutra».
Il contatto di un oggetto con la mente o con il corpo produce una scintilla di sensazione. Tale sensazione è il legame
attraverso cui sperimentiamo il mondo con tutti i suoi fenomeni, fisici e mentali. Per sviluppare la saggezza basata
sull'esperienza dobbiamo diventare consapevoli di ciò che realmente proviamo, cioè dobbiamo sviluppare la
consapevolezza delle sensazioni.
Inoltre, le sensazioni fisiche sono strettamente connesse con la mente e, come il respiro, offrono un riflesso dello
stato mentale presente. Quando degli oggetti mentali — pensieri, idee, fantasie, emozioni, ricordi, speranze, timori —
vengono in contatto con la mente, sorgono le sensazioni. Ogni pensiero, ogni emozione, ogni azione mentale è
accompagnata da una sensazione corrispondente all'interno del corpo. Quindi, osservando le sensazioni fisiche,
osserviamo anche la mente.
La sensazione è indispensabile per esplorare fino in fondo la verità. Ogni cosa in cui ci imbattiamo nel mondo provoca
una sensazione all'interno del corpo. La sensazione è un crocevia in cui mente e corpo si incontrano. Sebbene sia di
natura fisica, è altresì uno dei processi mentali. Sorge dentro il corpo ed è sentita dalla mente. In un corpo morto o nella
materia inanimata non ci può essere sensazione perché non vi è mente.
Se siamo inconsapevoli di questa esperienza, la nostra indagine della realtà resta incompleta e superficiale. Proprio
come quando, liberando un giardino dalle erbacce, dobbiamo essere consapevoli delle radici nascoste e della loro
funzione vitale, allo stesso modo dobbiamo essere consapevoli delle sensazioni — la maggior parte delle quali
generalmente ci rimangono nascoste — se vogliamo comprendere la nostra natura e confrontarci con essa in modo
appropriato.
Le sensazioni si avvicendano senza sosta nel nostro corpo. Ogni contatto, mentale o fisico, produce una sensazione.
Ogni reazione biochimica da origine a una sensazione. Nella vita ordinaria, la mente conscia manca della con-
centrazione necessaria per essere consapevole di tutte le sensazioni — tranne le più intense —, ma una volta che
abbiamo affilato la mente con la pratica di anāpāna-sati e sviluppato la facoltà della consapevolezza, diveniamo capaci
di sperimentare consciamente la realtà di ogni sensazione che proviamo dentro di noi.
Nella pratica della consapevolezza della respirazione, lo sforzo consiste nell'osservare il respiro naturale, senza
controllarlo o regolarlo. Analogamente, nella pratica di vipassanā-bhāvanā osserviamo semplicemente le sensazioni
fisiche.
Facciamo scorrere l'attenzione sistematicamente attraverso tutta la struttura fisica, dalla testa ai piedi e dai piedi alla
testa, da un'estremità all'altra, ma così facendo non andiamo alla ricerca di qualche tipo particolare di sensazione, né
cerchiamo di evitare sensazioni di un certo tipo. Lo sforzo è solo quello di osservare oggettivamente, di essere
consapevoli di qualsiasi sensazione si manifesti nel corpo. Le sensazioni possono essere di qualsiasi tipo: calore,
freddo, pesantezza., leggerezza, prurito, palpitazione, contrazione, espansione, pressione, dolore, ronzio, pulsazione,
vibrazione, tremolio e altro ancora.
Il meditatore non cerca qualcosa di straordinario, ma osserva le sensazioni fisiche ordinarie così come si manifestano
naturalmente. Né deve fare sforzo alcuno per scoprire la causa di una sensazione: essa può nascere dalle condizioni
atmosferiche, o per la posizione in cui si è seduti, o per gli effetti di una vecchia malattia o della debolezza del corpo, o
anche per il cibo che si è ingerito. La ragione non è importante e non ci interessa. La cosa importante è di essere
consapevoli della sensazione che proviamo in quel determinato momento nella parte del corpo in cui l'attenzione è
concentrata.
Quando ci dedichiamo a questa pratica per la prima volta, possiamo essere in grado di percepire le sensazioni in alcune
parti del corpo e non in altre. Quando la facoltà della consapevolezza non è ancora pienamente sviluppata,
sperimentiamo solo le sensazioni intense e non le più fini, le più sottili. Tuttavia, alternativamente, continuiamo a
rivolgere l'attenzione a ogni parte del corpo, muovendo la nostra consapevolezza in ordine sistematico, senza per-
mettere all'attenzione di essere attratta indebitamente da sensazioni più forti. Essendo già educati alla concentrazione,
abbiamo sviluppato l'abilità di fissare l'attenzione su un oggetto scelto consciamente. Ora utilizziamo tale abilità per
muovere la consapevolezza su ogni parte del corpo in ordine progressivo, senza tralasciare le parti in cui la sensazione è
poco chiara per passare a quelle dove è più forte, senza soffermarci su qualche sensazione particolare e neppure cercare
di evitarne altre. In tal modo ci troveremo gradualmente nella situazione in cui potremo sperimentare le sensazioni in
ogni parte del corpo.
Quando si intraprende la pratica della consapevolezza della respirazione, il respiro sarà spesso pesante e irregolare. Poi
man mano si calma e diventa progressivamente più leggero, fine e delicato. Allo stesso modo, all'inizio della pratica di
vipassanā-bhāvanā, spesso si sperimentano sensazioni forti, intense e spiacevoli che sembrano durare a lungo, così
come possono sorgere emozioni forti, pensieri a lungo dimenticati, ricordi che apportano disagi fisici e mentali, persino
dolore. Gli ostacoli della bramosia e dell’avversione, della pigrizia, dell'agitazione e del dubbio, che impediscono di
progredire nella pratica della consapevolezza del respiro, possono ora ricomparire, e tanto forti da rendere
completamente impossibile mantenere la consapevolezza delle sensazioni. Di fronte a una tale situazione, non si ha
altra alternativa se non quella di ritornare alla pratica della consapevolezza del respiro per calmare e affinare ancora una
volta la mente.
Pazientemente, senza sentirci sconfitti, riprendiamo a operare per ristabilire la concentrazione, ben sapendo che tutte
queste difficoltà in realtà sono il risultato del nostro successo iniziale. Alcuni condizionamenti sepolti in profondità
sono stati stimolati e hanno cominciato ad apparire a livello conscio. Gradualmente, con uno sforzo prolungato, ma
senza tensioni, la mente riacquista la tranquillità e la concentrazione. I pensieri forti e le emozioni scompaiono e si può
ritornare alla consapevolezza delle sensazioni. Con una pratica continua e ripetuta, le sensazioni intense tendono a
dissolversi in sensazioni più uniformi e sottili e alla fine in semplici vibrazioni, che sorgono e se ne vanno con grande
rapidità.
Ma ai fini della meditazione è irrilevante che le sensazioni siano piacevoli o spiacevoli, intense o sottili, uniformi o
variate. Il compito dei meditatori è semplicemente quello di osservare con oggettività. Sia che le sensazioni spiacevoli
ci abbiano procurato disagio, sia che quelle piacevoli ci abbiano attratto, non dobbiamo fermare il nostro lavoro, né
permettere ad esse di distrarci o di intrappolarci; il nostro compito consiste solo nell'osservare noi stessi con lo stesso
distacco di uno scienziato alle prese con esperimenti di laboratorio.

Impermanenza, inesistenza dell'Io, sofferenza


Perseverando nella meditazione, comprenderemo ben presto un fatto basilare: le nostre sensazioni mutano costante-
mente. Ad ogni istante, in ogni parte del corpo, sorge una sensazione e ogni sensazione è indice di mutamento. Ad ogni
istante avvengono dei cambiamenti in ogni parte del corpo, delle reazioni elettromagnetiche e biochimiche. Ad ogni
istante, e più rapidamente ancora, i processi mentali cambiano e si manifestano con mutamenti fisici.
Questa è la realtà della mente e della materia: mutevole e impermanente: anicca. Ad ogni istante le particelle
subatomiche di cui è composto il corpo nascono e svaniscono. Ad ogni istante le funzioni mentali compaiono e
scompaiono, una dopo l'altra. Ogni cosa interna, fisica e mentale, così come il mondo esterno, cambia ad ogni istante.
E se in precedenza potevamo aver riconosciuto, aver compreso intellettualmente che questo era vero, ora, con la pratica
di vipassanā-bhāvanā, sperimentiamo invece la realtà dell'impermanenza dentro la struttura del nostro corpo.
L'esperienza diretta della transitorietà delle sensazioni ci prova la nostra natura effimera.
Ogni parte del corpo, ogni processo mentale è in uno stato di fluire continuo. Non c'è niente che permanga al di là del
singolo istante, nessun nucleo a cui potersi aggrappare, nulla che si possa chiamare « Io » o « mio ».
Questo Io è solo una combinazione di processi in continuo mutamento.
Così il meditatore arriva a comprendere un'altra realtà fondamentale: anattā, la non-esistenza di un Io reale, di un sé o di
un ego permanente. L'ego a cui si è così attaccati è un'illusione creata dalla combinazione di processi fisici e mentali,
processi in costante fluire. Avendo esplorato il corpo e la mente fino ai livelli più profondi, si verifica che non c'è un
nucleo immutabile, un'essenza che sia indipendente dai processi, nulla che sia esente dalla legge dell'impermanenza.
C'è solo un fenomeno impersonale, che cambia al di fuori del nostro controllo.
Allora un'altra realtà diviene chiara. Qualsiasi sforzo di aggrapparsi a qualcosa, dicendo: « questo è l'Io, questo è me,
questo è mio », ci costringe all'infelicità, perché prima o poi questo qualcosa a cui ci aggrappiamo se ne andrà, e anche
l'Io se ne andrà. L'attaccamento a ciò che è impermanente, transitorio, illusorio e fuori dal nostro controllo è sofferenza,
dukkha. Comprendiamo tutto questo non perché qualcuno ci dice che è così, ma perché lo sperimentiamo osservando le
sensazioni all'interno del nostro corpo.

Equanimità

Come si fa allora a non essere infelici? Come si fa a vivere senza sofferenza? Limitandosi ad osservare senza reagire:
invece di cercare di far durare un'esperienza o di evitarne un'altra, di procurarsene una o di scacciarne un'altra ancora,
non si fa altro che esaminare ogni fenomeno oggettivamente, con equanimità, con la mente equilibrata.
Sembra abbastanza semplice, ma che fare quando ci sediamo con l'intenzione di meditare per un'ora e dopo dieci minuti
ci fanno male le ginocchia? Cominciamo subito a odiare il dolore, a volere che se ne vada. Ma non se ne va; al
contrario, più lo odiamo, più diventa forte. Il dolore fisico diviene un dolore mentale, che provoca grande sofferenza.
Se possiamo apprendere per un momento solo a osservare il dolore fisico, se sia pure temporaneamente possiamo
liberarci dall'illusione che è il nostro dolore, che siamo noi a sentire dolore, se possiamo esaminare la sensazione
oggettivamente come un medico esamina il dolore di qualcun altro, allora ci accorgiamo che il dolore stesso cambia.
Non è fisso, cambia ad ogni istante, se ne va, ricomincia, cambia di nuovo.
Quando comprendiamo questo attraverso l'esperienza personale, scopriamo che il dolore non potrà più sopraffarci né
controllarci a lungo. Forse se ne andrà via rapidamente, forse no, ma non importa. Non soffriamo più per il dolore
perché possiamo osservarlo con distacco.

La via che conduce alla liberazione

Possiamo liberarci della sofferenza sviluppando consapevolezza ed equanimità. La sofferenza ha il suo principio
nell'ignoranza della propria realtà. Nel buio di questa ignoranza, la mente reagisce ad ogni sensazione con piacere o
dispiacere, bramosia o avversione. Ogni reazione di tale tipo crea sofferenza ora e mette in moto una catena di eventi
che in futuro non porteranno altro che sofferenza. Come si può rompere questa catena di cause ed effetti? In qualche
modo, a causa di azioni passate compiute nell'ignoranza, la vita è cominciata, il flusso di mente e materia ha avuto
inizio. Allora ci si dovrebbe suicidare? No, questo non risolverebbe il problema. Nel momento in cui ci si uccide, la
mente è colma di infelicità, colma di avversione. Qualsiasi cosa verrà dopo, anch'essa sarà colma di infelicità.
Tale azione non può condurre alla felicità.
La vita ha avuto inizio e da essa non si può scappare. Allora si dovrebbero distruggere le sei basi dell'esperienza
sensoriale? Ci si potrebbe strappare gli occhi, mozzare la lingua, distruggere naso e orecchie. Ma come si potrebbe
distruggere il corpo? Come si potrebbe distruggere la mente? Si tratterebbe di nuovo di suicidio, ossia di un atto inutile.
Si dovrebbero distruggere gli oggetti propri di ognuna delle sei basi sensoriali, tutte le cose visibili, i suoni e così via?
Non è possibile. L'universo è gremito di innumerevoli oggetti; nessuno riuscirebbe a distruggerli tutti. Dato che le sei
basi sensoriali esistono, è impossibile prevenirne il contatto con i rispettivi oggetti. Appena avviene il contatto, si è
costretti a provare una sensazione.
Ma questo è il punto in cui la catena può essere rotta. Il legame cruciale avviene nell'istante della sensazione. Ogni
sensazione da origine a piacere o dispiacere. Queste reazioni momentanee, inconsce, di piacere e dispiacere sono
immediatamente moltiplicate e intensificate in bramosia e avversione, in attaccamento, e producono infelicità sia ora
che nel futuro. È un'abitudine cieca che ripetiamo meccanicamente.
Con la pratica di vipassanā-bhāvanā, però, sviluppiamo la consapevolezza di ogni sensazione. E sviluppiamo
l'equanimità: non reagiamo. Esaminiamo la sensazione spassionatamente, senza che ci piaccia o ci dispiaccia, senza
bramosia, avversione o attaccamento. Invece di dar origine a reazioni nuove, ogni sensazione da ora origine soltanto a
saggezza, panna, alla comprensione profonda: «Tutto ciò è impermanente, transitorio, destinato a cambiare, a sorgere
per poi sparire».
La catena è stata rotta, la sofferenza è stata fermata. Non c'è alcuna nuova reazione di bramosia o avversione e quindi
nessuna causa da cui la sofferenza possa scaturire.
La causa della sofferenza è il kamma, l'azione mentale, ovvero la reazione cieca di bramosia e avversione, il sankhāra.
Quando la mente è consapevole della sensazione, ma mantiene l'equanimità, non c'è una reazione di questo tipo, non ci
sono cause che produrranno sofferenza: abbiamo smesso di creare sofferenza per noi stessi. Il Buddha ha detto:

Tutti i sankhāra sono impermanenti.


Quando realizzerete ciò con vera comprensione profonda,
allora vi staccherete dalla sofferenza:
questo è il sentiero della purificazione.

Qui la parola sankhāra ha un significato molto ampio. Una reazione mentale cieca è definita sankhāra, ma il risultato di
tale azione, il suo frutto, è anch'esso noto come sankhāra: da un certo seme, un certo frutto. Ogni cosa in cui ci
imbattiamo nella vita è in ultima analisi il risultato delle nostre azioni mentali. Quindi, nel senso più ampio, sankhāra
non significa altro che il mondo condizionato, tutto ciò che si è formato e composto. Ne consegue che «Tutte le cose
esistenti sono impermanenti», siano esse mentali o fisiche: ogni cosa nell'universo.
Quando si osserva questa verità con la saggezza basata sull'esperienza per mezzo della pratica di vipassanā-bhāvanā,
allora la sofferenza scompare, perché ci si allontana dalle cause della sofferenza, si abbandona cioè l'abitudine alla
bramosia e all'avversione. Questo è il sentiero della liberazione.
Tutto lo sforzo sta nell'apprendere come non reagire, come non produrre un nuovo sankhāra. Sorge una sensazione e ha
inizio il piacere o il dispiacere. Questo momento transitorio, se non ne siamo consapevoli, viene ripetuto e si intensifica
in bramosia e avversione, diventando un'emozione forte che talora opprime la mente conscia. Veniamo imprigionati
dall'emozione e tutti i nostri migliori propositi sono spazzati via. Il risultato è che ci troviamo impegnati in azioni e
discorsi malsani, nocivi a noi e agli altri. A causa di un momento di reazione cieca, ci procuriamo dolore e sofferenza,
ora e in futuro.
Ma se siamo consapevoli del punto in cui il processo di reazione inizia — se siamo cioè consapevoli della sensazione
— possiamo scegliere di non permettere alle reazioni di aver luogo o di intensificarsi. Osserviamo la sensazione senza
reagire, senza provare né piacere né dispiacere per essa. Così essa non ha alcuna possibilità di svilupparsi in bramosia o
avversione, in un'emozione forte che possa sopraffarci: semplicemente sorge e svanisce. La mente rimane in equilibrio,
in pace. Siamo felici ora e non possiamo aspettarci altro che felicità in futuro, poiché non abbiamo reagito.
Questa capacità di non reagire è di grande valore. Se siamo consapevoli della sensazione all'interno del corpo e nello
stesso tempo manteniamo l'equanimità, in quegli istanti la mente è libera. Forse all'inizio questi istanti possono essere
brevissimi, mentre per il resto del tempo, durante il periodo di meditazione, la mente resta sommersa dalle vecchie
abitudini di reazione alle sensazioni, al vecchio circolo vizioso di bramosia, avversione e infelicità. Ma con una pratica
ripetuta, quei brevi attimi diventeranno secondi, e poi minuti, finché cesserà la vecchia abitudine alla reazione e la
mente sarà costantemente in pace. Ecco come la sofferenza può essere fermata. Ecco come possiamo smettere di
procurarci infelicità.

