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Triangolare le emozioni.

Per una lettura dei rapporti tra televisione e bambini nel contesto familiare
Pier Cesare Rivoltella, Università Cattolica di Milano
Atti del Convegno “La mela di Biancaneve”, Università degli Studi di Firenze, novembre 2004

Il problema dei rapporti tra infanzia e televisione è sicuramente tra i più studiati e discorsivizzati
degli ultimi anni. Esso, infatti, per il forte impatto sociale che presenta sulle pratiche individuali e
collettive, sempre più spesso è uscito dai limiti del dibattito specializzato per abitare le pagine della
cronaca nella stampa quotidiana e periodica, con il risultato di creare turbolenza comunicativa
polarizzando le posizioni di coloro che non cadono in eccessivi allarmismi e di coloro che, invece,
richiamano con vigore la necessità di una vigilanza della società adulta e delle istituzioni al
riguardo.
Questa polarizzazione di punti di vista, peraltro, trova proprio nella letteratura scientifica un
efficace riscontro.
In essa, da una parte è andata sedimentandosi la posizione di chi, in maniera più o meno accentuata,
si riconosce nel modello del “bambino competente”, per usare la fortunata immagine di Jesper
Juul1: in questa prospettiva, il bambino viene riconosciuto capace di interagire in maniera creativa e
originale nei confronti del mezzo televisivo della cui produzione si appropria secondo i suoi
bisogni; dunque non sussistono pericoli di dipendenza o di modellizzazione negativa, suggeriti solo
da un’idea tradizionale ed eccessivamente preoccupata della televisione.
L’altra posizione, contro la quale l’ipotesi del bambino competente è andata sviluppandosi e
prendendo vigore, è quella che invece si organizza attorno all’immagine “inoculatoria”
dell’educazione stigmatizzata da Masterman. La metafora medica evoca, per contrasto, l’altra
metafora medica, quella dell’ago ipodermico, elaborata dalla Communication Research per
restituire l’idea di un condizionamento diretto ed operante esercitato dai media nei confronti del
pubblico: nella misura in cui la televisione “inietta” al bambino valori e modelli di comportamento
negativi, compito dell’educazione è di bilanciare quell’azione con una di profilassi che lo
salvaguardi da quegli effetti2.
L’esito più manifesto di questa polarizzazione è stato quello di spostare il dibattito quasi
esclusivamente sul problema degli effetti che la televisione sortirebbe o non sortirebbe sul bambino
con due tipi di risultato, come altrove abbiamo già evidenziato3: in primo luogo, una iper-
discorsivizzazione sterile sia sul piano scientifico che, soprattutto, su quello educativo, poiché
rischia di configurare il compito dell’educare solo nei termini di un’acquisizione di informazioni; in
secondo luogo, la neutralizzazione di entrambe le ipotesi, a secondo dei punti di vista facilmente
riscontrabili come entrambe vere od entrambe false.
Dalla impasse si può uscire chiaramente solo provando a leggere “dietro” alle ipotesi contrapposte il
funzionamento di una determinata idea di infanzia (e, di conseguenza, anche di età adulta). Il
“bambino competente” si può ricondurre all’ipotesi che Postman avanzò di una scomparsa
dell’infanzia4 determinata proprio dalla presenza dei media; il bambino competente non è più un
bambino, ma un piccolo adulto, perché da sempre vive circondato da adulti, educato a comportarsi
da adulto, vedendo una televisione che per gli adulti è pensata. D’altra parte, dietro all’immagine di
un compito inoculatorio dell’educazione agisce un’idea del bambino opposta: quella di un soggetto
debole, incapace di pensiero autonomo e quindi bisognoso di tutela da parte di chi solo riesce a
garantirgliela, e cioè l’adulto.

