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Judith Butler VITA PRECARIA Traduzione di Laura Pagliara Voglio ringraziarvi di questo invito a parlare con voi oggi.

Vorrei cogliere loccasione per riflettere insieme sul problema della responsabilit affrontato in termini globali. Non facile trattare la questione della responsabilit, dal momento che il termine stesso stato utilizzato per finalit e intenzioni contrarie a quello che invece il mio scopo qui. Per esempio, in Francia e in altri paesi europei, come ben sapete, hanno ridotto i sussidi sociali per i poveri e i nuovi immigrati. Il governo esige un nuovo senso di responsabilit, intendendo con ci che gli individui non dovrebbero contare sul governo per i sussidi, ma solo su se stessi. Esiste addirittura una parola creata per descrivere il processo di produzione di individui che fanno affidamento su s stessi responsabilizzazione. Ora, non sono certo contraria alla responsabilit individuale, e ci sono casi in cui, indubbiamente, dobbiamo tutti assumerci la responsabilit di noi stessi. Ma si presentano alcune domande per me cruciali alla luce di questa formulazione: sono responsabile solo verso me stesso? Ci sono altri di cui sono responsabile? E come faccio, in generale, a determinare le dimensioni della mia responsabilit? Sono responsabile di tutti gli altri o solo nei confronti di alcuni, e su che base potrei tracciare questo limite? Ma questo solo linizio delle mie difficolt. Confesso di avere problemi con i pronomi personali. solo come io, cio, in qualit di individuo, che sono responsabile? Potrebbe essere che quando assumo la responsabilit, ci che diventa chiaro che chi sono io legato inevitabilmente agli altri? Sono forse immaginabile senza il mondo degli altri? Pu essere che, effettivamente, attraverso il processo di assunzione di responsabilit lio si dimostri, almeno parzialmente, un noi? Chi incluso nel noi che io, apparentemente, sono o di cui sembro essere parte? E infine, per quale noi sono responsabile? Non lo stesso che chiedersi: a quale noi appartengo? Se identifico una comunit di appartenenza nel concetto di nazione, territorio, lingua e cultura, e se poi baso la mia responsabilit su quella comunit di appartenenza, allora implicitamente sostengo la teoria che sono responsabile solo verso coloro che riconosco come me. Ma qual la nostra responsabilit nei confronti di chi non conosciamo, verso quelli che sembrano mettere alla prova il nostro senso di appartenenza? Forse apparteniamo a loro in modo diverso, e la nostra responsabilit verso di loro non si basa sul concetto di similitudine. Prima di suggerirvi un modo di riflettere sulla responsabilit globale in questi tempi, che sono indubbiamente tempi di guerra, voglio prendere le distanze da alcuni modi erronei di affrontare il problema. Ad esempio, quelli che intraprendono una guerra nel nome del bene comune, quelli che invadono le terre sovrane altrui in nome della sovranit, ritengono tutti di agire globalmente e addirittura di compiere una certa responsabilit globale. In questi ultimi anni, ad esempio, negli Stati Uniti sentiamo parlare di portare la democrazia a paesi dove apparentemente manca; sentiamo espressioni come insediare la democrazia e in questi momenti dobbiamo chiederci: cosa significa democrazia se non si fonda sulla decisione popolare e sulla regola della maggioranza? Pu una potenza portare o insediare la democrazia a un popolo sul quale non ha giurisdizione? Se si impone una forma di potere a un popolo che non sceglie quella forma di potere, allora quello , per definizione, un processo antidemocratico. Se la forma di potere imposta viene chiamata democrazia, allora ci si presenta un problema ancora pi grande: democrazia pu essere il nome di una forma di potere politico imposto in modo antidemocratico? La democrazia deve definire i mezzi con cui viene realizzato il potere politico cos come il risultato di quel processo. E questo crea una certa difficolt, dal momento che una maggioranza pu certamente eleggere una forma non democratica di potere (come fecero i tedeschi quando elessero Hitler nel 1933), ma le

potenze militari possono anche cercare di insediare la democrazia ignorando o sospendendo le elezioni e altre espressioni della volont popolare, o con altri mezzi palesemente antidemocratici. In entrambi i casi manca la democrazia. Come possono influire queste brevi riflessioni intorno ai pericoli della democrazia sul nostro modo di pensare alla responsabilit globale in tempi di guerra? Innanzitutto, penso che dobbiamo diffidare di quegli appelli alla responsabilit globale fondati sul presupposto che un paese abbia una particolare responsabilit per portare o insediare la democrazia in altri paesi. Sono certa che ci siano casi in cui lintervento sia importante per prevenire un genocidio, ad esempio. Ma sarebbe un errore paragonare un simile intervento a una missione globale o, anzi, a una politica arrogante in cui vengono attuate con la forza forme di governo che rispondono allinteresse politico ed economico del potere militare artefice di quellattuazione. In questi casi, probabilmente, ci viene voglia di dire quantomeno, a me che questa forma di responsabilit globale irresponsabile, se non apertamente contraddittoria. Potremmo dire che qui la parola responsabilit usata impropriamente o abusata. E io sarei daccordo. Ma questo, forse, pu non essere abbastanza, dal momento che le circostanze storiche