Domande e risposte

DOMANDA: Perché dobbiamo far scorrere la nostra attenzione lungo il corpo seguendo un ordine preciso

SATYA NARAYAN GOENKA: Perché state lavorando per esplorare la completa realtà della mente e della materia. Per far
questo è necessario sviluppare la capacità di percepire ciò che accade in ogni parte del corpo: nessuna parte dovrebbe
rimanere insensibile. Dovete anche sviluppare la capacità di osservare tutta la gamma delle sensazioni. Il Buddha ha
descritto la pratica in questi termini: « In ogni luogo dentro i confini del corpo si sperimentano sensazioni, dovunque ci
sia vita nel corpo». Se permettete all'attenzione di muoversi a caso da una parte a un'altra, da una sensazione a un'altra,
naturalmente sarà sempre attratta dalle zone interessate da sensazioni più forti. La vostra osservazione rimarrà parziale,
incompleta, superficiale. Quindi è essenziale muovere sempre l'attenzione con ordine.

Come possiamo capire che non stiamo creando delle sensazioni?

Potete fare una prova. Se dubitate che le sensazioni che state provando siano reali, potete darvi due o tre ordini,
autosuggestioni. Se scoprite che le sensazioni cambiano a vostro comando, significa che non sono reali. In quel caso
dovete gettare via tutta quanta l'esperienza e ricominciare osservando il respiro per un po'. Ma se scoprite di non poter
controllare le sensazioni, ma che esse al contrario non cambiano a vostro piacimento, allora dovete scacciare i dubbi e
accettare il fatto che l'esperienza è reale.
Se queste sensazioni sono reali, perché non le proviamo nella vita ordinaria?

Lo fate a livello inconscio. La mente conscia è inconsapevole, ma in ogni momento la mente inconscia prova delle
sensazioni nel corpo e reagisce ad esse. Questo processo avviene ventiquattro ore su ventiquattro. Con la pratica di
Vipassana, tuttavia, si abbattono le barriere tra il conscio e l'inconscio. Diventate consapevoli di ogni cosa che accade
all'interno della vostra struttura fisica e mentale, di ogni cosa che sperimentate.

Permettere a noi stessi di provare deliberatamente dolore fisico può sembrare masochismo.

Lo sarebbe se vi si chiedesse di sperimentare solo dolore. Ma, al contrario, vi si chiede di osservare il dolore oggetti-
vamente. Quando osservate senza reagire, automaticamente la mente inizia a penetrare al di là della realtà apparente del
dolore fino alla sua natura sottile, che consiste unicamente in vibrazioni che nascono e svaniscono ad ogni istante.
E quando sperimentate tale sottile realtà, il dolore non può sopraffarvi. Siete voi i padroni di voi stessi, siete liberi dal
dolore.

Ma certamente il dolore può essere un segnale che c'è deficienza di sangue in qualche parte del corpo. È saggio ignorare
tale segnale?

Ebbene, abbiamo scoperto che questo esercizio non causa danni. Se lo facesse, non lo raccomanderemmo. Migliaia di
persone hanno praticato questa tecnica. Non conosco neppure un solo caso in cui qualcuno che si stava esercitando in
modo corretto si sia fatto del male. L'esperienza comune è che il corpo diventa docile e flessibile. Il dolore scompare
quando imparate ad affrontarlo con mente equilibrata.

Non è possibile praticare Vipassanā osservando una delle sei porte dei sensi, per esempio osservando il contatto degli
occhi con la visione e delle orecchie con il suono?

Certamente. Ma anche questa osservazione deve comportare la consapevolezza della sensazione. Ogni volta che
avviene un contatto in una delle sei basi sensoriali — occhi, orecchie, naso, lingua, corpo, mente — si produce una
sensazione. Rimanendone inconsapevoli, si perde di vista il puntò in cui inizia la reazione. Nel caso della maggior parte
dei sensi, il contatto può essere solo intermittente. A volte le vostre orecchie possono udire un suono, a volte no. Ma ai
livelli più profondi c'è ad ogni istante un contatto tra mente e materia che origina costantemente delle sensazioni.
Per questa ragione, osservare le sensazioni è la via più accessibile e vivida per sperimentare il fatto dell'impermanenza.
Prima di tentare di osservare le altre porte dei sensi, bisogna padroneggiare questa via.

Se dobbiamo solo accettare e osservare le cose così come vengono, in che modo può esserci progresso?

Il progresso si misura secondo lo sviluppo dell'equanimità. Non avete altra scelta se non l'equanimità, perché non potete
cambiare le sensazioni, non potete creare le sensazioni. Qualsiasi cosa sorge, sorge. Può essere gradevole o sgradevole,
di questo o di quel tipo, ma se mantenete l'equanimità, state certamente avanzando sul sentiero, state perdendo le
vecchie abitudini mentali alla reazione.

Questo accade nella meditazione, ma come riferirlo alla vita?

Quando nella vita quotidiana nasce un problema, bisogna fermarsi il tempo necessario per osservare le nostre sensa-
zioni con mente equilibrata. Quando la mente è calma ed equilibrata, qualsiasi decisione si prenda sarà quella buona.
Quando la mente è turbata, la decisione sarà una reazione. Bisogna imparare a trasformare il proprio comportamento in
modo da passare da reazioni negative ad azioni positive.

Quindi, se non si è in collera o critici, ma si nota che qualcosa può essere fatto in modo diverso, e migliore, allora si può
andare avanti e agire?

Sì, bisogna agire. La vita è fatta per l'azione, non bisogna diventare inattivi. Ma l'azione deve essere compiuta con una
mente equilibrata.

Oggi stavo impegnandomi per provare una sensazione in una parte del corpo che era intorpidita, e non appena la
sensazione è sorta la mente ha fatto un sobbalzo, mi sono sentito come se avessi segnato un punto per la mia squadra. E
mi sono mentalmente udito urlare: "Bene!". Poi ho pensato: "No, non voglio reagire così". Ma mi chiedo, una volta
tornato nel mondo, come posso andare a una partita di baseball o di calcio e non reagire?
Anche in un incontro di calcio agirete, non reagirete, e scoprirete di divertirvi un mondo. Un piacere accompagnato
dalla tensione della reazione non è un vero piacere. Quando la reazione cessa la tensione scompare, e solo allora è
possibile cominciare a godere la vita.

Allora posso saltare su e giù e gridare come voglio?

Sì, con equanimità. Fatelo con equanimità.

E che cosa faccio se la mia squadra perde?

In quel caso dovrete sorridere e dire « Siate felici! ». Siate felici in ogni situazione!

Mi sembra un punto fondamentale.

Sì!
CAPITOLO OTTAVO

CONSAPEVOLEZZA ED EQUANIMITÀ

Consapevolezza ed equanimità: in questo consiste la meditazione Vipassana. Se praticate assieme, esse conducono alla
liberazione dalla sofferenza. Se una o l'altra è debole o insufficiente, non è possibile avanzare lungo il sentiero che porta
alla meta. Sono entrambe essenziali, come un uccello che ha bisogno di due ali per volare o un carro di due ruote per
muoversi. E devono essere ugualmente forti. Se un'ala è debole e l'altra potente, l'uccello non può volare correttamente.
Se una ruota è piccola e l'altra grande, il carro continuerà a muoversi in tondo.
Per avanzare lungo il sentiero, il meditatore deve sviluppare sia la consapevolezza che l'equanimità.
Dobbiamo diventare consapevoli della totalità della mente e della materia nella loro natura più sottile. A questo scopo non
basta essere consapevoli solo degli aspetti superficiali del corpo e della mente, quali i movimenti fisici o i pensieri.
Dobbiamo sviluppare la consapevolezza delle sensazioni in tutto il corpo e conservare l'equanimità nei loro riguardi.
Se siamo consapevoli ma manchiamo di equanimità, tanto più allora diventiamo coscienti e sensibili alle sensazioni
interiori, quanto più aumenteranno le probabilità di reagire, e perciò di accrescere la sofferenza. D'altra parte, se abbiamo
raggiunto l'equanimità ma ignoriamo tutto delle sensazioni interiori, allora questa equanimità è solo superficiale e mantiene
a livello inconscio le reazioni che si avvicendano costantemente nelle profondità della mente senza che noi ce ne
accorgiamo. Dobbiamo quindi cercare di sviluppare sia la consapevolezza che l'equanimità ai livelli più profondi.
Dobbiamo fare in modo di essere consapevoli di ciò che accade dentro di noi e, nello stesso tempo, di non reagire, sapendo
che cambierà.
Questa è la vera saggezza: la comprensione della propria natura, una comprensione conseguita con l'esperienza diretta della
verità all'interno di se stessi. Questo è ciò che il Buddha chiamava yathà-bhùta-ìiàna-dassana, la saggezza che nasce
dall'osservazione della realtà così com'è. Con questa saggezza si può uscire dalla sofferenza. Ogni sensazione che si
presenta darà origine solo alla comprensione dell'impermanenza. Cessano tutte le reazioni, tutti i sankhàra della bramosia e
dell'avversione. Imparando ad osservare la realtà oggettivamente, si smette di creare sofferenza per se stessi.

II deposito delle reazioni passate

Rimanere consapevoli ed equilibrati è la via per fermare il prodursi di nuove reazioni, di nuove fonti di infelicità. Ma c'è
un'altra dimensione della nostra sofferenza con cui dobbiamo confrontarci. Smettendo di reagire da questo momento in poi,
possiamo impedire ulteriori cause di infelicità, ma in ciascuno di noi esiste un accumulo di condizionamenti, ovvero la
somma totale delle nostre reazioni passate. Anche se non aggiungiamo nulla di nuovo a questo deposito, i vecchi sankhàra
accumulati ci provocheranno ulteriore sofferenza.
La parola sankhàra può essere tradotta « formazione », intendendo con questo sia l'atto del formare sia ciò che è formato.
Ogni reazione è l'ultimo passo, il risultato di una sequenza di processi mentali, ma può anche essere il primo passo, la causa
di una nuova sequenza mentale. Ogni sankhàra è condizionato dai processi che conducono ad esso, e contemporaneamente
condiziona anche i processi successivi.
Il condizionamento opera influenzando la seconda funzione mentale, la percezione (trattata nel Capitolo Secondo).
La coscienza è fondamentalmente indifferenziata, non discriminante: ha il solo scopo di registrare i contatti che avvengono
nella mente o nel corpo. La percezione, invece, è discriminante: attinge dal deposito delle esperienze passate per valutare e
catalogare ogni nuovo fenomeno. Le reazioni passate sono dei punti di riferimento con cui cercare di spiegare una nuova
esperienza; la giudichiamo e la classifichiamo secondo i nostri passati sankhàra.
In tal modo le vecchie reazioni di bramosia e avversione influenzano la nostra percezione del presente. Invece di vedere la
realtà, vediamo «come attraverso delle lenti affumicate». La nostra percezione del mondo esterno e di quello interno è
distorta e oscurata dai nostri passati condizionamenti, dalle nostre preferenze e dai nostri pregiudizi. In conseguenza della
percezione distorta, una sensazione essenzialmente neutra diventa immediatamente piacevole o spiacevole. A questa
sensazione reagiamo ulteriormente, creando un nuovo condizionamento che distorce ancora di più la nostra percezione. In
tal modo ogni reazione diventa la causa di reazioni future, tutte condizionate dal passato e condizionanti a loro volta il
futuro.
La doppia funzione dei sankhàra è illustrata nella Catena del Sorgere Condizionato. Il secondo anello della catena è il
sankhàra, ossia la pre-condizione immediata del sorgere della coscienza, il primo dei quattro processi mentali. Tuttavia,
sankhàra è anche l'ultimo della serie dei processi, dopo la coscienza, la percezione e la sensazione. Riappare sotto questa
forma, più avanti nella catena e dopo la sensazione, come reazione di bramosia e avversione. Bramosia e avversione si
sviluppano in attaccamento, il quale diventa sorgente di una nuova fase di attività fisica e mentale. Così il processo si
alimenta da solo. Ogni sankhàra mette in moto una catena di eventi che creano un nuovo sankhàra, il quale a sua volta
mette in moto una nuova catena di eventi che si ripetono all'infinito, in un circolo vizioso. Ogni volta che reagiamo,
rafforziamo la nostra attitudine mentale alla reazione. Ogni volta che sviluppiamo bramosia o avversione, rafforziamo la
tendenza della mente a continuare a generarli. E quando questo schema mentale si è ben radicato, ne siamo catturati.
Per esempio, un uomo impedisce a qualcuno di ottenere un oggetto desiderato. La persona frustrata crede che quell'uomo
sia molto cattivo e lo detesta. Questa opinione — profondamente impressa nella mente inconscia della persona frustrata —
non si basa su considerazioni circa il carattere dell'uomo, ma unicamente sul fatto che egli ha frustrato il desiderio della
seconda persona. Ogni successivo contatto con quell'uomo porterà impresso questo marchio e farà nascere sensazioni
spiacevoli, le quali produrranno a loro volta nuova avversione, rafforzando ulteriormente l'immagine. Anche se i due si
incontrano dopo un intervallo di vent'anni, la persona che è stata frustrata tanto tempo prima pensa immediatamente che
quell'uomo sia molto cattivo e di nuovo prova antipatia. In vent'anni, il carattere del primo uomo può essere totalmente
cambiato, ma il secondo lo giudica secondo i criteri della passata esperienza. La reazione non avviene nei confronti
dell'uomo, ma dell'opinione su di lui basata su una reazione cieca originaria, e quindi prevenuta.
In un altro caso, un uomo aiuta qualcuno a ottenere un oggetto desiderato. La persona che è stata aiutata crede che
quell'uomo sia molto buono e lo stima. L'opinione è basata solo sul fatto che l'uomo ha aiutato una seconda persona a
soddisfare il suo desiderio, non su una attenta considerazione del suo carattere. L'opinione positiva è registrata nella mente
inconscia e connota il successivo contatto con quell'uomo, facendo sorgere sensazioni piacevoli che danno come risultato
un legame più forte, il quale a sua volta rafforza ulteriormente l'opinione. Per quanti anni possano trascorrere tra un
incontro e l'altro, lo stesso modello si ripete ad ogni nuovo contatto. Sia la persona frustrata che la persona gratificata non
reagiscono all'uomo in se stesso, ma esclusivamente alla loro opinione su di lui, basata sulla cieca reazione originaria.
In questo modo un sankhàra può dare origine a una nuova reazione, sia nell'immediato che nel lontano futuro. E ogni
reazione successiva diventa causa di ulteriori reazioni, destinate a non portare ad altro che a un'infelicità sempre maggiore.
E questo il processo di ripetizione delle reazioni, della sofferenza. Pensiamo di trovarci di fronte alla realtà esterna mentre
in realtà stiamo reagendo alle nostre sensazioni, le quali sono condizionate dalle nostre percezioni, le quali a loro volta sono
condizionate dalle nostre reazioni. Anche se a partire da un dato momento smettiamo di generare nuovi sankhàra,
dobbiamo ancora fare i conti con quelli accumulati nel passato. Permane quindi in noi una tendenza a reagire che può
riaffermarsi in qualsiasi circostanza, rendendoci infelici. E finché persiste questo vecchio condizionamento, ncn siamo
completamente liberi dalla sofferenza.
Come possiamo sradicare le vecchie reazioni? Per trovare una risposta a questa domanda è necessario comprendere più
profondamente come procede la meditazione Vipassana.

