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Da Platone a Tocqueville.

Tredici lezioni sui classici del pensiero etico-politico, di Stefano De Luca


Presentiamo on-line sul nostro sito, per gentile concessione, le dispense preparate dal prof. Stefano De Luca, docente di Storia delle dottrine politiche presso l'Universit suor Orsola Benincasa di Napoli e presso l'Universit La Sapienza di Roma (Facolt di Filosofia, Lettere, Scienze umane e studi orientali). come sussidio di riferimento per il corso istituzionale. Il Centro culturale Gli scritti (23/12/2010)

Indice
Premessa 1. Platone 2. Aristotele 3. Agostino 4. Tommaso 5. Machiavelli 6. Hobbes 7. Locke 8. Rousseau 9. Kant 10. Constant 11. Hegel 12. Marx 13. Tocqueville Note al testo

Premessa
Nelle pagine che seguono il lettore trover i testi delle lezioni da me tenute presso la Fondazione Nuovo Millennio, nel quadro di un corso di storia del pensiero politico. Tale corso, articolato in dodici lezioni, aveva lo scopo di fornire, ad un pubblico di non-specialisti, un profilo generale e sintetico del pensiero etico-politico occidentale, attraverso quelli che possono essere considerati i momenti salienti del suo sviluppo. Inutile dire che un corso cos concepito mi ha posto dinanzi a due compiti assai difficili: il primo stato quello di costringere i grandi classici della filosofia politica nel numero di dodici, con l'inevitabile sacrificio di personaggi di primo piano (due esempi per tutti: Agostino e Montesquieu); il secondo stato quello di riuscire, nel brevissimo tempo a disposizione per ogni singolo autore, a dire qualcosa di significativo, senza cadere negli specialismi e, al tempo stesso, senza scolorire nella genericit. Quanto al primo problema, non ho molto da dire: la scelta dei classici sotto gli occhi del lettore; mi limito a sottolineare che la decisione di non andare oltre la seconda met dell'Ottocento risponde al bisogno di fornire agli studenti quei capisaldi della nostra tradizione culturale che sempre pi spesso vengono sacrificati sull'altare di un'attualit tanto effimera quanto superficiale. Quanto al secondo problema, ho cercato di risolverlo facendo due scelte ben precise: anzitutto, andare diritto, per ogni autore, ai grandi nuclei concettuali, sforzandomi di restituirne, in un linguaggio chiaro e asciutto, la struttura teorica nella sua essenzialit

(senza appesantimenti, dunque, ma anche senza eccessive semplificazioni); in secondo luogo, pur nei limiti del tempo a disposizione, ascoltare gli autori dalla loro stessa voce, attraverso un'attenta selezione di testi. Inutile dire, infine, che questo lavoro, dovendo spaziare su un periodo cos vasto, ha grandi debiti verso l'opera di alcuni importanti studiosi: in particolare, esso deve molto, per la parte antica e medievale, agli studi di Francesco Valentini, e per la parte moderna alle monografie di Norberto Bobbio e di Giuseppe Bedeschi. Date queste spiegazioni, penso che sia pressoch superfluo sottolineare i limiti entro i quali si muove il presente lavoro: esso non contiene nulla di pi che tredici[*]sintetici profili di grandi pensatore politici. Ogni capitolo in realt una lezione, con tutte le caratteristiche, i pregi e i difetti di qualcosa di pensato per la comunicazione orale e non per la scrittura. E sebbene abbia sottoposto questi testi ad un'attenta revisione, non ho comunque inteso trasformarli in qualcosa di diverso da ci che erano originariamente. La mia unica speranza che essi costituiscano, per chi li legger, l'occasione di ascoltare nuovamente la lezione dei grandi classici e di meditarla. Roma, 7 gennaio 1998 Stefano De Luca

1. Platone
Cenni biografici
Platone nasce ad Atene nel 428/427 a.C. da famiglia di antica nobilt. Intorno al 408 probabilmente conosce Socrate. Nel 399, in seguito alla condanna a morte di Socrate ad opera del tribunale popolare di Atene, Platone si allontana dalla vita politica e si reca a Megara con un gruppo di altri socratici. Nel 388/387 Platone viaggia in Magna Grecia, dove conosce i pitagorici, e soggiorna presso Dioniso I (tiranno di Siracusa), stringendo amicizia con il cognato Dione. Il suo ritorno in patria sar assai avventuroso, perch Dioniso, irritato con lui, avrebbe dato ordine di sbarcarlo a Egira, allora in guerra con Atene. Nel 386 e negli anni seguenti viene fondata l'Accademia. La scuola viene consacrata al culto delle Muse e di Apollo: ne fanno parte Speusippo, il nipote di Platone, Senocrate, Eudosso e, successivamente, Aristotele. Nel 367 muore Dioniso di Siracusa e Platone accetta l'invito a recarsi in Sicilia presso il giovane successore Dioniso II; il tentativo di riforma in senso aristocratico, caldeggiato da Dione, fallisce e il ritorno di Platone ad Atene, ostacolato, avverr solo nel 365. Nel 361, dietro pressante sollecitazione, Platone accetta nuovamente di recarsi a Siracusa, dove tuttavia non riesce ad ottenere il richiamo di Dione dall'esilio e dove va incontro ad un nuovo fallimento politico. E' tenuto prigioniero da Dioniso II e solo con l'aiuto degli amici di Taranto riuscir a sottrarsi al tiranno. Muore nel 348/347, a 81 anni. Delle opere di Platone, secondo la tradizione, rimangono un'Apologia di Socrate, 34 dialoghi e 13 lettere.

Il pensiero politico
All'origine della filosofia platonica sta un problema eminentemente etico-politico: il "problema Socrate". Se non partiamo dalla condanna a morte di Socrate - avvenuta nel 399 a.C., quando Platone ha, all'incirca, 28 anni - non possiamo comprendere la riflessione di Platone, perch proprio da quel drammatico evento che quest'ultima prende le mosse. Alcuni critici arrivano a sostenere che l'intera filosofia platonica consista, in

ultima analisi, nel tentativo di chiarire a s e agli altri il "problema Socrate". Anzi, forse potremmo dire lo "scandalo Socrate". Cosa era accaduto, infatti? Era accaduto che l'uomo pi giusto del suo tempo, come lo definisce lo stesso Platone, colui che aveva dedicato la sua vita alla ricerca filosofica - praticando come nessun altro la virt, il sapere e la giustizia -, era stato accusato del contrario, ossia di essere un uomo empio e corruttore, pericoloso per i suoi concittadini e il suo Stato; e per tale ragione era stato condannato a morte. La verit "scandalosa" contenuta della vicenda di Socrate l'evidente incompatibilit tra filosofia e politica. E poich filosofia significa sapere - e il sapere, nella concezione platonica, coincide con la virt e con la giustizia - allora evidente che la politica si separata tanto dalla virt, quanto dalla giustizia. Lo Stato che condanna un uomo come Socrate insomma uno Stato ingiusto. Non a caso, dunque, il problema centrale della riflessione platonica sar quello di fondare uno Stato giusto; e tale obiettivo fa dell'intera filosofia platonica, come ricordavo poco fa, un tentativo di risolvere il "problema Socrate". La condanna di Socrate si inserisce in un contesto gi fortemente negativo. La seconda met del V sec. a.C. era stata caratterizzata dalle guerre peloponnesiache, l'ultima delle quali, conclusasi nel 404, aveva sancito la disfatta di Atene e la sua sottomissione a Sparta. Nello stesso anno il regime democratico veniva sostituito, ad Atene, da un regime oligarchico, che divenne poi noto con il nome di regime dei Trenta tiranni; quest'ultimo, a sua volta, dur ben poco, giacch appena un anno pi tardi Trasibulo restaur la democrazia. Fu tuttavia proprio il regime democratico a mettere a morte Socrate. Come si pu comprendere, sia pure da questi rapidissimi cenni, quelli della giovinezza di Platone sono anni di drammatico disordine politico, che segnano la fine dello splendore e dell'egemonia ateniese, nonch il progressivo disfacimento dell'unit stessa della polis. Platone profondamente segnato, anche sul piano personale, da questi eventi. Ascoltiamo come egli stesso descrive la sua vicenda. Quando ero giovane, io ebbi un'esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica, non appena fossi divenuto padrone di me stesso. Ora mi avvenne che questo capitasse allora alla citt: il governo, attaccato da molti, pass in altre mani, e cinquantuno cittadini divennero i reggitori dello Stato [...]; sopra costoro, trenta magistrati con pieni poteri. Tra costoro erano alcuni miei familiari e conoscenti, che subito mi invitarono a prendere parte alla vita pubblica, come ad attivit degna di me. Io credevo veramente (e non c' niente di strano, giovane come ero) che avrebbero purificata la citt dall'ingiustizia traendola ad un viver giusto, e perci stavo ad osservare attentamente che cosa avrebbero fatto. Mi accorsi subito che in poco tempo fecero apparire oro il governo precedente: tra l'altro, un giorno mandarono, insieme con alcuni altri, Socrate, un mio amico pi vecchio di me, un uomo che io non esito a definire il pi giusto del suo tempo, ad arrestare un cittadino per farlo morire, cercando in questo modo di farlo loro complice, volesse o no; ma egli non obbed, preferendo correre qualunque rischio che farsi complice di empi misfatti. Io allora, vedendo tutto questo, e ancora altri simili gravi misfatti, fui preso da sdegno e mi ritrassi dai mali di quel tempo. Poco tempo dopo cadde il governo dei Trenta e fu abbattuto quel regime. E di nuovo mi prese, sia pure meno intenso, il desiderio di dedicarmi alla vita politica. [...] Bisogna riconoscere che gli uomini allora ritornati furono pieni di moderazione. Se non che accadde poi che alcuni potenti intentarono un processo a quel mio amico, a Socrate, accusandolo di un delitto nefandissimo, il pi alieno dall'animo suo: lo accusarono di empiet, e fu condannato, e lo uccisero, lui che non aveva voluto partecipare all'empio arresto di un amico degli esuli d'allora, quando essi pativano fuori della patria. Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le leggi e i costumi, quanto pi li esaminavo ed avanzavo nell'et, tanto pi mi sembrava che fosse difficile partecipare all'amministrazione dello Stato, restando onesto. Non era possibile far nulla senza amici e compagni fidati, e d'altra parte era difficile trovarne tra i cittadini di quel tempo, perch i costumi e gli usi dei nostri padri erano scomparsi dalla citt, e impossibile era trovarne di nuovi con facilit. Le leggi e i costumi si corrompevano e si dissolvevano straordinariamente, sicch io, che una volta desideravo moltissimo di partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completamente sconvolto, finii per sbigottirmene. Continuavo, s, ad osservare se ci potesse essere un miglioramento, e soprattutto se potesse migliorare il governo dello Stato, ma per agire, aspettavo sempre il momento opportuno, finch alla fine m'accorsi che tutte le citt erano mal governate, perch le loro leggi non potevano essere sanate senza una meravigliosa preparazione congiunta con una buona fortuna, e fui costretto a dire che solo la retta filosofia rende possibile vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli

privati [...]. Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero pervnuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle citt non fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi. Penso che la straordinaria ricchezza di questo brano giustifichi la lunghezza della citazione. In esso possiamo infatti rintracciare tutti gli elementi che concorrono a determinare la posizione di Platone: la passione di fondo per la politica, la delusione derivante dell'esperienza oligarchica, la rinnovata fiducia (anche se meno intensa) determinata dal ristabilimento della democrazia, infine il dramma del processo a Socrate, con il definitivo allontanamento dalla vita pubblica. Platone si dichiara sbigottito: la crisi politica gli si rivela, in realt, come una crisi civile ed etica. Leggi, costumi e vita politica sono travolte da una corruzione straordinaria, e tale crisi si estende al di l della stessa Atene, per investire l'intera civilt greca delle poleis, ossia delle citt-Stato. Di qui nasce la convinzione che solo una profonda riflessione filosofica possa risolvere la crisi politica: solo la filosofia, secondo Platone, infatti in grado di sollevarsi al di l delle mutevoli opinioni, per individuare con certezza ci che giusto. Filosofia e politica devono perci essere strettamente congiunte, al punto che la fine delle sciagure, come dice Platone, collegata all'arrivo al potere della filosofia. La filosofia deve farsi potere: o i filosofi diventano capi politici, o questi ultimi diventano buoni filosofi. Solo cos il problema politico potr essere risolto. In queste posizioni affiorano due punti fondamentali. In primo luogo, la politica appare come il motivo ispiratore della riflessione platonica; non a caso, alcuni studiosi hanno sostenuto che quest'ultima sarebbe il risultato di una vocazione politica mancata: l'idealista sublime, l'utopista, il mistico avrebbe sempre tenuto gli occhi sulla citt terrena, ansioso di renderla conforme a ragione e a virt[2]. In questa aspirazione alla conformit tra ragione e virt possiamo rintracciare, in secondo luogo, la "catena di identit" che sta al fondo del pensiero platonico: virt, sapere e politica sono indisgiungibili. La virt concide infatti con il sapere e, al tempo stesso, con il vivere giusto, con la vita politica; dunque la politica anche sapere. Il problema conoscitivo o scientifico (il sapere) congiunto con il problema etico (la virt) e con quello politico (l'ordine politico giusto). Non a caso, nella Repubblica troveremo tali dimensioni strettamente intrecciate tra di loro; ma prima di esaminare l'opera politica della maturit - e forse la pi organica - ci soffermeremo, molto brevemente, sul Gorgia; concluderemo infine con il Politico e con le Leggi, che costituiscono le opere della vecchiaia. Nel Gorgia troviamo una serie di temi importanti. In primo luogo, la condanna dell'azione politica degli Ateniesi si estende anche a rappresentanti di primo piano come Temistocle, Cimone, Milziade e lo stesso Pericle. Vi sono qui chiari accenti anti-democratici: l'espansione di Atene, negli anni della democrazia periclea, costituisce, agli occhi di Platone, la causa dei mali attuali. Per illustrare la sua posizione, Platone ricorre ad un parallelo con la medicina[3]: gli ateniesi di oggi, egli dice, sono come coloro i quali si sono ammalati per eccesso di stravizie alimentari e, invece di prendersela con i cuochi, se la prendono con i medici che cercano di rimediare alla loro indigestione. Fuor di metafora: se Atene oggi malata, ci dipende dalla dissennata politica democratica che l'ha riempita senza temperanza e senza giustizia di porti, cantieri, mura, tributi e simili inezie. Gli eccessi democratici (eccessi di sviluppo economico) hanno fatto s che il corpo sano della citt si ammalasse: si tratta di un concetto fondamentale, sul quale torner in seguito, giacch in esso si manifesta la concezione negativa della ricchezza (e, in un certo senso, dello sviluppo economico) che caratterizza il pensiero di Platone. Ma Platone svolge un'ulteriore considerazione, sulla quale vale la pena di soffermarsi. Quando la citt tratta uomini politici come colpevoli, sento che questi si sdegnano e si lamentano di patire un gran torto; dopo aver fatto grandi benefici alla citt, essi vengono condannati ingiustamente, come dicono loro; ma tutta menzogna. Nessuno che governi una citt pu perire ingiustamente per opera di essa. E' presso a poco lo stesso caso di quelli che pretendono di essere uomini politici e maestri di retorica. Anche questi, persone dotte del resto, commettono tali assurdit: affermano di essere maestri di virt e spesso accusano i loro discepoli di fare ingiuria proprio a loro, privandoli dello stipendio e negando loro il ricambio di qualche favore, pur essendo stati beneficati da essi. Che cosa di pi irragionevole di un simile discorso? Ossia di uomini che, divenuti buoni e giusti, mondati dell'ingiustizia per opera del loro maestro e in possesso della giustizia, facciano ingiuria con ci che non hanno!

Gli uomini politici, come i rtori - dice in sostanza Platone - ricevono ci che hanno seminato. Non forse contraddittorio sostenere di avere insegnato la virt e di ricevere, in cambio di ci, comportamenti non virtuosi? Attraverso queste considerazioni emerge la dura polemica di Platone contro sofisti; non possiamo soffermarci a lungo su questo tema, ma qualcosa dovremo dire. La sofistica si sviluppa tra il culmine della civilt ateniese e i primi sintomi della sua decadenza: mentre un tempo 'sofista' era semplicemente 'colui che sa' ed in grado di comunicare il suo sapere - insomma sofista era il sapiente in senso generale, e quindi anche il poeta, il letterato -, ora sofista sta ad indicare un insegnante (in genere di retorica), che trasmette a pagamento le proprie conoscenze ed abilit. I sofisti offrono, nella seconda met del V secolo, una formazione che risponde alle esigenze individualistiche di una societ in pieno sviluppo economico-culturale: tale formazione si incentra sull'uomo e sulle sue capacit effettive, mettendo da parte, come irrisolvibili, tanto il problema religioso (Protagora scrive: riguardo agli Di, non ho la possibilit di accertare n che sono, n che non sono, opponendosi a ci molte cose: l'oscurit dell'argomento e la brevit della vita umana), quanto quello conoscitivo e ontologico. Vale a dire: come non vi alcuna possibilit di accertare o meno l'esistenza degli Di, cos non vi alcuna possibilit di rinvenire un criterio di verit assolutamente valido, n vi la possibilit di cogliere le strutture reali dell'essere, della realt. Almeno con Gorgia arriviamo a questa posizione. Di qui il ruolo cruciale della retorica - anche per la natura politica delle citt ateniesi, che implicava il confronto pubblico attraverso discorsi - come arte del discorso e della persuasione, nonch la tendenza a proporre un sapere strumentale, che si proponeva esclusivamente di fornire all'individuo i mezzi per affermarsi. La Sofistica, pur nelle sue diverse sfumature, aveva finito per proporre un'immagine "spregiudicata" del filosofo, come di colui che insegna, a pagamento, l'arte di sostenere e negare le stesse tesi, a seconda delle convenienze, senza alcuna preoccupazione morale o religiosa. E' Socrate il primo a distanziarsi dalla Sofistica: mentre per i sofisti il sapere (che non ha alcuna oggettivit) serve ai fini dell'affermazione personale, per Socrate esso serve a far emergere la consapevolezza di s, la scoperta non solo del valore intellettuale, ma anche di quello etico e spirituale. In ci consiste la virt: soltanto conoscendo noi stessi in profondit possiamo sapere ci che bene e ci che male. Tuttavia Socrate si paragona ad una levatrice: egli non pu insegnare la verit, ma solo aiutare a partorirla. Quella contro i sofisti , in Platone, una polemica costante. A loro va imputato, egli dice, il disprezzo di cui la filosofia circondata: essi l'hanno trasformata in un sapere illusorio, dove si afferma tutto e il contrario di tutto, privo di ogni ancoramento morale e di ogni verit. In tal modo essi hanno anche creato l'impressione cha la filosofia sia inutile. Ma i sofisti, secondo Platone, non sono filosofi (ossia amanti della sapienza e della verit), bens filodossi, ossia amanti dell'opinione: essi pensano di sapere, ma in realt non sanno niente. Viceversa, il vero filosofo attinge la verit, che si trova nella sfera intellegibile delle idee e non nel mondo mutevole e ingannevole della realt sensibile. Con la dottrina della reminiscenza e la teoria delle idee Platone supera il sapere socratico, che coincideva con la ricerca, senza poter addivenire ad affermazioni certe; Platone ha reso il sapere un oggetto definito e conoscibile, per cui la filosofia si configura come una scienza e non una mera opinione. Il vero filosofo, possedendo la scienza delle idee (al cui interno l'idea di bene svolge il ruolo di "sole") sar anche il vero politico, perch sar l'unico che potr rendere migliori i cittadini. Platone ha infatti una concezione "educativa" della politica: il fine della politica consiste nel rendere migliori i cittadini. Al contrario Callicle - il suo interlocutore sofista all'interno del Gorgia - ha una visione utilitaristica della politica: quest'ultima ha infatti il fine di soddisfare gli interessi dei cittadini. Ma se i fini della politica sono educativi, il vero politico sar allora il sapiente, o meglio, il filosofo. Socrate il vero politico. Alle soglie della Repubblica, chiaro che la riforma dello Stato deve avvenire, in primo luogo, costruendo lo Stato ideale, vale a dire prescindendo, almeno per ora, dalla sua concreta realizzazione. Che lo Stato tracciato nella Repubblica sia uno Stato ideale esplicitamente affermato (e argomentato) dallo stesso Platone. Nel dialogo, come sempre, Platone affida a Socrate l'esposizione delle sue idee. E allora, feci io [Socrate], prima di tutto dobbiamo ricordarci che siamo giunti qui dove siamo, cercando che cosa sono la giustizia e l'ingiustizia. - S, dobbiamo ricordarcene; ma che cosa significa?, chiese. -