ci richiedono di dare nuovi significati alla nozione di responsabilit; in realt, ci troviamo davanti a una sfida, quella di ripensare e di riformulare un concetto di responsabilit globale che possa controbattere questa appropriazione imperialistica o ci che abbiamo descritto come politica di imposizione. Per fare questo, voglio prima tornare alla questione del noi e pensare a cosa accade a questo noi in tempi di guerra. Quali sono le vite considerate degne di essere salvate e difese, quali non lo sono? In secondo luogo, voglio chiedere come possiamo ripensare il noi in termini globali con criteri che confutino la politica di imposizione che ho appena descritto. Infine, considerer perch opporsi alla tortura obbligatorio e come possiamo derivare un importante senso di responsabilit globale da una politica che contraria alluso della tortura in ogni sua forma. Dunque, possiamo cercare un modo di porre il quesito su chi siamo noi in questi tempi, cominciando col domandarci: quali vite stimiamo degne di considerazione, quali vite piangiamo, e quali riteniamo indegne di lutto? Potremmo pensare alla guerra come a qualcosa che crea una divisione fra popolazioni da compiangere e popolazioni da rinnegare. Una vita indegna di lutto una vita che non pu essere compianta perch non ha mai vissuto, cio, non mai stata considerata una vita. Possiamo vedere questa divisione del mondo in vite degne o indegne di lutto dalla prospettiva di coloro che fanno la guerra per difendere le vite di certe comunit e per difenderle contro le vite di altri. Dopo gli attacchi dell11 settembre sui media ci siamo imbattuti nelle immagini di coloro che sono morti: i loro nomi, le loro storie, le loro famiglie. Il lutto pubblico era destinato a fare di queste immagini icone per la nazione, il che significava, naturalmente, che per le vittime non americane il lutto pubblico era considerevolmente minore, e addirittura inesistente per i lavoratori clandestini. La distribuzione differenziale del lutto pubblico una questione politica di enorme implicazione. Lo fin dal tempo di Antigone, se non prima, quando lei scelse di piangere manifestamente la vita di uno dei suoi fratelli, anche se in infrazione alla legge sovrana. Perch accade che cos spesso i governi cerchino di tenere sotto controllo e regolare la concessione o il divieto al lutto pubblico? Nei primi anni della crisi dellAIDS negli Stati Uniti, le veglie pubbliche e il Names project hanno sfondato il muro della vergogna pubblica della morte per AIDS, una vergogna a volte associata allomosessualit, specialmente al sesso anale, a volte alla promiscuit. Ha avuto un certo significato dichiarare e mostrare i nomi, mettere insieme i pochi residui di una vita, rivelare pubblicamente e riconoscere quelle perdite. Cosa succederebbe se coloro che vengono uccisi in queste guerre fossero ricordati in questo modo, pubblicamente? Perch non ci vengono dati i nomi dei caduti in guerra, quelli uccisi dagli Stati Uniti, e perch non avremo mai unimmagine, il nome, la storia, mai una testimonianza di quelle vite qualcosa da vedere, da toccare, da conoscere?

Il lutto pubblico legato allindignazione e lindignazione di fronte allingiustizia, o meglio, a una perdita che insopportabile, ha un enorme potenziale politico. Dopo tutto, una delle ragioni per cui Platone voleva bandire i poeti dalla Repubblica. Pensava che se i cittadini fossero andati troppo spesso a vedere le tragedie, avrebbero pianto per le vittime, e che una tale manifestazione pubblica del lutto avrebbe sconvolto lordine e la gerarchia dello spirito e, di conseguenza, anche lordine e la gerarchia dellautorit politica. Quando parliamo di dolore pubblico o di indignazione, parliamo di risposte affettive strettamente regolate dai regimi di potere, a volte soggette alla censura esplicita. Nelle guerre contemporanee in cui sono direttamente coinvolti gli Stati Uniti, quelle in Iraq e Afghanistan, possiamo vedere come laffetto venga regolato per sostenere lo sforzo bellico e, in particolare, lappartenenza nazionalistica. Forse lo sapete gi, quando le foto di Abu Ghraib furono rese note per la prima volta negli Stati Uniti, gli esperti della televisione conservativa dichiararono che mostrarle era antiamericano. Non avremmo dovuto avere le prove inconfutabili della tortura perpetrata dagli Stati Uniti. Non dovevamo sapere se gli sforzi bellici americani avevano violato i diritti umani, diritti riconosciuti a livello internazionale. Era antiamericano mostrare quelle foto ed era antiamericano ottenere da esse informazioni sulla conduzione della guerra. Secondo il signor OReilly le foto avrebbero determinato unimmagine negativa degli Stati Uniti e noi avevamo lobbligo di difendere quellimmagine. Il signor Rumsfeld disse qualcosa di simile, e sugger anche lui quanto fosse antiamericano esibire quelle foto. Ovviamente, nessuno dei due riteneva che il popolo americano potesse avere diritto a conoscere loperato del suo esercito, n che la capacit del popolo di conoscere e giudicare la guerra sulla base di quelle prove fosse parte della tradizione democratica di partecipazione e deliberazione. Dunque, cos stato detto in realt? Mi sembra evidente che chi ha tentato di limitare il potere dellimmagine, in questo caso specifico, ha anche tentato di limitare il potere dellaffetto, dellindignazione, ben consapevole che una tale indignazione avrebbe potuto e avrebbe sicuramente sollevato lopinione