Sradicare i vecchi condizionamenti

Nel praticare Vipassana, il nostro compito è semplicemente quello di osservare le sensazioni del corpo. La causa di ogni
particolare sensazione non ci interessa; è sufficiente comprendere che ogni sensazione indica un cambiamento interno, che
può essere di origine fisica o mentale, giacché mente e corpo funzionano in modo interdipendente e spesso non si possono
differenziare: ciò che accade a un livello si riflette nell'altro.
A livello fisico, come è stato trattato nel Capitolo secondo, il corpo è composto di particelle subatomiche — kalàpa — che
in ogni momento nascono e spariscono con grande rapidità, manifestando in un'infinita varietà di combinazioni le qualità
basilari della materia — massa, coesione, temperatura e movimento — e producendo dentro di noi l'intera gamma delle
sensazioni.
Sono quattro le possibili cause del sorgere di kalàpa. La prima è il cibo che mangiamo; la seconda è l'ambiente in cui
viviamo. Ma tutto ciò che accade nella mente ha un effetto sul corpo e può essere responsabile del sorgere di kalàpa.
E quindi le altre due cause possono essere o le reazioni mentali in corso oppure le reazioni accumulate nel passato che
stanno influenzando lo stato mentale presente. Per funzionare, il corpo richiede cibo. Tuttavia, anche se non viene
alimentato, il corpo non crolla subito. Può continuare a sostenersi per settimane, consumando le energie conservate nei suoi
tessuti. Quando tutte le energie immagazzinate sono consumate, il corpo crolla e muore: il flusso fisico perviene alla fine.
Analogamente la mente deve restare attiva per mantenere il fluire della coscienza. Questa attività mentale è il sankhàra.
Secondo la Catena del Sorgere Condizionato, la coscienza ha origine dalle reazioni . Ogni reazione mentale è responsabile
dell'impeto dato al fluire della coscienza. E mentre il corpo richiede cibo solo ad intervalli, la mente richiede sempre nuove
stimolazioni. Senza di queste, il fluire della coscienza non può continuare neanche per un istante. Per esempio, se a un dato
momento generiamo avversione nella mente, nel momento successivo la coscienza che sorge è il prodotto di questa
avversione e così via, momento per momento. Noi continuiamo a ripetere la reazione di avversione momento dopo
momento, e a dare nuova energia alla mente.
Con la pratica di Vipassana, però, il meditatore impara a non reagire. A un dato momento non crea più sankhàra, non da
nuovi stimoli alla mente. Che accade allora al flusso psichico? Non si ferma subito: al contrario, l'una o l'altra delle reazioni
accumulate nel passato affioreranno alla mente per mantenere il flusso. Nascerà una risposta condizionata dal passato e su
questa base la coscienza continua per un altro momento. Il condizionamento apparirà a livello fisico causando il nascere di
un particolare tipo di kalàpa, che poi si sperimenta come una sensazione nel corpo. Può forse sorgere un passato sankhàra
di avversione, manifestandosi in qualità di particelle che si sperimentano come spiacevoli sensazioni brucianti all'interno
del corpo. Se a quelle sensazioni si reagisce con fastidio, si crea nuova avversione: si inizia a dare nuova energia al fluire
della coscienza e non si permette più ad un altro sankhàra proveniente dal deposito delle reazioni passate di emergere a
livello conscio.
Tuttavia, se capita una sensazione spiacevole e non si reagisce, allora non si creano nuovi sankhàra. I sankhàra scaturiti dal
vecchio deposito se ne vanno. Nell'istante successivo un altro sankhàra del passato sorge come una sensazione. Di nuovo,
se non si reagisce, se ne va. In tal modo, mantenendo l'equanimità, permettiamo alle reazioni accumulate nel passato di
affiorare alla mente, una dopo l'altra, manifestandosi come sensazioni. Gradualmente, conservando consapevolezza ed
equanimità nei riguardi delle sensazioni, sradichiamo i condizionamenti passati.
Finché permangono i condizionamenti di avversione, la tendenza inconscia della mente sarà di reagire con avversione
allorché si imbatte in qualche esperienza spiacevole. Finché permangono i condizionamenti di bramosia, la mente tenderà a
reagire con bramosia ad ogni situazione piacevole. Vipassana opera erodendo queste risposte condizionate. Mentre
procediamo nella pratica, continuiamo a imbatterci in sensazioni piacevoli e spiacevoli, e osservando ciascuna di esse con
equanimità, indeboliamo gradualmente, fino a distruggerle, le tendenze alla bramosia e all'avversione. Quando le risposte
condizionate di un certo tipo sono sradicate, si è liberi da quel tipo di sofferenza. E quando tutte le risposte condizionate
sono state sradicate, una dopo l'altra, la mente è completamente libera. Colui che ha compreso a fondo questo processo ha
detto:

In verità impermanenti sono le cose condizionate,


avendo esse la natura del nascere e del passare.
Se nascono e vengono estinte,
il loro sradicamento porta la vera felicità.

Ogni sankhàra nasce e scompare, per sorgere ancora nell'istante successivo in una ripetizione infinita. Se sviluppiamo la
saggezza e cominciamo ad osservare oggettivamente, la ripetizione si ferma per dare il via allo sradicamento. Strato dopo
strato, i vecchi sankhàra sorgono e vengono sradicati, a patto che non reagiamo. Per quanti sankhàra abbiamo sradicato,
godremo di altrettanta felicità, la felicità della libertà dalla sofferenza. Se tutti i sankhàra passati sono sradicati, godiamo la
felicità illimitata della piena liberazione.
La meditazione Vipassana è quindi un tipo di digiuno mentale che ha lo scopo di eliminare i condizionamenti passati.
In ogni momento, per tutta la durata della nostra vita, abbiamo generato delle reazioni: ora, conservandoci consapevoli ed
equilibrati, abbiamo alcuni momenti in cui non reagiamo e quindi non generiamo nuovi sankhàra. Quei pochi momenti, per
quanto brevi possano essere, sono molto potenti: mettono in moto il processo inverso, il processo di purificazione.
Per far scattare questo processo, non dobbiamo letteralmente fare nulla, dobbiamo cioè semplicemente astenerci da ogni
nuova reazione. Qualunque sia la causa delle sensazioni che proviamo, vanno osservate con equanimità. L'atto di generare
consapevolezza ed equanimità eliminerà automaticamente le vecchie reazioni, proprio come l'atto di accendere una
lampada disperde l'oscurità di una stanza.
Il Buddha ha narrato un giorno la storia di un uomo che aveva fatto molti doni caritatevoli, concludendola con queste
parole:

Anche se costui ha compiuto gli atti più caritatevoli, sarebbe stato ancor più fruttuoso per lui rifugiarsi col cuore disponibile
nell'Illuminato, in Dhamma e in tutte le persone sante. E dopo aver fatto questo, sarebbe stato ancor più fruttuoso per lui
impegnarsi col cuore disponibile nei cinque precetti. E dopo di ciò, sarebbe stato ancor più fruttuoso per lui coltivare la
benevolenza verso tutti giusto per il tempo necessario a mungere una mucca. E una volta fatto tutto questo, sarebbe stato
ancor più fruttuoso per lui sviluppare la consapevolezza dell'impermanenza giusto per il tempo necessario a schioccare le
dita.

A volte il meditatore può essere consapevole della realtà delle sensazioni nel corpo solo per un attimo e non reagisce perché
ne comprende la natura transitoria. Ma anche questo breve momento avrà un effetto potente. Con una pratica paziente,
ripetuta, continua, quei pochi momenti di equanimità aumenteranno e i momenti reattivi diminuiranno. Gradualmente
l'abitudine mentale alla reazione si interromperà e i vecchi condizionamenti saranno sradicati, finché verrà il tempo in cui la
mente sarà liberata da tutte le reazioni, passate e presenti, liberata da tutte le sofferenze.

Domande e risposte

DOMANDA: Questo pomeriggio ho cercato una nuova posizione in cui mi fosse facile sedere a lungo senza muovermi,
mantenendo la schiena eretta, ma non ho potuto provare molte sensazioni. Mi chiedo se le sensazioni verranno o se devo
ritornare alla vecchia posizione.
SATYA NARAYAN GOENKA: Non cercate di creare sensazioni scegliendo una posizione scomoda. Se fosse quello il modo
giusto di praticare, vi chiederemmo di sedere su un letto di chiodi! Tali estremi non aiutano. Scegliete una posizione
confortevole in cui il corpo sia eretto e lasciate che le sensazioni vengano naturalmente. Non cercate di crearle per forza,
consentite loro solo di apparire. Verranno, perché esistono: e se anche vi aspettate una sensazione già provata in
precedenza, ci può sempre essere qualcos'altro.

Ho provato sensazioni più sottili delle precedenti. Nella mia prima posizione era arduo rimanere seduto per più di un breve
periodo senza muovermi.

Allora è bene che abbiate trovato una posizione più confortevole. Ora lasciate che la sensazione sia naturale. Forse alcune
sensazioni forti sono scomparse, ed è il momento per voi di affrontare quelle più sottili, ma la mente non è ancora tanto
acuta per sentirle. Per renderla più acuta, lavorate sulla consapevolezza della respirazione per un po'. Questo migliorerà la
concentrazione e vi sarà più facile sentire le sensazioni sottili.

Pensavo che fosse meglio provare delle sensazioni forti, perché questo significava che un vecchio sankhàra era riemerso.

Non necessariamente. Certe impurità appaiono come sensazioni molto sottili. Perché desiderare ardentemente sensazioni
forti? Qualsiasi cosa appaia, forte o sottile, il nostro compito è di osservarla.

Dobbiamo cercare di identificare quale sensazione è associata con una data reazione?

Sarebbe una perdita inutile di energia. Sarebbe come se qualcuno, lavando un vestito sporco, si fermasse su ogni macchia
per controllare ciò che l'ha provocata. Questo non lo aiuterebbe nel suo lavoro, che è solo quello di pulire il vestito: e per
farlo, quel che importa è avere un pezzo di sapone da bucato e usarlo nel modo giusto. Se il vestito viene lavato
correttamente, tutto lo sporco scompare. Allo stesso modo, chi ha ricevuto il sapone di Vipassana deve usarlo per
rimuovere tutte le impurità della mente. Chi ricerca la causa di alcune particolari sensazioni, sta facendo un gioco
intellettuale e si dimentica di anicca e di anattà. Questa intellettualizzazione non può aiutare nessuno a uscire dalla
sofferenza.

Sono confuso su chi sta osservando e chi o cosa viene osservato.

Nessuna risposta intellettuale può essere soddisfacente. Ciascuno deve indagare per proprio conto. "Che cos'è questo Io che
sta facendo tutto questo? Chi è questo Io?" Bisogna continuare a esplorare, ad analizzare, a vedere se viene fuori un
qualche Io; se è così, osservatelo. Se non viene fuori niente, allora bisogna accettare: "Questo Io è un'illusione".

Alcuni tipi di condizionamenti mentali non sono forse positivi? Perché cercare di sradicarli?

I condizionamenti positivi ci motivano a lavorare per la liberazione dalla sofferenza. Ma quando questo scopo è ottenuto,
tutti i condizionamenti, positivi e negativi, devono essere abbandonati. È come usare una zattera per attraversare un fiume.
Una volta che il fiume sia stato attraversato, non si continua il viaggio portandosi la zattera in testa. Una volta che è servita
allo scopo essa diventa inutile e deve essere abbandonata. Allo stesso modo, chi è completamente liberato non ha bisogno
di condizionamenti. Una persona è liberata non a causa di condizionamenti positivi, ma a causa della purezza della mente.

Perché sperimentiamo sensazioni spiacevoli quando iniziamo a praticare Vipassana e perché le sensazioni piacevoli
arrivano successivamente?

Vipassana opera sradicando dapprima le impurità più grossolane. Quando puliamo un pavimento, dapprima raduniamo i
rifiuti più grossi; quindi, ad ogni passata, raccogliamo la polvere sempre più fine. Così nella pratica di Vipassana: dapprima
vengono sradicate le impurità mentali più grossolane, mentre le più sottili rimangono, apparendo come sensazioni
piacevoli. Ma è pericoloso sviluppare desiderio per queste sensazioni piacevoli. Quindi dovete stare attenti a non scambiare
una piacevole esperienza sensibile per la meta finale. Per sradicare tutte le reazioni condizionate bisogna continuare ad
osservare ogni sensazione oggettivamente.

Avete affermato che ciascuno di noi ha i suoi panni sporchi, e anche il sapone per lavarli. Oggi mi sento come se fossi
rimasto pressoché senza sapone! Questa mattina la mia pratica è stata molto intensa, ma nel pomeriggio ho cominciato a
sentirmi davvero disperato e arrabbiato, e a chiedermi quale fosse l'utilità di tutto. È stato come se, quando ero nel pieno
della meditazione, sorgesse a contrastare questa forza un nemico interno — l'ego forse — a mettermi fuori combattimento.
Sentivo inoltre di non avere la forza per combatterlo. C'è un modo per mettersi da parte così da non dover combattere tanto
duramente, qualche modo intelligente per farlo?

Mantenere l'equanimità, ecco la via più intelligente! Quello che avete sperimentato è assai naturale. Quando vi sembrava
che la meditazione andasse per il meglio, la mente era equilibrata e penetrava in profondità nell'inconscio. Come risultato
di tale operazione in profondità, una reazione del passato è stata smossa ed è emersa alla superficie della mente, così nella
seduta successiva avete dovuto affrontare una burrasca di negatività. In tale situazione l'equanimità è essenziale, perché in
caso contrario la negatività avrebbe il sopravvento e non potreste lavorare. Se l'equanimità appare debole, bisogna applicare
la consapevolezza del respiro. Quando viene una grossa burrasca, bisogna gettare l'ancora e aspettare che passi. In questi
casi, è il respiro che funge da ancora. Utilizzatelo, e la burrasca passerà. È bene che questa negatività sia emersa, dandovi la
possibilità di liberarvene. Sé saprete conservare l'equanimità, scomparirà facilmente.

Anche se non provo dolore, posso ugualmente avvantaggiarmi da questi esercizi?

Se siete consapevoli ed equilibrati allora — dolore o non dolore — state certamente facendo dei progressi. Non è
necessario sentire dolore per fare progressi sul sentiero. Se non c'è dolore, bisogna accettare il fatto che non c'è dolore.
Bisogna solo osservare ciò che c’è .

Ieri ho avuto un'esperienza in cui tutto il mio corpo si sentiva come dissolto, come se fosse ovunque solo una massa di
vibrazioni.

Sì?

Quando questo accadeva mi sono ricordato che da bambino avevo avuto un'esperienza simile. Per tutti questi anni ho
cercato una via per provare ancora un'esperienza simile. Ed eccola di nuovo.

Sì?

Naturalmente volevo che l'esperienza continuasse, la volevo prolungare. Ma essa è cambiata e se n'è andata. E allora ho
cercato di farla tornare ancora, ma senza risultato. Anzi, da questa mattina ho avuto solo esperienze grossolane.

Sì?

E poi ho compreso quanto mi rendevo infelice a cercare di ottenere quell'esperienza.

Sì?

E poi ho compreso che in realtà non siamo qui per fare delle esperienze particolari. Giusto?

Giusto.

Che in realtà siamo qui per imparare ad osservare ogni esperienza senza reagire. Giusto?

Giusto.

Per cui, ciò di cui tratta realmente questa meditazione è lo sviluppo dell'equanimità. Giusto?

Giusto!

Mi sembra che ci voglia un'eternità per eliminare uno alla volta tutti i passati sankhàra.

Sarebbe così se ad ogni singolo momento di equanimità corrispondesse un singolo sankhàra del passato in meno. Ma nei
fatti la consapevolezza delle sensazioni vi porta al livello più profondo della mente e vi permette di tagliare le radici dei
condizionamenti passati. In questo modo, in un tempo relativamente breve potete eliminare interi complessi di sankhàra,
a patto che la vostra consapevolezza e la vostra equanimità siano forti.

E allora quanto tempo occorre per questo processo di purifìcazionel


Ciò dipende da quanto grande è il vostro deposito di sankhàra che dovete eliminare, e quanto forte è la vostra meditazione.
Non potete calcolare il vostro deposito passato, ma potete essere certi che più meditate seriamente, più velocemente vi
avvicinate alla liberazione. Continuate a lavorare risolutamente verso quella meta. Verrà il tempo,
più presto di quanto pensiate, in cui la raggiungerete.
CAPITOLO NONO

LA META

«Qualsiasi cosa abbia la natura del nascere, ha anche la natura del finire». L'esperienza di questa realtà è l'essenza
dell'insegnamento del Buddha. Mente e corpo sono soltanto un insieme di processi che nascono e scompaiono co-
stantemente. La nostra sofferenza sorge quando sviluppiamo attaccamento per i processi, per ciò che in realtà è effimero
e non ha sostanza. Se siamo in grado di comprendere direttamente la natura impermanente di questi processi, il nostro
attaccamento ad essi svanirà. Questo è il compito che si assumono i meditatori: capire la propria natura transitoria
osservando le sensazioni interne in continuo mutamento. Quando si presenta una sensazione, non reagiscono, ma le
permettono di nascere e sparire. Così facendo consentono ai vecchi condizionamenti mentali di emergere in superficie e
sparire. Quando condizionamento e attaccamento cessano, cessa la sofferenza e si sperimenta la liberazione. E un compito
lungo, che richiede un'applicazione costante. I benefici compaiono ad ogni passo lungo la via, ma ottenerli richiede uno
sforzo ripetuto. Solo esercitandosi con pazienza, perseveranza e continuità il meditatore può avanzare verso la meta.

