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la storia vista da un'altra parte (per cercare di capire) Dopo l' "invenzione" del "contrassegno per marchiare gli

ebrei con un panno sulla spalla" (vedi AMEDEO VIII DI SAVOIA) - quindi un precursore dello "antisemitismo" hitleriano - nel 1863 un altro sabaudo inventava i "lager", e le "vasche di calce" per scioglierci dentro i cadaveri dei reclusi soccombenti borbonici.

1863 - cronologia di un anno infame

la pulizia etnica piemontese I LAGER SABAUDI


IL TALLONE DI FERRO DEI SAVOIA - Dopo la conquista del Sud, 5212 condanne a morte. Prigionieri e ribelli puniti con decreti e una legge del 1863

MIGLIAIA DI SOLDATI BORBONICI DEPORTATI NEI LAGER DEL NORD


di STEFANIA MAFFEO

Il "lager" di Fenestrelle. La ciclopica sabauda cortina bastionata

Cinquemiladuecentododici condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Queste le cifre della repressione consumata all'indomani dell'Unit d'Italia dai Savoia. La prima pulizia etnica della modernit occidentale

operata sulle popolazioni meridionali dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti del 15 agosto 1863 " per la repressione del brigantaggio nel Meridione"[1]. Questa legge istituiva, sotto l'egida savoiarda, tribunali di guerra per il Sud ed i soldati ebbero carta bianca, le fucilazioni, anche di vecchi, donne e bambini, divennero cosa ordinaria e non straordinaria. Un genocidio la cui portata mitigata solo dalla fuga e dall'emigrazione forzata, nell'inesorabile comandamento di destino: "O briganti, o emigranti". Lemkin, che ha definito il primo concetto di genocidio, sosteneva: " genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazioneesso intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali e la distruzione della sicurezza personale, della libert, della salute, della dignit e persino delle vite degli individuinon a causa delle loro qualit individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale". Deportazioni, l'incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie di "briganti") costretti ai ferri carcerari. Una pagina non ancora scritta quella relativa alle carceri in cui furono rinchiusi i soldati "vinti". Il governo piemontese dovette affrontare il problema dei prigionieri, 1700 ufficiali dell'esercito borbonico (su un giornale satirico dell'epoca era rappresentata la caricatura dell'esercito borbonico: il soldato con la testa di leone, l'ufficiale con la testa d'asino, il generale senza testa) e 24.000 soldati, senza contare quelli che ancora resistevano nelle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto. Ma il problema fu risolto con la boria del vincitore, non con la pietas che sarebbe stata pi utile, forse necessaria. Un primo tentativo di risolvere il problema ci fu con il decreto del 20 dicembre 1860, anche se le prime deportazioni dei soldati duosiciliani incominciarono gi verso ottobre del 1860, in quanto la resistenza duosiciliana era iniziata con episodi

isolati e non coordinati nell'agosto del 1860, dopo lo sbarco dei garibaldini e dalla stampa fu presentata come espressione di criminalit comune. Il decreto chiamava alle armi gli uomini che sarebbero stati di leva negli anni dal 1857 al 1860 nell'esercito delle Due Sicilie, ma si rivel un fallimento. Si presentarono solo 20.000 uomini sui previsti 72.000; gli altri si diedero alla macchia e furono chiamati "briganti". (nel '43, dopo l'8 settembre, accadde quasi la stessa cosa, ma dato che vinsero (gli anglo-americani) la lotta la chiamarono di "resistenza" , e gli uomini "partigiani". Ndr.) A migliaia questi uomini furono concentrati dei depositi di Napoli o nelle carceri, poi trasferiti con il decreto del 20 gennaio 1861, che istitu "Depositi d'uffiziali d'ogni arma dello sciolto esercito delle Due Sicilie". La Marmora ordin ai procuratori di "non porre in libert nessuno dei detenuti senza l'assenso dell'esercito". Per la maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali (anche se molti percorsero a piedi l'intero tragitto) e fatti sbarcare a Genova, da dove, attraversando laceri ed affamati la via Assarotti, venivano smistati in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre localit del Nord. Presso il Forte di Priamar fu relegato l'aiutante maggiore Giuseppe Santomartino, che difendeva la fortezza di Civitella del Tronto. Alla caduta del baluardo abruzzese, Santomartino fu processato dai (vincitori) Piemontesi e condannato a morte. In seguito alle pressioni dei francesi la condanna fu commutata in 24 anni di carcere da scontare nel forte presso Savona. Poco dopo il suo arrivo, una notte, fu trovato morto, lasciando moglie e cinque figli. Si disse che aveva tentato di fuggire. Un esempio di morte sospetta su cui non fu mai aperta un'inchiesta per accertare le vere cause del decesso. In quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento di "correzione ed idoneit al servizio", i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po' di pane nero raffermo, subendo dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisiche e morali. Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti,