1
J. Juul, Il bambino è competente. Valori e conoscenze in famiglia, Feltrinelli, Milano 2001.
2
L. Masterman, A scuola di media. Educazione, media e democrazia nell’Europa degli anni novanta, La Scuola,
Brescia 1997.
3
P.C. Rivoltella, Ospiti, invasori e altri animali, in C.Ottaviano, P.C. Rivoltella (a cura di), Arrivederci ragazzi. Studi
sul rapporto tra media e minori, «Comunicazioni Sociali», 1996, pp. 181-220.
4
N. Postman, La scomparsa dell’infanzia, Armando, Roma 1984.
Qualche anno fa, proprio rielaborando criticamente l’ipotesi di Postman, David Buckingham5 ha
richiamato come in fondo questa idea di infanzia (e la corrispondente idea dell’età adulta) vadano
riconosciute nella loro struttura di costruzioni sociali. Immaginare il bambino come un essere
indifeso e l’adulto come persona responsabile in grado di farsene carico mettendolo al riparo dai
danni che gli possono provenire (anche dalla televisione), significa utilizzare in maniera più o meno
consapevole dei dispositivi ereditati dal secondo Ottocento, cioè dal periodo in cui l’infanzia viene
messa a fuoco e comincia (almeno in Occidente) ad esistere dal punto di vista sociale, come
Philippe Ariés6 ha ben evidenziato con le sue indagini. Come tutte le costruzioni sociali, anche
questa va posta in relazione con le condizioni dell’epoca in cui viene elaborata e fatta funzionare. Il
dato, da questo punto di vista, suggerisce per questo inizio di nuovo millennio una situazione
decisamente differente, nella quale spesso la crisi di identità vissuta dall’adulto educatore costringe
il bambino a precocissime prese di responsabilità (in alcuni contesti familiari “dimezzati” è proprio
il bambino nell’inedita versione di consulente/consolatore a fare da soggetto “forte” per padri o
madri assolutamente “deboli”) e dove lo stesso adulto spesso più che vestire i panni della persona
matura e consapevole costituisce per il minore proprio la prima e più incombente minaccia (come
gli abusi familiari e la pedofilia eloquentemente indicano).
Questi elementi – la discorsivizzazione e il dispositivo di costruzione sociale dei ruoli in essa
implicito – invitano (costringono?) chi si occupa del tema a cercare altro tipo di concettualizzazione
del problema. In particolare, richiedono di provare a risalire “dietro” a questi processi di mediazione
sociale per verificare cosa effettivamente succeda nell’incontro tra il bambino e la televisione: si
tratta di una sorta di ritorno husserliano alle cose stesse che consenta di mettere tra parentesi
soluzioni divenute ormai standard per tornare a interrogare i fenomeni. Per sorreggere la metafora
narrativa, si potrebbe dire che in questo senso le scienze umane e sociali devono svolgere la stessa
funzione dello specchio nei confronti della matrigna di Biancaneve, smettendo di restituirci quel che
vogliamo sentirci restituire e favorendo una sorta di ritorno alla realtà.
Come T. Vedel ha ben evidenziato, quel che veramente interessa del rapporto tra il bambino e la
televisione non è né solo quel che avviene nella televisione (la violenza, i modelli di
comportamento, ecc.) né solo quel che succede nel bambino (imitazione, modellamento, ecc.), ma
quel che succede “lì in mezzo”7. Questo è lo spazio che il ritorno fenomenologico alle cose stesse
deve consentire di indagare. La nostra ipotesi è che lo si possa fare ritornando al dispositivo del
desiderio triangolare che René Girard nella sua riflessione ha dimostrato costituire un elemento
fondamentale della struttura antropologica. Lo faremo in tre passaggi:
- la ricostruzione della genesi del dispositivo nel pensiero di Girard;
- la sua applicazione al caso della televisione;
- la verifica delle ricadute educative, per il tema che stiamo discutendo, di questo tipo di
lettura.

1. Il desiderio triangolare

Fedele all’opinione secondo la quale i grandi autori continuano a sviluppare poche idee per tutta la
loro vita, René Girard costruisce il proprio itinerario di pensiero lungo una linea di riflessione al cui
centro stanno i temi della violenza e del sacro e del capro espiatorio, entrambi annodati strettamente
con la convinzione che la struttura profonda dell’uomo e le sue relazioni con gli altri uomini siano
da ricondurre a un dispositivo mimetico in base al quale il desiderio viene orientato.