Il raggiungimento della verità ultima

Ci sono tre livelli di progresso sul sentiero. Il primo consiste solo nell'imparare la tecnica, come funziona e perché.
Il secondo consiste nel metterla in pratica. Il terzo è la penetrazione, cioè l'uso della tecnica per penetrare in profondità
nella propria realtà e perciò progredire verso la meta finale.
Il Buddha non negava l'esistenza di un mondo apparente di strutture e forme, colori, sapori, odori, dolori e piaceri,
pensieri ed emozioni, di esseri — se stessi e gli altri. Si limitava ad affermare che questa non è la realtà ultima. Con la
visione ordinaria percepiamo solo i modelli su larga scala in cui i fenomeni più sottili si organizzano. Vedendo solo i
modelli e non i componenti sottostanti, siamo innanzitutto consapevoli delle loro differenze, e quindi facciamo
distinzioni, assegniamo etichette, ci formiamo preferenze e pregiudizi, cominciamo a provare piacere e dispiacere: tutto il
processo che poi si sviluppa in bramosia e avversione. Per abbandonare l'abitudine alla bramosia e all'avversione, è
necessario non solo avere una visione completa, ma vedere le cose in profondità, percepire i fenomeni sottostanti che
compongono la realtà apparente. Questo è precisamente ciò che la pratica della meditazione Vipassana ci permette di fare.
Ogni autoesame inizia naturalmente con l'aspetto più ovvio di ciascuno di noi: le diverse parti del corpo, le varie membra
e i vari organi. Un'ispezione più ravvicinata rivela che alcune parti del corpo sono solide, altre liquide, altre in
movimento, altre ancora ferme. Forse percepiamo la temperatura corporea distinta dalla temperatura dell’atmosfera
circostante. Tutte queste osservazioni possono aiutarci a sviluppare una maggiore autoconsapevolezza, ma sono ancora
dei risultati di un esame della realtà apparente in un composto di strutture e forme. Quindi persistono le distinzioni, le
preferenze e i pregiudizi, le bramosie e le avversioni.
La meditazione ci conduce oltre, attraverso l'esercizio della consapevolezza delle sensazioni interiori, che rivelano
senz'altro una realtà più sottile della quale in precedenza eravamo ignoranti. Dapprima siamo consapevoli dei diversi tipi
di sensazione nelle diverse parti del corpo, sensazioni che sembrano sorgere, permanere per qualche tempo e finalmente
sparire. Sebbene siamo ormai avanzati oltre il livello superficiale, stiamo ancora osservando gli schemi integrati della
realtà apparente. Per questa ragione non siamo ancora liberi dalla discriminazione, dalla bramosia e dall'avversione.
Se continuiamo a praticare con diligenza, prima o poi arriveremo al livello in cui la natura delle sensazioni cambia.
Ora siamo consapevoli dell'uniformità delle sensazioni sottili attraverso tutto il corpo: sorgono e spariscono con grande
rapidità. Siamo penetrati al di là degli schemi integrati sino a percepire i fenomeni sottostanti di cui sono composti, le
particelle subatomiche di cui tutta la materia è costituita. Sperimentiamo direttamente la natura effimera di queste
particelle, che nascono e scompaiono continuamente. Ora, di tutto ciò che osserviamo interiormente, sia esso sangue od
ossa, solido o liquido o gassoso, bello o brutto, percepiamo solo una massa di vibrazioni indistinte. Alla fine il processo
che ci porta a fare distinzioni e ad assegnare etichette cessa. Abbiamo esperienza di ciò che c'è all'interno della struttura
dei nostri corpi, la verità ultima della materia: un flusso costante, che nasce e scompare.
Analogamente, la realtà apparente dei processi mentali può essere penetrata sino ai livelli più sottili. Per esempio, capita
un momento di piacere o di dispiacere, basato su un condizionamento passato. Il momento seguente la mente ripete la
reazione di piacere o dispiacere e la rinforza attimo per attimo fino a svilupparla in bramosia o avversione. Di solito siamo
consapevoli solo delle reazioni intensificate. Con questa percezione superficiale, cominciamo a identificare e discriminare
tra piacevole e spiacevole, buono e cattivo, voluto e non voluto. Ma un'emozione intensificata si comporta esattamente
come una realtà materiale apparente: quando iniziamo a esaminarla osservando le sensazioni interiori, essa si dissolve.
Così come la materia non è altro se non sottili ondicine di particelle subatomiche, così una forte emozione è solo la forma
consolidata di piaceri e dispiaceri momentanei, di momentanee reazioni alle sensazioni. Una volta che una forte emozione
si sia dissolta in forme più sottili, non ha più il potere di sopraffarci.
Dall'osservazione delle diverse sensazioni consolidate nelle diverse parti del corpo avanziamo verso la consapevolezza
delle sensazioni più sottili di natura uniforme, che nascono e svaniscono costantemente in tutta la struttura fisica. A causa
della grande rapidità con cui le sensazioni compaiono e scompaiono, possono essere sperimentate come un flusso di
vibrazioni, una corrente che si muove attraverso il corpo. Ovunque fissiamo l'attenzione all'interno della struttura fisica,
non siamo consapevoli di null'altro se non del nascere e dello svanire. Ogni volta che nella niente sorge un pensiero siamo
consapevoli delle sensazioni fisiche che lo accompagnano, le quali sorgono e svaniscono. L'apparente solidità del corpo e
della mente si dissolve, e noi sperimentiamo la realtà ultima della materia, della mente e delle formazioni mentali:
null'altro se non vibrazioni, oscillazioni, che sorgono e svaniscono con grande rapidità. Colui che ha sperimentato questa
verità disse:

Tutto il mondo è in fiamme,


tutto il mondo va in fumo.
Tutto il mondo sta bruciando,
tutto il mondo è in vibrazione.

Per raggiungere questo livello di dissoluzione (bhanga), il meditatore non deve far altro che sviluppare la consapevolezza
e l'equanimità. Così come uno scienziato può osservare i più minuti fenomeni aumentando l'ingrandimento del
microscopio, sviluppando la consapevolezza e l'equanimità si aumenta l'abilità di osservare le realtà interiori più sottili.
Questa esperienza, quando avviene, è certamente molto piacevole. Tutti i mali e i dolori sono dissolti, tutte le aree
prive di sensazioni sono scomparse. Ci si sente in pace, felici, colmi di beatitudine. Il Buddha la descrive così:

Ogni volta che si sperimenta


il sorgere e lo svanire dei processi fisici e mentali,
si sperimenta beatitudine e gioia.
Si ottiene l'immortalità, come l'ha realizzata il saggio.

La beatitudine sorgerà sicuramente allorché si avanza sul sentiero, quando l'apparente solidità della mente e del corpo si è
dissolta. Compiaciuti da questa gradevole situazione, potremmo pensare che sia la meta finale. Ma è solo una stazione di
transito. Da questo punto in poi avanziamo ulteriormente per sperimentare la verità ultima al di là della mente e della
materia, per raggiungere la completa libertà dalla sofferenza.
Il significato di queste parole del Buddha ci diventa molto chiaro attraverso la pratica meditativa. Penetrando dalla realtà
apparente a quella sottile, iniziamo a godere del flusso delle vibrazioni attraverso il corpo. Poi improvvisamente il flusso
se ne va. Di nuovo facciamo esperienza di sensazioni intense e spiacevoli in alcune parti, mentre altre parti rimangono
insensibili. Di nuovo possiamo anche sperimentare un'intensa emozione nella mente. Se cominciamo a provare avversione
per questa nuova situazione e a desiderare che il flusso ritorni, non abbiamo compreso correttamente la meditazione
Vipassana, anzi l'abbiamo scambiata per un gioco il cui scopo è di ottenere esperienze piacevoli ed evitare o eliminare
quelle spiacevoli. Ed è lo stesso gioco che abbiamo fatto per tutta la vita: il circolo senza fine dello spingere e del tirare,
dell'attrazione e della repulsione, che conduce solo all'infelicità.
Non appena la saggezza aumenta, scopriamo tuttavia che l'avvicendarsi di sensazioni forti, anche dopo l'esperienza di
dissoluzione, non indica una regressione quanto piuttosto un progresso. Chi pratica Vipassana non lo fa con lo scopo di
sperimentare un particolare tipo di sensazione, ma per liberare la mente da tutti i condizionamenti. Se reagiamo alle
sensazioni, accresciamo la sofferenza. Se rimaniamo equilibrati, ci sbarazziamo di qualche condizionamento e la
sensazione diviene un mezzo per liberarci dalla sofferenza. Osservando le sensazioni spiacevoli senza reagire,
sradichiamo l'avversione. Osservando le sensazioni piacevoli senza reagire, sradichiamo la bramosia. Osservando le
sensazioni neutre senza reagire, sradichiamo l'ignoranza. Perciò nessuna sensazione, nessuna esperienza è intrinsecamente
buona o cattiva. È buona se chi la prova mantiene l'equilibrio; è cattiva se fa perdere l'equanimità.
Con questa conoscenza, possiamo utilizzare ogni sensazione come uno strumento per sradicare i condizionamenti. Questo
è lo stadio del sankhàra-upekkhà, dell'equanimità verso tutti i condizionamenti, che conduce passo dopo passo alla verità
ultima della liberazione, il nibbàna.

L'esperienza della liberazione

La liberazione è possibile. Si può raggiungere la libertà da tutti i condizionamenti, da tutte le sofferenze. Il Buddha ha
spiegato:

C'è una sfera di esperienza, che sta al di là dell'intero campo della materia, dell'intero campo della mente, che non è né
questo né un altro mondo, né entrambi, né la luna, né il sole. È ciò che io non chiamo né sorgere, né svanire, né durare,
né morire o rinascere. Non ha sostegno, non ha sviluppo, non ha fondamento. È questa la fine della sofferenza.

Ha detto anche:

C'è un non nato, un non divenuto, un non creato, un non condizionato. Se non ci fosse un non nato, un non divenuto, un
non creato, un non condizionato, come si potrebbe conoscere un modo per liberarsi dal nato, dal divenuto, dal creato,
dal condizionato? Ma dal momento che c'è un non nato, un non divenuto, un non creato, un non condizionato, allora
conosciamo una via per liberarci dal nato, dal divenuto, dal creato, dal condizionato.

Il nibbàna non è solo la condizione alla quale si perviene dopo la morte; è qualcosa da sperimentare dentro di sé qui e ora.
È descritto in termini negativi non perché sia un'esperienza negativa, ma perché non abbiamo nessun altro modo per
descriverlo. Ogni linguaggio ha parole concernenti l'intera gamma dei fenomeni fisici e mentali, ma non ci son parole o
concetti per descrivere qualcosa che è al di là della mente e della materia, che sfida tutte le categorie, tutte le distinzioni.
Possiamo descriverlo solo dicendo ciò che non è.
Di fatto, non ha senso cercare di descrivere il nibbàna. Qualsiasi descrizione potrà solo confondere. Più che discuterlo o
studiarlo, ciò che importa è sperimentarlo. « La nobile verità della cessazione della sofferenza deve essere realizzata da se
stessi », ha affermato il Buddha. Quando qualcuno sperimenta il nibbàna, solo allora esso diviene reale per lui, e tutte le
argomentazioni su di esso diventano irrilevanti.
Per sperimentare la verità ultima della liberazione è necessario in primo luogo penetrare oltre la realtà apparente e
sperimentare la dissoluzione del corpo e della mente. Più si penetra oltre la realtà apparente, più si abbandona la
bramosia, l'avversione e l'attaccamento, più ci si avvicina alla verità ultima. Un passo dopo l'altro, a un certo punto si
raggiungerà naturalmente un livello in cui il passo seguente è costituito dall'esperienza del nibbàna. Non esiste una
particolare ragione per desiderarlo ardentemente né per dubitare che arriverà. Deve arrivare per tutti quelli che praticano
correttamente Dhamma. Quando, nessuno può dirlo. Dipende in parte dall'accumulo di condizionamenti che ognuno ha,
in parte dagli sforzi messi in atto per sradicarli. Tutto ciò che si può fare, tutto ciò che bisogna fare per raggiungere lo
scopo, è di continuare ad osservare ogni sensazione senza reagire.
Non possiamo decidere quando sperimenteremo la verità ultima del nibbdna, ma possiamo verificare se stiamo
progredendo verso di essa controllando lo stato attuale della nostra mente. Conservando l'equanimità in tutte le situazioni
che si presentano fuori e dentro di noi, in quel preciso momento raggiungiamo la liberazione. Chi ha conseguito la meta
ultima ha affermato: « Estinzione della bramosia, estinzione dell'avversione, estinzione dell'ignoranza: questo è chiamato
nibbdna. » Nella misura in cui là mente sarà libera da queste negatività, si sperimenterà la liberazione. Ógni momento in
cui pratichiamo correttamente Vipassana possiamo sperimentare questa liberazione. Dopo tutto, per definizione, Dharnma
deve dare dei risultati qui ed ora, non solo nel futuro. Dobbiamo sperimentare i suoi benefici ad ogni passo compiuto sulla
via, ed ogni passo deve condurci direttamente verso la meta. La mente che in un dato momento è libera dai condiziona-
menti, è una mente in pace. Ciascuno di questi momenti ci porta più vicino alla liberazione totale.
Non possiamo sforzarci di sviluppare il nibbdna, dal momento che il nibbdna non si sviluppa, semplicemente è. Possiamo
però sforzarci si sviluppare la qualità che ci conduce al nibbdna, la qualità dell'equanimità. Ogni momento in cui
osserviamo la realtà senza reagire, penetriamo nella verità ultima. La più alta espressione della mente è l'equanimità
basata sulla piena consapevolezza della realtà.

La vera felicità

Una volta al Buddha venne chiesto di spiegare cosa fosse la vera felicità. Egli elencò varie azioni benefiche che pro-
ducono felicità, degli autentici stati di felicità. Esse rientrano tutte in due categorie: azioni che contribuiscono al benessere
degli altri adempiendo a tutte le responsabilità nei confronti della famiglia e della società, e azioni che purificano la
mente. Il proprio bene non è separabile dal bene degli altri. Alla fine disse:

Di fronte agli alti e bassi della vita


la mente rimane sempre equilibrata,
non si lamenta, non genera impurità, si sente sempre sicura;
questa è la felicità più grande.

Qualsiasi cosa nasca, sia all'interno del proprio microcosmo mentale o fisico, che nel mondo esterno, può essere
fronteggiata: non con la tensione, né con la soppressione della bramosia o dell'avversione, bensì con una calma totale, col
sorriso che proviene dalle profondità della mente. In ogni situazione, piacevole o spiacevole, voluta o non voluta, non si
prova ansia, ci si sente totalmente sicuri, di quella sicurezza che proviene dalla comprensione dell'impermanenza. Questa
è la felicità più grande.
Sapere che siete padroni di voi stessi, che nulla vi può sopraffare, che potete accettare con un sorriso qualsiasi cosa la vita
vi offra: questo è il perfetto equilibrio mentale, la vera liberazione. Questo è ciò che si può ottenere qui ed ora praticando
la meditazione Vipassana. Questa vera equanimità non è puramente negativa, e nemmeno fredda indifferenza. Non è la
cieca acquiescenza o l'apatia di chi cerca di sfuggire ai problemi della vita, di chi cerca di nascondere la testa nella sabbia.
Piuttosto, il vero equilibrio mentale è basato sulla piena consapevolezza dei problemi, la consapevolezza di tutti i livelli
della realtà.
L'assenza di bramosia e avversione non implica un'attitudine di arida indifferenza, in cui si gode della propria liberazione
ma non ci si da pensiero della sofferenza degli altri. Al contrario, la vera equanimità è chiamata propriamente «santa
indifferenza». È una qualità dinamica, un'espressione di purezza mentale. Libera dall'abitudine alla reazione cieca, per la
prima volta la mente può intraprendere un'azione positiva, e in quanto tale creativa, produttiva e benefica per se stessi e
per tutti gli altri. Insieme con l'equanimità sorgeranno le altre doti di una mente pura: benevolenza, amore che cerca il
bene degli altri senza aspettarsi nulla in cambio, compassione per gli altri, per le loro debolezze e le loro sofferenze, gioia
e simpatia per i loro successi e la loro fortuna. Queste quattro qualità sono l'inevitabile conseguenza della pratica di
Vipassana.
Se prima si cercava sempre di conservare tutto il buono per sé e di scaricare sugli altri le esperienze negative, ora si
comprende che la propria felicità non può essere conseguita a spese degli altri, e che dare felicità agii altri porta felicità a
se stessi. Quindi si cerca di spartire con gli altri tutto ciò che di buono si possiede. Usciti dalla sofferenza e sperimentata
la pace della liberazione, si comprende che è questo il bene più grande. Di conseguenza si desidera che anche gli altri
possano sperimentare questo bene e cercare la via per uscire dalla sofferenza.
Questa è la conclusione logica della meditazione Vipassana: mettà-bhàvanà, lo sviluppo della benevolenza verso gli altri.
Se in precedenza si approvavano a parole tali sentimenti mentre in profondità i processi di bramosia e avversione
continuavano, ora, in qualche misura, il processo reattivo si è fermato, la vecchia abitudine all'egoismo è scomparsa e la
benevolenza fluisce con naturalezza dalle profondità della mente. Con l'immensa forza della mente pura, la benevolenza
può contribuire moltissimo a creare un'atmosfera pacifica e armoniosa a beneficio di tutti.
Ci sono persone che pensano che essere sempre equanimi significa non godere più la vita nelle sue infinite varietà, come
se un pittore che ha a disposizione una tavolozza piena di colori decidesse di usare solo il grigio, o chi, avendo a
disposizione un pianoforte, decidesse di suonare sempre e solo un'unica nota. È un concetto sbagliato dell'equanimità. Il
problema vero è che il piano è scordato e noi non sappiamo come suonarlo. Pestare semplicemente sui tasti in nome
dell'auto-espressione creerà soltanto dissonanze. Ma se impariamo ad accordare lo strumento e a suonarlo correttamente,
allora potremo fare della musica usando tutta la tastiera dalla nota più bassa alla più alta: e ciascuna di esse creerà soltanto
armonia e bellezza.
Il Buddha disse che purificando la mente e conseguendo la « saggezza fino alla sua massima perfezione », si prova «
gioia, beatitudine, tranquillità, consapevolezza, piena comprensione, vera felicità ». Con una mente equilibrata si può
godere meglio la vita. Se si è in possesso di una consapevolezza acuta e totale del momento presente, quando capita una
situazione piacevole, la si può assaporare completamente. Ma quando l'esperienza finisce, non ne siamo angustiati.
Continuiamo a sorridere, comprendendo che era destinata a cambiare. Allo stesso modo, in presenza di una situazione
spiacevole, non ci turbiamo, ma al contrario la comprendiamo e in questo modo possiamo persino trovare il mezzo di
cambiarla. Se ciò non è in nostro potere, restiamo comunque in pace, ben sapendo che ogni esperienza è impermanente,
destinata a passare. In tal modo, mantenendo la mente libera dalle tensioni, la nostra vita può essere più piacevole e
produttiva.
Si racconta che in Birmania c'era gente che criticava gli studenti di Sayagyi U Ba Khin, perché non tenevano quel
contegno serio che è proprio di chi pratica la meditazione Vipassana. Questi critici ammettevano che durante il corso gli
studenti si impegnavano seriamente, come veniva loro chiesto, ma in seguito apparivano sempre felici e sorridenti.
Quando le critiche giunsero all'orecchio di Webu Sayadaw, uno dei monaci più rispettati del paese, egli replicò:
«Sorridono perché possono sorridere ». Il loro non era un sorriso dovuto ad attaccamento o ignoranza, ma al Dhamma.
Chi ha ripulito la mente non va in giro col viso arcigno. Quando la sofferenza è rimossa, il sorriso affiora spontaneo.
Quando si apprende la via della liberazione, ci si sente naturalmente felici.
Questo sorriso che viene dal cuore, che è solo espressione di pace, equanimità e benevolenza, un sorriso che resta
luminoso in ogni situazione, è la vera felicità. Questo è il fine di Dhamma.

