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[in L. D'Alonzo, G. Mari (a c ura di), Identità e diversità in educazione. Studi in onore di Giuseppe
Vico, Vita e Pensiero, Milano, pp. 271-284].
“Dalla strada ai mass media: vivere tra i linguaggi” è il titolo di un intervento che Giuseppe Vico mi
propose di fare il 10 marzo del 2004, a Vigevano, nell'ambito del tradizionale ciclo di conferenze
che è solito organizzare a livello cittadino. Trovo ancora oggi la proposta molto interessante, per
una serie di motivi. Innanzitutto essa si àncora in maniera consistente a una delle tracce più presenti
all'interno della sua riflessione pedagogica, quella che si organizza attorno alla strada come
concetto-valigia che contiene l'attenzione per le emergenze umane, l'individuazione del disagio
nelle sue diverse forme come frontiera educativa, l'idea che la pedagogia possa declinarsi utilmente
nei territori dell'ascolto della sofferenza, quelli popolati - per intenderci – dai “poveri cristi” (Vico,
2007). In secondo luogo, direi quasi profeticamente, coglie nel fatto di “vivere tra i linguaggi” uno
dei descrittori fenomenologici più rilevanti del nostro tempo. Dico profeticamente perché nel 2004
non si era ancora assistito all'ascesa del Social Network1 (in particolare al fenomeno Facebook2 che
ne rappresenta l'aspetto più sintomatico), la blogosfera – almeno nel nostro Paese – non era così
sviluppata, gli schermi certo già caratterizzavano l'arredo urbano delle nostre città ma non con la
pervasività attuale, la tecnologia già dimostrava di essere “indossabile” (Silverstone, 2009) ma non
certo con la stessa portabilità spinta dei microcomputer e degli smartphone3 attuali. Da questa
doppia indicazione – la strada, i linguaggi – deriva il terzo motivo di interesse: esiste un filo rosso
che collega la strada ai media (senza “mass”, perché i media di massa hanno ormai lasciato il posto
ai personal media e a un panorama mutato della comunicazione, Ferri 2005) e questo filo rosso è
quello dell'educazione. La tradizione della Media Education si è sempre occupata esplicitamente
della scuola o delle “aule didattiche decentrate” (Frabboni, 1999): in buona sostanza l'extrascuola
delle ludoteche, delle biblioteche di quartiere, delle sezioni didattiche dei musei. Oggi, invece,
paiono maturi i tempi per (ri)proporre una riflessione attenta sulle opportunità che i media offrono
all'educazione anche in quegli spazi socioeducativi che più sono indirizzati all'elaborazione del
disagio e che trovano appunto nella strada il proprio aggregatore semantico. Diverse esperienze
significative indicano in questa direzione. Cercheremo di partire da esse per costruire una proposta
pedagogica al riguardo. Con questo mi rendo conto di come la riflessione che ne deriva vada ben
oltre i termini in cui avevo trattato del tema durante la mia conferenza e, quindi, di non poter più
utilizzare come traccia le slides di powerpoint predisposte per quell'occasione (come invece avevo
pensato astutamente di fare in un primo momento). Ma forse è meglio così.
1. I linguaggi e la strada
Quali sono i percorsi attraverso i quali, oggi, i linguaggi incontrano la strada? Ovvero: in che misura
i media possono funzionare da spie (o da spazi) di manifestazione del disagio?
1 Social Network è termine che indica la rete dei conoscenti di una persona. Per estensione, designa oggi quegli
applicativi informatici (come appunto Facebook, Netlog, MySpace, ecc.) grazie ai quali è possibile, in Internet, allestire
una rete sociale e mantenerla per scopi di divertimento, ma anche di comunicazione o di impegno sociale e politico
(come l'uso di Twitter nel caso della “rivoluzione verde” in Iran dimostra).
2 Sicuramente il più famoso e diffuso ambiente di social networking. Inventato nel 2004 dallo statunitense Marc
Zuckerberg, conta oggi oltre 450 milioni di utenti nel mondo (13,5 circa in Italia).
3 Uno smartphone (letteralmente, telefono intelligente) è un dispositivo che coniuga in sé le funzioni di comunicazione
di solito svolte da un telefono cellulare con quelle organizzative tradizionalmente disimpegnate da un palmare: agenda,
gestione degli appuntamenti, contatti, note, appunti. A questo si aggiunga che grazie ai protocolli di internet veloce
mobile (come l'UMTS o l'HSPDA) oggi disponibili, lo smartphone diviene anche un comodo punto di accesso a
Internet, sia per la gestione della posta elettronica che per la navigazione del Web.