Niente: ma se scopriremo che cosa la giustizia, pretenderemo anche che l'uomo giusto non debba differirne in nulla, ma essere sotto ogni riguardo tale quale la giustizia? O ci contenteremo che le si accosti pi che pu e che ne partecipi molto pi degli altri? - Cos, disse; ci contenteremo. - Era dunque per cercare un modello, continuai, che cercavano cosa fossero la giustizia e l'uomo perfettamente giusto. Per illustrare ulteriormente la sua posizione, Platone fa anche l'esempio del pittore che dipinga il modello dell'uomo bellissimo; se dopo averlo dipinto, si potesse dimostrare che un tale uomo non esiste, si dimostrebbe forse con ci che il pittore meno bravo? Certamente no. Dunque Platone parla consapevolmente di uno Stato "ideale"; ma ci non diminuisce affatto il suo valore. Anzi: ci che costituisce la sua idealit la sua verit, perch ne fa il modello cui approssimarsi. Tale modello risponder infatti alla domanda fondamentale di Platone - creare lo Stato giusto - rintracciando in cosa consista la giustizia sia nello Stato, sia nell'individuo. Ma vediamo quali sono le caratteristiche dello Stato platonico. Anzitutto come nasce: Secondo me, ripresi, uno Stato nasce perch ciascuno di noi non basta a se stesso, ma ha molti bisogni [...]. Cos per un certo bisogno ci si vale dell'aiuto di uno, per un altro di quello di un altro: il gran numero di questi bisogni fa riunire in un'unica sede molte persone che si associano per darsi aiuto, e a questa coabitazione abbiamo dato il nome di Stato. Come si pu vedere, l'origine dello Stato descritta in termini naturalistici e utilitaristici: lo Stato sorge dall'insufficienza delle forze individuali rispetto ai bisogni. Ognuno di noi ha bisogno degli altri: e ci lo conduce ad associarsi con i suoi simili e a fondare lo Stato. Quest'ultimo viene dunque fondato in nome del bisogno, dell'utilit e della non-autonomia del singolo. Platone passa quindi a vedere come si sviluppa lo Stato. Il concetto-chiave sempre quello di bisogno. In primo luogo, gli uomini hanno bisogno di nutrirsi, quindi di avere un abitazione e dei vestiti. Di qui la prima configurazione dello Stato platonico, composto da 3 o 4 individui: un agricoltore, un muratore, un tessitore e, al limite, un calzolaio. Sorge il problema del tipo di organizzazione che si dar al lavoro: ogni individuo dovr provvedere personalmente a tutti i propri bisogni, oppure sar bene che ognuno di essi si "specializzi" in un mestiere, provvedendo, per quel ramo, anche ai bisogni degli altri individui? Platone si schiera risolutamente per la seconda ipotesi, affermando quindi con forza il principio della divisione del lavoro o della specializzazione. Tale scelta si basa su due considerazioni: in primo luogo, esiste una naturale diversit di talenti negli uomini, la quale fa s che ogni individuo abbia maggiori attitudini per un tipo di lavoro, piuttosto che per un altro; in secondo luogo, la specializzazione consente di migliorarsi, cosa che invece non pu accadere quando si devono svolgere funzioni diverse tra loro. Ma proprio in virt della divisione/specializzazione del lavoro, lo Stato platonico dovr allargarsi: ogni lavoratore, infatti, avr bisogno di determinati strumenti, che dovranno essere realizzati da individui appositamente specializzati. Di qui la seconda configurazione dello Stato: oltre ai quattro individui iniziali, vi sar bisogno di falegnami, fabbri e molti altri operai; vi sar anche bisogno di pastori. Lo Stato si fa dunque grande. Ed essendo grande molto difficile che i suoi bisogni possano essere soddisfatti integralmente dal mercato interno. Sorge la necessit di importare merci dall'esterno e dunque anche la necessit di esportare una quota delle proprie. Di qui la necessit di produrre un surplus di beni, il che implica la necessit di aumentare il numero dei contadini e degli operai; il tutto abbisogna poi di commercianti, che svolgano le attivit di esportazione e importazione. Dal commercio marittimo, poi, nasce un intero settore, con numerosi addetti. E cos via: lo Stato diventa sempre pi grande. Quello che ci interessa che Platone, dove aver dimostrato che lo Stato assume via via una configurazione molto estesa, conclude illustrando il suo regime di vita, il quale appare caratterizzato da un'estrema semplicit. Vediamo in che modo vivranno uomini cos organizzati. Non forse producendo alimenti, vino, abiti e calzature? E si costruiranno abitazioni e nella stagione calda lavoreranno per pi seminudi e scalzi, nella fredda ben vestiti e calzati. Si nutriranno di farine ricavate dall'orzo e dal frumento ora cuocendole ora

impastandole, e serviranno belle focacce e pani su canne o foglie pulite. Sdraiati su giacigli cosparsi di smilace e di mirto, banchetteranno bene in compagnia dei loro figlioli e ci berranno sopra vino, inghirlandati e cantando inni agli di, lieti di stare insieme. E non metteranno al mondo pi figli di quanto consentano i mezzi di vita, per timore della povert o della guerra. [...] Cos passeranno la vita, come naturale, in pace e buona salute, moriranno in tarda et e trasmetteranno ai discendenti un sistema di vita simile a questo. Di fronte a questo quadro di semplicit agreste, dal sapore arcaicizzante, interviene Glaucone, il quale, potremmo dire, fa avanti le esigenze del benessere: Se, o Socrate, avessi costituito uno Stato di porci, con quali altri cibi li avresti pasciuti, se non con questi? E allora, Glaucone, come si deve fare?, chiesi. - Adeguarsi all'uso comune, rispose. Per non sentirsi a disagio, dovranno stare sdraiati su letti, credo, e prendere i loro pasti a tavola, con quelle pietanze e quei pasticcini in uso anche oggid. La replica di Socrate a Glaucone assai interessante, perch contiene quella polemica contro la ricchezza e l'eccessivo sviluppo economico alla quale ho gi accennato[4]: Bene, risposi, comprendo. A quanto sembra, non vogliamo soltanto sapere come nasce uno Stato, ma uno Stato gonfio di lusso. Forse per non male, perch cos vedremo probabilmente come nascono negli Stati giustizia e ingiustizia. Lo Stato vero , a mio giudizio, quello di cui abbiamo parlato ora, uno Stato sano. Ma se voi volete che consideriamo anche uno Stato rigonfio, nulla ce lo impedisce. Platone prosegue enumerando i molti bisogni di uno Stato 'rigonfio' e le numerosissime categorie di uomini necessarie per soddisfarli; di qui un aumento esponenziale della popolazione, che rende insufficiente il territorio dello Stato per rispondere ai bisogni di quest'ultima. In breve: il bisogno di molte altre professioni condurr alla impossibilit, per il prodotto interno agricolo, di essere sufficiente. Di qui la necessit di stabilire delle colonie e quindi di fare la guerra. Da questa, in base al principio della specializzazione, la necessit di un esercito professionale. In conclusione: lo Stato sano risponde ai bisogni essenziali dei propri cittadini, senza moltiplicarli e sofisticarli eccessivamente; quando ci avviene, lo Stato si 'gonfia', si ammala, ed destinato a corrompersi. Le riflessioni sull'esercito professionale ci permettono di passare alla discussione sulle diverse 'classi' dello Stato: esse saranno tre (governanti, guerrieri o custodi, produttori), come in tre parti divisa l'anima (l'anima razionale, la cui virt la sapienza, l'anima irascibile, la cui virt il coraggio, e l'anima concupiscibile, che il principio di tutti gli impulsi corporei). Platone si sofferma soprattutto sulle classi dirigenti (governanti e custodi), perch da esse - nel suo modo di vedere - dipende principalmente la possibilit di uno Stato giusto. Vediamo anzitutto cosa dice sui guerrieri o custodi. In primo luogo, i custodi devono essere scelti tra coloro nei quali prevale l'anima irascibile; essi devono inoltre essere dotati fisicamente ed amanti della sapienza: [...] il nostro futuro ed eccellente guardiano dello Stato sar per natura filosofo, animoso, veloce e vigoroso. Tutto ci perch i guardiani dovranno essere coraggiosi e duri con i nemici esterni, ma miti con i propri concittadini. L'educazione che riceveranno li dovr mettere alla prova, per vedere se hanno memoria, se sono leali, se resistono alle tentazioni dei piaceri. Conclude Platone: e a chi superi le successive prove, nell'infanzia, nell'adolescenza e nella maturit, e risulti integro, si devono affidare il governo e la guardia dello Stato e conferire onori da vivo e da morto. Il fine essenziale che i custodi interiorizzino la norma secondo cui devono sempre agire per il bene supremo dello Stato. Qui Platone inserisce la famosa "menzogna della fratellanza". Quello di dire menzogne un atto che, ancora una volta, avvicina la medicina alla scienza politica. Se la verit va tenuta in gran conto, d'altra parte vero, dice Platone, che il falso rappresenta talvolta per gli uomini un farmaco; e come tutti i farmaci, il loro uso deve essere riservato ai medici e a nessun altro. Con una sola eccezione: se c'

qualcuno che ha il diritto di dire il falso, questi sono i governanti, per ingannare i nemici o i concittadini nel superiore interesse dello Stato. Premesso questo principio, Platone passa ad illustrare la "nobile menzogna" che necessario raccontare ai custodi e ai reggitori. Platone consapevole del fatto che tale menzogna urter il senso comune e quindi premette che sar necessario essere degli abili persuasori, perch gli interessati possano prestarle fede. Ma l'interlocutore lo invita a mettere da parte gli scrupoli e ad illustrare finalmente la sua idea. Ebbene, parlo: pure non so con quale coraggio o quali parole mi esprimer. Cercher di persuadere prima gli stessi governanti e i soldati, poi anche il resto dei cittadini, che tutta quell'educazione fisica e spirituale che noi davamo loro, essi credevano di sentirla e di riceverla, ma non erano che dei sogni; e veramente allora essi si trovavano entro la terra, gi plasmati ed allevati, essi stessi, le loro armi e, bello e fabbricato, tutto il resto del loro equipaggiamento. E quando in ogni dettaglio fu ultimata la loro preparazione, la terra loro madre li mise alla luce: ora essi sono tenuti a provvedere e a difendere la terra che abitano come fosse la loro madre e nutrice, se qualcuno l'assale, e a considerare gli altri cittadini come fratelli e "nati dalla terra". - Non era senza ragione, disse, che da un pezzo esitavi a dire questa menzogna. - Molto naturale! risposi; ciononostante ascolta anche il resto del mito. Continuando il racconto, diremo loro cos: voi, quanti siete cittadini dello Stato, siete tutti fratelli, ma la divinit, mentre vi plasmava, a quelli tra voi che hanno attitudine al governo mescol, nella loro generazione, dell'oro, e perci altissimo il loro pregio; agli ausiliari, argento; ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani. Per questa generale comunanza di origine dovreste generare figli per lo pi simili a voi; ma v' caso che da oro nasca prole d'argento e da argento prole d'oro, e cos reciprocamente nelle altre nascite. Perci la divinit ordina prima e particolarmente ai governanti di non essere di nessuno tanto buoni guardiani e di non custodire nulla con tanto impegno quanto i figli, osservando attentamente quale tra questi metalli si trova mescolato nelle anime loro; e se uno stesso loro figlio ha in s alla nascita bronzo o ferro, di non averne alcuna piet, ma di usare alla natura il riguardo dovutole e di respingerlo tra gli artigiani o tra gli agricoltori; e reciprocamente, se da costoro nascono figli che abbiano in s oro e argento, di rendere loro gli onori dovuti e d'innalzare quelli ai compiti di guardia, questi ai compiti di difesa [...]. La "nobile menzogna" riflette due esigenze tipicamente platoniche. La prima l'unit dello Stato, che anche il suo bene supremo, cos come il male supremo sta nella divisione, nelle discordie interne; da questo punto di vista, la comune origine determina la fratellanza dei cittadini e quindi stabilisce una sorta di vincolo familiare fra tutti costoro; in un certo senso, fa dello Stato un'unica famiglia. Ci dovrebbe determinare grande attaccamento allo Stato e grande collaborazione reciproca. L'altra esigenza che lo Stato sia aristocratico, ossia che in esso prevalgano i migliori: il fatto che ogni individuo riceva la propria natura prima di nascere - e con essa il proprio compito - fa s che la distinzione gerarchica dei ruoli sia assicurata, scoraggiando altres emulazioni e conflitti che sarebbero causa di discordie. I ruoli sono pre-destribuiti: ognuno nasce per andarsi a collocare in un ruolo ben preciso, che la natura gli ha assegnato; il tutto all'interno di un ordine ferreo. Ma l'educazione, prosegue Platone, non basta per avere dei buoni custodi; affinch ci avvenga, necessario che essi vengano messi in un regime di vita ben preciso. Prima di tutto nessuno deve avere sostanze personali, a meno che non ce ne sia necessit assoluta; nessuno deve poi disporre di un'abitazione o di una dispensa cui non possa accedere chiunque lo voglia. Riguardo alla quantit di provviste occorrenti ad atleti di guerra temperanti e coraggiosi, devono ricevere dagli altri cittadini, dopo averla determinata, una mercede per il servizio di guardia, in misura n maggiore n minore del loro annuo fabbisogno. Devono vivere in comune, frequentando mense collettive come se si trovassero al campo. Per quello che concerne l'oro e l'argento, occorre dire loro che nell'anima hanno sempre oro e argento divino, per dono degli di, e che non hanno alcun bisogno di oro e argento umano [...]. Anzi a essi soli tra i cittadini del nostro Stato non concesso di maneggiare e toccare oro e argento, e di entrare sotto quel medesimo tetto che ne ricopra; n di portarli attorno sulla propria persona n di bere da coppe d'argento e d'oro. E cos potranno salvarsi e salvare lo Stato. Di fronte al regime "comunistico" proposto per i custodi - un regime che esclude qualsiasi forma di possesso

personale - Adimanto rivolge a Socrate un'obiezione: ma saranno felici, in tal modo, i custodi? Essi, in fondo, pur possedendo lo Stato, non ne derivano quei vantaggi che tutti gli altri invece ne ritraggono. La risposta di Socrate fondamentale, perch rende esplicito come nello Stato platonico vi sia un primato assoluto dello Stato sull'individuo. Anzi, forse potremmo dire che per l'individuo non vi spazio alcuno, se non nello Stato e per lo Stato. Diremo - risponde Socrate - che non ci sarebbe affatto da meravigliarsi che anche cos costoro [i custodi] fossero molto felici. Pure, noi non fondiamo il nostro Stato perch una sola classe tra quelle da noi create goda di una speciale felicit, ma perch l'intero Stato goda della massima felicit possibile. [...] Ora, noi crediamo di plasmare lo Stato felice non rendendo felici alcuni pochi individui presi separatamente, ma l'insieme dello Stato. [...] Cos, per esempio, supponiamo che, mentre siamo intenti a dipingere una statua, si presenti uno a criticarci e affermi che alle parti migliori della figura non applichiamo i colori pi belli, adducendo il motivo che gli occhi, che costituiscono la parte migliore, non sono colorati in vermiglio, ma in nero; ci sembrerebbe di rispondergli bene con queste parole: "Ammirevole amico, non credere che noi dobbiamo dipingere gli occhi tanto belli che non sembrino neppure pi occhi; e cos per le altre parti. Devi osservare invece se, colorando ciascuna parte con la tinta conveniente, rendiamo bello l'insieme. Cos anche ora non costringerci ad assegnare ai guardiani una felicit tale da renderli qualunque altra cosa che guardiani. Sappiamo anche noi rivestire gli agricoltori di abiti fini, tuffarli nell'oro, invitarli a lavorare la terra per diletto; sappiamo anche noi far coricare al posto d'onore, accanto al fuoco, i vasai per bene e mangiare, mettendo loro vicino la ruota da vasi, ma con la facolt di lavorare secondo la voglia che ne abbiano; e in simile modo rendere beati tutti gli altri per fare felice lo Stato intero. Per non ci devi dare di questi consigli: se ti obbediamo, l'agricoltore non sar pi agricoltore, n il vasaio vasaio; e non ci sar pi nessuno che mantenga il suo posto, condizione questa dell'esistenza dello Stato. [...] Si deve dunque esaminare se dobbiamo istituire i guardiani per far loro godere la massima felicit possibile; o se, guardando allo Stato nel suo complesso, si deve farla godere a questo; e costringere e convincere questi ausiliari e guardiani e cos pure tutti gli altri a eseguire meglio che possono l'opera loro propria. Lo Stato platonico dunque un'unit in cui l'insieme superiore alla somma della parti (che, nel suo caso, sono gli individui); un insieme organico, nel quale le parti non sono relativamente autonome (come in una somma), ma hanno senso e prendono significato soltanto nella loro reciproca interrelazione, come funzioni di un unico corpo. Del resto, lo stesso Platone a usare la metafora dell'organismo, all'interno della riflessione su quale sia il bene supremo dello Stato: Possiamo dunque citare per lo Stato un male maggiore di quello che lo divide e lo fa di uno molteplice? O un bene maggiore di quello che lega lo Stato e lo fa uno? - Non possiamo. - Ora, non elemento di coesione la comunanza di piacere e dolore, quando tutti cittadini si rallegrano e si addolorano, per quanto possibile, in eguale maniera per i medesimi successi e per le medesime disgrazie? - Senz'altro, rispose. - E non sono un fattore dissolvente i piaceri e i dolori quando, pur essendo identici i casi che toccano sia allo Stato sia ai privati cittadini, gli uni provano massimo dispiacere, gli altri massima gioia? - Indubbiamente. Ora, ci non succede forse quando i cittadini non usano concordemente le espressioni, 'il mio' e 'il non mio'? e analogamente per 'l'altrui'? - Esatto. - Ebbene, quello Stato in cui la maggioranza usa con l'identico scopo e alla stessa maniera l'espressione 'il mio' e 'il non mio', non uno Stato ottimamente amministrato? S, certo. - E non quello che pi s'avvicina a un individuo? Per esempio, quando, supponiamo, veniamo colpiti a un dito, se ne accorge tutta la comunione del corpo con l'anima, ordinata in unico sistema sotto l'elemento che in essa governa; e sente tutta quanta insieme il dolore della parte offesa ed cos che diciamo che l'uomo ha male al dito. E non vale lo stesso discorso per qualunque altro organo umano, quando si parla di dolore se una parte soffre, di piacere se si risana? - S, rispose, vale lo stesso discorso; e, per rispondere alla tua domanda, assai prossimo a un simile individuo lo Stato con ottima costituzione. Tale posizione conduce Platone a sostenere, per le classi superiori, non solo la comunanza dei beni, ma anche quella delle donne e dei figli; insieme alla propriet privata dei beni scompare cos la famiglia. Investito della suprema missione di realizzare la giustizia, lo Stato platonico si insinua infatti in ogni aspetto della vita. Il numero dei matrimoni, nonch quello dei figli, viene stabilito dallo Stato; la procreazione rigidamente controllata, secondo criteri quantitativi, eugenetici e cronologici; infine i figli vengono subito

allontanati dalla famiglia ed educati in comune dallo Stato, in modo tale che nessun genitore possa riconoscere un singolo individuo come proprio figlio, ma riconosca come tali tutti gli individui aventi una certa et. Infine, Platone affronta la questione cruciale: la condizione che rende giusto un simile Stato. Siamo di nuovo al tema dei filosofi-reggitori. L'educazione del filosofo non potr limitarsi alla ginnastica per il corpo e alla musica (opportunamente depurata) per l'anima, come avveniva per i custodi; essa comprender un piano di studi, che consiste nel graduale elevarsi dal sensibile all'intellegibile mediante la matematica, l'astronomia, la musica e la dialettica. Il filosofo che avr ricevuto tale educazione avr il dovere di ridiscendere tra gli uomini, per assumerne il governo. L'ultimo argomento della Repubblica sul quale vale la pena di soffermarsi la teoria delle forme di governo. Alla fine del IV libro Platone determina in cosa consista lo Stato perfetto o giusto: lo Stato nel quale le tre classi, come le tre virt fondamentali, hanno la loro adeguata espansione, adempiendo il compito assegnato loro dalla natura. La giustizia consiste in questa virt regolatrice, la cui assenza o la cui presenza insufficiente determina la degenerazione dello Stato, cio la disarmonia dei fattori che lo compongono. Ciascuna forma degenere dello Stato collegata all'altra, nel senso che la produce, secondo un processo di progressiva degradazione o allontamento dalla perfezione. Dall'aristocrazia, che lo Stato perfetto, si passa alla timocrazia, quindi all'oligarchia, alla democrazia e infine alla tirannia. La causa originaria della degenerazione di tipo biologico. E' un errore nella regolamentazione della generazione: congiungendo fuori tempo le spose e gli sposi ne nascono figli imperfetti. Di qui una progressiva degenerazione individuale, un progressivo impoverimento culturale, che determiner analoga decadenza nello Stato. La prima forma degenerata la timocrazia: in essa prevale l'elemento irascibile o animoso, e dunque l'ambizione e la tendenza alla ricchezza piuttosto che alla virt. I membri della classe dominante divengono proprietari e riducono in servit le classi inferiori, provvedendo essi stessi alla guerra. La classe dominante diviene un'aristocrazia militare. La tendenza a coltivare, sia pure in segreto, i piaceri della ricchezza conduce allo Stato oligarchico, basato esclusivamente sul censo. Si tratta di uno Stato imperfetto sotto un triplice riguardo: anzitutto, la direzione del governo non affidata ai pi capaci, ma ai pi ricchi; in secondo luogo, lo Stato perde la sua unit, giacch al suo interno si formano lo Stato dei ricchi e quello dei poveri; in terzo luogo, va perso il principio della specializzazione, giacch tutti esercitano tutte le funzioni e ognuno pu alienare (ossia vendere) ci che possiede. Di qui la nascita della democrazia, che economica e morale al tempo stesso: economica, perch la libert di alienazione conduce ad una sempre crescente povert e quindi rende la classe dei poveri largamente maggioritaria; morale, perch il povero vede nel governante soltanto un ricco, perdipi illegittimamente arricchito. Ne risulta una lotta intestina, che si conclude con la vittoria dei poveri e l'instaurazione della democrazia: questa caratterizzata dall'eguaglianza politica e dal sorteggio della maggior parte delle cariche. Nella democrazia, Platone distingue tre categorie: i cittadini politicamente attivi, guidati dai demagoghi; i cittadini pi capaci, che divengono ricchissimi; e la classe pi numerosa, quella degli operai e degli sfaccendati. I demagoghi, per accattivarsi il favore degli operai e degli sfaccendati, che rappresentano la maggioranza, redistribuiscono gli averi tolti ai cittadini pi ricchi; questi ultimi tentano allora di difendersi e vengono accusati di mne oligarchiche. In questa situazione di scontro, nasce il tiranno, come capo del popolo; egli continua la politica democratica, mettendo a morte o esiliando i nemici e promuovendo le abolizioni di debiti o le redistribuzioni di beni e terreni. Stretto dalla necessit di mantenersi al potere, il tiranno costretto a ogni sorta di ingiustizia o delitti. A ognuna delle forme degenerate corrisponde un tipo umano: il timocratico ambizioso, apprezza le virt guerriere e, invecchiando, inclina alla brama di ricchezze; l'oligarchico ha le caratteristiche dell'avaro; il democratico psicologicamente un dissipato, preda del variare dei suoi desideri immediati; il tirannico addirittura un mostro, perch in lui si scatenano quegli istinti violenti e abnormi che, osserva Platone, qualche volta si manifestano nei sogni. Sulle opere successive alla Repubblica - in genere interpretate in termini di maggiore realismo - probabile che abbiano influito le esperienze personali di Platone. Platone effettua infatti tre viaggi in Sicilia, a