Domande e risposte

DOMANDA: Mi chiedo se possiamo trattare i pensieri ossessivi allo stesso modo in cui trattiamo il dolore fisico.

SATYA NARAYAN GOENKA: Basta accettare il fatto che nella mente c'è un pensiero ossessivo o un'emozione, qualcosa che
era stato profondamente soppresso e ora è affiorato a livello conscio. Non scendete in dettagli, ma limitatevi ad accettare
l'emozione come emozione. E assieme ad essa, che tipo di sensazione provate? Non ci può essere un'emozione senza una
sensazione a livello fisico. Incominciate a osservare quella sensazione.

Quindi dobbiamo osservare la sensazione collegata con quella particolare emozione?

Osservate qualsiasi sensazione sorga. Non potete scoprire quale sensazione sia collegata con quell'emozione, per cui non
cercate di farlo; significherebbe indulgere in uno sforzo inutile. Nel momento in cui nella mente c'è un'emozione,
qualsiasi sensazione si provi a livello fisico è in rapporto con quell'emozione. Limitatevi a osservare la sensazione e a
capire: « Queste sensazioni sono anìcca. Anche questa emozione è anicca. Vediamo un po' quanto dura: Scoprirete che
l'emozione scompare perché ne avete estirpato le radici.

Volete dire che l'emozione e la sensazione sono le stesse.

Sono le due facce della stessa moneta. L'emozione è mentale e la sensazione è fisica, ma sono in relazione. Di fatto ogni
emozione, qualsiasi cosa sorga nella mente, deve nascere insieme ad una sensazione nel corpo. È una legge di natura.

Ma l'emozione in se stessa è un contenuto mentale?

Un contenuto mentale, certamente.

Ma la mente è anche tutto il corpo?


E strettamente collegata a tutto il corpo.

La coscienza è in tutti gli atomi del corpo?

Sì. Ecco perché una sensazione collegata con una particolare emozione può nascere ovunque dentro il corpo. Se os -
servate la sensazione attraverso il corpo, state anche osservando la sensazione collegata con quell'emozione. E così uscite
fuori dall'emozione.

Se ce ne stiamo seduti, ma non siamo in grado di provare una sensazione, l'esercizio è ugualmente utile?

Se sedete e osservate la respirazione, essa calmerà la mente e la porterà alla concentrazione; ma il processo di pulizia non
può operare ai livelli più profondi se non provate delle sensazioni. Nelle profondità della mente, le reazioni iniziano con
le sensazioni, che costantemente si succedono l'una all'altra.

Durante la vita quotidiana, se abbiamo alcuni momenti liberi, è utile fermarsi e osservare le sensazioni?

Sì. Anche ad occhi aperti, quando non avete altro da fare, dovete essere consapevoli delle sensazioni all'interno di voi
stessi.

Un maestro come riconosce che un allievo ha sperimentato il nibbàna?

Ci sono vari modi per verificare quando qualcuno sta effettivamente sperimentando il nibbàna. Per questo un maestro
deve ricevere un'educazione appropriata.

Come possono i meditatori riconoscerlo da soli?

Dai cambiamenti che intervengono nella loro vita. Chi ha realmente sperimentato il nibbàna diventa una persona nobile,
santa, con una mente pura. Non trasgredisce in alcun modo i cinque precetti di base, non nasconde gli errori ma li
ammette apertamente e cerca in tutti i modi di non ripeterli. L'attaccamento a riti e cerimonie scompare, perché essi li
riconoscono come forme esteriori, vuote, senza un'esperienza reale. Hanno una fiducia inamovibile nel sentiero che li
conduce alla liberazione, non continuano a cercare altre strade. E, infine, in essi l'illusione dell'ego sarà frantumata. Se
.qualcuno afferma di avere sperimentato il nibbàna, ma la sua niente rimane impura come prima, al pari delle sue azioni
che restano nocive, allora c'è qualcosa di sbagliato. Il suo stile di vita deve mostrare se lo ha realmente sperimentato.
Non è consono a un maestro rilasciare « certificati » agli studenti per annunciare che hanno conseguito il nibbàna.
Tutto si trasformerebbe in una gara di accrescimento del l'ego sia per l'insegnante che per gli studenti. Gli studenti
cercherebbero solo di ottenere un certificato, e più certificati un maestro rilascia, più alta è la sua reputazione.
L'èsperienza del nibbàna diventa secondaria, il certificata acquista un'importanza primaria e tutto diventa un folle gioco.
Il puro Dhamma esiste solo per aiutare la gente, la soddisfazione più grande è quella di constatare che uno studente ha
veramente sperimentato il nibbàna e si è liberato. Lo scopo del maestro e dell'insegnamento è di aiutare sul serio la gente,
e non quello di pubblicizzare l'ego Non è un gioco.

Come paragonereste la psicoanalisi a Vipassana?

Con la psicoanalisi si cerca di richiamare alla coscienza gli avvenimenti passati che hanno esercitato una forte influenza
nel condizionare la mente. Vipassana, d'altra parte, conduce il meditatore ai livelli più profondi della mente dove, di fatto,
inizia il condizionamento. Ogni episodio che la psicoanalisi cerca di far affiorare ha registrato anche una sensazione a
livello fisico. Osservando le sensazioni fisiche attraverso il corpo con equanimità, il meditatore permette ad innumerevoli
strati di condizionamento d emergere e scomparire. Egli si confronta con le radici del condizionamento e può liberarsene
rapidamente e facilmente.

Cos'è la vera compassione?

È il desiderio di servire la gente, di aiutarla a uscire dalla sofferenza. Ma è una cosa che deve essere fatta senza at-
taccamento. Chi piange sulla sofferenza degli altri, si rende solo infelice. Non è questo il sentiero di Dhamma. Chi prova
vera compassione, cercherà di aiutare gli altri con amore, con tutte le sue capacità. Se fallisce, sorride e cerca un altro
modo per aiutare; lavora senza preoccupa dei risultati del suo servizio. Questa è la vera compassione, che nasce da una
mente equilibrata.

Volete dire che Vipassana è il solo modo per raggiungere l’illuminazione?

L'illuminazione si raggiunge esaminando se stessi ed eliminando i condizionamenti. E fare questo è Vipassai qualsiasi
nome gli possiate dare. Alcune persone non hanno mai sentito parlare di Vipassana, e tuttavia in esse il processo ha
iniziato ad operare spontaneamente. Giudicando dalle loro parole, sembra che questo sia stato il caso di diversi santi in
India. Ma poiché essi non avevano appreso il procedimento con gradualità, non sono stati capaci di spiegarlo agli altri con
chiarezza. Qui esiste la possibilità di apprendere passo per passo il metodo che porta: all'illuminazione.

Voi definite Vipassana un'arte di vivere universale, ma questo non confonde le persone di altre religioni che praticano?

Vipassana non si fa passare per una religione in comptezione con altre religioni. Ai meditatori non viene chiesto di
sottoscrivere ciecamente una dottrina filosofica, ma viene loro chiesto di accettare soltanto ciò che essi sperimentano
come vero. La cosa più importante non è la teoria, ma la pratica, e ciò significa condotta morale, concentrazione e
comprensione profonda della realtà che purifica la mente. Quale religione può fare obiezioni a ciò? come potrebbe
confondere qualcuno? Date importanza alla pratica e verificherete che tali dubbi si risolveranno automaticamente.
CAPITOLO DECIMO

L'ARTE DI VIVERE
Fra tutti i pregiudizi che abbiamo su noi stessi, il più radicato è quello secondo cui esiste un sé. Sulla base di questa
presunzione ognuno di noi da la più grande importanza al sé, considerandolo il centro del proprio universo, e questo
anche se possiamo facilmente constatare che fra tutti gli innumerevoli mondi esistenti, il nostro è solo uno, e che fra
tutti gli innumerevoli esseri del nostro mondo, ancora una volta questo sé è solo uno. Per quanto possiamo dilatarlo, il sé
rimane trascurabile se paragonato all'immensità del tempo e dello spazio. La nostra idea del sé è ovviamente un errore.
Nonostante ciò, dedichiamo la vita a cercare di autorealizzarci, ritenendo che sia questa la via per la felicità. Il pensiero
di vivere in un modo diverso ci sembra innaturale, se non addirittura spaventoso.
Chiunque può sperimentare quanto si soffra a rimanere sempre chiusi in se stessi. Finché saremo sempre preoccupati dei
nostri desideri e timori, delle nostre identità, saremo confinati dentro la stretta prigione del sé, tagliati fuori dal mondo,
dalla vita. Uscire da questa ossessione del sé è davvero una liberazione, che ci rende capaci di entrare nel mondo, di
essere aperti alla vita e agli altri, di cercare una vera realizzazione. Non è necessario negare il sé, o reprimerlo, ma
liberarsi dalla errata idea del sé. E per raggiungere questa liberazione dobbiamo comprendere che ciò che noi
chiamiamo sé è in realtà una cosa effimera, un fenomeno in costante mutamento.
La meditazione Vipassana è una via per raggiungere questa comprensione profonda. Finché non si consegue
un'esperienza personale della natura transitoria del corpo e della mente, si è costretti a rimanere intrappolati nell'egoismo, e
quindi a soffrire. Ma una volta che l'illusione della permanenza viene frantumata, l'illusione dell'Io scompare
automaticamente e la sofferenza svanisce. Per il meditatore Vipassana, anicca, la realizzazione della natura effimera del sé e
del mondo, è la chiave che apre la porta della liberazione.
L'importanza di comprendere l'impermanenza è un tema che attraversa tutto l'insegnamento del Buddha come un filo
conduttore. Egli ha detto:

Meglio un sol giorno di vita


vedendo la realtà del nascere e dello svanire
che cent'anni di esistenza
rimanendo ciechi di fronte a questo.

Il Buddha ha paragonato la consapevolezza dell’'impermanenza a un vomere che estirpa tutte le radici; al culmine di un tetto,
più alto di tutte le travi che lo sorreggono; a un potente governatore che esercita il potere sui suoi vassalli; alla luna, il cui
splendore oscura le stelle; al sorgere del sole, che disperde tutta l'oscurità del ciclo. Le sue ultime parole prima di morire sono
state: « Tutti i sankhàra — tutte le cose create — sono soggetti al decadimento. Esercitatevi con diligenza per comprendere
questa verità. »
La verità di anicca non deve essere solo accettata intellettualmente, né per emozione o devozione. Ognuno di noi deve
sperimentare la realtà di anicca dentro di sé. La comprensione diretta dell’impermanenza e, con essa, della natura illusoria
dell'ego e della sofferenza, costituisce la vera visione che conduce alla liberazione. È questa la giusta comprensione.
Il meditatore sperimenta questa saggezza liberatoria al culmine della pratica di sìla, samàdhi e panna. Senza impegnarsi in
queste tre pratiche, senza procedere un passo dopo l'altro lungo il sentiero, non si può arrivare alla vera comprensione profonda
della realtà e alla liberazione dalla sofferenza. Ma persino prima di iniziare la pratica occorre possedere una qualche saggezza,
forse solo una sorta di riconoscimento intellettuale della verità della sofferenza. Senza tale comprensione, anche se superficiale, il
pensiero di lavorare per liberarsi dalla sofferenza non si affaccerebbe mai alla niente. «La giusta comprensione viene per prima »,
ha detto il Buddha.
I primi passi sul Nobile Ottuplice Sentiero sono infatti la giusta comprensione e il giusto pensiero. Dobbiamo vedere il problema e
decidere di affrontarlo. Solo allora è possibile impegnarsi nella pratica effettiva di Dhamma. Iniziamo a intraprendere il sentiero
praticando la moralità, seguendo i precetti per regolare le nostre azioni. Con la pratica della concentrazione, iniziamo a occuparci
della mente, sviluppando samàdhi con la consapevolezza del respiro; e osservando le sensazioni in tutto il corpo, sviluppiamo la
saggezza basata sull'esperienza che libera la mente dal condizionamento.
E quando la vera comprensione nasce dalla propria esperienza, di nuovo la giusta comprensione diviene il primo passo lungo il
sentiero. Avendo compreso, attraverso la pratica di Vipassana, che la propria natura è in continuo mutamento, il meditatore
libera la mente dalla bramosia, dall'avversione e dall'ignoranza. Con una mente così pura è impossibile persine pensare di far
del male agli altri. Al contrario, i pensieri sono colmi unicamente di benevolenza e compassione per tutti. Nel parlare, nell'agire,
nel procurarsi i mezzi di sussistenza, si vive una vita degna, serena e pacifica. E con la tranquillità che deriva dalla pratica della
moralità, diviene più facile sviluppare la concentrazione. E più forte è la concentrazione, più penetrante sarà la propria
saggezza. Il cammino è dunque una spirale ascendente verso la liberazione. Ognuna di queste tre pratiche sostiene l'altra,
come le tre gambe di un tripode. Devono esserci tutte le gambe, ed essere tutte di eguale lunghezza, perché il tripode stia
in piedi. Similmente, per sviluppare equamente tutte le sfaccettature del sentiero, il meditatore deve praticare insieme
sila, samàdhi e panna.
Il Buddha ha detto:
Dalla giusta comprensione proviene il giusto pensiero;
dal giusto pensiero proviene il giusto parlare;
dal giusto parlare proviene la giusta azione;
dalla giusta azione provengono i giusti mezzi di sussistenza;
dai giusti mezzi di sussistenza proviene il giusto sforzo;
dal giusto sforzo proviene la giusta consapevolezza;
dalla giusta consapevolezza proviene la giusta concentrazione;
dalla giusta concentrazione proviene la giusta saggezza;
dalla giusta saggezza proviene la giusta liberazione.