5
D, Buckingham, After the Death of Childhood growing up in the Age of Electronic Media, Polity Pressa, Cambridge
2000.
6
Cfr. P. Ariés, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Laterza, Bari-Roma 1994.
7
P, Fremont, E. Bevort (edds.), Média, violence et éducation, Acte de l’Université d’été. Caen 5-8 juliiet 1999, CNDP,
Paris 2000.
Il tema si annuncia per la prima volta in Menzogna romantica e verità romanzesca8, dove Girard
procede a una rilettura dell’intera parabola del romanzo moderno, da Cervantes a Proust, mettendo
in evidenza in esso proprio la struttura triangolare del desiderio. Don Chisciotte desidera non
secondo il proprio desiderio ma secondo il desiderio dell’altro, cioè quell’Amadigi di Gaula,
immaginario cavaliere senza macchia, che incarna per lui l’ideale cavalleresco (e lo stesso schema
di triangolazione sottende al comportamento di Sancho, fedele scudiere di Don Chisciotte, nei
confronti del suo padrone). Allo stesso modo, Emma Bovary, come tutti i personaggi di Flaubert,
per riuscire a pensarsi diversa da come essa è, si cerca un modello nelle eroine romantiche delle sue
scarse letture infantili facendone oggetto della propria imitazione. Analoghe considerazioni valgono
per Proust, per Dostoevskij, e Girard lo fa vedere bene attraverso la sua analisi puntuale e precisa
delle loro opere.
Il senso di questo itinerario interpretativo è per l’antropologo francese l’intenzione di far vedere
come nella tradizione del romanzo si manifesti (verità) quello che poi nella stagione del
romanticismo verrà celato (menzogna): il desiderio, cioè ciò che muove l’agire umano nel mondo e
nella storia, non si può rappresentare con una linea retta, alludendo al fatto che esso nascerebbe
spontaneamente dall’animo umano e costituirebbe di conseguenza una forma di affermazione del
sé, quanto piuttosto attraverso una triangolazione che passa sempre attraverso la mediazione di un
altro ritenuto significativo. «Il vanitoso romantico vuole convincersi a ogni costo che il proprio
desiderio rientra nella natura delle cose o, il che è lo stesso, è l’emanazione di una soggettività
serena, la creazione ex nihilo di un Io quasi divino. Desiderare prendendo le mosse dall’oggetto
equivale a desiderare prendendo le mosse da se stesso: non è mai, infatti, desiderare prendendo le
mosse dall’altro. Il pregiudizio oggettivo si unisce al pregiudizio soggettivo e questo duplice
pregiudizio si radica nell’immagine che tutti ci facciamo dei nostri desideri. Soggettivismi e
oggettivismi, romanticismi e realismi, individualismi e scientismi, idealismi e positivismi sono in
apparente contrapposizione, ma segretamente si accordano per dissimulare la presenza del
mediatore. Tutti questi dogmi sono la traduzione estetica o filosofica di visioni del mondo proprie
alla mediazione interna. Discendono tutte , più o meno direttamente, da quella menzogna che è il
desiderio spontaneo. Difendono tutte una medesima illusione di autonomia alla quale l’uomo
moderno è appassionatamente attaccato»9.

soggetto oggetto

modello

soggetto oggetto

Fig. 1 – Desiderio spontaneo e desiderio triangolare

8
R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita,
Bompiani, Milano 1965.
9
Ivi., p. 18.
Ne La violenza e il sacro10, e poi attraverso ciclici approfondimenti ne Il capro espiatorio11 e in Ho
visto Satana cadere come la folgore12, Girard torna sulla struttura del desiderio triangolare
evidenziandone la fondamentale ambiguità.
La mediazione interna del desiderio, infatti, sta alla base della logica della violenza. Poiché, se è
vero che quando il modello da imitare è lontano dall’esperienza di chi lo imita (mediazione esterna)
come lo è il Cavaliere senza macchia per Don Chisciotte, non c’è spazio per nessun tipo di rivalità,
molto diverso è il caso in cui il modello sia un genitore, un fratello maggiore o un amico: «Se gli
individui sono per natura portati a desiderare ciò che i loro vicini possiedono, o addirittura ciò che
questi semplicemente desiderano, allora esiste all’interno dei gruppi umani una fortissima tendenza
ai conflitti di rivalità, una tendenza che, qualora non venisse contrastata, minaccerebbe in
permanenza la pace e perfino la sopravvivenza di qualunque comunità»13. Se l’uomo desidera
sempre secondo il desiderio dell’altro e se l’altro è suo fratello (o suo padre, come succede nella
relazione edipica), allora sarà inevitabile che desiderino la stessa cosa e che quindi entrino in
conflitto per ottenerla. Il desiderio secondo l’altro genera l’indistinzione e la perdita delle differenze
produce la violenza. Qui si salda l’altro versante della riflessione girardiana, quello relativo al
rapporto tra mimetismo, violenza e sacro, con le celebri analisi dedicate al dispositivo sacrificale, al
meccanismo vittimario, al superamento della logica violenta del sacro attraverso il sacrificio della
Croce.
D’altra parte, come lo stesso Girard riconosce, la relazione mimetica svolge anche una importante
funzione sociale: «Non ci sarebbe l’uomo, non ci sarebbero né istruzione, né trasmissione culturale
senza di essa»14. Senza il ricorso al desiderio triangolare non si potrebbero spiegare la trasmissione
culturale, l’istruzione, l’educazione; non si potrebbe pensare il meccanismo della socializzazione e
quindi nemmeno la sopravvivenza delle culture.
Il problema, dunque, non sta tanto nello spingere il mimetismo fuori dell’orizzonte dell’umana
esperienza – significherebbe negare la stessa struttura antropologica e liquidare la possibilità stessa
della cultura – quanto piuttosto nel neutralizzarne gli effetti negativi massimizzandone quelli
positivi: nel linguaggio di Girard, si tratta di far prevalere Cristo su Satana, cioè la “mimesi
culturale pacifica” che annulla il dispositivo della violenza sulla “mimesi di rivalità” che invece
mira a mantenerlo.

