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CAPITOLO 2

IL PRESIDENTE PERTINI: L'INIZIO DELLA FINE


Salire a 28 anni le scale del Quirinale, convocato dal Presidente della Repubblica. Potrebbe
sembrare ai pi il coronamento di una folgorante carriera, militare e politica. Eppure, in quel
pomeriggio di un giorno d'inverno del 1979, mentre un uomo del cerimoniale, in ascensore,
conduceva me - allora giovane capitano pilota della A.M. - e due colleghi - Alessandro Marcucci,
T.Colonnello, e Lino Totaro, Sergente Maggiore - verso lo studio del Presidente Pertini, avvertivo,
oltre la comprensibile euforia, una sottile e fastidiosa sensazione di angoscia e disagio.
Ero consapevole che la convocazione del Presidente aveva scatenato la "paura" e la pi determinata
volont di "reazione" di quei settori e personaggi delle F.A., e della Aeronautica in particolare, che
si sentivano aggrediti - cos nel loro "prestigio", come nel loro "privilegio" - dalla attivit del
Movimento Democratico dei Militari.
Tuttavia non potevo fare a meno di godere a quel pensiero: "vedevo" volti lividi di rabbia;
"ascoltavo" telefonate concitate tra Uffici Militari e tra questi e le stanze Politiche del Ministero per
la Difesa, lamentando l'affronto recato dal Presidente Pertini ai vertici delle Forze Armate con
quella convocazione.
Ed ancora di pi cresceva, con quei pensieri, la stima per il "vecchio campione" che rompeva, con
quella decisione tipica del suo carattere (tanto impulsivo, quanto desideroso di capire personalmente
e fino in fondo le ragioni ed il disagio del "Suo Popolo"), ogni schema ed ogni protocollo.
Dopo aver raggiunto il piano, ed aver attraversato un breve corridoio, in un ovattato silenzio, rotto
solo dal rumore metallico che accompagnava il saluto di qualche corazziere, il nostro
accompagnatore buss infine alla porta dello studio del Presidente. Entr, e dopo averci annunciati,
si fece leggermente da parte. Non appena fummo entrati il Presidente lanci una specie di ruggito,
uscendo da dietro una scrivania che mi sembr enorme sul fondo dello studio illuminato
soffusamente. Venne verso di noi, brandendo la pipa e puntandola come un'arma verso di me.
"Come si permesso? Come!?" - avevo gi la camicia attaccata alla pelle da un sudore gelato - "Io
avevo convocato un solo Ufficiale e mi si viene qui in delegazione! Cosa dovrei fare ora? Dovrei
cacciarvi via. Non posso pi fare nulla per voi, signori!"
Cosa stava mai succedendo? Per capire, bisogna aprire una breve parentesi e tornare a qualche
mattina prima, a Pisa, nella Sala Operativa della 46^AeroBrigata, dove era iniziata quella strana,
singolare ed irripetibile avventura.
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Stavo sbrigando la mia attivit di routine, quando fui chiamato concitatamente da qualche collega
perch rispondessi al telefono.
"Capitano, venga presto, c' la Presidenza della Repubblica in linea. Chiedono di Lei!"
Quasi annoiato, certo di uno scherzo, andai all'apparecchio. Una voce femminile, carica di simpatia,
cortese quanto decisa e professionale, chiese: "Parlo con il Capitano Ciancarella?" "Sono io, con chi
sto parlando?" "Sono la Signorina Reggi, segretaria personale del Presidente Pertini. Il il Presidente
l'ha convocata al Quirinale per il pomeriggio del... alle ore 17.00."
Continuavo a pensare ad uno scherzo, anche se era subentrata una certa agitazione. Comprendendo
forse il mio sconcerto, fu la Sig.na Reggi ad anticipare la mia domanda offrendomi una spiegazione:
"Il Presidente intende incontrarla in quanto lei l'unico Ufficiale ad aver firmato quella lettera
aperta sulle Rappresentanze Militari, pubblicata sulla stampa ed inviata alla attenzione del
Presidente, sottoscritta da 800 Sottufficiali."