La meditazione Vipassana ha anche un profondo valore pratico, qui e ora. Nella vita quotidiana si presentano innumerevoli
situazioni che minacciano l'equanimità della mente. Sorgono difficoltà inaspettate, e inaspettatamente altri ci contrastano.
Dopo tutto limitarsi ad apprendere la tecnica Vipassana non ci garantisce che non avremo altri problemi, come imparare a
governare una barca non significa che si faranno solo viaggi tranquilli. Le burrasche sono destinate a venire, i problemi sono
destinati a nascere. Cercare di sfuggire ad essi è futile e autodistruttivo. Al contrario, la linea giusta è di utilizzare tutto ciò
che si è appreso allo scopo di uscire illesi dalla burrasca.
Per giungere a questo, per prima cosa dobbiamo comprendere la vera natura del problema. L'ignoranza ci porta ad incolpare
gli eventi esterni o le persone, a considerarli fonte delle difficoltà e quindi a impiegare tutte le nostre energie per modificare la
situazione esterna. Ma con la pratica di Vipassana ci accorgeremo che nessun altro oltre a noi stessi è responsabile della
nostra felicità o infelicità.
Il problema sta nell'abitudine a reagire ciecamente. Quindi dobbiamo fare attenzione alla burrasca interna delle
reazioni condizionate della mente. Non basta decidere di non reagire. Finché i condizionamenti rimangono
nell'inconscio, prima o poi sono destinati a emergere e a dominare la mente, nonostante tutte le decisioni contrarie.
La sola, vera soluzione è quella di imparare a osservare e a cambiare noi stessi.
Se questo è abbastanza facile da comprendere, renderlo effettivo è più difficile. Innanzitutto, come fare ad osservarsi?
Nella mente è iniziata una reazione negativa: ira, paura, odio. Prima che ci si possa ricordare di osservarla, già ne
siamo sopraffatti e ci esprimiamo o agiamo a nostra volta negativamente. In seguito, dopo che il danno è stato fatto,
riconosciamo l'errore e ci pentiamo, ma la volta successiva ripetiamo lo stesso comportamento.
Oppure, supponiamo che — accorgendoci di avere innescato una reazione di ira — si cerchi realmente di osservarla.
Non appena ci si prova, ci si rammenta della persona o della situazione che ci ha fatto adirare. Insistere su questo
intensifica l'ira. Come si vede, osservare l'emozione dissociata dalla causa o dalle circostanze va ben oltre le capacità
della maggior parte di noi.
Ma indagando la realtà ultima della mente e della materia, il Buddha ha scoperto che ogni volta che nella mente sorge
una reazione, a livello fisico avvengono due tipi di cambiamenti. Uno di essi è facilmente riconoscibile — il respiro
diventa leggermente irregolare — l'altro è di natura più sottile: nel corpo ha luogo una reazione biochimica, una
sensazione. Attraverso un apposito allenamento, una persona di media intelligenza può facilmente sviluppare la
capacità di osservare sia la respirazione che le sensazioni. Questo ci permette di utilizzare i cambiamenti intervenuti nella
respirazione e le sensazioni come segnali che ci avvertono di una reazione negativa molto prima che essa possa
gradatamente acquistare una forza pericolosa. E se poi continueremo ad osservare la respirazione e la sensazione, ci
sarà facile uscire dalla negatività.
L'abitudine alla reazione è comunque profondamente radicata e non può essere rimossa subito del tutto. Nella vita
quotidiana però, non appena avremo perfezionato la nostra pratica della meditazione Vipassana, noteremo almeno alcune
occasioni in cui, invece di reagire involontariamente, ci limitiamo ad osservarci. Con gradualità i momenti di osservazione
aumentano, mentre i momenti di reazione diventano meno frequenti. Anche se reagiamo negativamente, il periodo e
l'intensità della reazione diminuiscono. Alla fine, anche nelle situazioni più provocatorie saremo in grado di osservare la
respirazione e la sensazione e di rimanere calmi ed equilibrati.
Con questo equilibrio, questa equanimità ai livelli mentali più profondi, si diviene capaci per la prima volta di un'azione
reale: e l'azione reale è sempre positiva e creativa. Per esempio, invece di rispondere automaticamente nello stesso modo
alla negatività degli altri, possiamo scegliere una risposta che sia la più benefica possibile. Quando viene affrontata da
qualcuno in preda all'ira, una persona ignorante si adira anch'essa, e il risultato è una lite che causa infelicità a
entrambi. Ma restando calmi ed equilibrati si possono aiutare gli altri a superare l'ira e ad affrontare costruttivamente i
problemi.
Osservare le nostre sensazioni ci insegna che ogniqualvolta veniamo sopraffatti dalla negatività, soffriamo. Quindi,
ogniqualvolta vediamo gli altri reagire negativamente, comprendiamo che stanno soffrendo, e questa comprensione ci
porta a provare compassione per loro e a fare in modo di aiutarli a liberarsi dall'infelicità, non certo a renderli più
infelici. Rimanendo in pace e sereni, aiutiamo gli altri a essere in pace e sereni.
Sviluppare consapevolezza ed equanimità non ci rende passivi e inerti come dei vegetali, permettendo al mondo di fare
di noi quel che gli aggrada. Né, assorti nel conseguimento della pace interiore, diveniamo indifferenti alle sofferenze
degli altri. Il Dhamma ci insegna a prenderci la responsabilità non solo del nostro benessere, ma altresì di quello degli
altri. Facciamo tutto ciò che è necessario per aiutare gli altri, conservando però sempre la mente equilibrata. Vedendo
un bambino affondare nelle sabbie mobili, una persona stolta perde la testa e segue il bambino, facendo anch'essa una
brutta fine. Una persona saggia, che non perde la calma e l'equilibrio, cerca un ramo con cui può raggiungere il
bambino e trarlo in salvo. Seguire gli altri nelle sabbie mobili della bramosia e dell'avversione non aiuterà nessuno.
Dobbiamo portare gli altri sul terreno solido dell'equilibrio mentale.
Spesso nella vita è necessaria un'azione di forza. Per esempio, è capitato a tutti di cercare di spiegare a qualcuno, con un
linguaggio educato e gentile, che sta facendo un errore, ma l'interessato ignora l'avvertimento, essendo in grado di
capire soltanto parole e azioni dure. A questo punto, per farsi intendere, bisogna necessariamente passare ad azioni più
energiche. Tuttavia, prima di agire, dobbiamo esaminarci per stabilire se la mente è equilibrata e se nutriamo solo
amore e compassione per la persona che si sta comportando male. Se è così, l’azione sarà utile, altrimenti non aiuteremo
realmente nessuno. Se il nostro intervento è dettato dall'amore e dalla compassione, non possiamo sbagliare.
Quando vediamo una persona forte attaccarne una più debole, abbiamo la responsabilità di cercare di fermare
quest'azione dannosa: del resto, è ciò che farebbe qualsiasi individuo ragionevole, anche se probabilmente mosso da
pietà per la vittima e da collera per l'aggressore. I meditatori di Vipassana, da parte loro, proveranno compassione per
entrambi in uguale misura, ben sapendo che la vittima deve essere protetta dal danno e l'aggressore dal danneggiarsi
con il suo comportamento nocivo.
Esaminare la propria mente prima di passare alle maniere forti è estremamente importante; non basta limitarsi a
giustificare in retrospettiva l'azione. Se non sperimentiamo di persona la pace e l'armonia interiori, non possiamo
promuovere la pace e l'armonia in nessun altro. Come meditatori di Vipassana impariamo a praticare un distacco impegnato,
ad essere sia compassionevoli che spassionati. Lavorando per sviluppare consapevolezza ed equanimità, lavoriamo per il bene
di tutti. Se il nostro contributo non fosse che quello di evitare di accrescere le tensioni esistenti nel mondo, avremmo
comunque compiuto un'azione benefica. In verità l'azione equanime ha risonanza perché è silenziosa, ricca di ripercussioni a
largo raggio e destinata a incidere positivamente su molti.
Dopotutto, la negatività mentale — nostra o altrui — è la causa principale delle sofferenze del mondo. Quando la mente ha
raggiunto la purezza, l'infinita varietà della vita si spalanca ai nostri occhi e ci concede di godere e dividere con gli altri la
vera felicità.

Domande e risposte

DOMANDA: Possiamo parlare ad altri della meditazione?

SATYA NARAYAN GOENKA: Certamente. Non ci sono segreti in Dhamma. Potete parlare a chiunque di ciò che avete fatto qui.
Ma guidare la gente nella pratica è una cosa totalmente diversa, che non dovrebbe essere fatta a questo livello. Aspettate
finché vi sarete saldamente impadroniti della pratica ed educati a guidare gli altri. Se qualcuno a cui parlate di Vipassana è
interessato a praticarla, consigliategli di seguire un corso. Almeno la prima esperienza di Vipassana deve essere fatta
durante un vero e proprio corso di dieci giorni, sotto la guida di un maestro qualificato. Dopo questa esperienza di può
andare avanti da soli.

Io pratico lo yoga. Come posso integrarlo con Vipassana?

Qui, durante il corso, lo yoga non è permesso perché disturberebbe gli altri, attirandone l'attenzione. Ma quando
sarete di nuovo a casa, potrete praticare sia Vipassana che yoga — cioè gli esercizi fisici delle posizioni yoga e il
controllo del respiro. Lo yoga è molto benefico per la salute fisica, e può essere senz'altro combinato con Vipassana.
Per esempio, assumere una posizione e poi osservare le sensazioni fisiche sarà senz'altro più benefico che la sola
pratica dello yoga. Ma le tecniche di meditazione yoga che utilizzano i mantra e le visualizzazioni sono completa
mente l'opposto di Vipassana. Non mescolatele con questa tecnica.

E circa i diversi esercizi respiratori dello yoga?

Sono utili come esercizi fisici, ma non mescolate queste tecniche con l’ànàpàna. Nell’ànàpàna dovete osservare il respiro
naturale così com'è, senza controllarlo. Praticate il controllo del respiro come esercizio fisico e ànàpàna per la
meditazione.

E se mi stessi attaccando troppo all’ illuminazione?

Se è così, state dirigendovi di gran carriera proprio nella direzione opposta. Non potrete mai sperimentare l'illumi-
nazione finché avrete degli attaccamenti. Dovete solo comprendere che cos'è l'illuminazione. Poi continuate a osservare la
realtà del momento, e lasciate che l'illuminazione venga. Se non viene, non ve ne preoccupate. Continuate a esercitarvi e
lasciate fare a Dhamma. In questo modo non c'è attaccamento, e l'illuminazione verrà certamente.

Dunque io medito solo per praticare?

Sì. Avete il dovere di purificare la vostra mente. Consideratela una responsabilità, ma senza attaccamento.
Non per ottenere qualcosa?

No. Qualsiasi cosa venga, verrà da sola. Lasciate che accada naturalmente.

Qual’è la vostra opinione circa l'insegnamento di Dhamma ai bambini?

Il momento migliore per farlo è prima della nascita. Durante la gravidanza la madre dovrebbe praticare Vipassana, così
che anche il bambino lo riceva e nasca un bambino di Dhamma. Ma se avete già dei figli, siete ancora in tempo a
condividere con loro Dhamma. Per esempio, a conclusione del corso, avete appreso la tecnica di mettà-bhàvàna, che
consiste nel condividere la propria pace ed armonia con gli altri. Se i bambini sono ancora piccoli, indirizzate loro métta
quando vanno a dormire e dopo ogni meditazione, così che anch'essi si avvantaggino della pratica di Dhamma; quando
saranno più grandi, sarà bene spiegar loro qualcosa su Dhamma, perché lo comprendano e lo accettino. Se sono già in
grado di capire qualcosa di più, insegnate ai bambini a praticare anàpàna per pochi minuti. Non fate nessun tipo di
pressione su di loro, limitatevi a farli sedere con voi perché osservino il proprio respiro per pochi minuti, poi lasciateli
andare a giocare. La meditazione sarà come un gioco per loro, saranno contenti di farla. Ma la cosa più importante è
vivere una vita sana in Dhamma, essere un buon esempio per i bambini. In casa l'atmosfera deve essere tranquilla e
armoniosa; è questo che li aiuterà a crescere in modo sano e felice. E la cosa migliore che potete fare per i vostri figli.

Grazie per questo meraviglioso Dhamma!

Ringraziate Dhamma, piuttosto. Dhamma è grande. Io sono solo un veicolo. E ringraziate voi stessi, per aver saputo lavorare
duramente per imparare la tecnica. Un maestro continua a parlare, parlare, ma se voi non lavorate, non potete ottenere niente.
Siate felici, e continuate a lavorare sodo.
APPENDICE A

L’IMPORTANZA DI VEDANÀ

NELL’INSEGNAMENTO DEL BUDDHA

L'insegnamento del Buddha è un sistema per sviluppare la conoscenza di sé come un mezzo per l'autotrasformazione.
Se comprendiamo la realtà della nostra natura basandoci sull'esperienza, possiamo eliminare gli equivoci che ci
inducono ad agire in modo sbagliato e ci rendono infelici. Impariamo ad agire conformemente alla realtà e quindi a
vivere in modo produttivo, utile e felice.
Nel Satipatthàna Sutta, il «Discorso sui fondamenti della consapevolezza », il Buddha ha descritto un metodo
pratico per sviluppare la conoscenza di sé attraverso l'auto-osservazione. Questa tecnica è la meditazione Vipassana.
Ogni tentativo di osservare la verità su noi stessi rivela immediatamente che quel che chiamiamo «sé» ha due
aspetti: fisico e psichico, corpo e mente. Dobbiamo imparare ad osservarli entrambi. Ma come possiamo realmente
sperimentare la realtà del corpo e della mente? Accettare le spiegazioni degli altri non è sufficiente, né dipende da
una mera comprensione intellettuale. Entrambe possono guidarci nel lavoro di autoesplorazione, ma ognuno di noi
deve esplorare e sperimentare la realtà direttamente dentro di sé. Sperimentiamo la realtà del corpo sentendolo per
mezzo delle sensazioni fisiche che nascono all'interno di esso. Anche ad occhi chiusi sappiamo di avere le mani e tutte
le altre parti del corpo, perché le possiamo sentire. Come un libro ha una forma esterna e un contenuto interno, la
struttura fisica ha una realtà oggettiva esterna, il corpo (kàya), e una realtà interna, soggettiva, di sensazioni (vedanā).
Assimiliamo un libro leggendo tutte le parole che contiene, sperimentiamo il corpo provando le sensazioni. Senza la
consapevolezza delle sensazioni non ci può essere una diretta conoscenza della struttura fisica. Le due cose sono
inseparabili.
Similmente, la struttura psichica può essere analizzata in forma e contenuto: la mente (citta) e qualsiasi cosa sorga nella
mente (dhamma) — ogni pensiero, emozione, ricordo, speranza, paura, ogni avvenimento mentale. Così come corpo e
sensazione non possono essere sperimentati separatamente, non si può osservare la mente prescindendo dai contenuti mentali.
Ma anche mente e materia sono strettamente collegate fra loro. Qualsiasi cosa accada in una, è riflessa nell'altra. È questa la
scoperta chiave del Buddha, il significato cruciale del suo insegnamento. Egli ha detto: «Qualsiasi cosa nasca nella mente è
accompagnata dalla sensazione». L'osservazione delle sensazioni offre il mezzo di esaminare la totalità del proprio essere
fisico e mentale.
Queste quattro dimensioni della realtà sono comuni ad ogni essere umano: gli aspetti fisici del corpo e della sensazione, gli
aspetti psichici della mente e dei suoi contenuti. Essi costituiscono le quattro divisioni del Satipatthàna Sutta, le quattro
strade per la fondazione della consapevolezza, i quattro avamposti per osservare il fenomeno umano. Se l'indagine è
completa, ogni sfaccettatura deve essere sperimentata. E tutte e quattro possono essere sperimentate osservando vedanā. Per
questa ragione il Buddha ha sottolineato in particolar modo l'importanza della consapevolezza di vedanā. Nel Brahmajala
Sutta, uno dei suoi discorsi più importanti, ha detto: « L'illuminato si è affrancato e liberato da tutti gli attaccamenti perché
ha veduto come sono realmente il nascere e lo svanire delle sensazioni, il godere di esse, il pericolo di esse, la liberazione da
esse ». La consapevolezza di vedanā, egli ha affermato, è un prerequisito per la comprensione delle Quattro Nobili
Verità: « Alla persona che prova la sensazione, io mostro la via per comprendere cosa sia la sofferenza, la sua origine, la
sua cessazione e il sentiero che conduce alla cessazione». Cos'è esattamente vedanā? II Buddha lo ha descritto in vari
modi, comprendendolo fra i quattro processi che compongono la mente (v. Capitolo secondo). Tuttavia, definendolo più
precisamente, diceva che vedanā ha due aspetti, uno fisico e uno mentale. Da sola, la materia non può sentire nulla se la
mente non è presente; in un corpo morto, per esempio, non ci sono sensazioni. È la mente che sente, ma ciò che sente è
inscindibile dall'elemento fisico.
Questo elemento fisico è di importanza centrale nella pratica dell'insegnamento del Buddha, che ha lo scopo di
sviluppare in noi la capacità di affrontare tutte le vicissitudini della vita in modo equilibrato. È ciò che si apprende
durante la meditazione, osservando con equanimità tutto quanto avviene in noi stessi. Con questa equanimità possiamo
liberarci dall'abitudine alla reazione cieca e scegliere di agire nel modo più benefico in ogni situazione.
Tutto ciò che sperimentiamo nella vita passa attraverso i sei cancelli della percezione, i cinque sensi fisici e la
mente: secondo la Catena del Sorgere Condizionato, non appena ad una di queste sei porte avviene il contatto, non
appena incontriamo un fenomeno, fisico o mentale, si produce una sensazione (v. p. 67). Se non osserviamo attentamente
ciò che accade nel corpo, a livello conscio restiamo inconsapevoli della sensazione. Inizia allora, nel buio dell'ignoranza,
una reazione inconscia nei confronti della sensazione, un piacere o un'antipatia momentanea che si sviluppa in bramosia
o avversione. Questa situazione si ripete e si intensifica innumerevoli volte prima di ripercuotersi sulla mente conscia. Se i
meditatori danno importanza solo a ciò che accade nella mente conscia, divengono consapevoli del processo dopo che la
reazione è avvenuta ed ha acquistato una forza pericolosa, sufficiente a sopraffarli. Permettono alla scintilla della sensazione
di accendere un grande fuoco prima di cercare di estinguerlo, creandosi inutili difficoltà. Ma se imparano ad osservare le
sensazioni dentro il corpo, oggettivamente, permettono ad ogni scintilla di esaurirsi da sola senza innescare un incendio.
Dando importanza alla manifestazione fisica, diventano consapevoli di vedanà non appena nasce e possono prevenire qualsiasi
reazione.
L'aspetto fisico di vedanà è particolarmente importante perché offre un'esperienza vivida e tangibile della realtà
dell'impermanenza dentro ciascuno di noi. Ad ogni momento dentro di noi avvengono dei cambiamenti che si manifestano
nel gioco delle sensazioni. È a questo livello che l'impermanenza deve essere sperimentata. L'osservazione del mutamento
costante delle sensazioni ci permette di comprendere la nostra natura effimera e, di conseguenza, la futilità dell'attaccamento a
qualcosa che è così transitorio. Per cui l'esperienza diretta di anicca da automaticamente origine al distacco, per mezzo del
quale non solo si possono avvertire le nuove reazioni di bramosia e avversione, ma anche eliminare l'abitudine stessa a reagire. In
questo modo si libera gradualmente la mente dalla sofferenza. Se separata dal suo aspetto fisico, la consapevolezza di vedanà
resta parziale e incompleta. Per questo il Buddha ha ripetutamente sottolineato l'importanza dell'esperienza
dell'impermanenza attraverso le sensazioni fisiche:

Quelli che continuamente fanno sforzi


per dirigere la loro consapevolezza verso il corpo,
che si astengono dal compiere azioni nocive
e cercano di fare ciò che deve essere fatto,
tali persone, consapevoli, piene di comprensione,
sono liberate da tutte le loro negatività.