Siracusa. Il primo nel 388, quando ha 39-40 anni; chiamato dall'amico Dione - il quale tenta di realizzare una riforma politica dello Stato, allora retto dal tiranno Dionisio il Vecchio - Platone si reca a Siracusa, ma i rapporti con il tiranno diventano ben presto difficili e il filosofo costretto ad un ritorno burrascoso e drammatico. Il secondo viaggio avviene nel nel 366, quando il filosofo ha ormai 61-62 anni. A Dionisio succeduto il figlio, sul quale Dione pensa di avere grande influenza; l'intenzione quella di sostituirsi al tiranno, ma questi se ne accorge, bandisce lo zio Dione e tiene praticamente prigioniero Platone per qualche tempo. Il terzo viaggio del 361, quando Platone ha 66-67 anni; il filosofo cerca di far revocare l'esilio nei confronti di Dione, ma non vi riesce e pu tornare ad Atene solo grazie all'intervento di Archita. Ma torniamo alle opere. Nel Politico la suddivisione delle forme di governo muta notevolmente: lo Stato perfetto quello governato da un re intelligente, il quale possegga saldamente l'arte regia. Sar questa - e non le leggi - ad ispirare l'esercizio del potere. La discussione sulle leggi degna di rilievo. Platone svaluta lo Stato legale, perch la legge, in virt della sua generalit ed astrattezza, non pu prevedere l'infinita variet dei casi. Le norme fisse presentano quindi due inconvenienti: il primo quello gi detto, per cui esse si rivelano inadeguate di fronte a nuove situazioni; il secondo che il cambiarle getta il discredito sulle norme stesse. La fissit delle leggi nuoce a qualsiasi arte, giacch impedisce ogni perfezionamento e ogni ricerca. Ancora peggiore di uno Stato governato da leggi fisse tuttavia uno Stato dove colui che presiede alle leggi sia scelto per alzata di mano o per sorteggio: evidente la polemica di Platone, di ispirazione conservatrice, contro la democrazia ateniese. E' bene non mutare le antiche leggi e non permettere che vengano infrante. Di fronte alla retta costituzione, ossia alla costituzione secondo scienza, avremo allora due vie diverse: la via legale e la via illegale. Nella prima avremo monarchia, aristocrazia e democrazia; nella seconda democrazia, oligarchia e tirannia. Quindi la democrazia l'ultima (e la peggiore) delle forme legali e la prima delle forme illegali. Il re assimilato al tessitore, cos come la politica l'arte della tessitura e dell'intreccio: egli possiede strategia, arte del giudicare, arte retorica, sia pure sempre sotto la direzione della scienza politica. Il monarca, grazie all'arte regia, costituir un'armonica orditura dei vari caratteri dei cittadini, temperando gli eccessi mediante l'educazione ed eliminando coloro i quali si rivelino incorreggibili. Lo Stato ideale quindi lo Stato senza leggi, governato da quella specie di dio in terra che il re, fornito dell'arte politica. Ma Platone riconosce che nessun uomo, il quale eserciti un potere assoluto, riesce a non macchiarsi di ingiustizia e di violenze; se a governare un uomo e non un Dio, impossibile sfuggire alle sofferenze e ai mali e l'unica cosa che si pu fare cercare di obbedire a quanto in noi vi di immortale in pubblico e in privato, nel fondare gli Stati e le famiglie chiamando legge il precetto della mente. Lo Stato di cui parla Platone nelle Leggi per l'appunto uno Stato legale, nel quale il ruolo del filosofo, a differenza della Repubblica, non quello del reggitore, ma quello del legislatore: egli si limita a conferire razionalit allo Stato mediante norme tratte dalla sua sapienza e poi si ritira. Il ricorso alle leggi perci coerentemente con l'impostazione del Politico - una necessit di fatto e una rinuncia alla situazione ideale. Non esistono infatti leggi o ordinamenti, ribadisce Platone, superiori alla sapienza: la giustizia che nelle cose dispone che l'intelletto non dipenda da nulla ma diriga tutto, se un intelletto veramento libero e nobile. Purtroppo, continua Platone, oggi non ci sono intelletti con queste qualit; solo qualcuno ne gode in minima parte. Noi quindi dobbiamo ricorrere a ci che tiene il secondo posto dopo l'intelletto, l'ordinamento politico e la legge, che possono estendere la loro guida su moltissimi aspetti della vita, ma non su tutti. Alle osservazioni sui limiti insiti nella legge, per via del suo carattere generale, si aggiunge qui la costante valutazione pessimistica del mondo contemporaneo, che tipica dell'atteggiamento platonico. Le caratteristiche dello Stato delineato nelle Leggi sono comunque sostanzialmente coerenti con l'impostazione platonica di fondo, anche se presentano qualche accentuazione autoritaria. Anzitutto, lo Stato si configura come un'entit chiusa, ostile ad ogni rapporto commerciale: Se fosse stata sul mare, la capitale [dello Stato], pur essendo fornita di porti ma avendo alle spalle una regione non fertilissima, e quindi priva di molti prodotti, io ti dico che tale Stato avrebbe avuto bisogno di legislatori divini e di un uomo non comune al timone, se - data la sua stessa configurazione naturale - non volesse accogliere in s dal mare una variet disordinata di costumi e di vita. [...] Il mare vicino alla

regione abitata cosa piacevole giorno per giorno, ma in sostanza un'amara e salata vicinanza. Perch lo Stato si riempirebbe allora di traffici e di affari commerciali, e nascerebbe in lui costume di falsit e incostanza nelle promesse, s che esso stesso ne diverrebbe infido e nemico di s nei suoi rapporti interni, e parimenti sarebbe nei riguardi degli altri all'esterno. E' un rimedio contro questo male il fatto che esso sia fertile; ma se tu dici che la sua terra accidentata chiaro che la fertilit del suo suolo non illimitata, cos nella qualit come nella quantit dei prodotti. Se cos fosse, sarebbe facile esportare in grande quantit, e si riempirebbe di moneta d'oro e d'argento; e di questo io dico che non c' pi grande male e pi grande ostacolo perch uno Stato consegua costumi giusti ed elevati. In secondo luogo, la suddivisione del territorio avviene secondo rigidi criteri matematici, di tipo egualitario. Lo Stato ideale viene quindi definito in termini rigidamente organicistico-unitari: lo Stato come un sol uomo. Dico quindi che lo stato pi civile e la forma di costituzione e l'ordinamento legislativo pi perfetti si trovano l dove tutta la vita dello stato si pu riassumere in questo detto antico: "La cosa dell'amico dell'amico". Quanto ho detto vale sia nel caso che ci gi si realizzi in qualche luogo della terra, sia per il futuro, - comuni cio le donne, i figli comuni e comune ogni avere - in tale caso con ogni mezzo ci che si definisce privato viene strappato alla vita dell'uomo, d'ogni parte, con ogni sforzo ci si industria di collettivizzare in qualche modo anche ci che la natura ha fatto particolare propriet, e gli occhi e le orecchie e le mani hanno la sensazione di vedere insieme, udire insieme, agire insieme e concordemente tutti insieme, quanto pi possono, danno l'approvazione o il biasimo come un solo uomo, delle stesse cose sanno la gioia o soffrono il dolore; e dove le leggi danno cos la massima unit allo stato in ci esse hanno la pi giusta e pi degna definizione della loro perfezione. In questo stato potrebbero vivere beati sia un gruppo di di, sia di figli di di. Non occorre perci cercare altrove esempio di costituzione, ma attenersi a questo e cercare di realizzarlo meglio che sia possibile. La propriet privata viene ammessa, ma solo come "usufrutto" di una propriet statale; inoltre l'ordinamento catastale, come quello demografico, fissato una volta per tutte ( necessario stabilire che il numero dei focolari costituiti ora da noi, non dev'essere mutato mai, sempre uguale, non deve crescere di una unit n calare di una). Vi inoltre assoluto divieto di libert economica: Non c' posto in questo ordinamento per gli affari e le speculazioni, anzi per l'intima natura di questo ordinamento nessuno ha diritto n potere di mercanteggiare in speculazioni degne di schiavi, perch un mestiere cos vergognoso travolge il costume e nessuno pu ritenere dignitoso l'usare di questo mezzo per far denaro. Al divieto di libert economica si accompagna, ancora una volta, la concezione radicalmente negativa della ricchezza: l'obiettivo di rendere lo Stato virtuoso e felice incompatibile con l'obiettivo di renderlo quanto pi ricco possibile, giacch se logico che chi felice sia anche retto, impossibile, dice Platone, essere insieme ricco e onesto, almeno nei limiti della nozione volgare di ricchezza. La conclusione che nello Stato non ci deve essere oro n argento, n grosse speculazioni finanziarie realizzate per vile mestiere e con l'usura, e nemmento illeciti guadagni sulla necessit dell'allevamento del bestiame, ma soltanto di doni che offre la terra e questi in misura da non costringere chi li raccoglie a trascurare il fine di ogni ricchezza: parlo dell'anima e del corpo che senza educazione morale e fisica non possono diventare degni di nessuna stima. E' per questa ragione che io ho ripetuto pi volte che bisogna lasciare all'ultimo posto il pensiero della ricchezza; essendo tre sole le cose per cui l'uomo si d cura, il pensiero della ricchezza se vuol essere al giusto posto dev'essere il terzo e l'ultimo, in mezzo la cura del corpo e avanti a tutto l'attenzione rivolta all'anima. La divisione in classi avviene su basi censitarie, perch non si pu fare altrimenti; Platone preferirebbe una rigorosa eguaglianza, ma riconosce che, al momento della formazione del nuovo Stato, alcuni individui si troveranno comunque in possesso di un numero maggiore di beni, rispetto ad altri. Ne consegue che la distribuzione delle cariche dovr avvenire non solo sulla base della dignit personale, dell'appartenenza familiare e dei talenti individuali, ma anche sulla base della ricchezza, sempre per in modo misurato e

facendo s che non ne derivino dissensi. Platone prevede, in base al patrimonio, quattro classi di cittadini, tra le quali pu realizzarsi anche una certa mobilit (ascensiva o discensiva); ma pone chiari limiti all'arricchimento e all'impoverimento, nella convinzione che l'eccessiva miseria o l'eccessiva ricchezza producano inevitabilmente una situazione di discordia, che rappresenta, ai suoi occhi, la pi grave malattia che possa affliggere lo Stato. Quanto ai matrimoni, questi sono rigidamente regolamentati dallo Stato e finalizzati ai suoi superiori interessi. Il criterio che li deve ispirare la mediet, la temperanza: non dovranno essere fuggite le nozze con i poveri, n dovranno essere affannosamente cercate le nozze con i ricchi (e, in ogni caso, sono preferibili le prime). Inoltre, chi ha un carattere ardito e impetuoso dovr cercare di farsi genero di padri equilibrati; chi invece ha contraria natura, deve indirizzarsi verso una parentela contraria. In generale, anche se ognuno portato ad unirsi con il proprio simile, bene che nei matrimoni ci non avvenga; altrimenti i ricchi cercheranno la ricchezza, i potenti il potere, e da ci ne deriver una diseguaglianza sempre pi accentuata all'interno del corpo sociale. I matrimoni ispirati all'insieme di questi princpi, conclude Platone, saranno di grande utilit sia per lo Stato che per le famiglie; e non un caso che l'utilit pubblica preceda quella privata, giacch per il filosofo la regola universale delle nozze che ognuno deve contrarre matrimonio nell'interesse dello Stato, non per suo piacere. Platone prevede inoltre una sorta di prima fase di imposizione delle leggi, affinch queste possano radicarsi nei costumi: Ateniese: [...] noi stiamo per fondare uno stato proprio in modo coraggioso ed audace. Clinia: Ma come tu puoi dire questo, ora? Dimmi perch. Ateniese: Perch noi diamo leggi con facilit arrischiata a uomini che non hanno esperienza, senza sapere come le accoglieranno. E' chiaro, Clinia, e tutti vedrebbero, anche uno sciocco, che in principio non sar facile che anche uno solo di loro le accetti, ma se sapremo resistere finch i bambini degustate le leggi e cresciutivi si siano sufficientemente assuefatti al loro spirito e partecipino alle elezioni comuni di tutto lo stato, se tutto questo avverr, se in qualche modo o con qualche mezzo riuscir, io vi dico che anche per tutto il tempo futuro a questo tempo presente avr grande sicurezza di non dissolversi uno stato cos ben avviato.[...] Ateniese: Vediamo quindi di trovare una via buona per arrivarci. Io credo, Clinia, che i Cnossii pi di tutti gli altri Cretesi non devono badare alla terra che ora colonizzate solo come per scaricarsi di un dovere sia pure verso gli di, ma impegnarsi seriamente per rendere le magistrature supreme della colonia quanto pi possibile buone e durevoli. Per le altre l'importanza minore, ma assolutamente necessario scegliere con massima cura i pi alti custodi delle leggi. Clinia: Quale dunque la strada per attingere questo fine, e quali sono le ragioni di questa strada? Ateniese: Questa. I Cnossii, o figli di Creta, sono fra voi quelli che hanno una pi alta tradizione politica; bisogna quindi che essi insieme agli altri giunti nella nuova sede scelgano fra tutti 37 uomini, di cui 19 da tutti gli altri coloni e il resto solo da quelli di Cnosso; saranno questi un dono che i Cnossii faranno al nuovo stato e persuaderanno te o con una certa forza ti costringeranno ad essere cittadino della colonia nuova ed uno dei 18. Per le elezioni Platone dice di aver cercato un sistema di compromesso tra monarchia e democrazia, distinguendo chiaramente tra l'eguaglianza immediata (e livellatrice) e l'ottima eguaglianza, che coincide con il principio dell'unicuique suum: Schiavi e padroni non diventano amici, n lo diventano valenti e incapaci portati allo stesso livello, l'uguaglianza fra ineguali diviene ineguaglianza, se non c' criterio di giusto limite. Per questi due fattori gli stati pullulano di sedizioni. E' vera l'antica sentenza che l'uguaglianza genera la concordia, una formula esatta e logica, ma quale sia l'uguaglianza che pu far ci non molto chiaro, e quindi il problema

ci lascia molto perplessi. Ci sono due specie di uguaglianza, hanno lo stesso nome, ma nei fatti sono quasi l'una contraria all'altra per molte ragioni; l'una pu realizzarla ogni stato ed ogni legislatore, nella distribuzione delle cariche; uguaglianza immediata per misura, peso, quantit, e nelle suddette distribuzioni si pu aiutarsi anche con un sorteggio. L'altra, la vera e ottima uguaglianza, non a tutti facile vederla. Il discernerla appartiene a Zeus, gli uomini la godono sempre in misura minima, ma per quanto sia piccola la misura in cui presente negli stati e negli individui, sempre fonte di ogni vantaggio. E' dare di pi a ci che vale di pi, di meno a ci che vale meno, dare a ciascuno ci che gli spetta secondo il suo valore reale; cos pi grande onore a chi migliore, il contrario a chi nella condizione contraria per virt ed educazione; a ciascuno il suo. La forma pi notevole di intervento statale infine di carattere religioso. Quello delle Leggi uno Stato teocratico, imperniato su una teologia di carattere astrale e dotato di una legislazione religiosa molto severa, che vieta pratiche religiose diverse da quella della religione ufficiale e che punisce l'ateismo con la prigione o la morte. Il supremo organo teologico il 'Consiglio notturno', composto dai dieci custodi pi anziani delle leggi e da tutti i cittadini premiati per la loro virt; a questi si aggiungono quelli che, tra gli osservatori andati all'estero alla ricerca di esperienza legislative, siano ritenuti degni di tale incarico. I componenti del Consiglio ricevono un'educazione speciale (come i filosofi nella Repubblica) e in sostanza si rinnovano per cooptazione; loro supremo scopo rappresentare l'uno nella molteplicit, giacch unico il principio informatore che regola lo Stato e anima le sue differenti istituzioni.

2. Aristotele
Cenni biografici
Aristotele nasce nel 384/383 (quando Platone ha 44 anni) a Stagira, una piccola citt della penisola calcidica, all'estrema periferia del mondo greco. Stagira sottoposta all'influenza del regno di Macedonia, alle cui vicende Aristotele rimarr legato per sempre (il padre Nicomaco era infatti medico alla corte macedone). Due osservazioni: dalla professione del padre Aristotele riceve forse un incentivo verso gli interessi naturalistici; dalla collocazione sociale deriva invece il diverso rapporto con la politica, rispetto a Platone, visto che la contesa per il potere politico gli era preclusa tanto in patria (ove vigeva la monarchia), tanto in Atene (in quanto straniero). Comunque, in Aristotele la vita etico-politica non pi il fine, ma una parte ed un oggetto tra i tanti del sapere; in ci egli prefigura, secondo alcuni studiosi, l'intellettuale ellenistico che, a partire dal III secolo, vive in un mondo dominato dalle monarchie assolute. Nel 367 (quando ha 17 anni) Aristotele giunge ad Atene, dove diviene membro dell'Accademia platonica, forse dietro presentazione della corte macedone. Lo attirano in essa soprattutto le ricerche logiche e scientifiche. Nell'Accademia rimane per venti anni, fino alla morte di Platone, ossia nel 347. Allora Aristotele, che ha 37 anni, si reca ad Asso, in Asia Minore, dove entra in amicizia con Ermia, il signore della citt, e ne sposa la figlia Pizia; anche Ermia era nell'area di influenza macedone. L conosce il naturalista Teofrasto, che rimarr suo discepolo, seguendolo anche a Mitilene. Nel 342 Aristotele viene invitato da Filippo II ad assumere l'incarico di precettore del futuro Alessandro Magno. Nel 338, in seguito alla vittoria di Cheronea, Alessandro Magno stabilisce la supremazia macedone sull'intera Grecia. In questo quadro Aristotele pu tornare in tutta sicurezza, nel 335, ad Atene. Rotti i rapporti con l'Accademia, egli apre una scuola con corsi regolari presso il tempio di Apollo Licio, detta perci Liceo (ma anche Perpato). Il Liceo ha caratteristiche diverse dall'Accademia. Fra i suoi frequentanti non esiste alcun legame religioso o politico, alcuna regola comune di vita. Meno aperto alla libera discussione dialettica (l'insegnamento di Aristotele era in certo qual modo "ufficiale"), il Liceo lascia pi spazio alle ricerche settoriali e specializzate. Esso ha un'organizzazione perfetta: i diversi corsi coprono quasi tutti i campi del sapere (filosofia, scienze naturali, politica, filologia, fisica, medicina, matematica), pur mantenendo tra essi un collegamento unitario. Inoltre per ogni campo viene curata una raccolta sistematica di materiali di studio (si pensi alla raccolta delle 158 costituzioni di citt greche, andate purtroppo perse, con l'eccezione di quella ateniese), con il risultato di fornire la scuola di un'ampia biblioteca.

Nel 323 muore Alessandro Magno e riprende vigore, in Atene, il partito anti-macedone. Aristotele quindi costretto a lasciare la citt e a riparare a Calcide, in Eubea, dove muore nella casa della madre nel 322, a 62 anni.

Il pensiero politico
Per comprendere il pensiero politico di Aristotele bisogna prendere le mosse dall'Etica nicomachea, all'interno della quale il filosofo individua l'oggetto e il fine della scienza politica: l'oggetto consiste nelle prescrizioni legali su che cosa si debba e non si debba fare; il fine consiste nel bene dell'uomo. Tra etica e scienza politica vi sono notevoli affinit. Anzitutto, entrambe sono scienze pratiche, ossia scienze che hanno come fine non il sapere in se stesso (come fanno le scienze teoretiche, ossia matematica, fisica e metafisica), ma un sapere finalizzato al concreto agire umano e al suo valore. Entrambe, inoltre, hanno per oggetto il mondo umano, caratterizzato dalla libert, e si muovono dunque nell'ambito della conoscenza probabile, a differenza delle scienze teoretiche, che, avendo per oggetto il regno della necessit, possono raggiungere un sapere certo e rigoroso. In secondo luogo, entrambe sono scienze di natura politica, giacch anche l'etica presuppone i rapporti sociali tra gli uomini. Aristotele, tuttavia, definisce propriamente "politica" solo la scienza che si occupa dello Stato, ossia della forma pi alta e complessa di convivenza umana. A differenza dell'etica, infatti, la scienza politica non si occupa dell'individuo, ma dello Stato. La differenza tra etica e scienza politica risiede dunque nel passaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva; essa non riguarda il fine, che identico (il bene dell'uomo), ma l'oggetto, che non il singolo, ma la collettivit. Ed tale differenza, secondo Aristotele, a segnare la superiorit della scienza politica sull'etica: egli infatti sostiene che se il bene degno di essere amato anche per un solo individuo, esso tuttavia pi bello e pi divino quando riguarda popoli e citt. A queste considerazioni si aggiunga il fatto che Aristotele, sempre nell'Etica nicomachea, preannuncia in qualche modo la Politica: egli rileva infatti come i filosofi precedenti non abbiano discusso la legislazione, cosa che invece egli intende fare, esaminando anche le forme di governo, sia per discernere quale sia la migliore, sia per comprendere come esse siano ordinate. Aristotele assegna dunque alla sua Politica tanto fini prescrittivi (o normativi), quanto fini descrittivi (o conoscitivi). Nella Politica troviamo quattro punti di contatto con il pensiero di Platone: 1) la concezione organicistica dello Stato (che porta con s la superiorit di quest'ultimo sull'individuo); 2) la concezione naturalistica dell'origine dello Stato (il quale sorge dai bisogni); 3) la concezione etica dello Stato (il quale ha un fine, che la giustizia); 4) la concezione legale dello Stato (qui l'affinit si restringe, fermi restando tutti i necessari distinguo, al Platone delle Leggi). Tali punti di contatto non implicano tuttavia una piena identit di vedute. Come vedremo, anche l dove sono riscontrabili delle affinit, tra Platone e Aristostele restano significative differenze. Anzitutto, nella concezione organicistica dello Stato, che in Aristotele decisamente meno rigida e meno radicale; pur restando impregiudicata la superiorit del tutto sulle parti (ossia dello Stato sugli individui singoli), in Aristotele la totalit organica dello Stato consente, al suo interno, quella molteplicit e quella differenza che Platone tende ad annullare, in nome di una concezione radicalmente unitaria. Lo Stato di cui parla Platone lo Stato come un sol uomo[5] - costituisce un'unit eccessivamente ristretta, che annulla tutte le differenze e sembra non sottintendere alcun molteplice; ma poich il carattere essenziale della polis per l'appunto l'unit nella molteplicit (molteplicit di funzioni, di classi sociali, di caratteri, ecc.), ne consegue che una unit concepita troppo radicalmente, sino ad annullare la molteplicit, distrugge la polis medesima. Dice Aristotele: come se si volesse ridurre l'accordo musicale a un solo tono e il ritmo a una sola misura.