La risposta a questa domanda passa, innanzitutto, dalla comprensione di come è cambiato negli
ultimi anni il paesaggio della comunicazione mediata. Lo possiamo comprendere entro un triplice
percorso che è all'insegna della pervasività, della mobilità e della demediazione.
La pervasività dice della migrazione dei media dentro le vite individuali e sociali dei soggetti (Bell,
2001). I media sono parte integrante della società. La nostra possibilità di essere informati passa in
larga parte da essi (dai giornali, dai notiziari televisivi, dal televideo, dal Web), ma anche la nostra
capacità di accedere ai servizi: in Internet verifichiamo orari ferroviari e aerei, prenotiamo e
acquistiamo biglietti, compriamo e vendiamo libri, abbiamo accesso a banche dati, possiamo
reperire documenti e format che ci servono per innumerevoli pratiche, dall'autocertificazione, ai
pagamenti on line, alla fiscalità. I media non sono più solo una “dimensione parallela” rispetto alla
realtà: essi costituiscono una componente essenziale e perfettamente integrata di questa stessa
realtà. Non solo. Nella misura in cui dalla loro disponibilità dipendono sia le informazioni in nostro
possesso che i servizi di cui potersi avvalere, i media divengono uno spazio di esercizio dei diritti e
quindi una fondamentale dimensione della nostra cittadinanza. Qui si incontra una prima
declinazione del rapporto con la strada. Quando Castells (2002) individua quattro strati sociali in
relazione a Internet - che chiama tecno-elite, hacker, comunitari virtuali e imprenditori 4 – sta
dimenticando una categoria fondamentale che è quella di coloro che non hanno accesso a Internet, o
che vi hanno accesso a una velocità insufficiente per consentir loro di usufruirne appieno. Si tratta
dei tecno-poveri, di coloro che non dispongono di un accesso domestico e che spesso trovano
difficoltà anche a raggiungerne uno a pubblico a pagamento. Certo vi si possono includere ampi
strati di popolazione del Terzo Mondo, ma senza dimenticare che la povertà digitale è trasversale,
ridefinisce la geografia del disagio: problemi di accesso negato ci sono anche nelle nostre città, da
ricondurre alla mancanza totale di connessione (soprattutto tra i migranti), o all'assenza di banda
larga (solo circa il 45% degli utenti italiani dispone ancora oggi di connessione veloce), o alla
mancanza di un livello di lafabetizzazione sufficiente (si pensi soprattutto alla terza età).
La mobilità indica invece un trend di sviluppo di tutto il settore delle tecnologie dell'informazione e
della comunicazione. La telefonia cellulare e le reti wireless stanno producendo una lenta ma
inesorabile emancipazione dell'accesso dalla disponibilità di una postazione fissa. Se fino a poco
tempo fa occorreva un televisore per guardare la televisione, o un computer collegato alla rete per
navigare in Internet, oggi tutto questo diviene possibile dal proprio telefono mobile o da altro
dispositivo portatile (palmare, net-book5). Ma la mobilità, più in generale, affranca l'utente di
tecnologia dalla condivisione del luogo (Meyrowitz, 1993) introducendo uno spartiacque epocale
tra le società precedenti l'avvento dei media elettronici e quelle che, come la nostra, seguono questo
avvento. L'impatto sui processi educativi è rilevante. Prima della comparsa dei media elettronici si
poteva avere accesso a una comunicazione solo condividendo spazio e tempo con chi parlava.
Questo comportava da parte della società adulta un sostanziale controllo riguardo a cosa fosse o non
4 Le tecno-elite sono costituite da accademici e ricercatori: per loro Internet è lo spazio della condivisione che meglio
incarna l'ideale della scienza come libera circolazione dei risultati della ricerca. Gli hacker (Himanen, 2001) sono i
tecnici, gli informatici, gli sviluppatori che sono sostenitori della programmazione creativa: per loro Internet è lo spazio
della collaborazione gratuita che si esprime in Linux e nel movimento dell'open source (ovvero il software a codice
aperto, estraneo alle logiche di protezione a fini commerciali rappresentate al meglio dal mondo Microsoft). I
comunitari virtuali (Rheingold, 1994) sono coloro che trovano in Internet il luogo in cui esercitare la loro cittadinanza
digitale (Granieri, 2006), ovvero la possibilità di “scegliere” sulla base delle affinità e dei gusti le persone da
frequentare al di là delle appartenenze nazionali e affrancandosi dagli obblighi della vita di tutti i giorni. Infine, ci sono
gli imprenditori, ovvero tutti coloro che vedono in Internet una opportunità economica. La storia recente è piena di
biografie di giovani studenti che grazie alla tecnologia hanno fondato imperi: da Bill Gates che “scrive” il DOS nel
garage di casa, all'italiano Lorenzo Thione che a 22 anni accetta una borsa di studio della University of Texas, entra nei
laboratori Xerox dove studia i linguaggi di processamento naturale, nel 2005 apre un'azienda che inizia a sviluppare un
motore di ricerca semantico, nel 2007 stringe accordi con Wikipedia per gestirne le ricerche interne con quel motore e
finalmente nel febbraio del 2008 cede la sua azienda a Microsoft che la acquista per 100 milioni di dollari. Oggi Thione
è Principal Program Manager di Microsoft: il suo motore di ricerca, Bing, è il prodotto con cui il colosso di Seattle
prova a contrastare il primato di Google.