In un barlume di lucidit chiesi se e come potessi rintracciarla. Avuto il numero, la conversazione si
chiuse praticamente l, dopo le indicazioni della sig.na sulle modalit con cui presentarmi al
Quirinale. Appena mi fu possibile lasciai la Sala Operativa e potetti verificare presso il nostro
centralino che il numero, riservato per la Azienda di Stato, corrispondeva al Qurinale. L'agitazione
divenne panico. Bisognava capire. Rimanere freddi, senza abbandonarsi ad alcun facile entusiasmo,
per poter comprendere quanto mi stava accadendo e scegliere i comportamenti pi idonei. Capire
che senso avesse quella convocazione, se fosse reale o una trappola predisposta da altri. Per indurci
a cosa. Ed in ogni caso quali potessero essere le possibili conseguenze di quella convocazione, se si

fosse rivelata vera. Ci trovammo con gli amici pi impegnati nel Movimento.
Riuscimmo a vincere la "presuntuosa soddisfazione" che faceva capolino dentro di noi. Il momento
era delicatissimo per le sorti di tutto il Movimento perch potessimo abbandonarci
all'autocompiacimento. Rileggemmo la lettera aperta che aveva generato, come sembrava, quella
convocazione.
Si trattava di un forte appello alla Funzione di garanzia del Presidente perch vigilasse sulla
applicazione della Legge sui Principi della Disciplina Militare recentemente emanata dal
Parlamento (L. 382/78). Oltre 300 Generali avevano scritto al Presidente paventando che la
applicazione della Legge, con le nuove garanzie che riconosceva ai militari e con la estensione ad
essi dei diritti costituzionali fondamentali di espressione e rappresentanza che essa prevedeva,
avrebbe reso "ingovernabile" il mondo militare e non pi esercitabile "l'esercizio del Comando
fondato sulla disciplina". Il 17 Dicembre 1978 il giornale Il Tirreno aveva pubblicato integralmente
la nostra pur lunghissima lettera che, dopo aver analizzato serenamente i limiti della Legge e - ci
nonostante - la puntigliosa determinazione dei vertici militari di svuotarne ulteriormente il
contenuto innovatore e riformatore delle rappresentanze elettive, cos concludeva:
"Perseguiti da una volont repressiva, delusi da una approvazione legislativa condizionata
politicamente a scapito di molte libert costituzionali, continueremo a garantire con la nostra fedelt
la sicurezza dello Stato Democratico nato dalla Resistenza. Non rinunceremo mai a ricercare una
dignit nuova e diversa e tuttavia consapevole del nostro status di militari, rispettosi del popolo cui
apparteniamo e che potremmo, un domani, essere chiamati a difendere con disciplina e sacrificio."
Quella lettera, ci sembrava, rendeva credibile l'ipotesi che l'iniziativa venisse davvero dal
Presidente, e comunque decidemmo che, quand'anche si fosse rivelata una "provocazione"
all'insaputa di Pertini, dovevo rispondere alla convocazione. Al pi avrei fatto un giro a vuoto a
Roma; ed in questo caso avrei potuto capire meglio da dove e da chi poteva essere nata l'iniziativa,
ed a quale scopo. Tanto pi che la telefonata, passata tramite il centralino militare, mi garantiva da
ogni possibile accusa di "aver inventato tutto". Non ci sembrava, d'altra parte, che ricorressero le
condizioni di "una trappola" dei Servizi, che pure gi mi avevano minacciato e mi stavano con il
"fiato sul collo" - come a tutti noi, d'altronde - nel tentativo di collegarci a chiss quali realt e
trame eversive. Quella di un "attentato" al Presidente, attuato in concomitanza con la mia presenza,
appariva come l'unico vero pericolo. Ed era di quei pericoli che non si possono sottovalutare. Il
lettore capir, pi avanti come questa analisi, che qui pu apparire delirante, avesse in realt e
purtroppo una solida base di concretezza e preoccupazione.
Fu allora che maturammo la decisione pazzesca di una prova di forza per accertare la credibilit
della convocazione del Presidente, anche se ci diveniva, nei suoi confronti e se l'iniziativa fosse
stata davvero sua, una sfacciata e poco ortodossa risposta: Dunque il Presidente mi aveva convocato
per quella mia firma, unica di un Ufficiale, sul documento a lui indirizzato da centinaia di
Sottufficiali?, dunque il Presidente voleva consocermi per capire? Ebbene, poich non mi spingeva
nessuna volont di apparire e nessuna ricerca di interesse personale, io non avevo alcun titolo proprio in assenza delle Rappresentanze, per la mancanta applicazione della Legge che il
documento denunciava - per esprimere e rappresentare compiutamente le attese e le scelte dei
militari che, come me, si riconoscevano in quel documento, ed avevano pensato, voluto e
combattuto per ottenere quella Legge sulle Rappresentanze Elettive.