Passiamo ora a considerare il modo in cui Aristotele spiega la nascita dello Stato: esso, come ogni altra associazione, dice il filosofo, viene costituito con il fine di raggiungere qualche bene. Se questo vale per ogni associazione umana, argomenta Aristotele, a maggior ragione dovr valere per lo Stato, che rappresenta la forma suprema di associazione. Attenzione, per: da questa somiglianza tra tutte le forme di associazione (in quanto tutte caratterizzate da un orientamento finalistico al bene), taluni ne derivano una conclusione errata, e cio che tra i diversi capi (padrone, amministratore, magistrato, re) dei vari tipi di associazione vi sia una differenza meramente quantitativa: in sostanza, la differenza starebbe nel numero dei membri dell'associazione sulla quale si comanda. Per contestare tale conclusione Aristotele descrive la nascita dello Stato con metodo analitico e storicogenetico (vale a dire, con un metodo che dapprime scompone qualsiasi realt nei suoi elementi pi semplici e poi, a partire da essi, ricostruisce la genesi della realt indagata): Primieramente necessario che si associno quegli esseri che non possono vivere l'uno separato dall'altro, come la femmina e il maschio a causa della riproduzione (e ci non per libera scelta, ma, come negli altri animali e nelle piante, naturale anche nell'uomo la tendenza a lasciare un altro essere simile a s); e chi per naturale disposizione adatto al comando e chi all'obbedienza, onde il consorzio umano pu conservarsi. Poich l'essere dotato di intelligenza e preveggenza dominatore e signore per natura; chi pu eseguire con le facolt corporali le prescrizioni di questo, soggetto o schiavo: perci gli interessi del padrone coincidono con quelli dello schiavo. Per natura dunque determinata la condizione dell'essere femminino e dell'essere servile, poich la natura nelle sue creazioni non rassomiglia agli artigiani dozzinali, come quelli che fanno le spade delfiche, opera meschina; ma adatta ciascun essere alla sua funzione [...]. In questo testo sono presenti numerosi e importanti elementi. Anzitutto il carattere naturalistico della prima forma di associazione: la famiglia nasce da un bisogno naturale, addirittura biologico, e dunque assolutamente necessario. Qui naturale sta per necessario, ossia per "non-volontario". In secondo luogo, altrettanto "naturale" la divisione degli uomini in "adatti al comando" e "adatti all'obbedienza": ne consegue che la divisione tra governanti e governati affonda le sue radici nella "naturale" diseguaglianza tra uomini e che assolutamente necessaria al fine di conservare qualsiasi forma di associazione umana. La predisposizione naturale che giustifica il comando di alcuni uomini sugli altri sta nell'intelligenza e nella preveggenza: colui il quale possiede tali doni dominatore e signore per natura, dice Aristotele, mentre chi pu eseguire con le facolt corporali le sue prescrizioni soggetto o schiavo. Questa distinzione data dalla natura, che adatta ciascun essere alla sua funzione. La famiglia, conclude Aristotele, l'associazione formata per i bisogni immediati della vita ... secondo natura. Se torniamo al parallelo con Platone, vedremo che motivo comune l'origine "naturale" dello Stato: esso nasce dai bisogni (qui dal bisogno biologico della riproduzione, in Platone dai bisogni primari di nutrizione e protezione). In Aristotele possiamo cogliere una sottolineatura della naturalit, in termini biologici; egli inoltre ci propone una ricostruzione storica dell'evoluzione delle forme sociali, partendo dalle forme minori di associazione; ma comune ad entrambi la spiegazione in termini naturalistico-utilitaristici dell'origine dello Stato. Riprendendo la ricostruzione aristotelica, la tappa successiva, dopo la famiglia, il villaggio. La logica rimane la stessa: il villaggio un'associazione di famiglie che si propone di raggiungere una utilit pi ampia e complessa, rispetto alla famiglia. E' in sostanza l'aggregazione che nasce da un'espansione e sofisticazione dei bisogni: anch'esso dunque un fenomeno naturalistico. Infine abbiamo l'associazione di pi villaggi, che la citt, la quale ha come caratteristica l'autosufficienza. Conclusione di Aristotele: [...] ogni citt per natura, se per natura sono anche le prime associazioni, essendo la citt il risultato finale cui tendono queste associazioni; e il fine determina la natura degli esseri. Se la citt un fatto naturale, ci significa che l'uomo sar un essere naturalmente sociale. Ed infatti Aristotele afferma: [...] L'uomo animale per natura socievole: sicch l'uomo estraneo a ogni convivenza civile per natura e

non per sorte un essere o al di sopra o al di sotto dell'umanit [...] Si tratta di uno dei capisaldi della teoria politica aristotelica: l'uomo un essere socievole per natura e pertanto le istituzioni sociali e politiche nascono e si sviluppano altrettanto naturalmente. Questo modo di spiegare l'origine e lo sviluppo delle istituzioni politiche avr una fortuna straordinaria. Bisogner infatti aspettare Hobbes (e dunque 19 secoli!) perch esso sia rovesciato nei suoi assunti e nelle sue conclusioni: l'uomo, dir il filosofo inglese vissuto nel '600, un essere naturalmente asociale, che entra inevitabilmente in guerra con i suoi simili; dunque le istituzioni politiche, lungi dal nascere naturalmente, sono il frutto di una consapevole scelta dell'uomo - sono veri e propri artifici -, il quale se ne serve per salvare la propria vita dalla distruttivit della propria natura. Ma torniamo ad Aristotele. La sua ricostruzione della nascita e dello sviluppo dello Stato si conclude con una interessante riflessione sul linguaggio: quindi manifesto che l'uomo animale socievole in grado maggiore delle api e di ogni animale che vive in gregge. Niente infatti, secondo noi, la natura fa invano; solo l'uomo tra tutti gli animali ha la parola. La voce pu esprimere dolore e piacere, perci l'hanno anche gli altri animali (fin qui infatti giunge la loro natura, d'avere la sensazione del dolore e del piacere e significarlo; la parola poi ha il fine di manifestare ci che utile e ci che dannoso) e per conseguenza anche ci che giusto e ci che ingiusto. Questo infatti il carattere proprio dell'uomo rispetto agli altri animali, che solo ha la nozione del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto e di tutte le altre antitesi morali. L'associazione degli esseri forniti di queste nozioni crea la famiglia e la citt. Arrivata a questo punto, l'analisi aristotelica inverte la sua direzione, percorrendo il cammino opposto: dopo essere partita dal particolare (i due individui che formano la famiglia) per arrivare al generale (la citt), ora dal generale torna al particolare, per dimostrare come la citt sia condizione dell'individuo. Qui Aristotele presenta la classica concezione organicistica, in virt della quale il tutto qualcosa di superiore alla somma delle parti. Per natura poi la citt la condizione della famiglia e dell'uomo singolo. Il tutto infatti necessariamente condizione della parte, poich tolto il tutto, non si ha n piede n mano, se non di nome, come se si dicesse una mano di pietra: essendo una mano staccata dal tutto soltanto una mano morta. Infatti il valore di ogni organo consiste nella sua funzione e nella sua potenza; cos le membra ridotte in condizione di frammenti non si possono chiamare membra se non di nome. Adunque, che la citt sia un fatto naturale e condizione per la vita dell'individuo appare manifesto: se infatti ciascuno da s non basta a se stesso, sar rispetto alla citt nella stessa relazione, che le parti al tutto: e chi non atto a partecipare alla vita civile o non ne ha bisogno, non pu divenire membro della citt, sicch o belva o Dio. Per natura dunque tutti sentono l'impulso verso siffatta associazione. Tale impulso naturale alla costituzione della citt ha inoltre un'importante conseguenza etica: il primo che ne gett le basi, fu causa di grandissimo bene. Come infatti l'uomo, se ha raggiunto la perfezione inerente alla sua natura, il migliore degli animali, cos quando non si regola secondo le leggi e non s'ispira all'idea di giustizia, il pessimo, poich dannosissima l'ingiustizia fornita di mezzi per recar danno. L'uomo infatti dispone di tutti i mezzi per usare prudenza e virt, e questi mezzi pu adoperare a fini perversi. Perci senza la virt l'uomo l'animale pi empio e pi selvaggio, inclinato nel modo peggiore ai piaceri sensuali e al cibo. La giustizia elemento e condizione della societ civile; perch il diritto norma della convivenza civile, e la pratica di esso consiste nella decisione di ci che giusto. Qui appare la concezione legale ed etica dello Stato. Abbiamo dunque visto come Aristotele spieghi la nascita e lo sviluppo delle associazioni umane, attribuendo un carattere fortemente naturalistico a questo processo, e come egli delinei una concezione legale, etica ed organicistica dello Stato. Ma, come abbiamo gi evidenziato, l'organicismo teorizzato da Aristotele ben diverso da quello di Platone. Ed nella cornice di questa fondamentale differenza che possiamo inserire la celebre critica aristotelica al

comunismo platonico. In primo luogo, Aristotele sostiene che il sistema collettivistico presenta un inconveniente di fondo, legato alla natura umana. Gli uomini tendono infatti a prendersi meno cura delle propriet comuni, giacch ciascuno attende con maggiore impegno ai suoi interessi privati che a quelli pubblici; inoltre, quando la propriet comune, gli individui tendono a non impegnarsi in prima persona, ma a fare affidamento sull'attivit altrui. Queste disposizioni naturali fanno s che la comunanza delle donne e dei figli provochi effetti assai dannosi: poich nella citta platonica, dice Aristotele, ciascuno si trova in relazione con mille figli di tutti i cittadini e la paternit rimane incerta, ne consegue che o gli adulti trascureranno egualmente tutti i giovani, o ciascun cittadino rivendicher per s i giovani in buone condizioni fisiche e morali. In secondo luogo, Aristotele rivolge la sua critica alla comunanza dei beni. Esistono tre modi, egli dice, di risolvere il problema della propriet: conferire ai privati la propriet dei fondi, ma consumare collettivamente i frutti che in essi vengono prodotti; oppure, considerare comune la propriet della terra, ma dividerne i frutti secondo i bisogni particolari; infine, stabilire che tanto la terra quanto i suoi frutti sono propriet comune. Ora, le soluzioni che prevedono la propriet comune della terra presentano due inconvenienti di fondo, di natura economica e di natura psicologica. L'inconveniente economico consiste nel fatto che non potendo esservi sempre proporzione tra i godimenti che ne risultano e l'opera che si presta, di necessit si solleveranno querimonie contro quelli che godono o ricevono molto e lavorano poco, da parte di coloro che ricavano poco lavorando molto. E' vero che secondo Aristotele l'uomo un essere socievole; ma il filosofo non manca di rilevare come tale socievolezza non sia priva di difficolt: basta guardare, osserva realisticamente, alle associazioni dei viaggiatori, dove quasi sempre nascono dissensi e attriti per le cause pi ovvie e pi meschine. A ci si aggiunga il fatto che, in generale, la propriet arreca grande soddisfazione all'uomo, poich asseconda un aspetto fondamentale della sua natura. Veniamo cos all'argomento "psicologico" a favore della propriet: questa si radica nelll'amore verso se stessi, che - dice Aristotele - non effetto di capriccio, ma di natura. E' giusto biasimare l'egoismo; ma quest'ultimo non va confuso con l'amore di s, che costituisce un sentimento naturale e indispensabile, comune a tutti gli uomini, il quale si trasforma in egoismo solo quando si spinge al di l del giusto. Infine, soltanto la propriet individuale pu consentire l'esercizio della generosit: venire in aiuto di amici, stranieri o compagni, dice Aristotele, cosa dolcissima, che d reale soddisfazione (e ha vero valore) solo quando i beni che si impegnano in tale aiuto siano propri. Infine Aristotele muove a Platone due obiezioni cruciali. La prima riguarda la causa delle discordie che avvelenano la convivenza tra gli uomini, causa che Platone collocava proprio nell'esistenza della propriet privata. Si tratta, secondo Aristotele, di un formidabile errore, giacch tali discordie sono mali inerenti non al sistema individualistico [della propriet], ma alla perversit umana, come ci conferma il fatto che vediamo spesso la discordia regnare molto pi violenta tra pochi che hanno un sistema comunistico di propriet che tra molti i quali hanno propriet individuali. La seconda obiezione di Aristotele riguarda gli inevitabili effetti del sistema collettivistico sulla vita degli uomini: inoltre anche giusto rilevare non solo i mali di cui vanno immuni i sistemi a base collettiva, ma anche i beni di cui sono privi. Con essi infatti la vita ci appare insopportabile. L'errore di Socrate sembra derivare dalla base falsa del suo ragionamento: poich se l'unit necessaria per la famiglia e per la citt, non bisogna spingere questo principio alle ultime conseguenze. La citt, procedendo su questa via, finirebbe con l'annullarsi, o, non annullandosi, menerebbe vita assai grama; e sarebbe lo stesso che se si volesse ridurre l'accordo musicale a un solo tono e il ritmo a una sola misura. Ma conviene, come ho gi detto sopra, creare con l'educazione l'unit e la socievolezza nella citt, senza pregiudizio della molteplicit dei suoi elementi [...]. Veniamo ora alla concezione legale dello Stato. Noi sappiamo che in Platone lo Stato legale (nel Politico come nelle Leggi) una soluzione di ripiego dettata dalla realt, visto che lo Stato perfetto, quello senza leggi, irrealizzabile. Viceversa, per Aristotele lo Stato legale non un ripiego, ma la soluzione migliore. Il cuore concettuale di questo argomento sta nella contrapposizione tra governo degli uomini e governo delle leggi, che Aristotele sviluppa nelle pagine dedicate all'analisi della monarchia.

Dopo aver distinto tra le diverse forme in cui si realizzata storicamente la costituzione monarchica (monarchia spartana, monarchia barbara, dittatura elettiva e monarchia dei tempi eroici), Aristotele si sofferma sulla monarchia come potere assoluto di uno, per contrapporlo al potere delle leggi. La questione cruciale, dice il filosofo, se convenga che [qualcuno] abbia un potere assoluto o non convenga; in altre parole, se convenga essere retto da un ottimo reggitore o da ottime leggi. Chi sostiene la prima ipotesi si basa sul carattere generale, astratto e fisso della legge, che le impedisce di contemplare tutti i casi particolari; in base a ci, ritiene che sia meglio non affidarsi interamente alle prescrizioni scritte e alle leggi. La risposta di Aristotele a questa argomentazione duplice. Anzitutto, chiunque governi ha comunque bisogno di prescrizioni generali: non forse meglio, infatti, affidare il governo a qualcosa che non sia soggetto alle passioni, come la legge? In secondo luogo, quando tali prescrizioni non prevedono un caso particolare, con cosa dobbiamo affrontare quest'ultimo? Chi giudicher del caso particolare? Uno solo che si distingua per merito o la totalit dei cittadini? Per Aristotele migliore la seconda soluzione, perch il giudizio emesso dalla totalit dei cittadini, presa nel suo insieme, sicuramente migliore del giudizio emesso da un singolo; inoltre la collettivit meno corruttibile delle piccole consorterie e meno condizionabile dalle passioni (giacch queste passioni dovrebbero prendere tutti contemporaneamente). In terzo luogo, innaturale che ad un uomo solo sia concessa la sovranit su tutti i cittadini, quando la citt formata da eguali. Riguardo poi alla monarchia assoluta (e abbiamo questa quando il re impera su tutti secondo la sua volont) sembra ad alcuni che non sia conforme a natura che ad un uomo solo sia concessa la sovranit su tutti i cittadini, quando la citt formata da eguali: poich esseri per natura eguali debbono avere gli stessi diritti e la stessa dignit; e quindi se dannoso che uomini ineguali abbiano egual nutrimento e lo stesso vestiario, cos sarebbe ingiusto stabilire tale livellamento per gli onori, ma altrettanto ingiusto sarebbe che uomini eguali avessero inegual trattamento. Perci giusto che nessuno abbia il potere pi di quanto lo subisca, e si alterni la condizione di governante con quella di governato: in ci consiste la legge; e l'ordine politico si identifica con la legge. E' preferibile infatti l'impero della legge a quello di qualunque cittadino [...] La sovranit della legge equivale adunque alla sovranit di Dio e della mente, la sovranit dell'uomo equivale a quella dell'animale: poich la cupidigia e le passioni traviano, quando sono al potere, anche gli uomini migliori. Ma la legge senza passioni. Abbiamo dunque due argomenti: il pi importante che la legge preferibile all'uomo, in quanto non condizionata dalle passioni. La sovranit della legge assimilabile ad una sovranit impersonale, come quella di Dio o della mente; mentre la sovranit dell'uomo singolo equivale alla sovranit dell'animale, soggetto alle passioni. Il secondo argomento, chiaramente anti-monarchico, consiste nella tesi secondo cui, quando indispensabile prendere decisioni discrezionali (e Aristotele ammette senz'altro che si diano molti casi non previsti dalla legge e nemmeno prevedibili), allora bene che decidano molti e non uno solo. Quanto alla classificazione delle costituzioni, la suddivisione di Aristotele - che avr, anch'essa, una fortuna straordinaria - quella sestuplice, in base a due criteri: il criterio descrittivo del numero dei governanti (uno, pochi o molti) e quello valutativo del modo in cui viene esercitato il potere (se nell'interesse comune o nell'interesse dei governanti). Grazie a questo secondo criterio, valutativo o normativo, Aristotele pu distinguere le forme di governo in rette e degenerate: abbiamo cos monarchia, aristocrazia e polita, che degenerano rispettivamente in tirannide, oligarchia e democrazia. Tale suddivisione non comunque lineare, perch Aristotele esamina molte forme intermedie, con intento descrittivo. La classificazione aristotelica potrebbe essere esaminata anche alla luce di un altro criterio valutativo. Il punto di partenza costituito dalla netta opzione a favore del governo delle leggi (dotato dunque di un organo collegiale con compiti legislativi), e a scapito del governo degli uomini: tale scelta esclude sostanzialmente la costituzione monarchica, dato che questa, nella sua forma pi pura, il potere assoluto di un uomo (anche se, nella realt, questa pu venire pi o meno sfumata; sembra inoltre di capire che Aristotele considera tale forma storicamente esaurita e superata). Diviene ovvio, a questo punto, che la tirannia rappresenti per Aristotele la costituzione peggiore, in quanto forma pura del potere pi personale, assoluto e crudele. Rimangono quindi soltanto altri quattro tipi di costituzione, che possono essere suddivisi in base al criterio dell'equilibrio o della mediet: da una parte stanno le costituzioni "buone", nelle quali i vari elementi della citt stanno in un qualche equilibrio tra loro, e sono l'aristocrazia (che contempera

ricchezza, libert e virt - dunque ricchi, poveri e nobili) e la polita (che contempera ricchezza e libert, ricchi e poveri); dall'altro stanno le costituzioni "cattive", nelle quali prevale un solo elemento della citt, e sono l'oligarchia (prevalenza della ricchezza) e la democrazia (prevalenza della libert e della povert). Queste ultime tendono a provocare, a causa della loro unilateralit, una situazione di disordine, dalla quale nasce la tirannia. Nella trattazione della democrazia - dal punto di vista del criterio del numero - Aristotele insiste principalmente sulla superiorit dell'insieme sociale rispetto al singolo individuo: l'affidare il potere piuttosto alla moltitudine che ai migliori, pochi di numero, potrebbe sembrare soluzione soddisfacente, e degna di favorevole accoglienza, forse anche la pi pratica. Infatti la maggiornaza, della quale ciascun singolo membro pu non essere un uomo superiore, tuttavia nella sua totalit vede pi giustamente che ciascuno degli uomini superiori, come i conviti fatti per contribuzione sono migliori di quelli fatti a spese di uno solo. Essendo infatti molti, ciascuno ha la sua parte di virt e di senno, e messi insieme, la moltitudine diventa come un uomo, dai molti piedi, dalle molte mani, fornita di molteplici sensi, con una morale e un'intelligenza avente tutti i vantaggi dell'unit e molteplicit. Per questa ragione la moltitidine giudica le opere misucali e poetiche pi rettamente che i singoli individui competenti: poich chi giudica meglio una parte, chi un'altra, e tutti complessivamente giudicano meglio. Il filosofo, conscio dei rischi insiti nell'affidarsi alla moltitudine e non ai "migliori", precisa tuttavia che i diritti politici dei cittadini meno eminenti (che saranno la maggioranza) dovranno essere attivi e non passivi. La massa dei cittadini, dice infatti Aristotele, formata da quanti non sono ricchi n hanno alcuna qualit eminente. Certo, la partecipazione di questi alle maggiori magistrature non cosa priva di pericoli (poich per mancanza d'equit e di temperanza ora commetteranno ingiustizie ed ora incorreranno in errori): d'altra parte, il non conceder loro questa partecipazione cosa pericolosa (poich quando molti sono privi degli onori e delle ricchezze, la citt sar necessariamente piena di nemici). L'unica cosa che si pu loro concedere, di deliberare sugli affari pubblici e di prendere parte ai giudizi nei tribunali. Perci Solone e alcuni altri legislatori riconoscono alla massa dei cittadini il diritto di eleggere i magistrati e di esercitare un sindacato sull'opera loro, ma non permettono di esercitare magistrature individuali. Tutti assieme infatti hanno una discreta dose di buon senso; e, trovandosi in mezzo ad essi uomini di senno, sotto l'influenza di questi, agiscono bene e giovano cos alla citt; [...] Ma gli individui ciascuno per s non sono in grado di giudicare rettamente. Aristotele rifiuta infine un'obiezione che potremmo definire "tecnocratica", ossia basata sulla competenza specialistica: in base ad essa, alcuni sostengono che la moltitudine non in grado di eleggere i magistrati o di sindacarne l'operato, cos come non avrebbe competenza per scegliere un medico o valutarne l'operato. Aristotele ritiene che tali obiezioni siano valide nell'ipotesi di un corpo sociale di livello molto basso; altrimenti, la citta, nel suo insieme, giudicher meglio, o comunque non peggio, dello specialista. Infine Aristotele propone un ulteriore argomento: vi sono opere che devono essere apprezzate da chi ne usufruisce. Chi miglior giudice di un pranzo? Il cuoco o il convitato? E chi il miglior giudice di una casa? Il costruttore o colui che la deve abitare? Sulla costituzione monarchica ci siamo gi soffermati. Il fatto che Aristotele sia contrario al governo degli uomini e favorevole al governo delle leggi dimostra che egli non ha inclinazione per questo sistema. L'essenza della monarchia, infatti, che il re ha per legge la propria volont e null'altro: ma noi sappiamo che Aristotele contrarissimo a tale scelta, sia per il problema delle passioni, sia perch in una collettivit sviluppata non si d un individuo che superi tutti, sia perch la totalit degli individui giudica sempre meglio di uno solo. Inoltre egli mette in luce altri problemi: quello dell'ereditariet, che emerge nel caso in cui gli eredi non si rivelino all'altezza del compito; e quello dell'esercito, che deve consentire al re di imporre la sua volont, ma deve sempre rimanere inferiore alla forza della moltitudine nel suo complesso. Infine Aristotele d una spiegazione storica del sorgere delle monarchie, come fenomeno tipico di una comunit primitiva e poco differenziata, che con il suo sviluppo tende naturalmente ad abbandonare questa forma. Aristotele conclude la sua trattazione cercando di individuare la costituzione migliore. Assai interessante,