5 Un Net-book è un Note-book (cioè un computer portatile) pensato appositamente per l'attività di connessione alla rete
(net). Di dimensioni più piccole e più leggero di un portatile normale (oltre che meno costoso), il Net-book dispone di
tecnologia wireless molto sofisticata: questo gli rende molto facile l'individuazione di reti e la connessione ad esse.
fosse opportuno condividere con le generazioni più giovani. Su questo controllo si è sempre basata
l'educazione: lo consentiva la possibilità che essa aveva di decidere se e quando fosse giunto il
momento di far conoscere certe informazioni ai soggetti in età evolutiva6. Come ben si capisce nel
contesto attuale tutto questo non è più possibile. Individuiamo così una seconda articolazione dei
media con la strada. Nella società dell'informazione la strada è lo spazio libero da controllo nel
quale chiunque (soprattutto ai giovani) può comunicare con chi vuole, accedere alle informazioni
che crede senza la presenza di un adulto che possa porre dei limiti a questa attività. Il risultato è che,
proprio come Platone temeva nei confronti della scrittura, i contenuti “possono rotolare nelle mani
di tutti, di chi sa farne buon uso e anche di chi non lo sa” (Rivoltella, 1998). I temi della
pornografia, della facile costruzione di false ideologie, dell'istigazione alla violenza, trovano qui il
proprio margine di crescita esponendo facilmente, soprattutto i più giovani, ad adultizzazione
precoce, manipolazione, espropriazione dell'immaginario.
Siamo così all'ultimo elemento, la demediazione. Con questo termine si intende il processo
attraverso il quale la filiera della comunicazione si semplifica non rendendo più necessaria la
mediazione degli apparati (giornali, televisioni) per pubblicare dei contenuti (Myssika, 2007).
Anche in questo caso è l'evoluzione tecnologica a modificare in maniera significativa le cose.
Soprattutto la dotazione di foto e videocamere su tutti i cellulari di nuova generazione e la
diffusione di applicativi 2.0 nel Web7, consente di fare in modo facile e senza costi quello che prima
della comparsa di questi strumenti avrebbe richiesto un'attrezzatura professionale: è sufficiente un
clic sul cellulare per iniziare a filmare, un altro clic per terminare la ripresa; il video così realizzato
può essere pubblicato direttamente in rete (ad esempio in You-tube) da cellulare, oppure scaricato
sul computer e da lì pubblicato in rete. Vale la stessa cosa per un testo (lo si può pubblicare in un
blog), o per una fotografia (la posso inserire nel mio album in Facebook, o in un altro strumento per
la condivisione di immagini, come ad esempio Flickr). Anche in questo caso si producono fenomeni
nuovi, che prima non si conoscevano. Sempre più spesso persone qualunque si trovano a
documentare accaduti che altrimenti l'informazione non potrebbe documentare: abbiamo conosciuto
grazie a video amatoriali di questo genere lo tsunami in Indonesia del 2004 come le immagini
recenti dell'attentatore del volo Delta per Detroit immobilizzato dai passeggeri. Giornalismo di
strada, televisione di strada, verrebbe da dire. Ma grazie alle stesse caratteristiche di facilità d'uso
abbiamo imparato a conoscere, proprio su You-tube, le gesta dei cosiddetti cyberbulli: filmati con le
angherie subite da giovani portatori di handicap da parte dei compagni, con le prestazioni sessuali di
giovanissime che si vendono occasionalmente ai compagni di classe, con le riprese di atti di
vandalismo esibite come trofeo alla pubblica approvazione dei coetanei. Si tratta di un vero e
proprio nuovo territorio di manifestazione e generazione del disagio di cui l'educazione non può più
tardare ad occuparsi.