2. La triangolazione televisiva del desiderio

In estrema sintesi e dal punto di vista che qui ci interessa, gli strumenti concettuali che nella
riflessione di Girard si possono ricuperare sono almeno tre e coinvolgono da vicino qualsiasi analisi
del rapporto tra la televisione e il suo spettatore, in particolare quando lo spettatore è un bambino e
la sua relazione con il televisore va pensata nel contesto della famiglia:
- l’altro significativo;
- la funzione di mediazione che la televisione assume;
- la dialettica tra mediatore televisivo e mediatore parentale.
Cerchiamo di evidenziare il funzionamento di questi elementi all’interno del nostro percorso di
lettura.
Il dato da cui partire è che probabilmente da sempre la televisione, come prima di essa già il cinema
e, fin da molto prima, il teatro, funziona da mediatore dei desideri del pubblico. Si tratta di un tema
che più volte è stato reso oggetto di analisi in letteratura: si pensi alla riflessione estetologica e poi

10
Bompiani, Milano 1980.
11
Bompiani, Milano 1987.
12
Bompiani, Milano 2001.
13
R. Girard, Ho visto Satana, cit., p. 27.
14
R. Girard, Origine della cultura e fine della storia, RaffaelloCortina, Milano 2003, p. 54.
psicanalitica sul dispositivo della catarsi tragica15, all’analisi dei dispositivi di identificazione e
proiezione all’opera nella relazione dello spettatore cinematografico con i personaggi dei film e più
in generale con lo star system16, alle indagini sugli effetti della televisione17 e più in particolare sul
modellamento sociale, sulla socializzazione televisiva e sulla sua incidenza in relazione, ad
esempio, alla riproduzione culturale o alla formazione del sé in relazione al genere18. Lo
spostamento, rispetto all’analisi di Girard, è relativo solo al carattere di questa mediazione, che
diviene sempre meno reale e si fa sempre più immaginario: «l’Immaginario – come osserva Žižek –
fa da mediatore tra la struttura formale simbolica e la concretezza degli oggetti che incontriamo
nella realtà – ovvero fornisce uno schema secondo il quale alcuni oggetti concreti nella realtà
possono avere funzione di oggetti del desiderio, riempiendo gli spazi vuoti aperti dalla struttura
formale simbolica. Per dirla in termini più semplici. Immaginario non vuol dire che quando
desidero di mangiare una torta di fragole e non posso averla nella realtà fantastico di mangiarla;
piuttosto il problema è: come faccio a sapere che desidero proprio una torta di fragole?»19.
Per rimanere al caso della televisione, questo tipo di dispositivo è chiaramente visibile un po’ in
tutta la programmazione e opera già all’interno della prima stagione delle trasmissioni RAI. In
quella televisione, ancora assorbita dalla propria vocazione precipuamente pedagogica, la
mediazione dei desideri del telespettatore è per così dire programmatica, intenzionale, traducendosi
in una vera e propria conduzione educativa finalizzata a “pilotare” la formazione del cittadino: in
questo senso funziona un po’ tutta la programmazione educativa della RAI fino agli anni ’70 e
sarebbe interessante tornare a “leggere” attraverso la lente della triangolazione del desiderio
programmi celebri come Non è mai troppo tardi o la programmazione per i bambini (dal Cantuccio
dei bambini alle diverse edizioni del Remigino o dello Zecchino d’oro) e per i ragazzi (si pensi a
programmi come il Dirodorlando e a un po’ tutta l’attività di Febo Conti, come personaggio e come
autore).
Con il passaggio dalla vetero alla neotelevisione il dispositivo della mediazione si fa implicito, nel
senso che perde quel carattere intenzionale, pedagogico, che aveva nei decenni precedenti, ma
rimane comunque perfettamente visibile come anche nella nuova programmazione rimanga
funzionante il meccanismo mimetico nella misura in cui esso favorisce l’identificazione con
l’attore/personaggio televisivo (come capita nel caso della fiction o delle soap), con il personaggio
(si pensi al cartone animato o alla Melevisione), con la persona comune che diventa personaggio
grazie alla televisione (è il caso del quiz show o del talk show). Su questo tipo di relazione si
fondano, più o meno consapevolmente, tanto le considerazioni della teoria critica e le analisi
sull’industria culturale come spazio per la standardizzazione dei gusti e la costruzione dei
comportamenti di consumo, quanto le più diffuse pedagogie popolari che leggono nella televisione
una galleria di “cattivi” modelli da imitare, soprattutto per le giovani generazioni. E infatti i temi
della progressiva eclissi dei valori e della deriva consumistica dei comportamenti del giovane
telespettatore sono posti in relazione con l’aumento quantitativo del consumo di una televisione che
proprio nella sua fase neotelevisiva, per necessità di audience e di share, perde di vista la qualità e
offre modelli bassi e abusati all’imitazione del pubblico.

