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fosse rivelata vera. Ci trovammo con gli amici pi impegnati nel Movimento.
Riuscimmo a vincere la "presuntuosa soddisfazione" che faceva capolino dentro di noi. Il momento
era delicatissimo per le sorti di tutto il Movimento perch potessimo abbandonarci
all'autocompiacimento. Rileggemmo la lettera aperta che aveva generato, come sembrava, quella
convocazione.
Si trattava di un forte appello alla Funzione di garanzia del Presidente perch vigilasse sulla
applicazione della Legge sui Principi della Disciplina Militare recentemente emanata dal
Parlamento (L. 382/78). Oltre 300 Generali avevano scritto al Presidente paventando che la
applicazione della Legge, con le nuove garanzie che riconosceva ai militari e con la estensione ad
essi dei diritti costituzionali fondamentali di espressione e rappresentanza che essa prevedeva,
avrebbe reso "ingovernabile" il mondo militare e non pi esercitabile "l'esercizio del Comando
fondato sulla disciplina". Il 17 Dicembre 1978 il giornale Il Tirreno aveva pubblicato integralmente
la nostra pur lunghissima lettera che, dopo aver analizzato serenamente i limiti della Legge e - ci
nonostante - la puntigliosa determinazione dei vertici militari di svuotarne ulteriormente il
contenuto innovatore e riformatore delle rappresentanze elettive, cos concludeva:
"Perseguiti da una volont repressiva, delusi da una approvazione legislativa condizionata
politicamente a scapito di molte libert costituzionali, continueremo a garantire con la nostra fedelt
la sicurezza dello Stato Democratico nato dalla Resistenza. Non rinunceremo mai a ricercare una
dignit nuova e diversa e tuttavia consapevole del nostro status di militari, rispettosi del popolo cui
apparteniamo e che potremmo, un domani, essere chiamati a difendere con disciplina e sacrificio."
Quella lettera, ci sembrava, rendeva credibile l'ipotesi che l'iniziativa venisse davvero dal
Presidente, e comunque decidemmo che, quand'anche si fosse rivelata una "provocazione"
all'insaputa di Pertini, dovevo rispondere alla convocazione. Al pi avrei fatto un giro a vuoto a
Roma; ed in questo caso avrei potuto capire meglio da dove e da chi poteva essere nata l'iniziativa,
ed a quale scopo. Tanto pi che la telefonata, passata tramite il centralino militare, mi garantiva da
ogni possibile accusa di "aver inventato tutto". Non ci sembrava, d'altra parte, che ricorressero le
condizioni di "una trappola" dei Servizi, che pure gi mi avevano minacciato e mi stavano con il
"fiato sul collo" - come a tutti noi, d'altronde - nel tentativo di collegarci a chiss quali realt e
trame eversive. Quella di un "attentato" al Presidente, attuato in concomitanza con la mia presenza,
appariva come l'unico vero pericolo. Ed era di quei pericoli che non si possono sottovalutare. Il
lettore capir, pi avanti come questa analisi, che qui pu apparire delirante, avesse in realt e
purtroppo una solida base di concretezza e preoccupazione.
Fu allora che maturammo la decisione pazzesca di una prova di forza per accertare la credibilit
della convocazione del Presidente, anche se ci diveniva, nei suoi confronti e se l'iniziativa fosse
stata davvero sua, una sfacciata e poco ortodossa risposta: Dunque il Presidente mi aveva convocato
per quella mia firma, unica di un Ufficiale, sul documento a lui indirizzato da centinaia di
Sottufficiali?, dunque il Presidente voleva consocermi per capire? Ebbene, poich non mi spingeva
nessuna volont di apparire e nessuna ricerca di interesse personale, io non avevo alcun titolo proprio in assenza delle Rappresentanze, per la mancanta applicazione della Legge che il
documento denunciava - per esprimere e rappresentare compiutamente le attese e le scelte dei
militari che, come me, si riconoscevano in quel documento, ed avevano pensato, voluto e
combattuto per ottenere quella Legge sulle Rappresentanze Elettive.