La causa della sofferenza è tanhà, bramosia e avversione. Di solito ci sembra di generare reazioni di bramosia e avversione
nei confronti dei vari oggetti in cui ci imbattiamo attraverso i sensi fisici e la mente. Il Buddha, però, ha scoperto che tra oggetto e
reazione c'è un anello mancante: vedanà. Reagiamo non alla realtà esteriore, ma alla sensazione interna. Quando impariamo a
osservare la sensazione senza reagire con bramosia o avversione, la causa della sofferenza non nasce e la sofferenza cessa. Quindi
l'osservazione di vedanà è essenziale per mettere in pratica l'insegnamento del Buddha. E l'osservazione deve essere a livello della
sensazione fisica perché la consapevolezza di vedanà sia completa. Con la consapevolezza della sensazione fisica possiamo
penetrare alla radice del problema e risolverlo. Possiamo osservare la nostra natura in profondità e liberarci dalla sofferenza.
Attraverso la comprensione dell'importanza centrale che l'insegnamento del Buddha assegna all'osservazione della sensazione,
è possibile pervenire a una comprensione nuova del Satipatthàna Sutta. Il discorso inizia con lo stabilire gli scopi del satipatthàna,
il metodo della fondazione della consapevolezza: «Purificazione degli esseri, trascendenza del dolore e dei dispiaceri, estinzione
della sofferenza fisica e mentale, pratica di una via di verità, esperienza diretta della realtà ultima, nibbàna». Passa poi a
spiegare brevemente come conseguire questi scopi: «Qui il meditatore si sofferma, ardente, colmo di comprensione e di
consapevolezza, osservando il corpo nel corpo, osservando la sensazione nella sensazione, osservando la mente nella mente,
osservando i contenuti mentali nei contenuti mentali, avendo abbandonato bramosia e avversione nei confronti del mondo ».
Che cosa significano le parole «osservando il corpo nel corpo, le sensazioni nelle sensazioni» e così via? Per un meditatore di
Vipassana, l'espressione è chiarissima. Corpo, sensazioni, mente e contenuti mentali sono le quattro dimensioni dell'essere umano.
Per comprendere correttamente questo fenomeno umano, ognuno di noi deve sperimeritare la propria realtà in modo diretto.
Per conseguire questa esperienza diretta, il meditatore deve sviluppare due qualità: consapevolezza (sati) e piena
comprensione (sampajannd). Il discorso si intitola « I fondamenti della consapevolezza », ma la consapevolezza è
incompleta senza comprensione, senza una visione penetrante delle profondità della propria natura, della
impermanenza di questo fenomeno che si chiama Io. La pratica del satipatthàna fa sì che i meditatori comprendano
la propria natura essenzialmente effimera. Quando hanno conseguito questa comprensione personale acquistano una
consapevolezza stabile e ferma: la giusta consapevolezza che conduce alla liberazione. Quindi, automaticamente
bramosia e avversione scompaiono, non solo nei confronti del mondo esteriore, ma anche del mondo intcriore, in cui
bramosia e avversione sono maggiormente radicate, anche se molto spesso non ce ne accorgiamo, per l'attaccamento
irriflessivo e viscerale al corpo e alla mente. Finché questo attaccamento profondo permane, non è possibile liberarsi dalla
sofferenza.
Il discorso su «I fondamenti della consapevolezza» tratta all'inizio dell'osservazione del corpo. Trattandosi
dell'aspetto più appariscente della struttura fisico-mentale, è il punto adatto da cui iniziare il lavoro di auto-osser-
vazione, ed è da qui che si sviluppa l'osservazione delle sensazioni, della mente e dei contenuti mentali. Il discorso illustra
diversi modi per iniziare ad osservare il corpo. Il primo, e il più comune, è la consapevolezza del respiro. Un altro
modo per cominciare è quello di prestare attenzione ai movimenti del corpo. Ma comunque si inizi il viaggio, per
arrivare alla meta finale è obbligatorio passare per determinati stadi, che sono descritti in un paragrafo di importanza
cruciale:

In questo modo [il meditatore] si sofferma ad osservare il corpo nel corpo, internamente o esternamente oppure sia
internamente che esternamente. Si sofferma ad osservare il fenomeno del nascere nel corpo. Si sofferma ad osservare il
fenomeno dello svanire nel corpo. Si sofferma ad osservare il fenomeno del nascere e dello svanire nel corpo. Ora la
consapevolezza gli si presenta, «Questo è il corpo». Questa consapevolezza si sviluppa a un tal grado che rimangono
solo comprensione e osservazione ed egli rimane distaccato, senza aggrapparsi a nulla nel mondo.

La grande importanza di questo passo è dimostrata dal fatto che è ripetuto non solo alla fine di ogni sezione del
discorso sull'osservazione del corpo, ma anche nelle successive suddivisioni del discorso, che trattano dell'osservazione
delle sensazioni, della mente e dei contenuti mentali. (In queste tre successive suddivisioni, la parola « corpo» è sostituita
rispettivamente da « sensazioni », « mente » e «contenuti mentali».) Il brano descrive così il terreno comune della
pratica del satipatthàna. Per le difficoltà che presenta, è stato oggetto di varie interpretazioni; tuttavia le difficoltà
scompaiono quando si comprende che il passo si riferisce alla consapevolezza delle sensazioni. Con la pratica di
satipatthàna i meditatori devono raggiungere una visione completa della loro natura. Il mezzo per conseguire questa
visione penetrante consiste nell'osservazione delle sensazioni, che include anche l'osservazione delle altre tre
dimensioni del fenomeno umano. Quindi, sebbene i primi passi possano differire, da un certo punto in poi la pratica
deve comportare la consapevolezza della sensazione.
Quindi, prosegue il brano, i meditatori iniziano a osservare le sensazioni che nascono all'interno del corpo, o
esternamente, sulla superficie di esso, o entrambe insieme: dalla consapevolezza delle sensazioni in alcune parti e non in
altre, essi sviluppano gradualmente la capacità di sentire le sensazioni in tutto il corpo. Quando iniziano la pratica,
possono dapprima sperimentare le sensazioni di natura intensa che nascono e sembrano persistere per qualche tempo. I
meditatori sono consapevoli del loro sorgere e, dopo un certo tempo, del loro svanire. A questo livello essi stanno ancora
sperimentando la realtà apparente del corpo e della mente, la loro natura integrata; apparentemente solida e duratura.
Ma proseguendo nella pratica, si raggiunge uno stadio in cui la solidità si dissolve spontaneamente e la mente e il corpo
vengono sperimentati nella loro vera natura, come una massa di vibrazioni che sorgono e svaniscono ad ogni istante.
Sulla base di questa esperienza si comprende infine che cosa sono il corpo, le sensazioni, la mente e i contenuti
mentali: un flusso di fenomeni impersonali, in costante cambiamento.
Questa comprensione diretta della realtà ultima della mente e della materia frantuma progressivamente le proprie
illusioni, i propri fraintendimenti e pregiudizi. Anche le idee giuste, che erano state accettate solo per fede o per
deduzione intellettuale, ora, venendo sperimentate, acquistano un nuovo significato. Gradualmente, con l'osservazione
della realtà interiore, tutti i condizionamenti che distorcono la percezione vengono eliminati. Rimangono solo la pura
consapevolezza e la saggezza,
Appena l'ignoranza scompare, le tendenze sotterranee di bramosia e avversione vengono sradicate e i meditatori si
liberano da ogni attaccamento, compreso l'attaccamento più profondo di tutti: quello al mondo interiore del proprio
corpo e della propria mente. Quando questo attaccamento viene eliminato, la sofferenza scompare e si perviene alla
liberazione. Il Buddha ha spesso ripetuto: «Tutto ciò che viene percepito come sensazione è in relazione con la
sofferenza». Quindi vedanà è un mezzo ideale per esplorare la verità della sofferenza. Le sensazioni spiacevoli sono
ovviamente sofferenza, ma anche la sensazione più piacevole è una forma di agitazione molto sottile. Ogni sensazione
è impermanente. Perciò, se si è attaccati alle sensazioni piacevoli, quando esse svaniscono, rimane la sofferenza. Di
fatto, ogni sensazione contiene un seme di infelicità. Per questa ragione, parlando del sentiero che conduce alla
cessazione della sofferenza, il Buddha ha parlato di sentiero che conduce al sorgere di vedanà e alla sua estinzione. Finché si
rimane dentro il campo condizionato della mente e della materia, sensazioni e sofferenza persistono. Cessano solo quando si
trascende quel campo per sperimentare la realtà ultima del nibbàna. Il Buddha ha detto:

Un uomo non applica realmente Dhamma nella vita


solo perché ne parla molto.
Ma chi ne avesse sentito parlare anche solo un poco,
sperimenta la Legge di Natura per mezzo del proprio corpo,
allora vivrà conformemente ad essa
e avrà sempre presente Dhamma.

I nostri corpi testimoniano la verità. Quando i meditatori scoprono la verità dentro se stessi, per loro essa diviene reale e
vivono conformemente ad essa. Ognuno di noi può comprendere quella stessa verità imparando a osservare le sensazioni che
sorgono in noi stessi, e così facendo possiamo conseguire la liberazione dalla sofferenza.
APPENDICE B

PASSI SU VEDANÀ TRATTI DA VARI SUTTA

Nei suoi discorsi, il Buddha si è spesso riferito all'importanza della consapevolezza della sensazione. Eccone alcuni
esempi.

Nel cielo soffiano diversi venti, da est e da ovest, da nord e da sud, carichi di polvere o privi di polvere, freddi o caldi, tempeste
selvagge o brezze delicate: molti sono i venti che soffiano. Allo stesso modo, nel corpo nascono delle sensazioni: piacevoli, spia-
cevoli o neutre. Quando un meditatore, esercitandosi con entusiasmo, non trascura la facoltà della piena comprensione [sam-
pajanna], allora quest'uomo saggio comprende appieno le sensazioni. Avendole comprese totalmente, diventa libero da tutte le
impurità già in questa vita. Alla fine della vita, tale persona, essendo ben salda in Dhamma e comprendendo perfettamente le
sensazioni, consegue lo stadio indescrivibile al di là del mondo condizionato.
S. XXXVI (II). li. 12 (2), Pathama Àkàsa Sutta

E come si sofferma il meditatore ad osservare il corpo nel corpo? Per far questo, il meditatore va nella foresta, ai piedi di un albe-
ro, in un luogo solitario. Là si siede a gambe incrociate, con il busto eretto e fissa la sua attenzione sull'area intorno alla sua
bocca. Con consapevolezza inspira ed espira. Inspirando un respiro lungo, egli riconosce giustamente: « Sto inspirando un re-
spiro lungo». Espirando un respiro lungo, egli riconosce giustamente: « Sto espirando un respiro lungo ». Inspirando un respiro
corto, egli riconosce giustamente: «Sto inspirando un respiro corto». Espirando un respiro corto, riconosce giustamente: «Sto
espirando un respiro corto ». « Sentendo l'intero corpo inspirerò », così egli si educa. « Sentendo l'intero corpo, espirerò », così egli
si educa. «Con le attività corporee calmate, io inspirerò», così egli si educa. «Con le attività corporee calmate, io espirerò»,
così egli si educa. D. 22/M. 10, Satipatthàna Sutta, Ànàpàna-pabbam.

Quando una sensazione piacevole, spiacevole o neutra, sorge nel meditatore, egli comprende: « Una sensazione piacevole, spiace-
vole o neutra è sorta in me. È basata su qualcosa, non è senza una base. Su cosa è basata? Proprio su questo corpo». Così egli
dimora, osservando la natura impermanente della sensazione dentro il corpo.
S. XXXVI (II), i.7, Pathama Gelatina Sutta.

Il meditatore comprende: «Là è sorta in me questa esperienza piacevole, spiacevole o neutra. È composita, di natura grossola-
na, dipendente da condizioni. Ma ciò che esiste realmente, ciò che è di gran lunga migliore, è l'equanimità ». Anche se in lui è
sorta un'esperienza piacevole, o spiacevole, o neutra, essa finisce, ma l'equanimità rimane. M. 152, Indriya Bhàvanà Sutta.

Ci sono tre tipi di sensazione: piacevole, spiacevole e neutra. Tutte e tre sono impermanenti, composite, dipendenti da condi-
zioni, soggette al decadimento, allo svanire, al cessare. Vedendo questa realtà, il seguace bene istruito del Nobile Sentiero diven-
ta equanime verso le sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre. Sviluppando l'equanimità, diviene distaccato, sviluppando il di-
stacco, diviene libero. M. 74, Bfghanaka Sutta.

Se un meditatore dimora osservando l'impermanenza della sensazione piacevole dentro il corpo, i! suo declino, il suo svanire e
cessare e altresì osserva il suo abbandono dell'attaccamento a tale sensazione, allora i condizionamenti nascosti di bramosia per
una sensazione piacevole all'interno del corpo sono eliminati. Se dimora osservando l'impermanenza della sensazione spiacevole
dentro il corpo, allora i condizionamenti nascosti di avversione verso una sensazione spiacevole all'interno del corpo sono elimi-
nati. Se dimora osservando l'impermanenza della sensazione neutra all'interno del corpo, allora i condizionamenti nascosti di
ignoranza nei confronti della sensazione neutra all'interno del corpo sono eliminati.
S. XXXVI (II), i. 7, Pathama Gelatìna Sutta.

Quando i condizionamenti nascosti di bramosia per una sensazione piacevole, di avversione per una sensazione spiacevole e di
ignoranza per una sensazione neutra sono sradicati, si dice che il meditatore è totalmente libero dai condizionamenti sotterranei,
è colui che ha visto la verità, ha eliminato tutte le bramosie e le avversioni, ha spezzato tutte le catene, ha pienamente compreso
la natura illusoria dell'ego, ha messo fine alla sofferenza. S. XXXVI (II). i. 3, Pahàna Sutta.
La visione della realtà così com'è diventa la sua giusta visione. Il pensiero della realtà così com'è, diventa il suo giusto pensiero.
Lo sforzo per la realtà così com'è, diventa il suo giusto sforzo. La consapevolezza della realtà così com'è, diventa la sua giusta
consapevolezza. La concentrazione sulla realtà così com'è, diventa la sua giusta concentrazione. Le sue azioni del corpo e della
parola, i suoi mezzi di sussistenza si purificano veramente. Così il Nobile Ottuplice Sentiero avanza in lui verso lo sviluppo e il
compimento. M. 149, Mahà-Salàyatanika Sutta.

Il fedele seguace del Nobile Sentiero compie degli sforzi, e persistendo nei suoi sforzi diventa consapevole, e rimanendo consa-
pevole diventa concentrato, e mantenendo la concentrazione sviluppa la giusta comprensione, e comprendendo correttamente
sviluppa una fede vera, fiducioso del fatto che « Quelle verità di cui prima ho solo udito parlare, ora le ho sperimentate diretta-
mente all'interno del corpo e le osservo con penetrante comprensione ».
S. XLVIII (IV). v. 10, Apana Sutta (detto da Sàriputta, il principale discepolo del Buddha).
GLOSSARIO DEI TERMINI PÀLI

Qui di seguito sono riportati tutti i termini pàli citati nel testo, nonché altre parole di rilievo nell'insegnamento del
Buddha.

ANÀPÀNA Respirazione. Ànàpàna-satì. Consapevolezza della respirazione.

ANATTÀ Non sé, privo di ego, senza essenza, senza sostanza. Una delle tre caratteristiche fondamentali dei fenomeni,
con anicca e dukkha.

ANICCA Impermanente, effimero, in continuo cambiamento. Una delle tre caratteristiche fondamentali dei fenomeni, con
anattà e dukkha.

ANUSÀYA La mente inconscia; i condizionamenti nascosti, sotterranei; le impurità mentali latenti (anche anusaya-kilesa).

ARAHANT/ARAHAT Essere liberato. Colui che ha eliminato tutte le impurità della mente.

ARIYA Nobile; persona santa. Colui che ha purificato la mente al punto da aver sperimentato la realtà ultima (nibbàna).

ARIYA ATTHANGIKA MAGGA II Nobile Ottuplice Sentiero


che conduce alla liberazione dalla sofferenza. È diviso in tre parti:

SILA Moralità, purezza delle azioni vocali e fisiche:


SAMMÀ-VÀCÀ Giusta parola;
SAMMÀ-KAMMANTA Giusta azione;
SAMMÀ-ÀJlVA Giusti mezzi di sussistenza.

SAMADHI Concentrazione, controllo della propria mente:


SAMMÀ-VÀYÀMA Giusto sforzo;
SAMMÀ-SATI Giusta consapevolezza;
SAMMÀ-SAHIMÀD Giusta concentrazione.

PANNA Saggezza, comprensione profonda che purifica totalmente la mente:

SAMMÀ-SANKAPPA Giusto pensiero;


SAMMÀ-DITTHI Giusta comprensione.