15
Per un inquadramento sintetico di questa tradizione di ricerca, cfr.: P.C. Rivoltella, La scena della sofferenza. Il
problema della catarsi tragica nelle teorie drammaturgiche del ‘500 italiano, in A. Cascetta (a cura di), Forme della
scena barocca, «Comunicazioni sociali», aprile-settembre 1993, pp. 101-155; Id., Il piacere obliquo statu nascenti. La
riflessione estetica di Ludovico Castelvetro, in P. Carandini (a cura di), Teatri barocchi. Tragedie, commedie, pastorali
nella drammaturgia europea fra ‘500 e ‘600, Bulzoni, Roma 2000, pp. 15-28.
16
E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Feltrinelli, Milano 1982. Per un quadro completo delle teorie
psicologiche del cinema cfr. F. Casetti, Teorie del cinema. 1945-1990, Bompiani, Milano 1993.
17
Anche in questo caso un quadro di sintesi si può trovare in: P.C. Rivoltella, Ospiti, invasori e altri animali. Gli effetti
della tv sui minori, tra realtà e discorsi sociali, in C. Ottaviano, P.C. Rivoltella (a cura di), «Arrivederci ragazzi». Studi
sul rapporto tra televisione e minori, «Comunicazioni sociali», aprile-giugno 1996, pp. 181-220.
18
M. Morcellini, Passaggio al futuro. La socializzazione nell’età dei mass media, FrancoAngeli, Milano 1992; S.
Martelli, Videosocializzazione. Processi educativi e nuovi media, FrancoAngeli, Milano 1996.
19
S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma 2004, p. 19.
Modello televisione
televisivo

spettatore oggetto

Fig. 2 – La triangolazione televisiva del desiderio

Ora, nei format più recenti, quelli che si riconoscono nella cosiddetta televisione degli affetti e nelle
diverse forme del reality show (qualcuno ha parlato al riguardo di neon-televisione «in quanto il
neon è la luce artificiale, fredda, simulacrale, per eccellenza. Più che operare per trasmettere dei
contenuti o per far credere vero, assumono importanza nella neon-tv tutte quelle operazioni sul reale
che mirano a suscitare emozioni vere in personaggi presi dalla vita quotidiana»20), pare che questo
dispositivo subisca un’ulteriore trasformazione: la triangolazione intenzionale della televisione
pedagogica, che si era già trasformata in triangolazione implicita nella neotelevisione, ora si
ripresenta come triangolazione rappresentata.