maltrattamenti e malattie. Quelli deportati a Fenestrelle [2], fortezza situata a quasi duemila metri di altezza, sulle montagne piemontesi, sulla sinistra del Chisone, ufficiali, sottufficiali e soldati (tutti quei militari borbonici che non vollero finire il servizio militare obbligatorio nell'esercito sabaudo, tutti quelli che si dichiararono apertamente fedeli al Re Francesco II, quelli che giurarono aperta resistenza ai piemontesi) subirono il trattamento pi feroce. Fenestrelle (nella foto di apertura) pi che un forte, era un insieme di forti, protetti da altissimi bastioni ed uniti da una scala, scavata nella roccia, di 4000 gradini. Era una ciclopica cortina bastionata cui la naturale asperit dei luoghi ed il rigore del clima conferivano un aspetto sinistro. Faceva tanto spavento come la relegazione in Siberia. I detenuti tentarono anche di organizzare una rivolta il 22 agosto del 1861 per impadronirsi della fortezza, ma fu scoperta in tempo ed il tentativo ebbe come risultato l'inasprimento delle pene con i pi costretti con palle al piede da 16 chili, ceppi e catene. Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perch aveva proferito ingiurie contro i Savoia. Vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei. Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusati ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano stati catturati era proprio solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti non erano nemmeno registrati, sicch solo dopo molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica. Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizioni, anche per le gelide temperature che dovevano sopportare senza alcun riparo, non superava i tre mesi. E proprio a Fenestrelle furono vilmente imprigionati la maggior parte di quei valorosi soldati che, in esecuzione degli accordi intervenuti dopo la resa di Gaeta, dovevano invece essere

lasciati liberi alla fine delle ostilit. Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero subire un trattamento infame che incominci subito dopo essere stati disarmati, venendo derubati di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi. La liberazione avveniva solo con la morte ed i corpi (non erano ancora in uso i forni crematori) venivano disciolti nella calce viva collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all'ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinch non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro ancora visibile l'iscrizione: "Ognuno vale non in quanto ma in quanto produce". (ricorda molto la scritta dei lager nazisti " Non era pi gradevole il campo impiantato nelle "lande di San Martino" presso Torino per la "rieducazione" dei militari sbandati, rieducazione che procedeva con metodi di inaudita crudelt. Cos, in questi luoghi terribili, i fratelli "liberati", maceri, cenciosi, affamati, affaticati, venivano rieducati e tormentati dai fratelli "liberatori". Altre migliaia di "liberati" venivano confinati nelle isole, a Gorgonia, Capraia, Giglio, all'Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma malarica. Tutte le atrocit che si susseguirono per anni sono documentate negli Atti Parlamentari, nelle relazioni delle Commissioni d'Inchiesta sul Brigantaggio, nei vari carteggi parlamentari dell'epoca e negli Archivi di Stato dei capoluoghi dove si svolsero i fatti. Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, sosteneva in Parlamento: "Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del PiemonteSono essi trattati peggio che i galeotti. Perch il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudelt? Perch abbia a torturare con la fame e con l'inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?". Ma della mozione presentata non fu autorizzata la pubblicazione negli Atti Parlamentari, vietandosene la discussione in aula [3]. Il generale Enrico Della Rocca, che condusse l'assedio di Gaeta, nella sua autobiografia riporta