pubblica contro la guerra. Come in effetti avvenuto. Tuttavia, chiederci quali siano le vite considerate degne di lutto, meritevoli di protezione e appartenenti a soggetti con diritti da rispettare, ci riporta alla domanda di come venga regolato laffetto e di ci che intendiamo per controllo affettivo. Lantropologo Talal Asad ha scritto di recente un libro sullattentato dinamitardo suicida e la prima domanda che si pone : Perch proviamo orrore e repulsione morale di fronte a un attentato suicida, ma non proviamo lo stesso orrore n la stessa repulsione morale di fronte alla violenza sponsorizzata dallo stato? Non si pone la domanda per rispondere che i due tipi di violenza sono uguali, e neppure per dire che dovremmo provare la stessa indignazione morale per entrambi. Ma trova curioso, e qui lo capisco, che le nostre risposte morali, risposte che prendono forma prima di tutto come affetto, siano tacitamente regolate da certi tipi di strutture interpretative. La sua tesi che proviamo pi orrore e repulsione morale di fronte a vite perdute brutalmente in certe condizioni e con certi mezzi piuttosto che altri. Se qualcuno uccide o viene ucciso in guerra e la guerra sponsorizzata dallo stato, e noi investiamo lo stato di legittimit, allora consideriamo la morte dolorosa, triste, sfortunata, ma non radicalmente ingiusta. Al contrario, se la violenza perpetrata da gruppi controinsurrezionali ritenuti illegittimi, allora il nostro affetto cambia invariabilmente, o almeno cos ritiene Asad. Sebbene Asad ci chieda di pensare allattentato dinamitardo suicida cosa che io invece non far qui oggi anche chiaro che sta dicendo qualcosa di importante sulla politica della sensibilit morale, sta dicendo che ci che sentiamo in parte condizionato da come interpretiamo il mondo attorno a noi, che come interpretiamo ci che proviamo pu alterare il sentimento stesso e effettivamente lo altera. Accettare che laffetto sia strutturato secondo schemi interpretativi che non comprendiamo appieno, pu forse aiutarci a capire perch accade che proviamo orrore di fronte ad alcune perdite e invece

indifferenza, o meglio, legittimit, nei confronti di altre? Nella situazione contemporanea di guerra e di accresciuto nazionalismo, immaginiamo che la nostra esistenza sia legata ad altri con cui possiamo trovare unaffinit nazionale, che ci sono riconoscibili e che si conformano a certe nozioni culturali specifiche su ci che culturalmente riconoscibile come umano. Questo schema interpretativo funziona distinguendo tacitamente fra popolazioni da cui dipendono la mia vita e la mia esistenza, e popolazioni che rappresentano per esse una minaccia diretta. Quando una popolazione sembra rappresentare una minaccia diretta alla mia vita, non mi appare come un insieme di vite, ma come minaccia alla vita. Osservate come ci sia combinato nel modo in cui viene considerato lIslam, ossia barbarico o pre-moderno, non ancora conformatosi a quelle norme che rendono lumano riconoscibile. Coloro che uccidiamo non sono esattamente umani, e non sono esattamente vivi, il che significa che per la perdita delle loro vite non proviamo lo stesso orrore e indignazione che proviamo per la perdita di quelle vite caratterizzate da unaffinit nazionale o religiosa alla nostra stessa vita. Asad, invece, si domanda se i modi di affrontare la morte vengano compresi in modo diverso, se noi ci opponiamo alle morti causate da attentati dinamitardi suicidi con pi forza e con maggiore indignazione morale di quanto non facciamo per le morti causate da un bombardamento aereo, ad esempio. Ma a questo punto mi viene da chiedermi se non esista, anche, un modo diverso di considerare le popolazioni, tale per cui alcune di esse vengono giudicate, fin da subito, molto vive, mentre altre pi discutibilmente vive, forse addirittura socialmente morte (espressione formulata da Orlando Patterson per descrivere lo status degli schiavi). Ma se la guerra o, piuttosto, le attuali guerre, si basano, perpetuandolo, su un modo di distinguere fra vite degne di essere protette, apprezzate e compiante, quando e se vengono perdute, e vite non del tutto vite, prive di valore, non sufficientemente riconoscibili o degne di lutto, allora la morte di vite immeritevoli di compianto causer sicuramente unindignazione enorme da parte di coloro che comprendono che le proprie vite non sono considerate vite in senso pieno e significativo. Dunque, anche se la logica dellautodifesa assegna a queste popolazioni il ruolo di minaccia alla vita, come sappiamo, si tratta di popolazioni anchesse viventi e la nostra coabitazione in questo globo comporta una certa interdipendenza fra noi. Voglio insistere su questa interdipendenza proprio perch quando nazioni come la nostra argomentano che la nostra sopravvivenza servita dalla guerra, o nazioni come Israele sostengono che la loro sopravvivenza dipende dalla guerra, viene commesso un errore sistematico. Poich la guerra cerca di negare i modi attuali e irrefutabili in cui siamo tutti esposti gli uni agli altri, vulnerabili alla distruzione da parte dellaltro e bisognosi di protezione attraverso accordi bilaterali basati sul riconoscimento di una precariet comune. Penso che questa sia unidea hegeliana, che comunque mia intenzione riproporre qui. La ragione per cui non sono libero di distruggere un altro e quindi, per cui le nazioni non sono libere di fare lo stesso non solo per il fatto che ci porterebbe a ulteriori conseguenze