televisione
Conduttore

ospite oggetto

Fig. 3 – La triangolazione del desiderio nella neon-tv

La triangolazione rappresentata è anzitutto una triangolazione mostrata, esibita. Lo si può


comprendere se si pensa a format “storici” come Stranamore o Carramba che sorpresa, ma anche
al Grande Fratello e alle sue variazioni (dall’Isola dei famosi fino a Campioni) o ai programmi di
Maria De Filippi. In tutti questi casi la triangolazione tra lo spettatore e la televisione viene resa
esplicita dalle loro figurativizzazioni. Dal punto di vista semiotico, in tutti questi casi il Soggetto
enunciatore (l’istanza di mediazione dei desideri che costituisce il programma comunicativo della
televisione) prende corpo nel conduttore in studio (Narratore) e rende visibile nelle sue prerogative
e nella sua posizione proprio questa funzione di mediazione dei desideri di chi al programma si
rivolge per ricucire rapporti sentimentali, per sanare incomprensioni familiari, per conquistare la
notorietà o riconquistarla dopo averla un tempo assaporata, per dare una svolta professionale alla

20
A. Negri, La neon-tv. Il vampirismo emozionale della televisione degli anni Novanta, «Vita e Pensiero», 19, 1997, p.
654.
propria esistenza. Dall’altra parte, naturalmente, anche l’Enunciatario si materializza nella persona
fisica di chi al programma si rivolge (Narratario) accettando di portare allo scoperto il proprio
problema, di manifestare il proprio desiderio, con la speranza che il conduttore (il programma, la
televisione) accetti di fare da mediatore e suggerisca delle strategie di orientamento del desiderio
efficaci.
Come si può notare, la triangolazione dà luogo in questo caso a una mediazione interna: a
differenza di quanto si può vedere in figura 1, infatti, la televisione qui non si limita a mostrare un
modello di desiderio, ma mostra piuttosto l’intero processo della sua triangolazione. La mediazione
del desiderio, cioè, è tutta interna alla rappresentazione.
Questo aspetto consente di osservare una seconda caratteristica di questa triangolazione, il fatto cioè
che si tratti di una doppia triangolazione. Per capire cosa si intenda con questo occorre prestare
attenzione a come avvenga qui la modellizzazione del desiderio. Non ci troviamo più di fronte a un
processo di triangolazione sull’oggetto che passa attraverso un modello, ma a un processo di
triangolazione che passa attraverso un altro soggetto che a sua volta cerca in un modello la
mediazione del suo desiderio: e questo modello è la televisione, figurativizzata nella funzione del
conduttore. Più che (oltre che) un modello del desiderio, la televisione degli affetti e il reality show
offrono un modello di triangolazione: investono cioè la televisione della funzione sociale di
proporsi come struttura di mediazione dei desideri del pubblico. E non è un caso, allora, che il
conduttore (come è facile riscontrare per Castagna, la Carrà o Maria De Filippi) assurga a un ruolo
demiurgico, quasi sacerdotale.

televisione
Conduttore

mediazione interna

ospite oggetto

spettatore mediazione esterna oggetto

Fig. 4 – La doppia triangolazione del desiderio nella neon-tv

L’ultima sottolineatura relativa al ruolo rituale del conduttore rispetto alla triangolazione dei
desideri del pubblico consente di cogliere un terzo aspetto importante che distingue la mediazione
neon-televisiva dalle altre forme di mediazione, anche televisive, del desiderio: essa non si limita a
fornire un modello del desiderio, ma sanziona anche la sua assunzione. La televisione, cioè, non si
limita a dire allo spettatore: «Puoi fare così, se vuoi». Fa di più. Suggerisce allo spettatore: «Se fai
così, questo è quello che ti può succedere» e aggiunge: «E io posso aiutarti a farlo succedere». Si
tratta di un patto pragmatico che si stabilisce tra lo schermo e il pubblico a casa in virtù della
rappresentazione del doppio di questo patto celebrato in studio
Siamo di fronte a una televisione di nuovo pedagogica, dunque, per due sostanziali motivi: rispetto
al dispositivo, perché svela il dispositivo, esibisce il desiderio nella sua struttura triangolare; e
rispetto allo spettatore, perché non solo gli spiega che la struttura del suo desiderio è triangolare, ma
anche gli si propone rispetto ai suoi desideri come specchio, modello e strumento pragmatico per
condurli a realizzazione. In buona sostanza, non solo la televisione media i desideri del pubblico ma
gli garantisce anche che eleggendola a mediatore dei propri desideri si riuscirà ad ottenerne
l’oggetto.