una lettera alla moglie, in cui dice: "Partiranno, soldati ed ufficiali, per Napoli e Torino...", precisando, a proposito della resa di Capua, "...le truppe furono avviate a piedi a Napoli per essere trasportate in uno dei porti di S.M. il Re di Sardegna. Erano 11.500 uomini" [4]. Alfredo Comandini, deputato mazziniano dell'et giolittiana, che compil "L'Italia nei Cento Anni (1801-1900) del secolo XIX giorno per giorno illustrata", riporta un'incisione del 1861, ripresa da "Mondo Illustrato" di quell'anno, raffigurante dei soldati borbonici detenuti nel campo di concentramento di S. Maurizio, una localit sita a 25 chilometri da Torino. Egli annota che, nel settembre del 1861, quando il campo fu visitato dai ministri Bastogi e Ricasoli, erano detenuti 3.000 soldati delle Due Sicilie e nel mese successivo erano arrivati a 12.447 uomini. Il 18 ottobre 1861 alcuni prigionieri militari e civili capitolati a Gaeta e prigionieri a Ponza scrissero a Biagio Cognetti, direttore di "Stampa Meridionale", per denunciare lo stato di detenzione in cui versavano, in palese violazione della Capitolazione, che prevedeva il ritorno alle famiglie dei prigionieri dopo 15 giorni dalla caduta di Messina e Civitella del Tronto ed erano gi trascorsi 8 mesi. Il 19 novembre 1861 il generale Manfredo Fanti inviava un dispaccio al Conte di Cavour chiedendo di noleggiare all'estero dei vapori per trasportare a Genova 40.000 prigionieri di guerra. Cavour cos scriveva al luogotenente Farini due giorni dopo: "Ho pregato La Marmora di visitare lui stesso i prigionieri napoletani che sono a Milano", ammettendo, in tal modo, l'esistenza di un altro campo di prigionia situato nel capoluogo lombardo per ospitare soldati napoletani. Questa la risposta del La Marmora: "non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminiae quel che pi dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa perch non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedelt a Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano a servire, che erano un branco di carche avessimo trovato modo di metterli alla ragione".

Le atrocit commesse dai Piemontesi si volsero anche contro i magistrati, i dipendenti pubblici e le classi colte, che resistettero passivamente con l'astensione ai suffragi elettorali e la diffusione ad ogni livello della stampa legittimista clandestina contro l'occupazione savoiarda. Particolarmente eloquente anche un brano tratto da Civilt Cattolica: "Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, gi trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perch tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei pi aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima s caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie". Ancora possiamo leggere dal diario del soldato borbonico Giuseppe Conforti, nato a Catanzaro il 14.3.1836 (abbreviato per amor di sintesi): "Nella mia uscita fu principio la guerra del 1860, dopo questa campagna che per aver tradimenti si sono perduto tutto e noi altri povere soldati manggiando erba dovettimo fuggire, aggiunti alla provincia della Basilicata sort un prete nemico di Dio e del mondo con una porzione di quei giudei e ci voleva condicendo che meritavamo di essere uccisi per la federt che avevamo portato allo notro patrone. Ci hanno portato innanzi a un carnefice Piemontesa condicendo perch aveva tardato tanto ad abbandonare quell'assassino di Borbone. Io li sono risposto che non poteva giammai abbandonarlo perch aveva giurato fedelt a lui e lui mi ditto che dovevo tornare indietro asservire sotto la Bandiera d' Italia. Il terzo giorno sono scappato, giunto a Girifarchio dove teneva mio fratello sacerdote vedendomi redutto a quello misero stato e dicendo mal del mio Re io li risposi che il mio Re no aveva colpa del nostri patimenti che sono stato le nostri soperiori traditori; siamo fatto questioni e lo sono lasciato". "Allo mio paese sono stato arrestato e dopo 7 mesi di scurre priggione mi anno fatto partire per il Piemonte. Il 15 gennaio del 1862 ci anno portato affare il giuramento, in quello stesso anno sono stato 3 volte all'ospidale e in pregiona a pane e accua. Principio del 1863 fuggito da sotto le armi di vittorio, il 24 sono giunto in Roma, il giorno 30 sono andato alludienza

del mio desiderato e amato dal Re', Francesco 2 e li raccontato tutti i miei ragioni"[5].
Vittorio Emanuele II, il re vittorioso...