distruttive. Questo senza dubbio vero. Ma forse ancora pi vero che il soggetto che io sono legato al soggetto che non sono, che ciascuno di noi ha il potere di distruggere e di essere distrutto, e che in questa precariet siamo legati luno allaltro. In questo senso noi tutti siamo vite precarie. Dopo l11 settembre abbiamo visto lo sviluppo della prospettiva secondo la quale la permeabilit del confine rappresenta una minaccia nazionale, o meglio una minaccia alla propria identit. Lidentit, tuttavia, non pensabile senza il confine permeabile, cos come non pensabile lidentit senza la possibilit di una cessione di frontiera. In un caso si teme linvasione, lusurpazione, la violazione, e si avanzano rivendicazioni territoriali in nome dellautodifesa. Ma nellaltro caso, un confine viene ceduto o vinto proprio per stabilire una certa relazione al di l delle pretese territoriali. In entrambe le azioni pu essere presente il timore della sopravvivibilit, e se cos, questo spiega come il nostro senso di sopravvivibilit sia inevitabilmente legato a quelli che

non conosciamo, che potrebbero benissimo non essere pienamente riconoscibili, secondo le nostre norme nazionali o parrocchiali. Se ho un confine, o se posso dire che un confine mi appartiene, solo perch mi sono separato dagli altri, ed solo a condizione di questa separazione che posso mettermi in relazione con loro. Dunque il confine una funzione della relazione, unintermediazione di differenza, una negoziazione in cui sono legato a te nella mia separatezza. Se cerco di preservare la tua vita, non solo perch cerco di preservare la mia, ma perch chi sono io niente senza la tua vita, e la vita stessa deve essere ripensata come questa rete di relazioni con gli altri, una rete complessa, appassionata, antagonistica e necessaria. Posso perdere un tu particolare e un qualsiasi numero di altri specifici tu, e posso anche sopravvivere a queste perdite. Ma ci pu accadere solo se non perdo la possibilit del tu in assoluto. Se sopravvivo, solo perch la mia vita non niente senza la vita che mi eccede, che pone in relazione un qualche deittico tu, senza il quale io non posso essere. Penso fosse una scena del film Rash Hour Missione Parigi: i nostri criminali americani preferiti prendono un taxi nella capitale francese. Il tassista capisce che sono americani ed esprime il suo entusiastico interesse per limminente avventura americana. Durante il tragitto offre un esempio di grande perspicacia etnografica. Dice: Americani! Uccidono la gente senza motivo! Ora, naturalmente, il governo degli Stati Uniti fornisce ogni tipo di motivazione per i suoi omicidi e, allo stesso tempo, non definisce affatto quegli assassinii come tali. Se mi accingo ad indagare questo problema della potenza distruttiva, per poi dedicarmi, come spero di fare, alla questione della precariet e della vulnerabilit, proprio perch penso che una certa dislocazione di prospettiva sia necessaria per ripensare la politica globale. La nozione del soggetto prodotta dalle recenti guerre condotte dagli Stati Uniti, incluse le sue operazioni di tortura, una nozione in cui il soggetto Stati Uniti cerca di presentare se stesso come impermeabile, di definirsi permanentemente protetto contro le incursioni e radicalmente invulnerabile agli attacchi. Il nazionalismo funziona in parte producendo e sostenendo una certa versione del soggetto possiamo chiamarla immaginaria, se desideriamo. Ma dobbiamo ricordare che quella certa versione viene prodotta e sostenuta attraverso le potenti forme dei mezzi di informazione, e che ci che d potere alle versioni del soggetto proprio il modo in cui esse riescono a rendere legittima la capacit distruttiva del soggetto e impensabile la sua stessa distruttibilit. Il problema di ci che limita quelle relazioni quindi legato al problema se possiamo o no estendere il nostro senso di dipendenza politica e di vincolo a unarena globale che si muove al di sopra della nazione. Voglio dire che latto di affermare la dipendenza e il vincolo fuori dalla nazione-stato deve essere distinto da quelle forme di imperialismo che avanzano pretese di sovranit fuori dei confini della nazione-stato. Non una distinzione facile da fare o da assicurare, ma ritengo che rappresenti una sfida improrogabile e attuale per questi tempi. Considerate lo scisma che caratterizza il soggetto nazionale, mi riferisco a quelle modalit di difesa e dislocazione affettiva, per prendere in prestito una categoria psicoanalitica, che ci inducono, nel nome della sovranit, a difendere un confine da un lato e a violarlo dallaltro. Il richiamo allinterdipendenza, allora, anche un richiamo a superare questo scisma e a muoversi verso il riconoscimento di una condizione di precariet generalizzata. Non credibile che laltro sia distruttibile e io non lo sia; e non pu essere che io sia distruttibile e laltro no, ma solo che la vita, concepita come vita precaria, sia una condizione generalizzata e che in certe condizioni politiche venga radicalmente esacerbata o radicalmente rinnegata. Si tratta di uno scisma in cui il soggetto rivendica la propria legittima potenza distruttiva e allo stesso tempo cerca di immunizzarsi contro il pensiero della sua propria precariet. Appartiene a una politica guidata dallorrore di fronte allidea di distruttibilit della nazione o delle nazioni sue alleate. Costituisce una sorta di irragionevole incrinatura nel cuore del soggetto del nazionalismo.