tuttavia, lo spirito con il quale si accinge a tale impresa: si deve ora ricercare quale sar la migliore costituzione, e quale il miglior sistema di vita per la maggior parte delle citt e degli uomini, volendo giudicare non in rapporto a una virt superiore alla consueta, n a quella di un'educazione che abbia bisogno di una buona disposizione naturale e di un fortunato concorso di circostanze, n a quello di un governo ideale; ma a quella d'una vita cui tutti possono partecipare e d'una costituzione che possa venire attuata in molte citt. Emerge qui con chiarezza il rifiuto aristotelico della deriva utopistica, il suo saggio ed equilibrato realismo: bene ricercare la costituzione migliore, ma sempre tenendo presenti i limiti umani e le condizioni di effettiva realizzabilit. L'argomentazione prende le mosse dall'Etica nicomachea: in essa il filosofo aveva definito felice l'uomo virtuoso; e la virt consisteva nella mediet, nell'equilibrio. Partendo da questo principio, Aristotele si sforza di mostrare che esso posseduto soprattutto dalla classe media, che viene qui contrapposta ai ricchi e ai poveri. In tutte le citt - dice Aristotele - vi sono tre classi, quella dei molto ricchi, quella dei molto poveri, e la terza formata di quelli di fortune mezzane. Poich adunque si conviene che la moderazione e la media rappresentino il meglio, manifesto che tra gli strumenti di prosperit civile il pi efficace sia quello fornito dalle fortune mezzane, poich l'uomo in questa condizione di vita pi facilmente ubbidir ai dettami della ragione. All'incontro, difficile che vi si uniformino uomini di qualit morali o forza o nobilit o ricchezza superiori, o viceversa poverissimi, o debolissimi e disonesti. Di queste ultime due genie infatti gli uni si comportano come tracotanti e facinorosi, gli altri come perversi e delinquenti volgari: i misfatti degli uni sono occasionati da petulanza baldanzosa, quelli degli altri invece da meschina malignit. Costoro rifuggiranno dai pubblici poteri, n avranno mai un'iniziativa: i difetti dei primi e quelli di questi ultimi sono egualmente dannosi al consorzio civile. Oltracci quelli che hanno sovrabbondanza di prosperit, di forza, di ricchezze, di aderenze e di altre simili condizioni favorevoli, non vogliono n sanno obbedire (e contraggono sin da fanciulli questa repugnanza, poich a causa della mollezza in cui sono educati non hanno abitudine ad obbedire neanche ai maestri); gli altri invece per la penuria di questi mezzi si trovano in uno stato di eccessiva degradazione: sicch questi ultimi non sanno comandare, ma ubbidire da schiavi, e i primi non sanno ubbidire in nessun modo, ma esercitare un impero da despoti. Ne consegue che il miglior governo possibile dove prevale la classe media. Ma l'analisi di Aristotele non si ferma qui. Per individuare la migliore delle costituzioni, egli si sofferma dapprima sulle condizioni teoriche, per poi passare a quelle materiali. Per quanto riguarda le prime, Aristotele parte dalla definizione di felicit: veramente felice l'uomo virtuoso, ragion per cui soltanto la citt virtuosa sar felice. Tre sono le categorie di beni che conducono alla felicit: i beni esterni, quelli del corpo e quelli dell'anima. Su questo, dice Aristotele, sono tutti d'accordo; ma il dissenso comincia a sorgere rispetto alla quantit e all'importanza dei beni richiesti per la felicit; poich [alcuni] stimano sufficiente una dose di virt per quanto piccola essa sia: ma all'appetito di ricchezza, di denaro, di potenza, di fama e di tutti siffatti beni non conoscono limite. A costoro invero faremo osservare esser facile persuadersi con l'esperienza che gli uomini non acquistano e posseggono le virt coi beni esteriori ma, invece, i beni esteriori con le virt: che la felicit della vita si ritrova per gli uomini o nel godimento o nelle virt o in ambedue questi termini: ma privilegio precipuo delle menti e degli animi pi alti, anche se scarseggiano dei beni esteriori, piuttostoch di quelli i quali posseggono pi del bisogno beni materiali, ma hanno difetto di questi che sono i veri beni. Per quanto riguarda le condizioni materiali, Aristotele individua limiti di territorio e di popolazione, luogo strategicamente opportuno e di facile comunicazione con il mare, divisione in classi. Poich la citt avr bisogno di molte cose (alimentazione, arti, armi, mezzi pecuniari, religione e politica), molteplici saranno le funzioni. Chi le dovr adempiere? Tutti indistintamente o alcuni specificamente addetti ad esse? Se partiamo dal presupposto che la citt felice sia quella virtuosa, allora dovremo escludere dalle funzioni direttive gli operai, gli artigiani e gli agricoltori.

Poich ci troviamo a trattare l'argomento della migliore costituzione, che si pu definire quella secondo cui la citt sarebbe massimamente felice - e la felicit, come abbiamo detto sopra, congiunta indissolubilmente con la virt - manifesto da ci, che nella citt meglio governata e che possiede cittadini giusti in modo assoluto, non gi relativamente a ciascuna costituzione, non l'ideale della vita civile quello dell'operaio meccanico o del commerciante (poich il tenore di vita di costoro ignobile e contrario alla virt), e nemmeno quello di coloro che debbono esercitare l'agricoltura (poich all'esplicazione della virt e all'esercizio della vita civile si richiede tempo disponibile). Quanto alla divisione delle funzioni tra le classi direttive (guerrieri e magistrati) essa avviene in base ad un criterio cronologico: chiaro anche perch sotto un certo aspetto queste competenze vadano accomunate, sotto un altro dissociate. Giacch in quanto ciascuna delle dette funzioni richiede diverso genere di vigore, cio l'una ha bisogno di senno, l'altra di forza, bisogna assegnarle a persone diverse: in quanto poi impossibile che si rassegnino alla sudditanza quelli che hanno in mano la forza, bisogna assegnarle ai medesimi; dipendendo dalla volont di costoro la conservazione o l'abbattimento della costituzione. Adunque resta soltanto da attribuire questi diritti politici agli uni e agli altri egualmente, ma non nello stesso tempo: ma a quel modo che la forza nei giovani, il senno nei vecchi, conviene ed giusto che a questa stregua siano assegnate le funzioni, corrispondendo al merito questo criterio distributivo. Ma necessario che costoro siano anche proprietari, poich i veri cittadini debbono essere forniti di mezzi, e costoro sono cittadini. Gli operai meccanici infatti non partecipano alla vita civile, n alcun'altra genia che non sia operatrice di azioni virtuose. E ci reso evidente pel principio da noi posto, che la felicit della citt debba essere accompagnata dalla virt, e che non si pu chiamare felice la citt nel riguardo solo di una parte qualsiasi, ma di tutti i cittadini. E' manifesto inoltre che anche le propriet debbano essere di costoro, se necessario che gli agricoltori siano schiavi o barbari perieci. Degli elementi enumerati rimane la classe dei sacerdoti; ed chiaro anche il loro ordinamento: poich n dalla genia degli agricoltori, n da quella degli operai meccanici bisogna trarre i sacerdoti (essendo opportuno che gli dei siano onorati dai cittadini): ma siccome i cittadini si dividono in due parti, quella dei guerrieri e quella degli altri chiamati a deliberare, e conviene inoltre rendere agli dei il culto loro dovuto, e in queste cure possono trovar riposo quelli che sono affranti dall'et, a costoro si debbono dare mansioni sacerdotali. Non rimane che fare un cenno al problema dell'educazione. Anche per Aristotele, come per Platone, essa fondamentale: la solidit della costituzione dipende dall'educazione che riceveranno i giovani. Non si pu dunque dubitare che il legislatore debba mostrare la maggiore sollecitudine per l'educazione dei giovani. Poich se questa nelle citt viene trascurata, la loro costituzione ne verr danneggiata. E' necessario infatti adattare l'educazione dei giovani al concetto informatore di ciascuna costituzione o addirittura improntarla; p.es., l'indirizzo democratico della giovent suole conservare la democrazia, l'oligarchico l'oligarchia. Insomma con la migliore educazione politica si avvantaggia sempre la costituzione. Inoltre, l'educazione deve essere uguale per tutti, perch unico il fine dello Stato; e proprio per garantire tale uniformit l'educazione deve essere attribuita allo Stato. Tale scelta si inquadra in quella concezione organicistica dello Stato, che accomuna - sia pure con le forti differenze che abbiamo evidenziato - i due grandi filosofi dell'Antichit, conducendoli inevitabilmente a collocare su un piano subordinato le esigenze e i diritti degli individui. E' di pubblico interesse - dice Aristotele - che l'esercizio delle singole attivit sia subordinato all'interesse collettivo: nello stesso tempo non bisogna credere che ogni cittadino sia padrone assoluto di s, ma invece che tutti appartengano alla citt, essendo ciascuno parte della citt; poich la cura di ciascuna parte subordinata alla cura della totalit.

3. Agostino
Cenni biografici

Nasce a Tagaste, in Numidia (l'attuale Algeria), nel 354. Il padre appartiene alla modesta classe dei curiales, piccoli proprietari terrieri; la madre, Monica, cristiana. Nonostante qualche difficolt economica, tra il 369 e il 373 (quindi tra i 15 e i 19 anni) frequenta la scuola di retorica a Cartagine, uscendone "oratore". E' a Cartagine che legge, per la prima volta, l'Hortensius di Cicerone, che lo infiamma di passione per gli studi filosofici; sempre a Cartagine si avvicina al manicheismo. La mancanza di mezzi gli impedisce di proseguire gli studi ad Alessandria o Atene. Si d allora all'insegnamento della retorica, prima brevemente a Tagaste, quindi di nuovo a Cartagine, nel 374. Conosce una donna, con la quale convive per dodici anni e dalla quale ha un figlio, Adeodato. Nel 383, a 29 anni, si reca a Roma per aprirvi una scuola di retorica, seguito da alcuni amici, dalla madre e da Adeodato. Si distacca dal manicheismo e attraversa una fase di scetticismo, secondo l'insegnamento degli accademici che professavano il dubbio universale. Nel 384 si reca a Milano, dove si resa vacante una cattedra di retorica. Qui incontra Ambrogio e si avvia sulla strada del Cristianesimo, aiutato anche dalla lettura di Platone e dei neo-platonici. Nel 386 si compie la conversione completa; nel 387 viene battezzato. Nello stesso anno parte per l'Africa; ad Ostia muore la madre. Nel 388, giunto in Africa, si stabilisce prima a Cartagine, quindi a Tagaste, dove fonda un cenobio, nel quale vive religiosamente con un gruppo di amici. Nel 391 si reca ad Ippona, dove i fedeli lo riconoscono e chiedono che venga ordinato prete; Agostino accetta e fonda un monastero in Ippona. Nel 395 viene nominato vescovo coadiutore, per aiutare il vecchio Valerio. Alla morte di quest'ultimo, nel 396, viene nominato vescovo di Ippona. Da allora la sua vita consacrata alla Chiesa. Muore nel 430, a 76 anni. Tra le numerossime opere, ricordiamo soltanto le Confessioni (scritte nel 400, quando ha 46 anni) e il De civitate Dei (scritto tra il 415 e il 426).

Il pensiero politico
Lo sfondo storico del De civitate Dei - scritto tra il 415 e il 426, quando Agostino ha ormai superato i 60 anni - sta nella drammatica crisi dell'Impero romano, resa evidente dal sacco di Roma del 410. Tale disfatta poneva due problemi. Il primo era l'accusa che i pagani rivolgevano ai cristiani, in base alla quale il crollo di Roma sarebbe stato legato al rinnegamento della religione pagana, sostituita con quella cristiana; da questo punto di vista, era necessario difendere la religione cristiana dall'accusa di aver determinato il crollo dell'Impero. Per fare ci Agostino sviluppa una visione provvidenziale della storia, che conferisce senso positivo ad ogni evento, anche se catastrofico. Il secondo problema, posto dal sacco di Roma, aveva un carattere pi generale, coinvolgendo tanto i cristiani quanto i pagani: era il senso di drammatico smarrimento di fronte al crollo di un'epoca e di un sistema complessivo di vita. Su questo piano, si trattava di rassicurare i cristiani - che erano peraltro ormai inseriti nelle strutture dell'Impero - sul senso della storia umana, collocando il dramma in atto all'interno di una grandiosa e complessiva considerazione della storia, il cui esito finale era costituito dalla salvezza dei credenti. E' in tale ambito che Agostino sviluppa la teoria delle due Citt, le quali, anche se intrecciate nella storia, sono ben distinte quanto al destino. Il dualismo tra dimensione terrena e dimensione celeste - tipico degli scrittori cristiani dei primi secoli, e che ha condotto taluni a parlare di "lealt divisa" - viene radicalizzato da Agostino, che afferma inoltre la netta superiorit della seconda sulla prima. Il testo dove pi efficacemente viene rappresentato tale dualismo si trova nel XIV libro del De civitate Dei. Due amori fecero dunque due Citt: l'amore di s fino al disprezzo di Dio fece la Citt terrena; l'amore di Dio fino al disprezzo di s fece la Citt di Dio. Quella si gloria di s medesima, questa si gloria nel Signore. Quella cerca la sua gloria dagli uomini, questa mette la sua massima gloria in Dio, testimone della sua coscienza. L'una si esalta nella sua gloria, l'altra dice al suo Dio: Tu sei la mia gloria, tu mi fai rialzare il

capo. In quella, sia nei suoi capi, sia nelle nazioni che essa sottomette, domina la libidine del dominio; in questa i cittadini servono reciprocamente gli uni agli altri, i governanti consigliando, i sudditi obbedendo. Quella, nei suoi principi, ama la sua propria forza; questa dice al suo Dio: Amer te, o Signore, mia unica forza. La citt terrena nasce dal delitto di Caino, ossia da un atto dovuto non alla rivalit per i beni terreni, ma all'invidia diabolica dei cattivi per i buoni. Il dualismo insanabile e sar consacrato dalla divisione finale delle due citt, alla fine dei tempi, quando la citt celeste godr del sabato che non avr sera e la citt terrena languir nelle pene eterne. Ma se saranno separate alla fine dei tempi, nel corso della storia le due citt sono mescolate. La citt di Dio, pellegrina in terra, ha tra i suoi cittadini molti che in realt appartengono alla citt terrena, e viceversa. Tuttavia, possibile tracciare le linee di una storia sacra, ossia delineare la storia della citt celeste nel suo cammino terreno. Il criterio per individuare tale storia sar la rivelazione: la storia sacra sar dunque quella di Israele e della Cristianit. Ci non significa, tuttavia, che la citt celeste si identifichi totalmente con queste manifestazioni storiche; occorre infatti distinguere tra la Gerusalemme celeste e quella terrena. In quest'ultima vivono molti amici di Babilonia; e viceversa, in Babilonia vivono e hanno vissuto alcuni amici di Gerusalemme. L'appartenenza alla stirpe di Israele non dunque condizione necessaria per la salvezza prima di Cristo; tuttavia solo quest'ultimo che pu dare la salvezza. Ricapitolando: le due citt, nel corso storico, sono mescolate; nonostante ci, possibile delineare una storia sacra, ossia la storia della citt celeste nel suo cammino terreno. Per distinguere questa storia dalla vicenda della citt terrena occorrer rifarsi alla rivelazione: sar sacra la storia di coloro ai quali Dio si rivelato, dunque Israele e poi la Cristianit. Ma bisogna sempre tenere ferma la distinzione tra Gerusalemme celeste e Gerusalemme terrena: quest'ultima una manifestazione storica che non esaurisce la prima. In altre parole, non tutti coloro che appartengono formalmente alla Gerusalemme terrena vi appartengono spiritualmente; cos come alcuni che appartengono formalmente (o materialmente) a Babilonia, spiritualmente appartengono a Gerusalemme. Anche la Chiesa cristiana - quae civitas Dei est - va distinta dalla Citt di Dio celeste: essa, infatti, come la Gerusalemme terrena, un corpus permixtum, nel quale la zizzania cresce insieme al frumento. Ma il riconoscimento di tali limiti non conduce Agostino a concepire la vera Chiesa come un corpo spirituale (e quindi invisibile), composto da tutti coloro che sono veramente santi; egli accetta e sostiene il primato della Chiesa visibile e gerarchica, quale manifestazione di un Impero spirituale, universale e in divenire. Pur con le dovute distinzioni, dunque, la Citt di Dio ha precisi punti di "attacco" terrestre: prima Israele, poi la Chiesa di Cristo e la sua gerarchia. Tale riconoscimento getta le basi per una teologia della storia, nonch per una sacralizzazione della vita politica. La presenza del sacro nella storia poteva condurre a due esiti: il primo era la rivendicazione del primato della Chiesa, in quanto sede certa del sacro, sul potere politico; il secondo era la rivendicazione, da parte del potere politico (e quindi dell'Impero), di finalit e compiti sacri, di natura religiosa. Il secondo esito ha un suo esempio storico nella vicenda di Carlo Magno, che concepisce il suo potere come attuazione dei princpi cristiani, giungendo a considerarsi protettore della Chiesa; il primo trova invece la sua realizzazione forse pi pura nell'atteggiamento di Papa Gregorio VII, il quale, con il suo Dictatus Papae, rivendica l'assoluto primato della Chiesa sul potere politico, non lasciando quindi alcuno spazio a quel "diritto naturale" dello Stato che i cristiani dei primi secoli avevano invece teorizzato (fatta salva, ovviamente, la sfera religiosa). Il pensiero di Agostino contiene, per un verso, le premesse per una scelta teocratica come quella di Gregorio VII; ma tali premesse non sono completamente sviluppate, anche perch, per altro verso, nel pensiero del Vescovo di Ippona sono presenti i motivi del diritto e delle virt naturali. Quest'ultimo un tema molto importante. Esiste un quid medium tra la vera virt, santificata dalla grazia, e il vizio: si tratta della virt naturale, destinata ad essere perfezionata e non distrutta dalla grazia. E' interessante vedere come questa nozione di virt naturale giochi un ruolo importante nella valutazione agostiniana dell'Impero romano. Per un verso, Agostino critica a fondo l'Impero romano: egli sostiene, ad esempio, che una repubblica romana, come la intende Cicerone, non mai esistita. Repubblica significa infatti "cosa del popolo"; per esservi una repubblica deve dunque esserci un popolo, ossia una moltitudine

che riconosca un diritto e condivida degli interessi; il diritto, infine, altro non che giustizia. Dalla insussistenza della causa ultima, la giustizia, Agostino deduce l'infondatezza della prima affermazione, ossia l'esistenza di una repubblica. A Roma non vi era affatto giustizia - dice infatti Agostino -, giacch questa significa "dare a ciascuno il suo", mentre a Roma l'uomo era sottratto al suo vero Dio e sottomesso a demoni immondi. Se non c'era giustizia, non poteva esserci diritto; e non essendoci diritto, non poteva darsi, per la definizione che abbiamo visto poco sopra, alcun popolo. Ma senza popolo non si d alcuna cosa del popolo, quindi alcuna repubblica. La conclusione di Agostino, come possiamo vedere, assai negativa: Roma non conosceva la giustizia, Roma non era una repubblica. Per altro verso, tuttavia, Agostino fornisce un'interpretazione provvidenzialistica dell'Impero romano. Anzitutto riconosce le virt naturali praticate dai Romani, attribuendo ad esse l'esistenza dell'Impero. L'Impero fu, in un certo senso, la ricompensa "laica" - l'unica possibile, essendo preclusa quella celeste - per le virt naturali praticate dai Romani. E poich Agostino convinto che ogni potere derivi da Dio - secondo un disegno provvidenziale imperscrutabile, che guida la storia - egli finisce per "santificare" la funzione dell'Impero romano, pur con tutti i limiti che gli attribuisce. Fermiamoci un attimo a considerare - in relazione al problema politico - le implicazioni di una visione religiosa della storia, dominata dalla volont di Dio. L'assunzione di un orizzonte provvidenziale, determina, per un verso, il rafforzamento del potere. Anzitutto, ogni potere, in quanto esistente, voluto da Dio e dunque ha una sua ragion d'essere, una sua giustificazione, che lo rende legittimo. Il potere trova la sua legittimit nel derivare da Dio; ma poich ogni potere deriva da Dio, ogni potere legittimo. Tale approccio rende inoltre molto pi forte il principio stesso di legittimit: essa deriva infatti da Dio, dunque da una volont infinitamente superiore a quella degli uomini e, in quanto tale, imperscrutabile. Ne consegue che il fondamento della legittimit soprannaturale, assoluto e, in quanto tale, si sottrae ad ogni esame, ad ogni controllo da parte degli uomini. Se il potere deriva da Dio, chi lo discute mette in dubbio la volont di Dio: , in sostanza, un sacrilego. Il dovere dell'obbedienza, nel quadro di tale concezione, non pu che uscirne rafforzato: obbedendo al potere, si obbedisce alla volont di Dio. In conclusione: fondare il potere sulla volont di Dio equivale a sacralizzarlo, con tutto ci che ne pu seguire. Un potere sacralizzato un potere fortissimo, indiscutibile: di fronte ad esso l'uomo , in linea di principio, senza argomenti, senza diritti. Per altro verso, tuttavia, il potere politico ne pu uscire indebolito. Il fatto che la legittimazione sia di origine divina, fa s che il potere perda il carattere di "fine in se stesso", per assumere quello di mero strumento. Il potere soltanto il mezzo attarverso il quale si realizza la volont di Dio; ci significa che esso , in un certo senso, "limitato". Non pu, con tutta evidenza, andare contro Dio e contro le sue leggi. Anche l'obbedienza dei sudditi quindi strumentale: essi obbediscono al potere in quanto strumento di Dio e non per se stesso. Di qui la possibile limitazione (e quindi l'indebolimento) del potere: i princpi del Cristianesimo limitano la sfera d'azione del sovrano. Il potere politico assume dunque una connotazione strumentale, rispetto ad un fine che sancisce, oltretutto, l'assoluto valore di tutti gli individui in quanto figli di Dio. In teoria il potere politico non potrebbe far nulla che vada contro i princpi della dottrina cristiana (anche se ci si scontra con il problema della provvidenzialit della storia nella sua interezza): si dispone quindi di una serie di princpi con i quali giudicare l'azione dello Stato e ai quali appellarsi per difendersi dallo Stato. Infine, dalla fondazione religiosa del potere politico pu derivare la soluzione teocratica: poich il potere deriva e dipende da Dio, e poich la Chiesa l'interprete autentica della volont di Dio, il potere dipende dalla Chiesa, o quantomeno quest'ultima ha un chiaro primato su di esso. Ma torniamo ad Agostino. Vediamo il profilo che egli traccia del principe cristiano: noi diciamo felici gli imperatori, se essi regnano con giustizia, se non si levano in superbia, se si ricordano di essere uomini, anche in mezzo agli onori ed al servile ossequio che li circonda; se sottomettono il loro potere alla maest di Dio, specialmente per estendere il suo culto; se, temono, amano ed onorano Dio; se prediligono quel regno in cui non temono di trovare chi li eguagli in dignit: se sono lenti a punire e pronti a perdonare; se unicamente puniscono per mantenere l'ordine e la tranquillit dello Stato, non per soddisfare il loro odio od il loro spirito di vendetta; se perdonano non perch l'iniquit resti impunita, ma nella speranza che il colpevole si corregga; se, talvolta, quando sono costretti a punire pi aspramente, temperano questa necessit con la clemenza e la liberalit; se sono tanto pi moderati nei loro piaceri,