...e Francesco II, il re vinto, nella fortezza di Gaeta

Un ulteriore passo avanti nella studio di questa fase poco "chiara" del post unificazione stato fatto recentemente, quando un ricercatore trov dei documenti presso l'Archivio Storico del Ministero degli Esteri attestanti che, nel 1869, il governo italiano voleva acquistare un'isola dall'Argentina per relegarvi i soldati napoletani prigionieri, quindi dovevano essere ancora tanti [6]. Questi uomini del Sud finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile, certamente con il commosso ricordo e la struggente nostalgia della Patria lontana. Molti di loro erano poco pi che ragazzi [7]. Era la politica della criminalizzazione del dissenso, il rifiuto di ammettere l'esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai "liberati" di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. I combattenti delle Due Sicilie, i soldati dell'ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei "lager dei Savoia", uomini in gran parte anonimi per la pallida memoria

che ne giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti concreti, ed in molti casi ordinari, a cui non estraneo chiunque sia capace di adempiere fedelmente il proprio compito fino in fondo, sapendo opporsi ai tentativi sovvertitori, con la libert interiore di chi non si lascia asservire dallo "spirito del tempo". STEFANIA MAFFEO
NOTE

[1] Legge Pica: " Art.1: Fino al 31 dicembre nelle province infestate dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate con decreto reale, i componenti comitiva, o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche strade o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai tribunali militari; Art.2: I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti con la fucilazione; Art.3: Sar accordata a coloro che si sono gi costituiti, o si costituiranno volontariamente nel termine di un mese dalla pubblicazione della presente legge, la diminuzione da uno a tre gradi di pena; Art.4: Il Governo avr inoltre facolt di assegnare, per un tempo non maggiore di un anno, un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice Penale, nonch ai manutengoli e camorristi; Art.5: In aumento dell'articolo 95 del bilancio approvato per 1863 aperto al Ministero dell'Interno il credito di un milione di lire per sopperire alle spese di repressione del brigantaggio. (Fonte: Atti parlamentari. Camera dei Deputati) [2] Il luogo non era nuovo a situazioni del genere perch gi Napoleone se ne era servito per detenervi i prigionieri politici ed un illustre napoletano, Don Vincenzo Baccher, il padre degli eroici fratelli realisti fucilati dalla Repubblica Partenopea il 13 giugno del 1799, che vi aveva passato 9 anni, dal 1806 al 1815, tornando a Napoli alla venerabile et di 82 anni. [3] Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento - legittimisti e briganti tra i Borbone ed i Savoia, Guida Editore, Napoli, 2000. [4] Questa informazione e tutte le seguenti sono state reperite nei saggi "I campi di concentramento", di Francesco Maurizio Di Giovine, nella rivista L'Alfiere, Napoli, novembre 1993, pag. 11 e "A proposito del campo di concentramento di Fenestrelle", dello stesso autore, pubblicato su L'Alfiere, dicembre 2002, pag. 8. [5] Fulvio Izzo, I Lager dei Savoia, Controcorrente, Napoli 1999. [6] S. Grilli, Cayenna all'italiana, Il Giornale, 22 marzo 1997. [7] Sul sito www.duesicilie.org/Caduti.html possibile ritrovare i nomi,

con data di nascita e provenienza di alcuni martiri di Fenestrelle, nel periodo compreso tra il 1860 ed il 1865. Erano poco pi che ragazzi: il pi giovane aveva 22 anni, il pi vecchio 32.
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vedi BRIGANTAGGIO: LA GUERRA DEI POVERI > vedi L'INSABBIAMENTO CULTURALE DELLA "QUESTIONE MERIDIONALE" > vedi I BRIGANTI? VI DICO IO CHI SONO! >