ARIYA SACCA Nobile verità. Le Quattro Nobili Verità sono:


1. La verità della sofferenza; 2.
2. La verità dell'origine della sofferenza;
3. La verità della cessazione della sofferenza;
4. La verità del cammino che conduce alla cessazione della sofferenza.

BHANGA Dissoluzione. Uno stadio importante nella pratica di Vipassana. L'esperienza della dissoluzione dell'apparente
solidità del corpo in sottili vibrazioni che compaiono e scompaiono continuamente.

BHÀVANÀ Sviluppo, evoluzione mentale. Meditazione. Le due divisioni di bhàvanà sono lo sviluppo della tranquillità
(samatha-bhàvanà), corrispondente alla concentrazione mentale (samadhi) e lo sviluppo della comprensione profonda
(vipassanà-bhàvana), corrispondente alla saggezza (panna). Lo sviluppo di samatha porta a stadi avanzati di
concentrazione mentale; lo sviluppo di vipassanà porta alla liberazione.

BHÀVANÀ-MAYÀ PANNA Saggezza a livello di esperienza. Vedi PANNA.

BHIKKHU Monaco (buddista); meditatore. Al femminile


bhikkhuni, monaca.

BUDDHA Persona illuminata. Colui che ha scoperto la via verso la liberazione, l'ha percorsa e ha raggiunto la meta finale
con i suoi propri sforzi.

CINTÀ-MAYÀ PANNASaggezza intellettuale. Vedi PANNA. CITTA Mente. Cittànupassanà: osservazione della mente.
Vedi SATIPATTHÀNA.
DHAMMA Fenomeno; oggetto della mente; natura; legge naturale; legge di liberazione, cioè insegnamento di una persona
illuminata. Dhammànupassanà: osservazione dei contenuti mentali. Vedi SATIPATTHÀNA. (In sanscrito dharma).

DUKKHA Sofferenza, insoddisfazione. Una delle tre caratteristiche di base dei fenomeni, con anattà e anicca.

GOTAMA Nome di famiglia del Buddha storico (In sanscrito Gautama).

HINAYÀNA Letteralmente, «veicolo minore». Termine usato per indicare il Buddismo Theravàda da parte di coloro che
appartengono ad altre scuole. Connotazione peggiorativa.

JHÀNA Stato di assorbimento mentale o trance. Ci sono otto stadi di tal genere che possono essere ottenuti con la pratica
di samadhi, o samatha-bhàvanà. Dedicarsi a questa pratica porta tranquillità ed estasi, ma non elimina le negatività
mentali radicate nel profondo.

KALÀPA La più piccola, indivisibile, unità della materia.

KAMMA Azione, e specificatamente un'azione che si compie e che avrà effetto sul proprio futuro. (In sanscrito karma).

KÀYA Corpo. Kàyànupassanà: osservazione del corpo.


Vedi SATIPATTHÀNA.

MAHÀYÀNA Letteralmente, « veicolo più grande ». Il tipo di buddismo che si è sviluppato in ìndia pochi secoli dopo il
Buddha e che si è diffuso a Nord in Tibet, Mongolia, Cina, Vietnam, Corea e Giappone.

METTA Amore incondizionato e buona volontà. È una delle qualità di una mente pura. Mettà-bhàvanà: la pratica
sistematica di metta per mezzo di una tecnica di meditazione.

NIBBÀNA Estinzione; libertà dalla sofferenza; la realtà ultima; stato incondizionato. (In sanscrito nirvana).

PÀLI Linea, testo. I testi in cui è registrato l'insegnamento del Buddha; quindi il linguaggio di questi testi. Prove
linguistiche, storiche, archeologiche indicano che il pàli era una lingua effettivamente parlata nell'India settentrionale più
o meno ai tempi del Buddha. Più tardi i testi furono tradotti in sanscrito, che era una lingua esclusivamente letteraria.

PANNA Saggezza. La terza delle tre parti attraverso le quali viene praticato il Nobile Ottuplice Sentiero (vedi ARIYA
ATTHANGIKA MAGGA). Ci sono tre tipi di saggezza:
suta-mayà panna, che letteralmente significa « saggezza che si ottiene ascoltando gli altri », cioè saggezza ricevuta;
cintà-mayà panna, ovvero saggezza che si ottiene con l'analisi intellettuale; e
bhavanà-mayà panna, ovvero saggezza che si sviluppa dall'esperienza diretta e personale.
Di queste, soltanto l'ultima, che viene coltivata con la pratica di vipassanà-bhàvanà, può purificare del tutto la mente.

PATICCA-SAMUPPÀDA La Catena del Sorgere Condizionato; l'origine causale. Il processo, che inizia con l'ignoranza e
attraverso il quale una persona, vita dopo vita, continua a produrre sofferenza per se stessa.

SAMÀDHI Concentrazione, controllo della propria mente. È la seconda delle tre parti con cui viene praticato il Nobile
Ottuplice Sentiero (vedi ARIYA ATTHANGIKA MAGGA). Se la si coltiva come fine a se stessa, porta al conseguimento
dell'assorbimento mentale (Jhàna), ma non alla totale liberazione della mente.

SAMMÀ-SATI La giusta consapevolezza. Vedi SATI.

SAMPAJANNA Comprensione della totalità del fenomeno umano ovvero comprensione profonda della sua natura
impermanente a livello di sensazioni.

SAMSÀRA Ciclo della rinascita; mondo condizionato; mondo di sofferenza.

SANGHA Congregazione; comunità di ariya, cioè coloro che hanno sperimentato il nìbbàna; comunità di monaci e
monache buddisti; membro di ariya-sangha, bhikkhu-sangha, o bhikkhum-sangha.

SANKHÀRA Formazione (mentale); attività della volizione; reazione mentale; condizionamento mentale. Uno dei quattro
aggregati o processi mentali, con vinnàna, sauna, e vedana. (In sanscrito samskàra).

SANKHÀRA-UPEKKHÀ/SANKHÀRUPEKKHÀ Letteralmente, equanimità verso i sankhàra. Uno stadio nella pratica di


Vipassana, che viene dopo l'esperienza di bhanga, nel quale vecchie impurità che giacciono addormentate nell'inconscio
emergono alla superficie della mente, manifestandosi come sensazioni fisiche. Conservando l'equanimità (upekkha) verso
queste sensazioni, il meditatore non crea più nuovi sankhàra e consente che quelli vecchi siano eliminati. Perciò il
processo conduce gradualmente all'eliminazione di tutti i sankhàra.

SANNA Percezione, riconoscimento, individuazione. Uno dei quattro aggregati o processi mentali, con vedana, vinnàna e
sankhàra. Di solito è condizionata dai vecchi sankhàra che ciascuno porta in sé, e perciò una immagine distorta della
realtà. Nella pratica Vipassana, sanna si trasforma in pannà, la comprensione della realtà così com'è. Diviene quindi
anìcca-sannà, dukkha-sannà, anattà-sannà ed asubha-sannà, cioè la percezione dell'impermanenza, della sofferenza,
dell'inesistenza di un io e della natura illusoria della bellezza.

SATI Consapevolezza. Ànàpàna-sati: consapevolezza della respirazione. Sammà sali: giusta consapevolezza, una delle
componenti del Nobile Ottuplice Sentiero
(vedi ARIYA ATTHANGIKA MAGGA).

SATIPATTHÀNA L'instaurarsi della consapevolezza. Gli aspetti del satipatthàna, che si intrecciano fra loro, sono quattro:
1. osservazione del corpo (kàyànupassana);
2. osservazione delle sensazioni che sorgono all'interno del corpo (vedanànupassanà);
3. osservazione della mente (cittànupassanà}
4. osservazione dei contenuti della mente (dhammànupassanà).
Dal momento che le sensazioni sono direttamente collegate sia al corpo che alla mente, tutti e quattro gli aspetti sono
compresi nell'osservazione delle sensazioni.

SIDDHATTHA Letteralmente «colui che ha realizzato il suo compito ». Il nome del Buddha storico. (In sanscrito
Siddhàrtha).

SILA Moralità, astensione dalle azioni fisiche e vocali che danneggiano gli altri e se stessi. La prima delle tre parti
attraverso le quali viene praticato il Nobile Ottuplice Sentiero (vedi ARIYA ATTHANGIKA MAGGA).

SUTA-MAYÀ PANNA Saggezza ricevuta. Vedi-PANNÀ.

SUTTA Discorso del Buddha o di uno dei suoi discepoli più autorevoli (in sanscrito sutra).

TANHÀ Letteralmente « sete ». Comprende sia la bramosia che il suo contrario, l'avversione. Il Buddha identificò in
tanhà la causa della sofferenza nel suo primo sermone, il «Discorso sul mettere in movimento la ruota del Dhamma»
(Dhamma-cakkappavattana Sutta). Nella Catena del Sorgere Condizionato, spiegò che tanhà si originava come reazione
alla sensazione (v. p. 67).

TATHÀGATA Letteralmente, «così è andato» o «così è compiuto». Colui che camminando lungo il sentiero della realtà ha
raggiunto la realtà ultima, una persona illuminata. È il termine con il quale il Buddha era solito riferirsi a se stesso.

THERAVÀDA Letteralmente, «insegnamento degli anziani». Gli insegnamenti del Buddha, nella forma in cui sono stati
preservati nelle nazioni del sudest asiatico (Birmania, Sri Lanka, Tailandia, Laos, Cambogia). Sono generalmente
riconosciuti come la forma più antica degli insegnamenti.

TIPITAKA Letteralmente, « i tre cesti » Le tre raccolte degli insegnamenti del Buddha:
1. Vinaya-pitaka: la raccolta della disciplina monastica;
2. Sutta-pitaka: la raccolta dei discorsi;
3. Abhidhamma-pitaka: la raccolta dell'insegnamento più alto, ossia l'esegesi filosofica sistematica di Dhamma.
(In sanscrito Tripitaka).

VEDANÀ Sensazione. Uno dei quattro aggregati mentali o processi, con vinnana, sanna, e sankhàra. Il Buddha lo
descrive come avente sia aspetti fisici che mentali; perciò vedanà offre un mezzo per esaminare la totalità del corpo e
della mente. Nella Catena del Sorgere Condizionato, il Buddha spiegò che tanhà, la causa della sofferenza, ha origine da
una reazione a vedanà (v. p. 67). Imparando ad osservare oggettivamente vedanà, si può evitare qualsiasi nuova reazione
di bramosia e avversione, e sperimentare direttamente all'interno di se stessi la realtà dell'impermanenza (anìcca). Questa
esperienza è essenziale per lo sviluppo della condizione di distacco, che conduce alla liberazione della mente.
Vedanànupassanà'. osservazione delle sensazioni all'interno del corpo. Vedi SATIPATTHÀNA,

VINNÀNA Coscienza, cognizione. Uno dei quattro aggregati o processi mentali, con sannà, vedanà, e sankhàra.

VIPASSANÀ Introspezione, osservazione e comprensione profonda della realtà che purifica totalmente la mente.
Specificatamente, è la comprensione profonda della natura impermanente della mente e del corpo.
Vipassanà-bhàvanà: lo sviluppo sistematico della comprensione profonda attraverso la tecnica di meditazione dell'os-
servazione della propria realtà per mezzo dell'osservazione delle sensazioni all'interno del corpo.

YATHÀ-BHÙTA Letteralmente, « così com'è ». Realtà.

YATHÀ-BHÙTA - ŃẬNA -DASSANA Saggezza che sorge dal vedere la verita così com’è.
Da quando, nel 1969, S.N. Goenka ha lasciato la Birmania (oggi Myanmar) per iniziare ad insegnare la meditazione Vipassana
in India e, qualche anno dopo, anche nei paesi occidentali, la meditazione Vipassana si è diffusa rapidamente in tutto il mondo.
Ora in molti paesi esistono strutture e centri permanenti dove si tengono periodicamente corsi di meditazione .
Il primo corso di dieci giorni organizzato in Italia secondo questa tradizione si è svolto nel novembre 1986. Da allora ne
vengono organizzati ogni anno. Nel 1991 alcuni meditatori hanno fondato un'associazione senza fini di lucro, l'Associazione
Vipassana Italia, che si occupa dell'organizzazione dei corsi e di garantire l'assoluta correttezza nel seguire i principi che
regolano l'insegnamento di Vipassana.
Questo insegnamento, che non ha alcuna connotazione religiosa, è aperto a tutti, senza distinzione di religione, professione o
credo filosofico, in quanto, poiché la sofferenza e le sue cause sono universali, la via per uscirne deve ugualmente essere
accessibile a tutti. Visto che l'associazione non è legata ad alcuna struttura organizzata, la realizzazione dei corsi è resa possibile
da chi, avendo partecipato ad almeno un corso ed avendone tratto giovamento, sente il desiderio di far conoscere ad altri questa
tecnica, offrendo una libera donazione per permettere l'organizzazione di altri corsi. L'Associazione Vipassana Italia ha
l'obiettivo di far conoscere una tecnica di meditazione universale, accessibile ed accettabile da tutti, indipendentemente da
razza, religione o opinione politica. Attraverso lo studio e la pratica della meditazione Vipassana, come insegnata da S.N.
Goenka, si propone di favorire l'acquisizione della conoscenza di se stessi, sviluppando un alto standard di moralità, la
concentrazione mentale, l'osservazione e la comprensione profonda della propria realtà mentale e fisica.
L'Associazione è di interesse generale poiché offre a tutti la possibilità di imparare questa tecnica di meditazione, fornendo così
uno strumento pratico che permette di conoscersi e di lavorare su se stessi per condurre una vita più serena e socialmente
responsabile.
Tutti i corsi, in tutto il mondo e in Italia, sono liberi da costi di partecipazione per evitare che gli aspetti commerciali
interferiscano con la tecnica, e inoltre per dare a tutti, indipendentemente dalla situazione economica, la possibilità di
beneficiare di questa arte di auto-conoscenza.
I corsi hanno un programma molto intenso e si svolgono, per i primi nove giorni, in completo silenzio. Prima del corso tutti i
partecipanti ricevono informazioni sulle regole, la disciplina e l'orario giornaliero, che è stato strutturato per creare le condizioni
migliori per l'apprendimento della tecnica.
I corsi di dieci giorni sono la base necessaria per essere in grado di praticare la meditazione quotidianamente e di integrarla
nella propria vita. La tecnica è facile da comprendere e non implica alcun rituale; può essere praticata da persone di ogni età e
non richiede conoscenze preliminari.
Ma, come è ben specificato negli opuscoli che gli interessati ricevono quando chiedono informazioni sui corsi, Vipassana è una
tecnica molto seria, che implica impegno e duro lavoro e non ha nulla a che fare con «esperienze o viaggi strani», con
particolari stati di piacere o d'estasi, con stati mentali alterati.
Vipassana offre la possibilità di conoscere i condizionamenti e le negatività della propria mente, permettendo, con il tempo, di
eliminare le tensioni accumulate, di modificare i comportamenti e gli schemi di vita che procurano sofferenza.
Per questo è necessario che i partecipanti godano di salute mentale e fisica stabile e abbiano la ferma volontà di osservare le
regole e la disciplina per intraprendere seriamente l'esperienza. Nonostante l'impegno rigoroso richiesto dal programma del
corso e dall'assidua osservazione del proprio corpo e della propria mente, la maggior parte dei partecipanti scopre che questi
ritiri permettono di recuperare nuova energia per affrontare la vita quotidiana.
Recentemente questa tecnica è stata introdotta con successo in settori sociali ed educativi, come, ad esempio, scuole, carceri,
centri di riabilitazione per alcolisti o tossicodipendenti.

Si possono richiedere informazioni a: http://www.atala.dhamma.org/pub/index.htm

SOMMARIO

INTRODUZIONE

CAPITOLO PRIMO
La ricerca
Domande e risposte

CAPITOLO SECONDO
II punto di partenza
La materia
La mente
Domande e risposte
CAPITOLO TERZO
La causa immediata
Kamma
Le tre categorie di azioni
La causa della sofferenza
Domande e risposte

CAPITOLO QUARTO
La radice del problema
Definizione della sofferenza
L’attaccamento
Il sorgere condizionato;la catena di causa ed effetto da cui trae origine la sofferenza
La via d’uscita dalla sofferenza
Il flusso delle esistenze successive
Domande e risposte

CAPITOLO QUINTO
La pratica della condotta morale
Il valore della pratica morale
Giusta parola
Giusta azione
Precetti morali
Giusti mezzi di sussistenza
La pratica di sìla in un corso di meditazione vipassana
Domande e risposte

CAPITOLO SESTO
La pratica della concentrazione
Il giusto sforzo
La giusta consapevolezza
La giusta concentrazione
Domande e risposte

CAPITOLO SETTIMO
La pratica della saggezza
Il giusto pensiero
La giusta comprensione
Vipassanà-bhàvanà
Impermanenza, inesistenza dell’io, sofferenza
Equanimità
La via che conduce alla liberazione
Domande e risposte

CAPITOLO OTTAVO
Consapevolezza ed equanimità
Il deposito delle azioni passate
Sradicare i vecchi condizionamenti
Domande e risposte
CAPITOLO NONO
La meta
Il raggiungimento della verità ultima
L’esperienza della liberazione
La vera felicità
Domande e risposte

CAPITOLO DECIMO
L’arte di vivere
Domande e risposte

APPENDICE A
L’importanza di vedanà nell’insegnamento del Buddha

APPENDICE B
Passi su vedanà tratti da vari sutta

GLOSSARIO DEI TERMINI PĀLI

NOTE

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