quanto pi sarebbero liberi di eccedere nel piacere; se preferiscono comandare alle loro cattive passioni che a tutti i popoli della terra, e se questo fanno non per desiderio di vana gloria, ma per amore della felicit eterna; se, per i loro peccati, essi non trascurano di offrire al loro vero Dio sacrifici di umilt, di misericordia e di preghiera. Agostino si spinge a lodare la politica confessionale di Teodosio, perch, ai suoi occhi, il carattere tollerante della societ pagana inaccettabile. La citt di Dio dottrinalmente unitaria e quindi la societ che ad essa si ispiri non pu tollerare l'errore: l'intervento dello Stato in favore della vera fede e contro gli eretici dunque legittimo e non si pu confondere la persecuzione del cristiano con la persecuzione di chi si batte per una causa non vera e non giusta. Occorre aggiungere che il compiacimento mostrato da Agostino per l'atto di pubblica penitenza dell'Imperatore di fronte al vescovo di Milano ha un significato eminentemente eticoreligioso e non politico. Il suo valore, agli occhi di Agostino, sta nel costituire un atto esemplare di penitenza individuale: il credente, sebbene sia l'Imperatore in persona, segue le indicazioni e le penitenze comminate dal suo vescovo. Tale atto non ha, invece, un significato politico; ossia, non configura la supremazia del potere religioso sul potere politico, della Chiesa sull'Impero. Per comprendere il richiamo all'obbedienza nei confronti dell'autorit - che presente in Agostino - bene fare cenno a quella sorta di "metafisica della pace" che Agostino sviluppa nel De civitate Dei. Le istituzioni sono sempre buone, purch non impediscano alla religione cristiana di diffondersi e di insegnare il vero culto di Dio. La loro bont deriva dal perseguire il fine della pace. La pace, per Agostino, ha un valore assoluto e si realizza su pi piani per culminare nella pace di tutte le cose, che la tranquillit nell'ordine. Sicch la pace del corpo l'ordinato temperamento delle parti, la pace dell'anima irrazionale l'ordinato riposo degli appetiti, la pace dell'anima razionale l'accordo bene ordinato tra il conoscere e l'operare, la pace del corpo e dell'anima la vita e la salute bene ordinata della creatura animata, la pace dell'uomo mortale con Dio obbedienza bene ordinata nella fede sotto la legge eterna, la pace degli uomini l'unione nell'ordine, la pace domestica l'unione e l'ordine del comandare e dell'obbeddire tra coloro che abitano insieme, la pace della citt l'unione e l'ordine del comandare e dell'obbedire tra i cittadini, la pace della Citt Celeste l'ordine perfetto, l'unione suprema nel godimento di Dio, nel mutuo godimento di tutti in Dio, la pace di tutte le cose la tranquillit nell'ordine. L'ordine la disposizione che, secondo la parit o la disparit nelle cose, assegna ad ogni cosa il suo posto. L'ordine dunque la disposizione che assegna ad ogni cosa il suo posto. Qui la nozione di ordine sembra coincidere con quella di pace e di giustizia: tutte presuppongono un ordine delle cose, secondo il quale ogni cosa sta al posto che le proprio ed bene che tutto sia cos. Ora, proprio nella pace abbiamo il punto di incontro tra le due citt. Certamente, le due citt perseguono fini diversi: Babilonia aspira ad una pace mondana, finalizzata cio al godimento dei beni terreni; Gerusalemme, invece, aspira ad una pace spirituale, che consiste nel godimento dei beni eterni, e che la spinge ad un diverso atteggiamento nei confronti dei beni terreni. Dunque, conclude Agostino, l'uso dei beni comune, ma il fine diverso. Cionondimeno, Gerusalemme condivide, insieme con l'uso dei beni, anche la pace cercata da Babilonia, perch essa condizione necessaria alla conservazione della vita mortale. Perci il cristiano obbedisce alle leggi, perch condivide, in quanto mortale, l'esigenza di conservare le cose utili alla vita, tra le quali la stessa pace tra le due citt. Ma sentiamo come lo stesso Agostino descrive questa "collaborazione" tra le due citt. Durante il suo pellegrinaggio sulla terra, la Citt celeste recluta i suoi cittadini presso tutte le genti e, pur nella pluralit delle lingue, raccoglie insieme una societ che va pellegrina, incurante di tutte le differenze e di costumi e di leggi e di istituzioni che servono ad ottenere o a mantenere la pace terrena, senza guastare o distruggere nulla, conservando, anzi, e adattandosi alle consuetudini di ogni singolo popolo, poich, nonostante esse siano diverse da popolo a popolo, mirano tutte ad un unico e medesimo fine, la pace terrena, purch esse lascino alla religione la libert di insegnare il culto del solo e vero Dio. Anche la Citt celeste, in questo esilio, si giova dunque della terrena, e, per tutto ci che concerne la natura morale dell'uomo, nei limiti in cui la piet salva e la religione lo permette, essa protegge ed incoraggia l'uinone delle volont umane, riferendo la pace terrena alla pace celeste, la pace vera, la sola di cui possa gioire, la sola che la creatura razionale possa chiamare con questo nome, la pace che ordine perfetto, l'unione

suprema nel godimento di Dio, nell'amore scambievole di tutti in Dio. L non ci sar pi vita mortale, ma vitalit piena e certa; non ci sar pi corpo animale, il cui fardello corruttibile appesantisce l'anima, ma corpo spirituale, senza alcuna indigenza, ed in tutto sottomesso alla volont. Mentre va pellegrina nella fede, essa ha questa pace, e, nella fede, essa vive con giustizia, riferendo al conseguimento di questa pace tutte le buone opere che essa compie in relazione a Dio ed al prossimo, perch la vita della Citt una vita sociale. In questo brano possiamo rintracciare il concetto di universalit come tratto saliente della missione della Chiesa, la quale non tiene conto di alcuna distinzione linguistica, storica, culturale e istituzionale, poich si rivolge all'uomo. Poi abbiamo quello che si potrebbe definire l'agnosticismo politico della Chiesa: essa si propone infatti non solo di non guastare o distruggere nulla, ma anzi di conservare tutti i diversi tipi di ordinamento istituzionale e culturale nei quali si trova ad operare, nella convinzione che tutti mirino all'unico fine di garantire la pace. La sola condizione che tali ordinamenti garantiscano alla Chiesa la libert per svolgere la sua missione evangelizzatrice (insegnare il solo e vero Dio). Abbiamo infine il riconoscimento che la Citt celeste non solo si giova, ma anzi incoraggia la pace terrena (purch non in contrasto con la religione) durante il suo esilio quaggi, cercando di operare con giustizia soprattutto verso il prossimo. La vita della Citt, conclude infatti Agostino, una vita sociale: e qui torna la "naturalit" della socialit umana che abbiamo gi incontrato nella filosofia classica greca. Quanto alla schiavit, Agostino la ammette solo come nascente dal peccato; la natura degli uomini uguale, e soltanto la colpa giustifica la schiavit, ossia il dominio dell'uomo sull'uomo. L'esortazione di Agostino si rif a Paolo: gli schiavi obbediscano al padrone, emendandosi interiormente; e i padroni li trattino con rispetto e piet, senza superbia. Infine Agostino ritiene che il cristiano non debba sottrarsi ad alcuna condizione sociale, giacch stato stabilito che esso viva insieme ai non credenti, al fine di essere messo alla prova e purificato come l'oro nel crogiuolo. Quindi il problema non quello di separarsi dal mondo, fondando comunit di santi e di giusti; il cristiano deve vivere mescolandosi ai peccatori, ma tenendo assolutamente fermi i fini ultimi che lo caratterizzano e quindi usando dei beni terreni solo come mezzi. Ci significa che potr fare il guerriero, ad esempio. Il concetto di guerra giusta ricompare dunque anche in Agostino; giusta quella guerra conforme alla morale naturale, purch non leda la coscienza cristiana; ancora meglio se promuove la religione cristiana. Ma perch questi due fattori coincidano - facendo della guerra uno strumento della religione bisogner aspettare ancora qualche secolo. Da sempre si discute sull'interpretazione delle due citt, al fine di comprendere l'atteggiamento di Agostino verso la politica. Alcuni studiosi, come Corsini, sostengono che le equivalenze Citt terrena/Impero romano e Citt celeste/Chiesa cattolica sono il frutto di un equivoco. In realt parlando di civitas Dei e civitas diaboli Agostino si sarebbe riferito a due entit spirituali, non identificabili con realt storicamente determinate e precisamente demarcabili; tanto vero che l'appartenenza visibile ad una di queste ultime (Impero o Chiesa) non coincide necessariamente con l'appartenenza vera e interiore. Gli sviluppi teocratici del pensiero di Agostino non sarebbero dunque imputabili all'ispirazione del vescovo di Ippona. Questa tesi convincente se si pensa alla netta distinzione tra la Gerusalemme celeste e la Gerusalemme terrena, la quale un corpus permixtum, dove vivono anche molti amici di Babilonia. Inoltre Agostino non pensa certamente ad un modello teocratico, nel senso di un'esplicita assunzione di responsabilit politiche da parte della Chiesa. Restano tuttavia due fatti: il primo che Agostino riconosce il ruolo della Chiesa visibile e il suo primato, facendone la protagonista principale della storia sacra (questa empirica Chiesa romana, e non una chiesa invisibile e spirituale di santi); il secondo che tale Chiesa, pur con tutta la zizzania presente in lei (come elemento di imperfezione umana), spiritualmente superiore alla Citt non cristiana ed sede dell'unica e sola verit. Si tratta quindi di premesse che potevano condurre - anche se in Agostino non avviene - a determinati sviluppi. Sar Orosio (che viene dalla cerchia di Agostino) a sviluppare, nelle sue Storie, il pi completo compendio di teologia politica incentrata sull'Impero cristiano. L'Impero romano il braccio secolare del Cristianesimo, il quale gli dar prosperit e durata perenni. In una prospettiva pi ampia - quella del profondo nesso complementare in Agostino tra poli a prima vista opposti, come fede/ragione, dipendenza del mondo da Dio/valore del mondo, libert/grazia - Perone insiste anche in questo caso sul nesso tra Citt di Dio e Citt umana. Per un verso esse sono opposte; ma per l'altro

si implicano. La citt terrena, infatti, persegue fini che hanno qualcosa di buono (sappiamo infatti che il male per Agostino non-essere): ed nella ricerca della pace che le due citt, come abbiamo visto, si incontrano. Insomma, le due citt hanno fini diversi; ma ci non significa che i fini della Citt terrena siano completamente vani. Essi contengono qualcosa di buono, che trova la sua compiuta realizzazione, il suo senso, nella Citt celeste. Solo nel Regno di Dio si compir tale pienezza; per ora se ne pu intravedere una anticipazione nella Chiesa. Ma in questa tensione escatologica sta anche la dimostrazione che Agostino lungi dall'identificare la Chiesa storica con la Citt di Dio (il che lo condurrebbe al modello teocratico).

4. Tommaso
Cenni biografici
Tommaso d'Aquino nasce a Roccasecca nel 1225. Dal 1239 al 1244 (dai 14 ai 19 anni) frequenta l'Universit di Napoli, dove conosce l'Ordine dei Frati predicatori, nel quale decide di entrare, sebbene la famiglia sia contraria, nel 1244. Ricondotto con la forza a Roccasecca dai fratelli, Tommaso non desiste dai suoi intenti e nel 1245 parte verso il Nord. Dal 1248 al 1252 a Colonia, alla scuola di Alberto Magno, il cui insegnamento lo dispone favorevolmente verso Aristotele. Dal 1252 al 1259 risiede a Parigi, dove insegna con vari incarichi, sino ad ottenere nel 1257 la cattedra di teologia all'Universit. Dal 1259 al 1268 in Italia, dove segue la corte pontificia nei suoi spostamenti, insegnando e scrivendo. In questi anni termina la Summa contra Gentiles, inizia la Summa theologiae e scrive l'incompiuto De regime principum. Dal 1269 al 1272 di nuovo a Parigi, dove continua a scrivere ed insegnare. Scrive numerosi commenti ad opere di Aristotele. Dal 1272 al 1274 a Napoli, dove insegna teologia all'Universit. Chiamato al concilio ecumenico di Lione, muore durante il viaggio a Fossanova, nel 1274, quando ha 49 anni.

Il pensiero politico
In genere, il pensiero di Tommaso viene caratterizzato sottolineandone il "naturalismo", ossia la rivalutazione del fattore naturale di fronte al fattore soprannaturale. Ai dualismi agostiniani (mondo celeste/mondo terreno, natura/grazia) Tommaso sostituirebbe una concezione pi moderata, in virt della quale gratia non tollit naturam, sed perficit. Anche se la concezione positiva della natura pu essere rintracciata in gran parte del pensiero cristiano e nello stesso Agostino, resta indubbio, secondo Valentini, che l'espressione "naturalismo" designi un tratto essenziale del pensiero tomistico, consistente nell'attribuzione alla natura di una sua autonomia. Il naturalismo di Tommaso ha, sul piano del pensiero politico, precise conseguenze: esso infatti porta con s una concezione naturalistica della socialit umana (l'uomo come animale naturalmente sociale e politico), dalla quale deriva una spiegazione in termini naturalistici sia dell'origine dello Stato, sia del rapporto governanti-governati, e che sfocia infine in una visione organicistica della societ. Certo ogni uomo naturalmente dotato del lume della ragione, per mezzo del quale pu, nei suoi atti, dirigersi al fine. E invero, se all'uomo si addicesse di vivere isolato, come vivono molti animali, non avrebbe bisogno di alcun'altra guida, ma ognuno, sotto Dio re supremo, sarebbe re di se stesso dirigendosi nelle sue azioni per mezzo del lume della ragione datogli da Dio. Senonch proprio della natura dell'uomo di essere

animale sociale e politico, vivente in comunit, pi ancora degli altri animali, come appare anche dalla necessit naturale. Agli altri animali difatti la natura appresta il cibo, l'indumento peloso, i mezzi per difendersi, come i denti, le corna, le unghie, o almeno la capacit di fuggire rapidamente. L'uomo invece non fornito di alcuno di questi doni di natura, ma in cambio ha ricevuto la ragione, per mezzo della quale pu procurarsi tutte queste cose coll'opera delle sue mani, cose che tuttavia un uomo da solo non basta a procurarsi. Un uomo solo difatti non potrebbe di per s condurre la vita con sufficienza (sufficienter). E' dunque naturale all'uomo di vivere in societ con altri uomini. Inoltre: negli altri animali insito un istinto naturale per tutto ci che loro utile o nocivo, cos come l'agnello reputa istintivamente suo nemico il lupo. Ci sono persino degli animali che per istinto naturale conoscono talune erbe medicinali e altre cose necessarie alla loro sopravvivenza. All'uomo invece la conoscenza naturale delle necessit della vita data solo in generale, appunto perch gli possibile per mezzo della ragione di pervenire dai princpi universali alla conoscenza delle singole cose che sono necessarie al vivere umano. Ora non possibile che un uomo solo raggiunga colla sua ragione tutte queste conoscenze. E' pertanto necessario all'uomo di vivere in societ, affinch l'uno aiuti l'altro, e uomini diversi si dedichino a raggiungere colla ragione conoscenze diverse, ad es., l'uno nella medicina, un altro in questo, un altro in quello. Siamo in pieno aristotelismo. L'uomo un essere naturalmente sociale e politico, la natura stessa ce lo dimostra; la socialit un istinto ed anche un bisogno. Come in Aristotele, e come nello stesso Platone, esiste una sproporzione tra le capacit dell'individuo singolo e i suoi bisogni; lo Stato sorge naturalmente per sopperire a questi bisogni, riunendo insieme pi individui. Lo Stato quindi, per Tommaso, diversamente dalla maggior parte dei precedenti pensatori cristiani, non una conseguenza (e un rimedio) alla caduta dell'uomo, alla sua condizione di peccatore. Per Tommaso l'uomo era sociale anche ante peccatum. Egli infatti distingue due tipi di soggezione: quella nell'interesse di chi comanda, detta anche soggezione economica o civile, la quale deriva dal peccato (come in tutto il pensiero cristiano, la schiavit effetto del peccato, giacch gli uomini, per natura, sarebbero uguali) e quella nell'interesse di chi obbedisce. Quest'ultimo tipo di "soggezione" altro non che la naturale distinzione tra governanti e governati, della quale il consorzio umano non pu fare a meno e che esisteva anche nell'et dell'innocenza. Senza tale distinzione mancherebbe infatti alla societ umana il bene dell'ordine, in virt del quale i pi sapienti governano, riconducendo le disparate tendenze dei singoli ad unit. Naturale dunque anche la diseguaglianza degli uomini, non solo per et o per sesso, ma anche per ragioni individuali, ossia per il possesso in grado diverso di sapienza, giustizia, bellezza, prestanza fisica. Anche in Tommaso abbiamo insomma una visione naturalistico-organicistica della realt. Ci implica: a) che esista un ordine naturale (e quindi necessario, oggettivo); b) che tale ordine contenga diseguaglianze naturali tra le parti che lo costituiscono; c) che tale ordine sia naturalmente gerarchico. Come esiste una gerarchia nel mondo (ad esempio, gli uomini sono superiori agli animali e alle piante) che culmina in Dio creatore, cos nell'uomo esiste una gerarchia che culmina nella ragione; la societ, analogamente, deve essere ordinata in modo gerarchico e monarchico, giacch il sovrano sar quell'uno che si trova al culmine della societ e le imprime un ordine unitario. Tommaso vede quindi nella monarchia il regime politico ideale. Anch'egli adotta il modello sestuplice di classificazione delle forme di governo gi elaborato da Aristotele[6], ma - contrariamente al filosofo greco ritiene che la monarchia sia la costituzione migliore. Egli si pone esplicitamente tale problema: occorre ricercare che cosa maggiormente convenga ad un reame o ad una citt; se esser governati da uno solo o da pi. Ci pu esser stabilito considerando il fine stesso del reggimento politico. Ma quale fine ha, per Tommaso, lo Stato?

Lo sforzo di qualsiasi reggitore deve essere inteso ad assicurare il benessere del suo dominio. Spetta infatti al nocchiero di guidare la nave nel porto di salvezza, preservandola illesa dai pericoli del mare. Ora il bene e la salute della comunit consociata sta nella conservazione della sua unit, che si chiama pace: ove questa venga meno, cessa il vantaggio del vivere sociale, anzi la discordia lo tramuta in un peso. A questo pertanto deve massimamente mirare il reggitore di una comunit: di assicurare l'unit della pace. Riscontriamo, in questo passo, la fusione di temi platonici e agostiniani. Per Platone[7], come noto, il bene supremo dello Stato consiste nella sua unit; quanto ad Agostino[8], egli stabilisce una vera e propria metafisica della pace (come tranquillit nell'ordine) ed proprio nella pace che individua il fine perseguito dalla citt terrena, nonch il punto di incontro di quest'ultima con la citt celeste. Poste queste due premesse (il modello migliore quello che meglio realizza il fine; il fine l'unit nella pace) Tommaso tira le sue conclusioni: quanto pi dunque un governo sar efficace a conservare l'unit della pace, tanto pi sar utile. Invero, noi diciamo che pi utile ci che meglio conduce al fine. Ora evidente che l'unit pu essere assicurata meglio da ci che di per s gi uno, che non da una pluralit: come ci che per s caldo il mezzo pi atto a riscaldare. Il governo di uno solo pertanto pi utile di quello di molti. Tommaso argomenta la sua tesi con una serie di esempi. Per poter governare necessaria sempre una certa unit tra i molti: basta pensare ad una nave per la quale necessario stabilire la rotta; anche se molti partecipano alla determinazione della rotta, tale determinazione sar raggiunta soltanto quando questi molti troveranno un accordo. Ma se l'unit necessaria, incalza Tommaso, meglio una vera e propria unit, piuttosto che una molteplicit la quale si sforza di diventare unitaria. Ancora: la natura, la quale opera sempre per il meglio, ci insegna che ogni governo governo di uno solo: difatti le membra hanno un solo motore, il cuore; e le parti dell'anima sono dominate da una forza superiore, cio la ragione. Anche la api hanno un solo re, e nell'intero universo vi un Dio solo, creatore e rettore di tutte le cose. E ci conforme a ragione. Ogni molteplicit deriva dall'unit. Vista l'importante funzione svolta dai re, essi avranno diritto a grandi ricompense (appare qui, tra l'altro, l'immagine vetero-testamentaria del re proposta da Tommaso, ossia di un uomo buono e pio, tutto preso dai beni religiosi): rimane ora da considerare ulteriormente quale eminente grado di celeste beatitudine sar concesso a coloro, i quali adempiono degnamente e lodevolmente al loro dovere di re. Invero, se la felicit il premio della virt, ne consegue che ad una maggiore virt sar dovuto un grado maggiore di felicit. Ma la virt, mediante la quale un uomo riesce a governare non solo se stesso ma anche gli altri, la pi alta fra tutte; e lo tanto pi, quanto pi si estende ad un numero maggiore di uomini. Da osservare, ancora una volta, l'idea della superiorit del bene comune su quello individuale, che poco dopo Tommaso formula quasi con le stesse parole di Aristotele: il bene della comunit pi grande e pi divino del bene di uno solo. Se la monarchia il regime migliore, la tirannide, che il suo opposto speculare, non potr che costituire il regime peggiore. Il ritratto che Tommaso fa del tiranno classico: [...] il tiranno, disprezzando il bene comune, e perseguendo il suo bene privato, deve necessariamente gravare i sudditi in varie maniere, a seconda delle diverse passioni cui soggiace nel perseguimento dei suoi interessi. Chi invero posseduto dalla passione della cupidigia, rapina i beni dei sudditi; come dice Salomone (Prov. XXXIX, 4): <<Il re giusto ristabilisce la terra, l'uomo avaro la distrugge>>. Se per contro soggiace alla passione dell'ira, per nulla sparge il sangue, come si legge in Ezechiele (XXII, 27): <<I loro principi in mezzo a loro come lupi anelanti alla preda, a spargere il sangue>>. E il Sapiente ammonisce di rifuggire da questo governo, dicendo (Ecclesiastico, IX, 18): <<Tienti lontano dall'uomo che ha potere di uccidere>>, poich invero egli si serve del suo potere per uccidere non in vista della giustizia, ma per