Se io chiedo il superamento di un certo scisma nel soggetto nazionale, non in favore della riabilitazione di un soggetto coerente e unificato. Il soggetto sempre fuori da se stesso, altro da s, poich la sua relazione con laltro essenziale per ci che (qui, chiaramente, rimango hegeliana). A questo punto, si delinea la seguente domanda: come facciamo a comprendere cosa significhi essere un soggetto costituito di o come sue relazioni, la cui capacit di sopravvivenza funzione e conseguenza dei modi della sua relazionalit? Se una violenza giusta o giustificata viene esercitata da alcuni stati e una violenza ingiustificabile viene esercitata da attori non stati o da attori che si oppongono agli stati esistenti, allora abbiamo un modo per spiegare perch affrontiamo alcune forme di violenza con orrore e altre forme con un senso di accettazione, se non addirittura di legittimit e trionfalismo. Le risposte affettive sembrano essere primarie, non hanno bisogno di spiegazione, precedono il lavoro di comprensione e interpretazione. Nei momenti in cui reagiamo con orrore morale di fronte alla violenza, siamo contro, per modo di dire, linterpretazione. Ma fintanto che in questi momenti resteremo contro linterpretazione, non riusciremo a dare una spiegazione del perch lorrore venga percepito in modo differenziale, e non solo continueremo sulla base di questa irrazionalit, ma prenderemo questa irrazionalit come segno dei nostri encomiabili innati sentimenti morali, forse anche della nostra fondamentale umanit. Se consideriamo il nostro orrore morale come segno della nostra umanit, non riusciamo ad accorgerci che, in questo modo, lumanit in questione risulta divisa implicitamente fra coloro nei cui riguardi nutriamo una sollecitudine pressante e irrazionale e coloro la cui vita e la cui morte semplicemente non ci toccano o non ci appaiono affatto come vite. Come possiamo comprendere il potere regolativo che crea questo differenziale a livello di sensibilit affettiva e morale? Forse importante ricordare che la responsabilit richiede sensibilit, e che la sensibilit non un semplice stato soggettivo, ma un modo di rispondere a ci che ci sta di fronte con le risorse che abbiamo a disposizione. Quando proviamo orrore o quando non lo proviamo affatto, siamo gi esseri sociali che operano allinterno di elaborate interpretazioni sociali. Siamo gi inscritti in un circuito di affetto sociale prima ancora di riuscire a sentire e a rivendicare un affetto come nostro proprio. Potremmo credere, per esempio, nella santit della vita oppure aderire a una filosofia generale della non violenza, una filosofia contraria ad ogni tipo di azione violenta contro gli esseri senzienti. Ma se ci sono vite che non vengono percepite come tali, e ci includerebbe gli esseri senzienti non umani, allora il divieto morale contro la violenza verr applicato solo selettivamente. Perci, la critica della violenza deve iniziare dalla domanda della rappresentabilit della vita stessa: cosa consente a una vita di diventare visibile nella sua precariet e bisognosa di protezione, e cos che ci impedisce di vedere o concepire alcune vite in questo modo? A livello generale, il problema riguarda i media, dato che solo a condizione che una vita risulti percepibile le pu essere concesso un certo valore. Ed solo a condizione di certe strutture di valutazione radicate che una vita pu diventare percepibile. Percepire una vita non lo stesso che incontrare una vita come precaria. Incontrare una vita come precaria non rappresenta un vero incontro, in cui la vita viene spogliata da tutte le sue abituali interpretazioni, presentandosi a noi fuori da ogni relazione di potere. solo attraverso una sfida ai media dominanti che alcuni tipi di vita diventano veramente visibili o conoscibili nella loro precariet. Non solo, o esclusivamente, la comprensione visiva di una vita che forma la precondizione necessaria per una comprensione della precariet della vita. Unaltra vita quella che viene assimilata attraverso i sensi, se si pu parlare di assimilazione. Il tacito schema interpretativo che divide le vite degne di considerazione da quelle indegne opera fondamentalmente attraverso i sensi, differenziando il pianto che riusciamo a sentire da quello che non udiamo, ci che riusciamo a

vedere da ci che non vediamo, e funziona anche a livello di tatto e perfino di odorato. La guerra si compie e persegue le proprie prassi agendo sui sensi, lavorandoli con cura affinch comprendano il mondo selettivamente, smorzando laffetto in risposta a certi suoni ed immagini e rafforzando la risposta affettiva verso altri. Ecco perch la guerra riesce a indebolire una democrazia sensata, limitando ci che sentiamo e inducendoci a provare sgomento e indignazione di fronte a unespressione di violenza, legittima indifferenza di fronte a unaltra violenza. La nostra capacit di rispondere con lindignazione dipende dalla tacita consapevolezza che una vita degna di considerazione stata ferita o perduta nel contesto della guerra. Ma come e se con ciascuno di noi avviene lincontro, come le nostre vite vengono accolte, dipende fondamentalmente dalle reti e dai circuiti sociali e politici in cui si trova a vivere questo corpo, da come vengo considerato e trattato, e da come quella considerazione e quel trattamento facilitino questa vita o falliscano nel rendere questa vita vivibile. Per esempio, le norme di genere attraverso le quali riesco a comprendere me stesso, o meglio, la mia sopravvivibilit, non sono fatte solo da me. Quando cerco di