3. Dalla triangolazione televisiva alla triangolazione educativa

La breve analisi che abbiamo condotto ci consente ora di tornare al tema da cui siamo partiti, e cioè
quello del rapporto tra la televisione e il bambino, cercando di annodarla con esso attraverso alcune
considerazioni che si inseriscano nella prospettiva dell’educazione familiare. Due rilievi, in
particolare, si impongono.
In primo luogo la relazione mimetica che con la televisione si attiva si aggiunge alle altre relazioni
mimetiche (con i pari, con i genitori, con gli adulti significativi) attraverso le quali il bambino
struttura il proprio mondo e apprende. «Un bambino piccolo – osserva ancora Žižek – è incastrato
in una complessa rete di relazioni; ha la funzione di catalizzatore e campo di battaglia per i desideri
di chi gli sta intorno: padre, madre, fratelli e sorelle, e così via, combattono le loro battaglie attorno
a lui, la madre inviando messaggi al padre attraverso il suo affetto per il figlio. Nel momento in cui
diventa consapevole di questo ruolo, il bambino non può misurare quale oggetto, precisamente,
rappresenti per gli altri, quale sia l’esatta natura dei giochi che stanno facendo con lui, e
l’Immaginario provvede a rispondere a questo enigma: in sostanza, l’Immaginario mi dice cosa
sono per gli altri»21. La televisione (come gli altri media) si inserisce in questa rete mimetica e gioca
sicuramente il suo ruolo: nel processo di orientamento del bambino nel mondo occorre tenere
presente anche la sua funzione.
Questo fatto può autorizzare le riflessioni che spesso il mondo dell’educazione ha svolto e svolge
sui cambiamenti che questa presenza della televisione ha comportato in ordine alla mediazione
educativa: il senso di queste riflessioni è di registrare un progressivo indebolirsi di tale mediazione
con il graduale passaggio dalla presenza di Altri significativi ad Altri televisivi, causa la
contemporanea crisi della capacità educativa della società adulta. Probabilmente in questo tipo di
riflessioni sussiste un fondo di verità. Il problema, però, è di non produrne una assolutizzazione
riconoscendo allo stesso tempo che in buona sostanza anche la mediazione televisiva esercita un suo
ruolo, al di qua di discorsi e preoccupazioni apocalittici: lo esercita proprio in relazione alla
frequente assenza degli adulti, spesso addebitata proprio alla crescente presenza dei media, mentre
forse proprio questa crescente presenza si deve leggere come un fenomeno che diviene possibile
nella misura in cui gli adulti hanno già preso congedo dal proprio ruolo.
In ogni caso, e soprattutto nella prospettiva del contesto familiare, il dato impone almeno due
questioni/attenzioni.
Innanzitutto apre il problema del rapporto tra triangolazione familiare e televisiva del desiderio.
Come lo si deve leggere? Nel senso della complementarità? O della esclusione reciproca?
Dell’abdicazione da parte del genitore? O della sostituzione? Qui mi pare che si aprano due
possibili scenari.
Il primo è rappresentato dalla tentazione, spesso presente nell’educazione agita e nella riflessione
pedagogica, di indulgere alla contro-mediazione, cioè, in sostanza, di opporre alla mediazione

21
S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario, cit., p. 21-22.
televisiva – rea di proporre modelli negativi di triangolazione dei desideri – la mediazione
genitoriale, per definizione positiva ed orientata al valore.