sfrenata passione. E cos non vi potr essere alcuna sicurezza, ma tutto diventa malsicuro, poich ci si allontana dal diritto, n si pu fare alcun affidamento su ci che dipende dalla volont, per non dire dal capriccio di un altro. N egli grava i sudditi soltanto nelle cose corporali, ma ostacola altres il loro bene spirituale, poich coloro i quali mirano pi al potere che al bene, impediscono ogni progresso dei sudditi, sospettando in ogni preminenza di questi una minaccia al loro iniquo dominio. I tiranni difatti sospettano pi i buoni che i cattivi, e la virt altrui fa loro sempre paura. Essi cercano pertanto di impedire che i loro sudditi, divenendo virtuosi, concepiscano pensieri magnanimi, mal sopportando il loro iniquo dominio; che fra di essi si stabiliscano vincoli di amicizia e possa godersi reciprocamente del beneficio della pace, affinch, diffidando gli uni degli altri, nulla possano macchinare contro il loro potere. Perci seminano fra di essi le discordie, favoriscono quelle gi esistenti, e proibiscono tutto ci che conduce gli uomini a unirsi, come nozze e conviti e simili, che sogliono ingenerare familiarit e fiducia fra gli uomini. Come Aristotele, Tommaso individua nel perseguimento o meno del bene comune il criterio per distinguere le forme rette dalle forme degenerate. Ci lo condurr, tuttavia, a vedere nella democrazia la forma migliore (o la meno peggiore) tra le degenerate; se infatti non si governa nell'interesse comune e secondo virt, allora, in questo caso, meglio che siano in molti a governare: se un governo degenera nell'ingiustizia, conviene piuttosto che sia di molti, perch sia pi debole, e si ostacolino a vicenda. Perci fra le forme ingiuste di governo la democrazia pi tollerabile, e la tirannide la peggiore. Compare qui l'idea della limitazione del potere, anche se soltanto quando si ritiene che il potere possa essere nocivo (i pensatori liberali moderni, guardando al potere con disincanto e alla natura umana con realismo, sosterranno che bisogna sempre diffidare del potere e che quindi sempre necessario limitarne l'estensione, a prescindere da chi si trovi momentaneamente a detenerlo). Tuttavia, Tommaso non si limita a impostare il problema dello Stato (e quindi del potere politico) in termini etico-religiosi. Egli lo affronta anche in termini giuridico-istituzionali. Non basta insomma confidare nelle virt del re e nel suo timore di Dio; occorre anche disporre le cose affinch il suo potere sia temperato e giusto. Tale impostazione compare in tre luoghi: a) in primo luogo, nel De regime principum, dove Tommaso dice che occorre organizzare il governo in modo tale che il potere del re sia temperato e non possa divenire tirannico; b) in secondo luogo, nella Summa theologiae, quando Tommaso parla di governo misto, che ricomprende in s i tre princpi (monarchico, aristocratico e democratico; qui Tommaso fa anche riferimento all'Antico Testamento, ricordando che Mos e i suoi successori governavano con l'aiuto degli anziani, eletti dal popolo); c) infine, abbiamo l'importante riflessione sul tema della legge. La legge, per Tommaso, espressione della ragione. Essa presente ovunque, nelle cose e negli atti degli uomini, come una regola che presiede alla loro struttura. La stessa inclinazione del corpo al piacere fisico, dice Tommaso, chiamata legge del corpo. Ora, la ragione ha come sua caratteristica quella di ordinare un fine; essa ha per bisogno della volont per realizzare quel fine, ossia per farsi ragione pratica. Ma non tutte le volont sono razionali; dunque non tutti gli atti di volont sono legge, bens soltanto quelli che possiedono un'intrinseca razionalit. Questa impostazione ha enormi conseguenze, in campo politico. La ragione ha il potere di muovere (all'azione) grazie alla volont, come stato detto pi sopra: in quanto appunto un fine voluto, la ragione comanda tutto ci che necessario a raggiungerlo. Ma perch la volont nei suoi comandi abbia valore di legge, occorre che essa sia dotata di una intrinseca razionalit. In questo senso va inteso il detto che la volont del principe ha valore di legge: altrimenti la volont del principe sarebbe piuttosto un'iniquit che una legge. Facciamo attenzione: il principe l'elemento volontaristico della legge, ci che conferisce ad essa forza

coattiva. Da questo punto di vista, ha ragione ancora Ulpiano: il princeps legibus solutus, nel senso che egli, non potendo auto-costringersi e non essendo soggetto a sanzioni, al di sopra delle leggi. Il principe inoltre a lege solutus, nel senso che pu modificare le leggi o dispensarne momentaneamente dall'obbligo. Ma anche vero che il principe moralmente obbligato a sottostare alle leggi, e che di ci deve rispondere a Dio. In conclusione: il potere del principe condizione necessaria ma non sufficiente perch si possa parlare di legge; a tal fine altrettanto essenziale il carattere razionale della norma. Se una legge non razionale, non giusta, quindi non nemmeno una legge. Abbiamo qui l'abbozzo di una logica giusnaturalistica, per cui esiste un diritto naturale (o razionale), uguale per tutti gli uomini, in tutti i tempi e in tutti i luoghi; e le leggi positive sono valide solo se conformi a tale diritto. Ma vediamo cosa dice Tommaso. Egli parte dalla legge divina che regola il mondo: ora evidente - partendo dal presupposto che il mondo sia retto dalla divina Provvidenza altrove dimostrato - che l'intera comunit dell'universo governata dalla ragione divina. Pertanto la ragione stessa del governo delle cose (create) in quanto esiste in Dio come reggitore del tutto, ha natura di legge (...). Questa legge conviene chiamare legge eterna. Poich tutte le cose sono regolate dalla legge divina o eterna, evidente che tutte le cose ne parteciperanno in qualche modo. Ma fra tutte le creature, l'uomo quello soggetto in misura pi perfetta alla Provvidenza, della quale diviene partecipe provvedendo a s e agli altri: questa partecipazione della creatura razionale alla legge eterna, conclude Tommaso, che viene chiamata legge naturale. La legge naturale ci permette di distinguere il bene dal male; ed essa, dice Tommaso, altro non che l'impronta in noi della luce divina. Come si pu vedere, qui abbiamo una vera e propria dottrina della legge naturale, come legge derivante da Dio e corrispondente all'ordine delle cose. Esiste dunque una legalit universale avente valore assoluto. Ma in cosa consiste, pi precisamente, questa legge naturale? Quali sono i suoi articoli? Il primo precetto della legge consiste appunto nel doversi fare e perseguire il bene ed evitare il male; e su questo si fondano tutti gli altri precetti della legge naturale, onde tutte le cose che bisogna fare o evitare sono di pertinenza della legge naturale, che la ragione pratica apprende naturalmente come beni umani. E poich il bene ha natura di fine (naturale), il male invece natura del contrario, tutte quelle cose verso le quali l'uomo ha naturale inclinazione, sono apprese come buone dalla ragione naturale, e per conseguenza da perseguirsi nelle opere; le cose ad esse contrarie sono invece apprese come cattive e da evitare. L'ordine dei precetti della legge naturale corrisponde dunque all'ordine delle inclinazioni naturali. In primo luogo difatti si trova nell'uomo l'inclinazione al bene secondo la natura che gli comune con tutte le sostanze (create); nel senso cio in cui qualsiasi sostanza aspira alla conservazione del suo essere secondo la sua natura. In corrispondenza a questa inclinazione, appartiene alla legge naturale tutto ci che assicura la conservazione della vita dell'uomo e ne impedisce la distruzione. In secondo luogo, si trova nell'uomo l'inclinazione ad alcuni beni pi particolari, secondo la natura che gli comune cogli altri animali. In questo senso si dicono appartenere alla legge naturale <<quelle cose che la natura ha insegnato a tutti gli animali>>, come l'unione del maschio e della femmina, l'allevamento dei figli, ecc. In un terzo modo, infine, si trova nell'uomo l'inclinazione al bene conforme alla natura razionale che gli propria: come, ad esempio, l'uomo ha una naturale inclinazione a conoscere la verit nei riguardi di Dio, oppure a vivere in societ. E in questo senso appartengono alla legge naturale le norme relative a tale inclinazione: come, ad esempio, che l'uomo eviti l'ignoranza, che non rechi offesa a coloro coi quali deve aver relazione, e tutte le altre norme di questo genere. Se esiste una legge naturale, siamo dunque in possesso di un criterio per giudicare le leggi positive, per determinare se esse siano giuste o ingiuste e quindi per decidere se obbedirvi o meno. Le leggi, dice Tommaso, possono essere dette giuste sia in considerazione del loro fine, quando sono ordinate al bene comune; sia in considerazione del loro autore, quando la legge che viene emanata non eccede i poteri di chi la emana; sia infine in considerazione della loro forma, quando cio gli oneri che esse impongono ai sudditi sono ripartiti secondo un'uguaglianza proporzionale in vista del bene comune. Poich difatti l'uomo una parte della comunit, ogni singolo uomo, in ci che e in ci che possiede, appartiene alla comunit: cos come ogni

singola parte, in ci che appartiene al tutto. E' per questa ragione che anche la natura talora sacrifica la parte per salvare il tutto. In base a questo principio, le leggi che ripartiscono gli oneri in modo proporzionale sono giuste, e obbligano nel foro della coscienza, e sono leggi legittime. Quindi le leggi sono giuste quando sono finalizzate al bene comune, quando emanano da un'autorit legittima e infine quando rispettano la giustizia distributiva. Ne consegue che in tutti i casi contrari le dobbiamo considerare ingiuste. Ma cosa dobbiamo fare di fronte ad una legge ingiusta? Possiamo disobbedire o dobbiamo comunque obbedire? Le leggi ingiuste, dice Tommaso, non sono nemmeno leggi, sono violenza; esse quindi, nel foro della coscienza, non ci obbligano. A meno che, aggiunge prudentemente Tommaso, non si tratti di evitare lo scandalo e il disordine, come c'insegna S. Matteo (V, 40-41, "Se ti trasciner a correre per un miglio, va con esso altre due miglia; e si ti avr tolta la tunica, dagli anche il mantello". Ma se si tratta di leggi che si oppongono al bene divino (norme, ad esempio, che obbligano all'idolatria) allora esiste il dovere assoluto di disobbedire. Occorre tuttavia tenere conto del fatto che la ragione pratica non ha lo stesso rigore della ragione speculativa: quindi, man mano che ci avviciniamo alla realt e al contingente, si apre la possibilit per la legge di regolarsi secondo tempi e luoghi, fermo restando il principio del riferimento alle norme fondamentali delle leggi naturali. In conclusione, sul grande tema dell'obbedienza Tommaso formula una importante distinzione. In linea generale, l'obbedienza un dovere naturale: come l'operare degli agenti naturali deriva dalla forza della natura, cos l'operare dell'uomo deriva dall'umana volont. Ora nelle cose naturali occorre che le pi alte inducano le pi basse alle azioni che sono loro proprie, mediante la preminenza delle virt naturali ad esse conferita da Dio. Cos anche nelle cose umane occorre che i superiori determinino colla loro volont gli inferiori, in forza dell'autorit stabilita da Dio. Ma determinare colla ragione e la volont non altro che comandare. Perci come nell'ordine naturale creato da Dio le cose pi basse devono sottostare alla direttiva di quelle pi elevate, cos pure nelle cose umane, secondo l'ordine del diritto naturale e divino, gli inferiori sono tenuti ad obbedire ai loro superiori. Ma vi sono casi in cui l'obbedienza non un obbligo assoluto: anzitutto, quando il comando di un'autorit in contrasto con il comando di un'autorit superiore, o differisce da esso; in secondo luogo, quando il comando si riferisca ad una materia nella quale l'autorit non ha competenza. In riferimento a quest'ultimo caso, Tommaso fa esempi molto significativi. In quelle cose che dipendono dal moto interiore della volont, l'uomo non tenuto ad obbedire all'uomo, ma solo a Dio. L'uomo obbligato bens ad obbedire all'uomo per quanto riguarda l'operato esteriore del corpo; ma anche in questo, per quanto riguarda la natura del corpo, l'uomo non obbligato ad obbedire all'uomo, ma soltanto a Dio, perch tutti gli uomini per natura sono uguali; cos, ad esempio, per quanto riguarda il sostentamento del corpo e la generazione della prole. Perci nel contrarre matrimonio, o nel far voto di castit, e in altri casi simili, la schiava non obbligata ad obbedire ai padroni, n i figli ai genitori. In quelle cose invece che riguardano la disposizione degli atti e delle cose umane, il suddito tenuto ad obbedire al suo superiore secondo la ragione della superiorit: cos il soldato al condottiero dell'esercito per quanto riguarda la guerra; il servo al padrone, per quanto riguarda il compimento delle opere servili; il figlio al padre, per quanto riguarda la disciplina della vita e la cura della famiglia, e cos per il resto. Nell'idea che esistano una serie di "materie" sulle quali il comando dell'autorit non lecito, si pu intravedere il concetto di diritto individuale come limite all'azione dello Stato (e sar il concetto della cosiddetta "limitazione materiale" del potere statale). Infine, tornando sul problema dell'obbedienza di fronte al potere ingiusto, Tommaso ribadisce la sua posizione abbastanza moderata, tranne che su questioni religiose: ai prncipi secolari l'uomo in tanto tenuto ad obbedire, in quanto lo esige l'ordine della giustizia. Perci, se questi non abbiano un potere giusto, ma usurpato, oppure se comandino cose ingiuste, i sudditi non sono obbligati ad obbedirli, tranne forse in taluni casi particolari, quando si tratti evitare uno scandalo od un pericolo.

Ma se, per esempio, il principe viene colpito da scomunica, allora i sudditi sono sciolti ipso facto dal giuramento di fedelta e quindi dal dovere di obbedienza. In Tommaso abbiamo dunque una serie di posizioni che vanno nella direzione di una concezione razionalistico-giusnaturalistica della legge (concezione che, ovviamente, conduce diritta alla limitazione del potere); ma abbiamo anche il permanere della Chiesa, quale fonte certa di razionalit. Abbiamo infatti visto come la possibilit (anzi, il dovere) della disobbedienza sia affermato solo quando nasce da una pronuncia della Chiesa contro il potere, in genere per ragioni religiose. Inoltre abbiamo una concezione parziale della tolleranza. Fra gli infedeli - dice Tommaso - vi sono quelli che non accolsero mai la fede cristiana, come i gentili e i giudei: e questi non devono in alcuna maniera essere costretti ad abbracciare la fede e a credere, perch il credere dipende dalla volont. Possono tuttavia i fedeli, se vogliono, costringerli a non ostacolare la fede cristiana con atti blasfemi o con malvagie persuasioni, o addirittura con aperte persecuzioni. E per questa ragione frequentemente i fedeli di Cristo muovono guerra contro gli infedeli: non gi per costringerli a credere (ch se anche riuscissero a sconfiggerli, ed a ridurli in cattivit, li lascerebbero liberi di voler credere o no), ma per obbligarli a non ostacolare la fede di Cristo. Diverso peraltro il caso di quegli infedeli che un giorno abbracciarono la fede, e ne fanno professione, come gli eretici e tutti gli apostati: questi devono essere costretti, anche fisicamente, ad adempiere quello che hanno promesso, e ad osservare quanto hanno accettato, una volta per sempre. Infine, abbiamo una subordinazione del fine sociale (la virt) al fine religioso (la beatitudine), che pu condurre a configurare il primato della Chiesa sul potere politico. Dice infatti Tommaso: il fine della comunit deve essere determinato in maniera identica al fine del singolo. Ad esempio: se il fine ultimo dell'uomo fosse la salute, questo dovrebbe essere anche il fine dello Stato (la cui guida, in tal caso, sarebbe convenientemente affidata ai medici); oppure, se il fine ultimo dell'uomo fosse la ricchezza, lo Stato dovrebbe avere lo stesso fine (e quindi ci si potrebbe affidare a degli amministratori). Ma in realt, poich il fine per cui gli uomini si associano tra di loro 'vivere insieme bene', e poich la 'vita buona' quella secondo virt, il fine dello Stato e della societ sar quello di vivere secondo virt. Ma l'uomo, vivendo in tal modo, ordinato ad un fine ulteriore: l'uomo vive secondo virt per potere infine godere di Dio, nella beatitudine. Conclude Tommaso: l'ultimo fine della comunit consociata non sar pertanto di vivere secondo virt, ma di pervenire, per mezzo di una vita virtuosa, al godimento di Dio. Ma come si raggiunge questo fine supremo della beatitudine? E' alla portata della virt umana o richiede un intervento soprannaturale? Se fosse alla portata della virt umana, il compito di guidare gli uomini verso di esso spetterebbe ai re, giacch sono questi ultimi a guidare gli uomini nelle loro aspirazioni alle cose umane. Ma poich soltanto con la virt divina si pu giungere alla beatitudine, solo un governo divino, e non un governo umano, potr condurre a tale fine. Un governo di tale fatta spetta pertanto a quel re, che non soltanto un uomo, ma anche un Dio, e cio a Ges Cristo nostro Signore, che, elevando gli uomini a figli di Dio, li ha introdotti nella gloria del Cielo. Tommaso conclude ribadendo la distinzione tra potere politico e potere religioso, ma anche la subordinazione del primo al secondo: pertanto, affinch le cose spirituali fossero distinte da quelle terrene, il ministero di questo regno stato affidato non ai re della terra, ma ai sacerdoti, ed anzitutto al Sommo Sacerdote, successore di Pietro, Vicario di Cristo, al Romano Pontefice, al quale necessario siano sottomessi tutti i re del popolo cristiano, come allo stesso Signore Ges Cristo. Cos invero a colui, cui spetta la cura del fine ultimo, debbono esser sottomessi coloro, cui spetta la cura del fine anteriore, ed esser diretti dal suo comando.

5. Machiavelli

Cenni biografici
Nasce a Firenze nel 1469, da famiglia relativamente agiata. Nel 1498 (a 29 anni) si presenta per due volte candidato alla segreteria della seconda cancelleria (affari interni e straordinari, guerra); a febbraio fallisce (vince il candidato dei savonaroliani), a giugno riesce. A luglio viene inoltre nominato segretario dei Dieci di Bala, magistratura addetta ai rapporti con gli altri Stati. Questi uffici gli daranno modo di raccogliere un vasto materiale storico e politico. Per 15 anni, infatti, egli riceve numerosissimi incarichi diplomatici, che lo portano presso Luigi XII, presso Cesare Borgia e presso l'imperatore Massimiliano. Nel 1513 i Medici tornano al potere e Machiavelli viene epurato. Accusato di aver preso parte ad una congiura viene arrestato e torturato; riconosciuto innocente, pu ritirarsi in una villetta presso San Casciano. Verr pienamente riabilitato agli uffici politici soltanto nel 1525. Nel 1513 scrive Il Principe; nel 1515 lo presenta a Lorenzo de' Medici. Nel 1517 termina i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Nel 1518 scrive la Mandragola, Belfagor e il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. Nel 1520 termina Dell'arte della guerra. Nello stesso anno riceve dall'Universit l'incarico di scrivere la storia di Firenze. Le Istorie fiorentine lo occuperanno per circa cinque anni. Nel 1525 scrive un'altra commedia, la Clizia. Nello stesso anno si reca a Roma per offire a Clemente VII le Istorie fiorentine; rientra quindi nella vita politica. Nel 1526 riceve l'incarico di provvedere alla difesa di Firenze, contro Carlo V. Nel 1527, anche in seguito al sacco di Roma, una sollevazione popolare rovescia il governo mediceo e ristabilisce la costituzione repubblicana. Machiavelli viene esluso da qualsiasi carica. Muore a Firenze in povert, a 58 anni.