fare il punto su chi sono io, sono gi nelle mani dellaltro. Ne deriva, dunque, che alcuni tipi di corpi appariranno in modo pi precario di altri, a seconda di quali versioni del corpo, della morfologia in generale, confermano o sottoscrivono lidea di vita umana meritevole di protezione e di riparo, degna di vita, degna di lutto. Ma se noi siamo esseri sociali, e la nostra sopravvivenza dipende da un riconoscimento di interdipendenza, allora io non sopravvivo come essere isolato e limitato, ma come essere il cui confine la condizione del collegamento. Il confine di chi sono io il confine del mio corpo, ma il confine del corpo non appartiene mai completamente a me. La sopravvivenza dipende meno dal confine del s che dalla socialit costitutiva del corpo. Ma la condizione di sopravvivenza come il corpo, considerato sociale sia nella sua superficie che nella sua profondit; esso anche ci che, in determinate circostanze sociali, mette a rischio le nostre vite e la nostra sopravvivibilit. Le forme di coercizione fisica sono precisamente limposizione non voluta di forza sui corpi: essere legato, imbavagliato, esposto forzatamente, abitualmente umiliato. Ci si potrebbe chiedere, allora: cosa giustifica, ammesso che ci sia qualcosa, la sopravvivibilit di coloro la cui vulnerabilit fisica stata sfruttata in questo modo? Naturalmente, che il corpo di una persona non sia mai del tutto sua propriet, che sia delimitato e autoreferenziale, la condizione dellincontro appassionato, del desiderio, dellattesa e di quei modi di relazionarsi da cui dipende il sentimento dellessere vivi. Ma lintero mondo del contatto non voluto deriva anche dal fatto che il corpo trova la sua sopravvivibilit in uno spazio e in un tempo che sono sociali; proprio questa esposizione o spossessamento ci che viene sfruttato nel caso della coercizione non voluta, della costrizione, della lesione fisica, della violenza. Nel tempo che ci rimane, vorrei riflettere sul problema della sopravvivibilit in condizioni di guerra, rifacendomi brevemente a una raccolta pubblicata di recente, Poesie da Guantnamo, che include ventidue poesie sopravvissute alla censura del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Quasi tutti i versi scritti dai detenuti di Guantnamo, invece, sono stati distrutti o confiscati e non era certo previsto che alcuni di essi finissero nelle mani degli avvocati e degli operatori umanitari che sono riusciti a realizzare questo sottile volume. Sembra che il personale militare abbia distrutto ben 25.000 versi scritti da Shaikh Abdurraheem Muslim Dost. Nellesporre le sue ragioni per la distruzione e la censura delle poesie, il Pentagono ha affermato che esse costituivano un rischio particolare alla sicurezza nazionale a causa della loro forma e del loro contenuto1. A questo punto bisogna chiedersi: cosa c nel contenuto e nella forma delle poesie da apparire cos incendiario? Come pu essere che la sintassi o la forma di una composizione poetica vengano percepite come una minaccia alla sicurezza della nazione? Perch le poesie attestano la tortura? Perch le poesie criticano attivamente gli americani, le loro false affermazioni di essere i protettori della pace, il loro odio irrazionale nei confronti dellIslam? Quelle affermazioni potevano essere

fatte negli editoriali o in prosa, allora cosa c nella poesia che la fa sembrare particolarmente pericolosa? C un componimento che si intitola Umiliato in catene di Sami al Haj, torturato nelle prigioni americane di Bagram e di Kandahar prima di essere trasferito a Guantnamo, da dove stato rilasciato nel maggio 2008. Ecco due strofe della sua poesia: Sono stato umiliato in catene Come posso adesso comporre versi? Come posso scrivere? Dopo le catene e le notti e la sofferenza e le lacrime Come posso scrivere poesie?2 Al Haj afferma di essere stato torturato e chiede come pu ancora creare parole, fare poesia, dopo una tale umiliazione. Eppure, proprio il verso in cui mette in dubbio la sua capacit di fare poesia che diventa poesia. Il verso mette in scena ci che al Haj non riesce a comprendere. Scrive la poesia, ma la poesia non pu fare altro che mettere in discussione esplicitamente la condizione della sua stessa possibilit. Come pu un corpo torturato dare forma a queste parole? Al Haj si chiede anche come pu una poesia venire da un corpo torturato e come fanno le parole ad affiorare e a sopravvivere. Le sue parole si muovono dalla condizione di tortura, una condizione di coercizione, per dare vita a un discorso. lo stesso corpo quello che subisce la tortura e che crea le parole sulla pagina? La formazione di quelle parole legata alla sopravvivenza, alla capacit di sopravvivere, o sopravvivibilit. Ricordiamo che allinizio della loro detenzione, i prigionieri di Guantnamo scrivevano brevi componimenti sulle tazze in polistirolo in cui venivano serviti loro i pasti. Alcuni usavano piccole pietre o sassi per incidere le loro parole sulle tazze, passandosele di cella in cella. Le parole venivano incise su tazze che erano in polistirolo, e dunque un materiale non solo economico, lemblema stesso delleconomicit, ma anche morbido, in modo che i prigionieri non avessero accesso a vetro o ceramiche che avrebbero potuto facilmente utilizzare come armi. A volte usavano anche la pasta dentifricia come strumento per scrivere. Pare che in seguito i detenuti abbiano ricevuto carta e penna, come segno di trattamento umano, ma quegli scritti furono per la maggior parte distrutti. Alcuni dei componimenti sono duri commenti politici. Per esempio, la poesia di apertura di Shaker Abdurraheem Aamer: Pace, dicono. Pace della mente? Pace sulla terra? Che genere di pace? Li vedo parlare, discutere, combattere Che genere di pace vanno cercando? Perch uccidono? Cosa hanno in testa? Sono solo parole? Perch discutono? cos facile uccidere? questo il loro piano? S, certo! Loro parlano, loro discutono, loro uccidono Loro combattono per la pace.3