Avrei dunque chiamato la Sig.na Reggi, per rappresentarle questo disagio e l'impossibilit di
esprimermi a nome di tutti i firmatari senza alcun loro mandato. Pertanto le avrei esposto l'esigenza
di recarmi al Quirinale in delegazione con altri colleghi.
L'Arma sarebbe stata rappresentata in tutte le sue componenti, per confermare al Presidente che di
conseguenza in tutte le componenti gerarchiche esistevano uomini che, separandosi da vecchie e
consolidate culture antidemocratiche, si riconoscevano concordi nei valori e nelle istanze
costituzionali del Movimento. Senza nulla togliere e nulla perdere di quel rispetto reciproco e di
quella subordinazione che dovevano essere funzionali alla sola disciplina per il raggiungimento dei
compiti di istituto e di servizio. Un Sottuffiale, un Ufficiale Inferiore, un Ufficiale Superiore, questa
sarebbe stata dunque la nostra delegazione.
Presi coraggio e feci quella telefonata, aggiungendo spudoratamente che, senza quelle condizioni,
non mi sentivo di potere aderire alla convocazione per rispondere ai quesiti ed interrogativi che il
Presidente avrebbe voluto sottopormi. Non in una forma cos ufficiale, perlomeno. Al pi avremmo
potuto parlarne in un incontro informale, come comunicazione di una valutazione strettamente mia
personale.
Sentii, evidente, l'imbarazzo e la sorpresa della sig.na Reggi di fronte alla sfrontata richiesta. Ma,
invitato a richiamare dopo un paio d'ore, ricevetti, dalla ancor pi stupefatta segretaria, l'assenso del
Presidente alla presenza di Lino e di Sandro.
In quelle due ore ero stato molto agitato; ma la risposta, oltre a darci definitiva conferma che
l'iniziativa era di esclusiva decisione di Pertini, ci chiarva quale fosse lo spessore di quell'uomo. Il
rispetto, il fascino del Leader della Resistenza, si trasformarono in sentimenti molto pi profondi.
Intuivo quale differenza possa e debba esserci tra la gestione della funzione come potere o come
servizio. Capivo che un uomo limpido ed onesto non teme di confrontarsi con alcuna realt. Anzi,
come quello del Presidente, fosse l'unico modo per garantire le Istituzioni circa la natura e la
correttezza costituzionale del Movimento Democratico dei Militari, piuttosto che il criterio
poliziesco, persecutorio ed accusatorio - quando non violento e terroristico - che era stato attuato
fino a quel momento dai vertici militari, rifiutando ogni reale confronto sui temi e sui modi e sugli
obiettivi di una rivendicazione e di una ricerca.
Dunque? Cos'era mai accaduto per giustificare quella accoglienza cos aggressiva e ringhiosa?
Torniamo dunque nello studio del Presidente.
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Non potevo vedere i volti dei miei colleghi, che pensai terrei e madidi di sudore come il mio davanti
alla carica del Presidente. Arrivato alla mia altezza, di colpo la sua furia si volse verso il nostro
accompagnatore, che invece vedevo quasi ghignare. E lo aggred: "E lei chi ? Chi lei" ripeteva.
La voce si era alzata ancor pi ed era divenuta irosa. "Ma, signor Presidente - balbett quello, che
non ghignava pi - sono del cerimoniale!"
"Vada via!" url il Presidente "Vada via, vada via!" ripet mentre la voce diveniva un sibilo
sussurrato e la sua pipa indicava irresistibilmente la porta dello studio. Mi chiesi se il povero Pertini
non fosse ormai un "vecchio fuori di cervello"
Ma, come quello fu andato, l'atteggiamento del Presidente cambi, si distese ed il viso assunse una
specie di "ghigmo" soddisfatto e beffardo. Mi prese sottobraccio mentre ci indicava il salottino sul
fondo della stanza opposto alla scrivania e ci invitava a sederci.