Avrei dunque chiamato la Sig.na Reggi, per rappresentarle questo disagio e l'impossibilit di
esprimermi a nome di tutti i firmatari senza alcun loro mandato. Pertanto le avrei esposto l'esigenza
di recarmi al Quirinale in delegazione con altri colleghi.
L'Arma sarebbe stata rappresentata in tutte le sue componenti, per confermare al Presidente che di
conseguenza in tutte le componenti gerarchiche esistevano uomini che, separandosi da vecchie e
consolidate culture antidemocratiche, si riconoscevano concordi nei valori e nelle istanze
costituzionali del Movimento. Senza nulla togliere e nulla perdere di quel rispetto reciproco e di
quella subordinazione che dovevano essere funzionali alla sola disciplina per il raggiungimento dei
compiti di istituto e di servizio. Un Sottuffiale, un Ufficiale Inferiore, un Ufficiale Superiore, questa
sarebbe stata dunque la nostra delegazione.

Presi coraggio e feci quella telefonata, aggiungendo spudoratamente che, senza quelle condizioni,
non mi sentivo di potere aderire alla convocazione per rispondere ai quesiti ed interrogativi che il
Presidente avrebbe voluto sottopormi. Non in una forma cos ufficiale, perlomeno. Al pi avremmo
potuto parlarne in un incontro informale, come comunicazione di una valutazione strettamente mia
personale.
Sentii, evidente, l'imbarazzo e la sorpresa della sig.na Reggi di fronte alla sfrontata richiesta. Ma,
invitato a richiamare dopo un paio d'ore, ricevetti, dalla ancor pi stupefatta segretaria, l'assenso del
Presidente alla presenza di Lino e di Sandro.
In quelle due ore ero stato molto agitato; ma la risposta, oltre a darci definitiva conferma che
l'iniziativa era di esclusiva decisione di Pertini, ci chiarva quale fosse lo spessore di quell'uomo. Il
rispetto, il fascino del Leader della Resistenza, si trasformarono in sentimenti molto pi profondi.
Intuivo quale differenza possa e debba esserci tra la gestione della funzione come potere o come
servizio. Capivo che un uomo limpido ed onesto non teme di confrontarsi con alcuna realt. Anzi,
come quello del Presidente, fosse l'unico modo per garantire le Istituzioni circa la natura e la
correttezza costituzionale del Movimento Democratico dei Militari, piuttosto che il criterio
poliziesco, persecutorio ed accusatorio - quando non violento e terroristico - che era stato attuato
fino a quel momento dai vertici militari, rifiutando ogni reale confronto sui temi e sui modi e sugli
obiettivi di una rivendicazione e di una ricerca.
Dunque? Cos'era mai accaduto per giustificare quella accoglienza cos aggressiva e ringhiosa?
Torniamo dunque nello studio del Presidente.
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Non potevo vedere i volti dei miei colleghi, che pensai terrei e madidi di sudore come il mio davanti
alla carica del Presidente. Arrivato alla mia altezza, di colpo la sua furia si volse verso il nostro
accompagnatore, che invece vedevo quasi ghignare. E lo aggred: "E lei chi ? Chi lei" ripeteva.
La voce si era alzata ancor pi ed era divenuta irosa. "Ma, signor Presidente - balbett quello, che
non ghignava pi - sono del cerimoniale!"
"Vada via!" url il Presidente "Vada via, vada via!" ripet mentre la voce diveniva un sibilo
sussurrato e la sua pipa indicava irresistibilmente la porta dello studio. Mi chiesi se il povero Pertini
non fosse ormai un "vecchio fuori di cervello"
Ma, come quello fu andato, l'atteggiamento del Presidente cambi, si distese ed il viso assunse una
specie di "ghigmo" soddisfatto e beffardo. Mi prese sottobraccio mentre ci indicava il salottino sul
fondo della stanza opposto alla scrivania e ci invitava a sederci.