televisione
Modello TV

bambino oggetto

genitore

Fig. 5 – Televisione e contesto familiare: la contro-mediazione del desiderio

Le modalità attraverso cui questa mediazione si esercita oscillano tra l’ostracismo alla televisione
(dal rifiuto dell’acquisto dell’apparecchio al suo spegnimento simbolico) e la creazione di
alternative sistematiche rispetto ad essa. Si tratta di una soluzione radicale, che può anche “pagare”
in termini educativi, ma che presenta un duplice prezzo elevato: quello di sottrarre al minore un
aspetto importante della sua socializzazione, da cui dipende in larga parte il suo sentirsi parte del
gruppo dei pari (le cui routines discorsive si alimentano anche dell’immaginario televisivo); e
quello di impedirgli di sviluppare da solo i propri anticorpi, di apprendere a negoziare
l’appropriazione dei significati attraverso un rapporto critico con il mezzo e con i suoi messaggi (è
questo il limite di tutte le forme di censura, la protezione senza educazione, che proprio perché non
produce un empowerment del soggetto, invece di difenderlo finisce per esporlo maggiormente al
rischio da cui intende proteggerlo). «Non dobbiamo costringere i nostri bambini a vivere in due
mondi – dice Ben Bachmair -: nel mondo reale e ordinato dell’educazione, della formazione e dei
buoni libri, e nell’altro irreale (surrogato del mondo), dello stupido e cattivo mercato dei media,
della TV e dei video. Perderebbero altrimenti la loro capacità creativa e organizzativa di saper
prendere da quanto viene trasmesso dalla televisione ciò che serve per le problematiche infantili nel
mondo della loro quotidianità»22.
Proprio in ragione di questi limiti pare più opportuno praticare il secondo degli scenari cui si
accennava e cioè quello di una mediazione della mediazione, in cui il genitore non respinga i
modelli televisivi ma elabori strategie per diventare parte del processo di mediazione che essi
attivano con il bambino. Un genitore che media la mediazione dei media è un genitore che negozia
significati con i figli, che gioca la partita sul loro terreno, che si serve dei modelli televisivi per
esercitare, anche attraverso di essi, il proprio compito di mediazione. Come suggerisce Elena
Besozzi, l’educatore oggi «è un mediatore di esperienze mediate, ricostruisce, valorizza e
decodifica saperi più o meno fragili e conoscenze più o meno strutturate, stimola il coinvolgimento

22
B. Bachmair, Cosa fa la TV ai bambini?, Elledici, Leumann-Torino 1997, p. 49.
nell’esplorazione, ma favorisce anche la rielaborazione discorsiva e l’appropriazione
individualizzata di strumenti, metodi e contenuti significativi»23.

Modello TV

genitore oggetto

bambino

Fig. 6 – Televisione e contesto familiare: la mediazione della mediazione

Veniamo alla seconda questione. La significatività dei modelli mimetici televisivi per i bambini
comporta che si attivi la riflessione in ordine al problema dell’indifferenziazione. Girard, nella sua
riflessione, ha legato a doppio filo il mimetismo con l’indifferenziazione e l’insorgere della
violenza: se io imito l’altro, desidero ciò che lui desidera, inevitabilmente finiremo per diventare
rivali. «I doppi si creano nel momento in cui l’oggetto scompare nella foga della rivalità: i due
rivali, sempre più preoccupati di sconfiggersi l’un l’altro, non badano più a ottenere l’oggetto della
contesa, che a quel punto diventa irrilevante, un puro pretesto al montare della disputa. In questo
modo i due rivali diventano sempre meno differenziati e sempre più identici: doppi, appunto. La
crisi mimetica è sempre una crisi di indifferenziazione, che si crea quando i ruoli del soggetto e del
modello, si riducono a quelli di rivali»24. Ma allora, il fatto che la televisione funga da modello
mimetico, finisce per produrre indifferenziazione e quindi violenza?
Su questo punto Girard è tranquillizzante, almeno da un certo punto di vista. Nella sua lettura,
infatti, i mass media e la società dei consumi che essi contribuiscono a costruire ed alimentare, sono
una «forma di diffusione della rivalità mimetica che può ridurne le potenzialità di conflitto»25. La
televisione, in particolare, induce una democratizzazione del desiderio che rende sì tutti uguali ma
che, mettendo a disposizione di tutti le stesse merci, depotenzia la rivalità fino ad azzerarla. Non
solo. Nella misura in cui la società di massa sostituisce lo scambio dei segni allo scambio materiale
degli oggetti, anche il desiderio si svincola dagli oggetti e può dirigersi oltre, o nel senso della
interrogazione sul proprio senso profondo o in quello della negazione (indifferenza, apatia,
snobismo). Come dice Girard, se da una parte «un mondo in cui il consumo è segno di ricchezza
non attira più nessuno», dall’altra questa stessa realtà «portata all’estremo, ci trasforma tutti in

23
E. Besozzi, Insegnare ed apprendere nella società contemporanea, in C. Ottaviano (a cura di), Mediare i media.
Ruolo e competenze del media educator, FrancoAngeli, Milano 2001, p. 26.
24
R. Girard, Origine della cultura e fine della storia, cit., p. 32.
25
Ivi, p. 59.
mistici, nel senso che ci dimostra come la merce, i semplici oggetti non possano mai soddisfare i
nostri desideri»26.
In entrambi i casi – quello della morte del desiderio e quello del suo orientarsi verso un Oltre - la
mediazione del desiderio si impone come problema e compito per le figure parentali.

26
Ivi, p. 61.

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