Sandro, rompendo per primo lo stato di terrorizzato imbarazzo e facendosi carico - guascone
com'era - della "responsabilit del grado" attacc con un "Signor Presidente", urlato quasi volesse
rompere il nodo che serrava le nostre gole. Poi prosegu pi moderatamente, ma continuando ad
agitare le braccia come era nella sua maniera di parlare quando partecipava con tutto se stesso
dell'argomento trattato: "Noi non siamo qui perch Lei faccia qualcosa per noi. Non lo abbiamo
chiesto noi l'incontro. Se siamo qui, dopo la Sua convocazione, solo per il bene della Forza
Armata e del Paese."
Anche Lino ed io cercavamo alternativamente di intervenire, un po' indignati di dover quasi
giustificare la nostra presenza. Rubare il tempo a Sandro era per impresa ardua gi in condizioni
ordinarie.
Il Presidente non lo lasci finire e perentoriamente tacit anche noi, pur senza mostrare alcuna
reazione negativa di fronte a quei nostri modi che, a freddo, ci sarebbero poi apparsi come
assolutamente folli.
Ci rassicur: "Giovanotti, basta chiacchiere! Siete evidentemente cos ingenui da non capire come
funzionano le cose. Io sono il Presidente; ma sono il pi controllato degli italiani. Quell'uomo non
l'avevo mai visto prima e di certo dei servizi. Lei non immagina, capitano, cosa sia successo qui
per aver aderito alla sua richiesta. Ragionevaole. Seria: Ma lei mi ha esposto completamente e reso
tutto pi difficile. Dovevo mostrarmi indignato. Ma ora, dopo il rimprovero che ogni buon padre
deve fare ai figli che sbagliano, basta. Parliamo del motivo per cui siete qui, e dimostratemi che non
mi sono sbagliato. Ma prima di tutto ordiniamo un caff." Questo era il Presidente Pertini.
parte dello Stato, ma solo un suo partner professionisticamente tenuto ad una collaborazione
esclusivamente verso i terzi.
Chi rivestiva le funzioni parlamentari e di Governo tuttavia, non ha mai mostrato la volont o la
capacit per fare chiarezza e pulizia fino in fondo, offrendo strumenti reali di promozione di una
diversa cultura, di garanzia e di tutela per coloro che si impegnino con lealt per lo Stato e con lo
Stato sapendo di esserne realmente ed esclusivamente servitori.
Avevamo dunque vissuto la nostra grande esperienza. Fuori dallo studio del Presidente dovemmo
respirare tutti e tre profondamente prima di scambiarci una parola o una impressione. Riuscimmo a
ridere del fatto che Lino ed io, trovandoci senza un abito decente per l'incontro, eravamo stati ad
acquistarne uno "risparmioso" in qualche grande magazzino, senza tuttavia accordarci. E cos ci
eravamo presentati con due abiti grigi a quadrettini sconsolatamente uguali.
L'angoscia era passata. La convocazione si era rivelata vera ed avevamo ricevuto una lezione
altissima di umanit e di democrazia che non avremmo certamente potuto dimenticare. Eravamo
soddisfatti, coscienti di essere stati, almeno in quella prima occasione, alla altezza della situazione
imprevedibile che avevamo dovuto affrontare.
Il Presidente non ci aveva dato una reale prospettiva di lavoro e sapevamo dunque di dover
continuare il nostro impegno senza altra garanzia che la nostra convinzione e detrminazione. Ma
l'angoscia si era trasformata in una serena e consapevole certezza, che ci rese via via silenziosi: per
noi quell'incontro era stato "l'inizio della fine".
A Pisa intanto si era scatenato il primo atto del "cieco furore", con una visita-lampo del Gen. Nardi
Catullo.