Sandro, rompendo per primo lo stato di terrorizzato imbarazzo e facendosi carico - guascone
com'era - della "responsabilit del grado" attacc con un "Signor Presidente", urlato quasi volesse
rompere il nodo che serrava le nostre gole. Poi prosegu pi moderatamente, ma continuando ad
agitare le braccia come era nella sua maniera di parlare quando partecipava con tutto se stesso
dell'argomento trattato: "Noi non siamo qui perch Lei faccia qualcosa per noi. Non lo abbiamo
chiesto noi l'incontro. Se siamo qui, dopo la Sua convocazione, solo per il bene della Forza
Armata e del Paese."
Anche Lino ed io cercavamo alternativamente di intervenire, un po' indignati di dover quasi
giustificare la nostra presenza. Rubare il tempo a Sandro era per impresa ardua gi in condizioni
ordinarie.
Il Presidente non lo lasci finire e perentoriamente tacit anche noi, pur senza mostrare alcuna
reazione negativa di fronte a quei nostri modi che, a freddo, ci sarebbero poi apparsi come
assolutamente folli.
Ci rassicur: "Giovanotti, basta chiacchiere! Siete evidentemente cos ingenui da non capire come
funzionano le cose. Io sono il Presidente; ma sono il pi controllato degli italiani. Quell'uomo non
l'avevo mai visto prima e di certo dei servizi. Lei non immagina, capitano, cosa sia successo qui
per aver aderito alla sua richiesta. Ragionevaole. Seria: Ma lei mi ha esposto completamente e reso
tutto pi difficile. Dovevo mostrarmi indignato. Ma ora, dopo il rimprovero che ogni buon padre
deve fare ai figli che sbagliano, basta. Parliamo del motivo per cui siete qui, e dimostratemi che non
mi sono sbagliato. Ma prima di tutto ordiniamo un caff." Questo era il Presidente Pertini.

So di cosa abbiamo parlato in quei successivi quarantacinque minuti di serrata conversazione; ma le


frasi, i passaggi li ricordo solo vagamente. Erano, erano stati e sarebbero stati gli argomenti
quotidiani del nostro impegno; quello stesso impegno che ripercorre ogni pagina di questa storia.
Solo quelle prime parole ed il congedo si sono stampati nella mia pelle, ancor pi che nel ricordo.
D'un tratto il Presidente interruppe l'esposizione di un ulteriore argomento ed allungandomi un
foglietto di carta mi chiese di scrivere il mio nome ed indirizzo su quel foglietto, che poi mise in
tasca. Infine si alz di scatto. Il colloquio era concluso.
Non aveva detto una parola di valutazione sulla credibilit che riteneva di poterci riconoscere, n ci
aveva dato riferimenti per un futuro eventuale rapporto; ma avvertivamo che non era finita l.
Mentre ci accompagnava alla porta, tenendomi di nuovo per il braccio, parlava sommessamente,
quasi tra s e s, guardando per terra. Ci invitava a lottare con seriet e continuit per il bene della
Nazione, a non vergognarci mai di quanto potesse accaderci se i nostri intenti rimanevano limpidi
ed onesti.
E tornava a parlarci di s e della sua storia, del carcere subito. Quasi volesse farci coraggio per ci
che temeva avremmo potuto sperimentare anche noi. Non c'era alcuna vanteria nelle parole con cui
parlava della sua storia, quanto piuttosto una profonda amarezza che non aveva intaccato la voglia
di combattere e la consapevolezza di doverlo fare. Quando ci strinse la mano avrei voluto chiedergli
di abbracciarlo. Sono certo che lo avrebbe fatto. Ma come tre "pinguini imbranati" (come si dice
degli allievi del primo anno della Accademia Aeronautica) abbozzammo un goffissimo "Attenti",
irrigidendoci nei nostri abiti borghesi. Uscendo, lo vidi tornare verso la scrivania. Lentamente. Pi
curvo. Mi sembr portasse tutti i pesi della "sua" gente.
Su una cosa il Presidente era stato categorico: se era il bene del Paese e delle Istituzioni che ci
guidava Lui non avrebbe mai potuto prendere direttamente le nostre difese. Noi non avremmo mai
dovuto invocare il suo intervento.
Siamo stati fedeli all'impegno anche nelle vicende successive e nei ripetuti procedimenti militari,
penali e disciplinari, con cui si arriv alle "soluzioni finali" per ciascuno di noi tre.