con sagace ironia che Aamer conclude dicendo: loro combattono per la pace. Ma ci che caratterizza questo componimento il numero di domande che lautore mette in forma poetica, che formula ad alta voce, e il mix di orrore e ironia nella domanda al centro della poesia: cos facile uccidere?. I versi di Aamer si muovono fra confusione, orrore e ironia e terminano con la denuncia dellipocrisia dellesercito americano. La sua poesia mette a nudo lo scisma nella razionalit pubblica dei suoi aguzzini: torturano in nome della pace, uccidono in nome della pace. Ovviamente, noi non sappiamo quali potevano essere la forma e il contenuto dei versi che hanno subito la censura, ma questo componimento sembra incentrarsi sulla domanda schietta e reiterata, su un orrore insistente, su un impulso alla denuncia. (In realt, sono poesie che utilizzano generi lirici appartenenti alla scrittura coranica e tratti formali della poesia nazionalista araba, il che significa che sono citazioni e dunque, quando un poeta parla, evoca una tradizione di parlanti che in quel momento, anche metaforicamente, vengono riconosciuti come suoi compagni). Lo scisma irragionevole che struttura lambito affettivo militare non pu spiegare il proprio orrore di fronte al danno subito e alla perdita della vita per quelle popolazioni che rappresentano la nazione-stato legittima e il suo legittimo piacere nel vedere lumiliazione e la distruzione di quelle popolazioni che non sono organizzate sotto il segno della nazione-stato. Le vite dei reclusi a Guantnamo non vengono neppure considerate vite umane protette dal discorso sui diritti umani. I poemi rappresentano un tipo diverso di sensibilit morale, una sorta di interpretazione che, in determinate circostanze, pu contestare e fare esplodere lo scisma dominante che attraversa lideologia nazionale e militare. Le poesie costituiscono ed esprimono la capacit di risposta morale a un fondamento logico militare che ha limitato la propria sensibilit morale alla violenza in modi incoerenti e ingiusti. Dunque, possiamo chiedere: che affetto viene comunicato verbalmente da queste poesie, e qual la serie di interpretazioni trasmesse attraverso i componimenti in forma di affetto, inclusi il desiderio e la rabbia? Il potere travolgente del lutto, della perdita e dellisolamento diventa uno strumento poetico di contro-insurrezione e perfino una sfida alla sovranit individuale. Ustad Badruzzaman Badr scrive: Il vortice delle nostre lacrime/si sta dirigendo veloce verso di lui/Nessuno pu resistere alla forza di questonda.4 Nessuno pu resistere, eppure queste parole giungono a noi, come segni di uninsondabile sopportazione. Nella poesia intitolata Scrivo il mio desiderio segreto di Abdulla Majid al Noaimi, ogni strofa strutturata attraverso il ritmo della sofferenza e dellappello: Ho una costola rotta, e non posso trovare nessuno che mi guarisca/Il mio corpo fragile, e non riesco a vedere nessun sollievo davanti a me. Ma forse il verso pi curioso quello al centro della poesia, dove scritto: Le lacrime del desiderio di qualcun altro mi stanno toccando;/Il mio petto non pu contenere limmensit dellemozione.5 Di chi il desiderio che sta toccando colui che parla? Si tratta delle lacrime di qualcun altro, dunque le lacrime non sembrano essere le sue o, almeno, non solo le sue. Forse appartengono a ognuno dei prigionieri del campo, o forse a qualcun altro, ma stanno toccando lui; egli trova dei sentimenti altrui dentro di s a suggerirgli che persino nellisolamento pi radicale sente ci che sentono gli altri. Non conosco la sintassi delloriginale arabo, ma in inglese, Il mio petto non pu contenere limmensit dellemozione suggerisce che lemozione non solo la sua, ma unimmensit o una magnitudine di emozione che pu originare senza alcuna persona. Le lacrime del desiderio di qualcun altro lui sembra essere spossessato da queste lacrime che scendono in lui, ma che non sono solo le sue. E dunque, cosa ci dicono queste poesie sulla vulnerabilit e sulla sopravvivibilit? Si interrogano su quali siano i tipi di enunciato possibili ai limiti del dolore, dellumiliazione, del desiderio e della rabbia. Le parole sono intagliate nelle tazze, sono scritte su carta, sono spinte alla superficie, uno sforzo di lasciare un segno, una traccia, di un essere umano, addirittura, direi, un segno formato da un corpo, un segno che contiene la vita del corpo. E anche quando ci che accade a un corpo qualcosa a cui non si pu sopravvivere completamente, le parole sopravvivono, per dirlo. Questa

anche poesia testimonianza, poesia appello, e ogni parola infine destinata ad unaltra. Le tazze vengono passate fra le celle; le poesie vengono fatte uscire dal campo clandestinamente. Esse sono appelli. Sono sforzi di ri-stabilire la socialit del mondo, anche quando non c ragione concreta per pensare che sia possibile una qualsiasi connessione simile. Nella postfazione alla raccolta Ariel Dorfman paragona gli scritti dei poeti di Guantnamo agli scrittori cileni sotto il regime di Pinochet. Sebbene sia conscio dei modi in cui la poesia trasmetta le condizioni del campo, richiama lattenzione a qualcosaltro riguardo alle poesie. Scrive:
Quello che avverto che la fonte suprema di queste poesie da Guantnamo la semplice, quasi primordiale, aritmetica dellinspirare ed espirare. Lorigine della vita, della lingua, della poesia tutta l, nel primo respiro, in ogni respiro come se fosse il primo, lanima, lo spirito, ci che inspiriamo, ci che espiriamo, ci che ci separa dallestinzione, attimo dopo attimo, ci che ci tiene in vita mentre inspiriamo ed espiriamo luniverso. E la parola scritta non altro che il tentativo di rendere quel respiro permanente e sicuro, di scolpirlo nella roccia, di marcarlo su un pezzo di carta, di segnarlo su uno schermo, in modo che la sua cadenza resista oltre noi, duri pi del nostro stesso respiro, spezzi le catene della solitudine, trascenda il nostro corpo transeunte e tocchi qualcuno con le sue acque.6

Il corpo respira, respira s stesso nelle parole e vi trova una qualche provvisoria sopravvivenza. Ma quando il respiro si trasforma in parole, allora il corpo viene affidato a un altro, sotto forma di appello. Nella tortura si sfrutta la vulnerabilit del corpo alla sottomissione; si abusa del fatto dellinterdipendenza. Il corpo che esiste nella sua esposizione e nella sua prossimit agli altri, alla forza esterna, a tutto ci che pu soggiogarlo e sottometterlo, vulnerabile alle lesioni; le lesioni sono lo sfruttamento di tale vulnerabilit. Ma ci non significa che la vulnerabilit pu essere ridotta a esposizione ai danni. In queste poesie, il corpo anche ci che continua a vivere, che respira, che cerca di scolpire il proprio respiro nella pietra; il suo respiro precario pu essere arrestato dalla forza della tortura di un altro. Ma se questo stato precario pu diventare condizione di sofferenza, pu anche diventare condizione di ricettivit, di una formulazione di affetto, inteso come atto radicale di interpretazione di fronte alla soggiogazione non voluta. Nelle poesie sentiamo la capacit di sfondare le ideologie dominanti che giustificano la guerra attraverso il ricorso a legittime invocazioni di pace; la poesia cerca di confutare e denunciare le parole di chi tortura in nome della libert e uccide in nome della pace. Questo ci dice due verit diverse sul corpo: come corpi noi siamo esposti agli altri, e ci pu essere la condizione del nostro desiderio, ma anche la possibilit di una soggezione alla crudelt e alla sottomissione; deriva dal fatto che i corpi sono legati agli altri, attraverso i bisogni materiali, attraverso il tatto, la lingua, attraverso una serie di relazioni senza le quali non possiamo sopravvivere. Ma che la sopravvivenza del singolo sia legata agli altri in questo modo un rischio costante di socialit la sua promessa e la sua minaccia. Il fatto di essere legato agli altri determina la possibilit di essere assoggettati, ma anche la possibilit di essere liberati dal dolore, di conoscere la giustizia e perfino lamore. Le poesie sono piene di desiderio; danno voce al corpo carcerato mentre fa il suo appello; il suo respiro ostacolato, ma continua a respirare. Lappello della poesia un appello alla vita, una richiesta e uno strumento di sopravvivenza, ma anche un appello a un altro senso di solidariet, di vite interconnesse che portano avanti le parole le une delle altre, soffrono le lacrime le une delle altre e formano reti che presentano un rischio incendiario non solo alla sicurezza nazionale, ma alle forme di sovranit globale difese dagli Stati Uniti. Forse queste reti di affetti transitivi prodotte dalle poesie costituiscono la forma e il contenuto della loro sfida alla sicurezza nazionale e alle sue probabili rivendicazioni di sovranit. Dire che le poesie si oppongono a quella sovranit non significa che le poesie cambieranno il corso della guerra o che alla fine si dimostreranno pi potenti del potere militare dello stato. Tuttavia, le poesie emergono da scene di straordinaria vulnerabilit allassoggettamento, e quasi ogni poeta

sottolinea con stupore che le parole della poesia emergono da una tale condizione. Ma eccole, dimostrazioni di una vita ostinata, vulnerabile, sopraffatta, loro o altrui vita spossessata, furiosa e perspicace. Sono anche interessanti formazioni di affetto che hanno chiaramente delle conseguenze politiche. Gli affetti sono comunicati, sono comunicabili e formano un tipo di rete di affetto transitivo che produce unalleanza emotivamente e politicamente pregnante nel mezzo dellisolamento fisico. Questi scritti esprimono chiaramente orrore e rabbia di fronte a uningiusta capacit distruttiva militare. In questo senso, sono atti appassionati di interpretazione resi come linguaggio, atti che denunciano come lesercito americano trasformi le espressioni omicidio e tortura gratuiti in legittima difesa di pace e libert. In questo senso, le poesie sono atti critici di resistenza, di interpretazioni contro-insurrezionali, atti incendiari che in qualche modo, incredibilmente, vivono attraverso la violenza a cui si oppongono, bench, alla domanda se alla fine riusciranno a sopravvivere non ci sia risposta.
1

Marc Falkoff, Appunti su Guantnamo in Poesie da Guantnamo. La parola ai detenuti, a cura di Mark Falkoff, Ega, 2008. p. 19. Titolo originale: Poems from Guantnamo. The Detainees Speak. Edited by Mark Falkoff, University of Iowa Press, 2007. Tutti i riferimenti e la traduzione italiana delle poesie sono ripresi dalla presente edizione. 2 Op. cit., p. 56 3 Op. cit., p. 34 4 Op. cit., p. 42 5 Op. cit., p. 74 6 Op. cit., p. 87

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