La sintetica fenomenologia che abbiamo delineato nel paragrafo precedente ci consegna, dunque,
tre possibili articolazioni della strada con i linguaggi mediali. Esse si organizzano attorno ad
altrettanti temi che rimangono in oscillazione tra opportunità e privazione: il tema dell'accesso, il
6 Qualcuno dei meno giovani ricorderà i propri genitori intimargli: “Vai in camera tua” adducendo come motivazione
che “non sono cose che i bambini possono sentire”. Analogamente ci si ricorderà di come in occasione delle riunioni tra
adulti, anche in una casa privata, i più piccoli si ritirassero quasi istintivamente in disparte proprio perché percepivano
che lì si sarebbero potuti fare “discorsi da adulti”. La presenza di porte, muri, confini materiali, rendeva questa
separazione possibile. Su questa separazione si reggeva la capacità di una società di comunicare certi discorsi (in primis
quelli relativi alla sessualità) solo quando ritenesse fosse giunto il momento opportuno: tutti i riti di passaggio legati al
matrimonio (o comunque alla raggiunta maturità sessuale) sono costruiti proprio sulla rimozione di questa separazione.
7 Quando si parla di Web 2.0 si fa riferimento alla nuova generazione di applicativi diffusi in Rete che hanno la
caratteristica di non richiedere a chi li usa di scaricare nessun software sul proprio computer e, allo stesso tempo, di
consentire a chi visita i contenuti in essi pubblicati, non solo di accedervi (come accadeva nel Web 1.0), ma anche di
modificarli allegandovi commenti o tag (simboli che esprimono il proprio gradimento, la valutazione della risorsa,
nonché parole-chiave utili alla sua ricerca).
tema del controllo, il tema del rispetto della persona. Che fare? Quali linee di intervento si aprono
davanti all'educazione? Soprattutto cosa possono fare sui e con i media quegli ambiti di intervento
educativo che come accennavamo in apertura si collocano più in stretta relazione con la strada e con
ciò che essa rappresenta: lo spazio informale della socializzazione senza mediazioni?
Facendo uno sforzo di semplificazione mi pare si possano individuare tre principali scenari di
azione.
Il percorso che abbiamo descritto consente ora, in conclusione, di provare a costruire una sintesi, a
individuare l'opportunità per la costruzione di un modello pedagogico di intervento quando il
rapporto tra i media e l'educazione riguarda la strada intesa nel senso in cui, nel solco della
riflessione di Giuseppe Vico, l'abbiamo pensata in questo contributo.
I descrittori di questo modello sono sostanzialmente cinque: gli ambiti, il tipo di sguardo, la
concettualizzazione dei media, il tipo di intervento, strumenti e tecniche attraverso cui tale
intervento si può attivare.
Gli ambiti sono quelli su cui abbiamo costruito la parte centrale del contributo: la rappresentazione
del disagio (che gioca sulla capacità dei media di restituire forme ed esperienze della vita sociale),
la sua elaborazione (perché i media non sono solo superfici riflettenti, ma anche dispositivi
attraverso i quali si può elaborare e costruire la realtà), il lavoro sui linguaggi (la dimensione
probabilmente più immediata nella percezione e nel vissuto dei soggetti).
Ciascuno di questi ambiti porta in gioco un tipo di sguardo. Lo sguardo, nella cultura occidentale,
articola sempre un certo modo di conoscere le cose, e quindi parlare di sguardo in relazione agli
ambiti che abbiamo individuato significa fare riferimento a dei precisi punti di vista grazie ai quali
la realtà viene messa-in-forma. Si tratta di uno sguardo sociale, attento alle forme in cui il disagio si
manifesta; di uno sguardo clinico, impegnato ad annullare l'impatto disabilitante del disagio; di uno
sguardo semiotico, centrato sui linguaggi, sulle regole del loro impiego, aperto alla trasmissione di
competenze che proprio con la grammatica e la sintassi delle immagini hanno a che fare.
La strada, dunque, come sfida e spazio di esercizio per l'educazione. Uno spazio da presidiare
attraverso la consapevolezza metodologica. Tale consapevolezza trova oggi nei media uno snodo
decisivo, non aggirabile. Ne siamo convinti. Ma certo il metodo palpita e vive (e certo solo può
essere efficace) a condizione che l'intenzionalità e l'amore educativo lo attraversino e lo sostengano:
«L'educatore traguarda attento e mette in scena simbolicamente commedie e drammi: personalizza
grumi di pensieri, emozioni, passioni e sentimenti per conferire senso a storie di vita in attesa che
qualcuno o qualcosa “avvenga” a costruire percorsi di speranza partecipata» (Vico, 2005, p.10).
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