L'INSABBIAMENTO CULTURALE
DELLA

"QUESTIONE MERIDIONALE"
controstoria di CARLO COPPOLA Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l'unit d'Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di "regime" stese, dai primi anni dell'unit, un velo pietoso sulle vicende "risorgimentali" e sul loro reale evolversi. Tutte le forme d'influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi. Si cerc di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II il "Franceschiello" della vulgata arrivando alla volgarit di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d'Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una "santa" e allevato dai preti, con ogni probabilit non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risult, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscit scalpore e, bench falsa, serv allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio. La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu

infangata da accuse di brutalit e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone interessatamente - d'essere stato - lui cattolicissimo - "la negazione di Dio". Soprattutto si minimizz l'entit della ribellione che infiammava tutto il l'ex Regno di Napoli, riducendolo a "volgare brigantaggio", come si legge nei giornali dell'epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libert di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce cos la leggenda risorgimentale della "cattiveria" dei Borboni contrapposta alla "bont" dei piemontesi e dei Savoia che riempir le pagine dei libri scolastici. Restano a chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d'Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti cos lontana dalla verit. A mio parere le ragioni sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D'Azeglio enunci nel secolo scorso "Abbiamo fatto l'Italia, adesso bisogna fare gli Italiani", e possono essere esemplificate nel seguente modo: a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoper per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l'unit si ottenne, ammantando di leggende "l'eroico" operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall'esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realt, dall'esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile - nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte - e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere "liberate" e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori. Per contro si diede della deposta monarchia borbone un'immagine traviata e distorta, e del '700 e '800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d'oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l'unit, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavit dello "straniero".

b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com'era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo "revisionista", riconducendo anzi l'origine della nazione al periodo romano e saltando a pi pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l'indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realt meridionale, ma da un punto di vista storico insabbi ancor di pi la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell'impianto culturale del regime. c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l'impianto di pubblica istruzione del periodo fascista. La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, con la Repubblica di Sal, diviso in due l'Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicit della storia risorgimentale e alimentare cos tesi separatiste. Si arrivati in questo modo ai giorni nostri, dove ancora adesso, in molti libri scolastici, la storia d'Italia e del meridione in particolare vergognosamente mistificata. In campo economico la visione che si dette del Regno delle due Sicilie fu, se possibile, ancora pi lontana dalla realt effettuale. Il Sud borbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: "Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il pi avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacit di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...) Il Paese

era pago di s, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale". In realt il problema centrale dell'intera vicenda che nel 1860 l'Italia si fece, ma si fece malissimo. Al di l delle orribili stragi che l'unit apport, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell'Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversit, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate. La formula del "piemontismo", vale a dire della mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici ed economici del Regno di Piemonte all'intero territorio italiano, che fu adottata dal governo, e i provvedimenti "rapina" che si fecero ai danni dell'erario del Regno di Napoli, determinarono un'immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico nei territori dell'ex Regno di Napoli e il suo irreversibile collasso. D'altronde le motivazioni politiche che avevano portato all'unit erano come sempre accade in subordine rispetto a quelle economiche. Se si parte dall'assunto, ampiamente dimostrato, che lo stato finanziario del meridione era ben solido nel 1860, si comprendono meglio i meccanismi che hanno innescato la sua rovina. Nel quadro della politica liberista impostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi nove milioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato. L'abnorme debito pubblico dello stato piemontese procurato dalla politica bellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!) doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemontese per la quale le guerre si erano

fatte (e alla quale il Cavour stesso apparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo, soddisfatta. Descrivere vicende economiche e legate al mondo delle banche e della finanza, pu risultare al lettore, me ne rendo conto, noioso, ma non possibile comprendere alcune vicende se ne conoscono le intime implicazioni. Lo stato sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate" alle quali per corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie. Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilit" della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario emittente, ci dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti dello stato. In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantit d'oro o d'argento in essa contenuta aveva valore pressoch uguale a quello nominale). Quindi cita ancora lo Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori della banca, che sarebbe poi divenuta Banca d'Italia) non tessevano e non filavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi". A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente

impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta cos come previsto dall'ordinamento piemontese, poich in tal modo i banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (bench ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre pass nelle casse piemontesi. Tuttavia nella riserva della nuova Banca d'Italia, non risult esserci tutto l'oro incamerato (si vedano a proposito gli Atti Parlamentari dell'epoca). Evidentemente parte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior parte furono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nord operato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, ma con gli enormi capitali rastrellati al sud. Ancora adesso, a ben vedere, il sistema creditizio del meridione risente dell'impostazione che allora si diede. Gli istituti di credito adottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud, effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gli investimenti nel settentrione. Il colpo di grazia all'economia del sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato pi indebitato d'Europa), all'irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarr a seguire: esso in una folle corsa all''armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, divent, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d'Europa. Scrive ancora lo storico Zitara: "La retorica unitaria, che copr interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte

all'intera Italia, si erano gi rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri pi uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un'autosconfessione. Quando, alle fine, quelle "innovazioni", vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo. Bast qualche mese perch le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate. L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registr una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perch i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali". Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l'assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud fin per pagare sia le spese della guerra d'annessione, sia i costi divenuti astronomici dell'ammodernamento del settentrione. Il governo di Torino adott nei confronti dell'ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo "colonialista" tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: "Questa invasione non unione, non annessione! Questo voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Per e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala". La politica dissennatamente liberistica del governo unitario port, peraltro, la neonata e debolissima economia dell'Italia unita a un crack finanziario. Le grandi societ d'affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d'oro.

Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al "corso forzoso" cio fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un'inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%. Ci vorranno molti decenni perch l'Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilit. L'odierna arretratezza economica del Meridione figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell'ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario. Si dovr aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, - iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista. Ma il danni e i disastri erano gi fatti: una vera economia nel sud non esisteva pi e le sue forze pi giovani e migliori erano emigrate all'estero. Nonostante gli interventi negli anni '50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), '60 e '70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l'aiuto economico dell'Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d'Italia ancora notevole. La popolazione dell'ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del "brigantaggio", stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d'ogni genere, per sopravvivere, dar vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell''800, che continuer, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una

diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri. Il Sud pagher, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell'Italia industriale. Ritengo, in conclusione, che sia un diritto delle gente meridionale riappropriarsi di quel pezzo di storia patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpo insegnanti dello stato favorire un'analisi storica pi oggettiva di quei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello sviluppo sociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolastici pi oculata ed imparziale. La guerra fra il nord ed il sud d'Italia non si combatte pi sui campi di battaglia del Volturno, del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai "briganti", ma non per questo meno viva; continua ancora oggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che, alimentando una visione del sud "geneticamente" arretrato, produce un'ulteriore frattura tra due "etnie" che non si sono amate mai. Il dibattito ancora aperto e vivace sull'ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partito della Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gente del nord e quella del sud, nonostante il "rimescolamento" dovuto all'emigrazione interna, testimoniano quanto queste problematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime. Oggi l'unit dello stato, in un periodo dove il progresso passa attraverso enti politico-economici sopranazionali come la Comunit Europea, certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione dovuta una politica ed una attenzione particolari, una politica legata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormi risorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo dei disastri e delle ingiustizie che l'unit vi ha apportato. L'enorme numero di morti che cost l'annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell'ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un'Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 140 anni lo

Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano.
di CARLO COPPOLA "Controstoria dell'Unit d'Italia" M.C.E. Editore

vedi BRIGANTAGGIO: LA GUERRA DEI POVERI > vedi PULIZIA ETNICA PIEMONTESE NEL SUD > vedi I BRIGANTI? VI DICO IO CHI SONO! > vedi IL LAGER PIEMONTESE DI FENESTRELLE >

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