Una sola volta, quando dopo il mio arresto mi sembr che la "mediazione politica" volesse
lasciarmi solo di fronte al "Potere Militare" (cosa che fu cinicamente realizzata tre anni dopo, al
momento del processo, svelando un inganno che si era trascinato fin dall'inizio), ebbi la tentazione
di riferire dell'incontro con Pertini ed appellarmi al suo intervento. Conservo ancora la risposta del
Sen. Boldrini, al quale avevo chiesto un fraterno parere, che mi richiamava con fermezza
all'impegno di non coinvolgere il Presidente.
Di Pertini avrei parlato, ma non in relazione al nostro incontro, solo qualche tempo dopo al Giudice
Rosin della Procura Militare di Padova. Personaggio che non esito a definire, per il suo stesso
comportamento, schierato con gli ignobili poteri deviati e devianti dello Stato: mi sottopose, come
imputato, ad un interrogatorio senza difensore n segretario cancelliere. Registr pertanto di suo
pugno il verbale di interrogatorio per quattro ore, dalle 09.00 alle 13.00. Verbale che poi si "perse"
senza lasciare traccia e senza che, ripetute istanze, riuscissero a farlo riemergere dalle nebbie
dell'insabbiamento. Parlai di Pertini per denunciare possibili disegni contro la sua persona, in
scenari che sia andavano facendo "reali" in maniera preoccupante, come poi sarebbe emerso da
"altri" giudici e da "altre" indagini.
Disegni contro lo Stato in cui la distinzione tra terrorismo e ambienti militari si andava sbiadendo
pericolosamente. Farneticazioni furono evidentemente considerate; ma forse non lo erano.
Era il 1982 e fortuna ha voluto che le F.A. abbiano dimostrato di avere una maggioranza di quadri
"fedeli", capaci di opporsi al terrorismo ma anche di resistere a fascinose tentazioni interne, che
qualcuno cercava di affidare al terrorismo o di nascondere dietro il terrorismo.
Qualcosa per, quel meccanismo infernale che si chiama "spirito di corpo" e che facilmente si altera
fino a divenire omert e quindi - anche se inconsapevolmente o involontariamente - concreta
complicit, impedisce a questa maggioranza di epurarsi realmente delle schegge deviate e corrotte
(che un grave errore definire "impazzite" poich in questa maniera si attribuisce ad esse una
specie di impunit per "infermit mentale" assolutamente inaccettabile e rischiosa).
E' questo il pi grave segnale di un "corpo separato" che non interagisce con lo Stato e non si sente

parte dello Stato, ma solo un suo partner professionisticamente tenuto ad una collaborazione
esclusivamente verso i terzi.
Chi rivestiva le funzioni parlamentari e di Governo tuttavia, non ha mai mostrato la volont o la
capacit per fare chiarezza e pulizia fino in fondo, offrendo strumenti reali di promozione di una
diversa cultura, di garanzia e di tutela per coloro che si impegnino con lealt per lo Stato e con lo
Stato sapendo di esserne realmente ed esclusivamente servitori.
Avevamo dunque vissuto la nostra grande esperienza. Fuori dallo studio del Presidente dovemmo
respirare tutti e tre profondamente prima di scambiarci una parola o una impressione. Riuscimmo a
ridere del fatto che Lino ed io, trovandoci senza un abito decente per l'incontro, eravamo stati ad
acquistarne uno "risparmioso" in qualche grande magazzino, senza tuttavia accordarci. E cos ci
eravamo presentati con due abiti grigi a quadrettini sconsolatamente uguali.
L'angoscia era passata. La convocazione si era rivelata vera ed avevamo ricevuto una lezione
altissima di umanit e di democrazia che non avremmo certamente potuto dimenticare. Eravamo
soddisfatti, coscienti di essere stati, almeno in quella prima occasione, alla altezza della situazione
imprevedibile che avevamo dovuto affrontare.
Il Presidente non ci aveva dato una reale prospettiva di lavoro e sapevamo dunque di dover
continuare il nostro impegno senza altra garanzia che la nostra convinzione e detrminazione. Ma
l'angoscia si era trasformata in una serena e consapevole certezza, che ci rese via via silenziosi: per
noi quell'incontro era stato "l'inizio della fine".
A Pisa intanto si era scatenato il primo atto del "cieco furore", con una visita-lampo del Gen. Nardi
Catullo.

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