Il pensiero politico
Il problema di Machiavelli - stato giustamente osservato - il problema dello Stato: della fondazione, della conservazione, del governo dello Stato. Lo Stato l'ultimo orizzonte delle sue riflessioni e della sua etica: egli infatti si pone sempre dal punto di vista di chi prende delle decisioni aventi per fine ultimo la salute dello Stato[9]. Di qui il suo realismo o - secondo i suoi critici - il suo immoralismo o amoralismo. In realt, il momento morale ha il suo ruolo, nel pensiero di Machiavelli; solo che esso concepito aristotelicamente, ossia come qualcosa che sta dentro al pi vasto bene della citt. In ultima analisi, dunque, al di sopra di qualsiasi considerazione, per Machiavelli vale il principio secondo cui salus rei publicae suprema lex. Quanto alle accuse di cinismo, rivolte da sempre all'autore del Principe, stato osservato che se per un verso Machiavelli descrive con crudezza le efferatezze della politica, per altro verso non mancano in lui accenti accorati davanti ad esse e alla loro necessit. In secondo luogo, alcuni studiosi hanno evidenziato come tali 'efferatezze' costituissero mezzi di lotta politica largamente diffusi in quella terribile epoca che fu la prima met del Cinquecento (e dunque Machiavelli altro non avrebbe fatto che studiare il suo tempo, con l'avalutativit propria dello scienziato). Infine, si ricordato come la crudezza del Machiavelli derivasse anche da un dato caratteriale, essendo il suo spirito alieno da qualsiasi moralismo o pietismo e piuttosto incline all'ironia. Ma veniamo alle tesi di questo controverso autore. Il celebre realismo viene esplicitamente "teorizzato" nel

XV capitolo del Principe. Si tratta di un passo molto noto. Resta ora a vedere quali debbano essere e' modi e governi di uno principe con sudditi o con gli amici. E, perch io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi, massime nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri. Ma sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi parso pi conveniente andare drieto alla verit effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa. Machiavelli sottolinea con forza ci che lo differenzia dai molti altri autori che si sono occupati del medesimo argomento: il suo intento cogliere la verit effettuale della cosa, mentre gli altri andavano dietro l'immaginazione di essa. In altre parole, Machiavelli si propone di comprendere la realt politica per quello che realmente, senza sovrapporre ad essa desideri o princpi. Il suo un intento scientifico, nel significato weberiano di a-valutativo: dunque realistico e spregiudicato nel senso letterale del termine. Per la verit, un intento Machiavelli lo dichiara: scrivere cosa utile a chi la intende, ossia scrivere qualcosa che sia utile per chi governa. Si manifesta, in questa opzione di Machiavelli, il suo punto di vista, al quale abbiamo fatto riferimento all'inizio: per il pensatore fiorentino lo Stato (e la politica) costituiscono l'orizzonte ultimo, il che lo conduce a porsi, nell'esame del problema politico, ex parte principis, dalla parte del potere. Ma si tratta di intento che non falsa l'indagine; anzi, proprio per essere veramente utile al principe, l'indagine deve essere veritiera, deve guardare alla realt senza infingimenti. Sempre in nome di quello che noi oggi chiameremmo il principio di realt, Machiavelli ci richiama alla differenza tra i nostri desideri e la realt: molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti n conosciuti essere in vero; perch egli tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che la preservazione sua: perch uno uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni. Dunque la differenza tra essere e dover-essere, tra realt e princpi (o desideri), grande, al punto che essa parrebbe, almeno in questo passo, incolmabile; sembrerebbe una caratteristica ineliminabile della realt medesima. La realt, dice Machiavelli, molto meno bella dei nostri princpi morali; chi non ne tiene conto massimamente colui il quale detiene il potere - e guarda soltanto ai princpi, si procura la propria rovina e non il proprio successo. Conclusione realistica (o, se preferite, pessimistica) di Machiavelli: il buono, tra molti cattivi, destinato a soccombere. Di qui il consiglio per il Principe: onde necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l'usare secondo la necessit. Nel secondo paragrafo del capitoletto, Machiavelli fa un elenco delle buone e delle cattive qualit di un principe: liberalit o avarizia, crudelt o piet, infedelt o fedelt, paura o coraggio, debolezza o energia, umanit o superbia, lascivia o castit, schiettezza o astuzia, religiosit o incredulit, e cos via. A tale elenco, nel paragrafo successivo, Machiavelli accompagna il seguente commento: io so che ciascuno confesser che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi, di tutte le soprascritte qualit, quelle che sono tenute buone; ma, perch non le si possono avere, n interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, gli necessario essere tanto prudente, che sappia fuggire l'infamia di quelli vizii chi li torrebbano lo stato, e da quelli che non gnene tolgano guardarsi, se egli possibile; ma, non possendo, vi si pu con meno respetto lasciare andare. Sarebbe "laudabilissima cosa" che il Principe possedesse soltanto doti positive: ma ci non possibile, per le condizioni umane che non lo consentono. Emerge qui la concezione machiavelliana della natura umana come una mescolanza di vizi e virt, nella quale, in genere, non sono le seconde a prevalere. La conclusione un esempio di come le regole di condotta, in Machiavelli, siano dominate dal fine ultimo della politica (ossia, dalla salus rei publicae, dalla salvezza dello Stato): posto che esistano due categorie di vizi - gli uni conducono alla perdita del potere, gli altri no -, allora il Principe dovr sicuramente fuggire i primi e, quanto

ai secondi, cercare di evitarli; ma se proprio non ci riesce, pazienza. E' chiaro che tali posizione hanno alle spalle, come dicevamo, una concezione antropologica realistica o pessimistica che dir si voglia. Degli uomini, afferma Machiavelli, si pu dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, offerenti el sangue, la roba, la vita, e' figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno discosto; ma, quando ti si appressa, e' si rivoltano. Inoltre essi sdimenticano pi presto la morte del padre che la perdita del patrimonio, non mantengono la parola data e si pascono cos di quel che pare come di quello che : anzi molte volte si muovono pi per le cose che paiono che per quelle che sono. Gli uomini sono insomma ingrati, volubili, falsi e avidi (soprattutto di beni materiali); sono in generale "tristi", ossia di animo malevolo, cattivo; sono superficiali e stupidi. Il panorama non lascia adito a dubbi. E colui che li governa - se un politico virtuoso - dovr tenere conto di tutto ci. Dunque la virt di cui parla Machiavelli - per il Principe, per il politico in genere - qualcosa di molto diverso da ci che si intendeva tradizionalmente. Per il Cristianesimo la virt consiste nella paziente sottomissione alla volont divina, nell'attesa di una vita ultraterrena; per Aristotele la virt il giusto mezzo, la perfezione morale raggiunta attraverso il dominio della ragione; per gli Stoici essa consiste invece nell'accettazione degli eventi; per gli Epicurei, infine, la virt un mezzo per raggiungere la tranquillit dell'animo. Nessuna di queste definizioni si attaglia alla virt machiavelliana. Per il pensatore fiorentino, infatti, la virt indica l'energia, la volont e l'efficienza del politico; essa la capacit di adattarsi alle circostanze e riassume tutte le doti - prudenza, tenacia, industriosit, valutazione obiettiva delle forze disponibili e loro adeguazione al fine - necessarie a fondare, riordinare e mantenere uno Stato. In ultima analisi, dunque, la virt la prudenza o l'avvedutezza politica del Principe, che permette di porre argini ai colpi della fortuna (ossia del destino, la cui azione al di fuori della portata umana). All'interno del fine ultimo - ossia della salvezza dello Stato - vi spazio per qualsiasi virt in senso tradizionale; ma il fine ultimo pur sempre politico e gli altri beni sono quindi inferiori rispetto alla salvezza dello Stato. Ne deriva che quando quest'ultima in gioco (nella guerra o nella conquista dello Stato), il fine politico prender il sopravvento su qualsiasi altro fine o bene. Allora sar lecito impiegare la frode o la forza senza tentennamenti: ancora che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco nel maneggiare la guerra cosa laudabile e gloriosa, e parimente laudato colui che con fraude supera il nimico, come quello che lo supera con le forze. Esempio classico della concezione machiavelliana del politico la descrizione che egli fornisce delle imprese di Cesare Borgia (noto come il Valentino), figlio di Papa Alessandro VI. Si tratta di una ricostruzione storica all'interno della quale viene sviluppata anche la nota antitesi tra virt e fortuna, la prima interpretata come abilit politica, come attivit energica e intelligente, la seconda intesa come insieme di circostanze indipendenti dalla volont e dall'azione dell'uomo. Le cose del mondo, si chiede Machiavelli, sono guidate dalla fortuna e da Dio - per cui all'uomo non rimane che accettare il corso degli eventi -, oppure la prudenza dell'uomo riesce ad influire su di esse? Se prevalesse la prima ipotesi, dovremmo concluderne che non vale la pena di insudare molto nelle cose, ma che conviene piuttosto lasciarsi governare dalla sorte. Ed in effetti, prosegue Machiavelli, se guardiamo alla straordinaria mutevolezza delle vicende dei nostri tempi[10], verrebbe voglia di credere che solo la Fortuna tiene il bandolo di una tale matassa. Tuttavia, affinch non si debba rinunciare al nostro libero arbitrio - dice Machiavelli con accenti tipicamente rinascimentali -, sono propenso a credere che la Fortuna sia arbitra soltanto della met delle azioni umane, e che quindi l'altra met dipenda da noi. Il rapporto tra queste due 'forze' descritto da Machiavelli con un'immagine assai efficace, dalla quale emerge chiaramente in cosa consista la "virt" dell'uomo. Assomiglio quella [la fortuna] a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e' piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell'altra; ciascuno fugge loro

dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E bench sieno cos fatti, non resta per che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e con argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe n s licenzioso n s dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non ordinata virt a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla. Dunque se la Fortuna un fiume in piena - una forza della natura di fronte alla quale, una volta scatenata, l'uomo pu ben poco -, la virt degli uomini l'insieme dei provvedimenti, dei ripari e degli argini che, predisposti in tempi calmi, consentono di evitare o limitare i danni. In sostanza, la virt per Machiavelli l'azione energica, previdente, intelligente ed efficace, attraverso la quale l'uomo cerca di affermare la propria libert nel mezzo di quella vicenda incerta, rischiosa e non totalmente dominabile che la storia. Ma torniamo al ritratto machiavelliano del Valentino (Cesare Borgia), esempio significativo di "virt" politica. Siamo in quella parte del Principe in cui viene trattato il problema dei Principati acquisiti con le proprie armi e la propria virt (e dunque non per eredit). Tali principati si conquistano, dice Machiavelli, o per fortuna o per virt, ma nel secondo caso la conquista si rivela in genere pi stabile (e da quanto abbiamo appena detto su fortuna e virt dovrebbe essere abbastanza evidente il perch). Machiavelli propone una serie di esempi di grandi uomini, per poi giungere a Francesco Sforza e al Valentino. Il primo, con mezzi opportuni e notevoli virt, divenne con grande fatica duca di Milano e con poca fatica vi rimase; il secondo acquist lo Stato grazie alla fortuna del padre (Papa Alessandro VI) e con quella lo perse. Eppure, osserva Machiavelli, dopo l'iniziale fortuna, il Valentino si era comportato con tale prudenza e virt che avrebbe dovuto mettere le barbe sue in quegli Stati che la fortuna gli aveva concesso. Machiavelli si sofferma sul Valentino perch, dice esplicitamente io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua. E se la sua avventura ebbe esito infausto, ci non fu sua colpa, perch nacque da una estraordinaria ed estrema malignit di fortuna. La storia la seguente: Alessandro VI, padre del Valentino, vuole fare di suo figlio il signore di uno Stato. Ma per fare ci non ha altra strada che affidargli una parte del territorio influenzato dalla Chiesa, vale a dire quelle terre di Marche e di Romagna sulle quali la Chiesa aveva un antico titolo di possesso, ancorch non vi esercitasse direttamente il dominio. Ma su tali territori premevano tanto il ricco Ducato di Milano, quanto la potente Repubblica di Venezia; inoltre gli eserciti italiani ai quali il Papa poteva ricorrere erano nelle mani dei suoi nemici (cio degli Orsini e dei Colonnesi). Occorreva dunque che la situazione mutasse. Il che avvenne, con la discesa di Carlo VIII in Italia (1494); il Papa non si oppose affatto, cosicch ebbe in cambio, dal sovrano francese, le truppe necessarie per l'impresa del figlio in Romagna. Conquistata la Romagna, il Valentino vorrebbe andare oltre: ma lo frenano la freddezza del re di Francia e il fatto di non poter disporre di truppe proprie. In breve: il Valentino si servir abilmente dell'appoggio dei francesi e, quanto al versante italiano, corromper la nobilt romana (onde averla al suo fianco) e si sbarazzer degli Orsini, uccidendoli a tradimento. Ascoltiamo l'asciutto resoconto di tali efferatezze dalle parole dello stesso Machiavelli. Dopo questa, aspett la occasione di spegnere e' capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna; la quale li venne bene, e lui la us meglio. Perch, avvedutisi gli Orsini, tardi, che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina, feciono una dieta alla Magione, nel Perugino; da quella nacque la rebellione di Urbino e li tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca; li quali tutti super con lo aiuto de' Franzesi. E ritornatogli la reputazione, n si fidando di Francia n di altre forze esterne, per non le avere a cimentare, si volse agli inganni. E seppe tanto dissimulare l'animo suo, che gli Orsini medesimi, mediante el signor Paulo, si riconciliorono seco; con il quale el duca non manc d'ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandogli danari, veste e cavalli; tanto che la simplicit loro li condusse a Sinigaglia nelle sue mani. Spenti, adunque, questi capi, e ridotti li partigiani loro amici sua, aveva il duca assai buoni fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna con il ducato di Urbino, parendogli, massime, aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli popoli, per avere cominciato a gustare el bene essere loro. Coronamento di tale vicenda il famoso episodio di Remirro de Orco, uomo crudele et espedito al quale il

Duca aveva dato carta bianca affinch riportasse l'ordine nelle riottose terre di Romagna. Qui si affaccia l'idea del bene al quale conduce il potere: il buon governo quello che istituisce la pace e l'ordine. Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da signori impotenti, li quali pi presto avevano spogliato e' loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia, iudic fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e obediente al braccio regio, darli buon governo. Ma il prezzo che Remirro de Orco fa pagare per la pace, l'unit e l'ordine alto; la sua autorit spietata rischia di rendere odioso il potere del Duca. E allora il Valentino si comporta da par suo: di poi iudic el duca non essere necessario si eccessiva autorit, perch dubitava non divenissi odiosa; e preposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo, dove ogni citt ci aveva lo avvocato suo. E perch conosceva le rigorosit passate averli generato qualche odio, per purgare gli animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volle mostrare che, se crudelt alcuna era seguita, non era nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. E presa sopr'a questo occasione, lo fece a Cesena, una mattina, mettere in dua pezzi in sulla piazza con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto. La ferocit del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi. Da notare la notazione finale di Machiavelli, spietata nella sua ironia sui sentimenti popolari. Ma le cose si misero poi male. Anzitutto mor Alessandro VI, al quale successe un fiero avversario dei Borgia (Giulio II Della Rovere), e qualche tempo dopo si ammal a morte lo stesso Valentino. La conclusione di Machiavelli la seguente. Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei reprenderlo; anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l'arme d'altri sono ascesi allo imperio. Perch lui, avendo l'animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti; e solo si oppose alli sua disegni la brevit della vita di Alessandro e la malattia sua. Chi, adunque, iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi de' nimici, guadagnarsi degli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da' populi, seguire e reverire da' soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordini antiqui, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenere le amicizie de' re e de' principi in modo che ti abbino a beneficare con grazia o offendere con respetto, non pu trovare e' pi freschi esempli che le azioni di costui. Da questo accenno alla "intenzione alta" del Valentino, si intuisce che in Machiavelli non soltanto il successo a costituire il metro sul quale misurare la grandezza del politico. Occorre anche che la sua intenzione sia alta e nobile: ed infatti Machiavelli stabilisce una chiara differenza tra le vicende del Valentino e quelle di Agatocle di Siracusa o di Liverotto. Agatocle era figlio di un semplice vasaio; ma percorse, dimostrando grande scelleratezza e virt, tutti i gradi della milizia. Divenuto pretore di Siracusa, realizz un colpo di Stato, imponendo il proprio dominio e sterminando i senatori e i ricchi; inoltre dimostr grandissimo valore militare nelle guerra contro Cartagine. Nella vicenda di Agatocle, osserva Machiavelli, prevalgono sicuramente le virt sulla fortuna; e tuttavia non si pu ancora chiamare virt ammazzare e' sua cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza piet, sanza religione: li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perch, se si considerassi la virt di Agatocle nello entrare e nello uscire de' periculi, e la grandezza dello animo suo nel sopportare e superare le cose avverse, non si vede perch egli abbia ad essere iudicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano; nondimanco, la sua efferata crudelt e inumanit con infinita scelleratezza, non consentono che sia infra gli eccellentissimi uomini celebrato. Il pensatore fiorentino stabilisce infatti una chiara distinzione tra crudelt male usate e crudelt bene usate: bene usate si possono chiamare quelle (se del male lecito dire bene) che si fanno a uno tratto, per la necessit dello assicurarsi, e di poi non vi si insiste drento, ma si convertiscono in pi utilit de' sudditi che

si pu. Male usate sono quelle le quali, ancora che nel principio sieno poche, pi tosto col tempo crescono che le si spenghino. Coloro che osservano el primo modo, possono con Dio e con gli uomini avere allo stato loro qualche remedio, come Agatocle; quegli altri impossibile si mantenghino. Insomma, dopo il momento della forza (ossia dopo la conquista del principato), occorre suscitare il consenso dei cittadini e promuoverne le virt. Di fronte al Principe si aprono due strade: realizzare quel bene intrinseco della politica, che sta nel consentire la convivenza degli uomini (convivenza resa assai difficile dalla loro natura egoistica), oppure cadere nella tirannide. Se sceglie quest'ultima strada, il Principe destinato, come insegna la storia, a rinunciare alla gloria, all'onore e alla quiete; ci che lo attende l'infamia e una costante situazione di pericolo e inquietudine. Come si pu osservare, l'invito ad abbandonare la strada della tirannide non si basa su motivazioni di ordine etico, ma su una riflessione storico-politica: la politica non ha bisogno di desumere dall'esterno la propria moralit, perch ha in se stessa la norma della propria condotta: ricondurre gli uomini ad una forma ordinata e libera di convivenza. I limiti della politica stanno dunque nell'adeguatezza dei mezzi al fine suo proprio: e quindi i mezzi tirannici vanno rifiutati non perch immorali, ma perch impolitici, inefficaci. Il dominio dell'azione politica, come ha giustamente osservato Abbagnano, si estende, con Machiavelli, a tutto ci che offre la garanzia del successo, che poi quella della stabilit e dell'ordine della comunit politica. Per la prima volta ... quel dominio viene scrutato e valutato con un criterio puramente intrinseco e si intravede il principio di una normativa inerente ai compiti umani come tali e non sopraggiunta ad essi dall'esterno come criterio e limite estranei[11]. Altra importante osservazione viene fatta da Machiavelli circa le basi del consenso: in ogni citt, egli dice, si trovano dua umori diversi, i grandi e il popolo, aventi fini opposti: il populo desidera non essere comandato n oppresso da' grandi, e li grandi desiderano comandare e opprimere il populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nella citt uno de' tre effetti, o principato o libert o licenzia. Pi stabile sar quel Principe che basa il suo potere sull'appoggio popolare; qui si possono cogliere alcuni accenti demofili: colui che viene al principato con lo aiuto de' grandi, si mantiene con pi difficult che quello che diventa con lo aiuto del populo; perch si truova principe con di molti intorno che li paiano essere sua equali, e per questo non li pu n comandare n maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva al principato con il favore popolare, vi si trova solo, ha intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati a obedire. Oltre a questo, non si pu con onest satisfare a' grandi e sanza iniuria d'altri, ma si bene al populo: perch quello del populo pi onesto fine che quello de' grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso. Ma come si conserva uno Stato, per Machiavelli? Anzitutto con buone leggi e buone armi; quindi la milizia non deve essere n mercenaria, n ausiliaria: le mercenarie e ausiliarie sono inutile e periculose: e se uno tiene lo stato suo fondato in sulle arme mercenarie, non star mai fermo n sicuro; perch le sono disunite, ambiziose, sanza disciplina, infedele; gagliarde fra gli amici; fra e' nimici, vile; non timore di Dio, non fede con gli uomini; e tanto si differisce la ruina quanto si differisce lo assalto; e nella pace se' spogliato da loro, nella guerra da' nimici. La cagione di questo che le non hanno altro amore n altra cagione che le tenga in campo che uno poco di stipendio; il quale non sufficiente a fare che voglino morire per te. Vogliono bene essere tuoi soldati mentre che tu non fai guerra; ma, come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene. La qual cosa doverrei durare poca fatica a persuadere, perch ora la ruina di Italia non causata da altro che per essere in spazio di molti anni riposatasi in sulle arme mercenarie. In secondo luogo, necessario - ai fini della conservazione di uno Stato - un uso appropriato della "crudelt" da parte del Principe: scendendo appresso alle altre preallegate qualit, dico che ciascuno principe debbe desiderare di essere tenuto pietoso e non crudele: nondimanco debbe avvertire di non usare male questa piet. Era tenuto

Cesare Borgia crudele; nondimanco quella sua crudelt aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede. Il che se si considerr bene, si vedr quello essere stato molto pi pietoso che il populo fiorentino, il quale, per fuggire el nome del crudele, lasci destruggere Pistoia. Debbe, pertanto, uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere li sudditi suoi uniti e in fede; perch, con pochissimi esempli, sar pi pietoso che quelli e' quali, per troppa piet, lascino seguire e' disordini, di che ne nasca occisioni o rapine; perch queste sogliono offendere una universalit intera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono uno particulare. Infine - considerando che la salvezza e la pace dello Stato costituiscono un bene supremo e tenendo conto della natura fondamentalmente infida dell'uomo - bene che il Principe sia temuto, piuttosto che amato. O meglio: sarebbe bene che fosse tanto amato quanto temuto; ma poich difficile che ci avvenga, occorre in genere scegliere tra i due sentimenti, e tra i due il migliore il timore. Timore non significa per odio. Il Principe deve farsi temere, ma non odiare: e per evitare ci sar sufficiente che egli si astenga dalla roba e della donne altrui (e in questo spazio si sviluppa dunque la "libert" del cittadini; ma su questo torneremo pi avanti). Machiavelli non manca di soffermarsi sulla integrit del Principe. E ancora una volta le sue considerazioni sono crudamente realistiche. Dice il Fiorentino: ciascuno capisce quanto sarebbe lodevole, in un principe, essere integro e fedele, piuttosto che astuto. Ma poich gli uomini sono, come abbiamo gi visto, ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' periculi, cupidi di guadagno, allora bene che il Principe conosca assai bene le arti dell'astuzia. Dalla realt che ha osservato con i suoi occhi, Machiavelli ha tratto la seguente lezione: vi sono due modi di combattere, l'uno con le leggi, l'altro con la forza; e soltanto il primo proprio dell'uomo, mentre il secondo si attaglia alle bestie. Ma visto che el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto a uno principe necessario sapere bene usare la bestia e l'uomo. E, restando nell'ambito del ferino, il Principe ha soprattutto bisogno delle arti del lione (per spaventare i lupi) e della golpe (per sventare le trappole). Machiavelli consapevole della 'crudezza' di tale principio; ma convinto che esso perfettamente rispondente alle caratteristiche della natura umana: se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perch sono tristi e non la osservarebbono a te [la parola data], tu etiam non l'hai ad osservare a loro. Per conservare lo Stato occorrono dunque buone (e proprie) armi, buone leggi, un Principe temuto ma non odiato (all'occorrenza crudele), una politica estera di accorte alleanze, il rispetto degli interessi privati dei cittadini e soprattutto delle loro propriet, la nazionalizzazione della religione e un cauto riformismo. Queste massime, stato giustamente osservato, hanno la loro origine e giustificazione nell'idea repubblicana classico-umanistica: il modello la libera Repubblica romana (di qui i motivi anti-tirannici, anticesarei e anti-imperiali comuni a Machiavelli come a Petrarca, Salutati, Bruni e Bracciolini). Classica anche la preferenza machiavelliana - nell'ambito delle forme di governo - per il governo misto, che per l'appunto quello della Roma repubblicana, frutto non della genialit di un legislatore, ma del caso. Le lotte tra patrizi e plebei avevano infatti condotto a tale equilibrato ordinamento; furono i Gracchi, con le loro eccessive richieste - non pi soltanto politiche, ma anche economiche - a rompere tale equilibrio. La cautela deve quindi sempre ispirare l'azione di governo: anche le riforme devono apparire il meno possibile "innovative", offrendo piuttosto l'impressione della continuit. Soltanto il principe nuovo deve andare in direzione opposta, ossia essere ed apparire rivoluzionario. Ma qual il bene comune, per Machiavelli? Sostanzialmente, si tratta di una condizione di libert e legalit. Per libert egli intende la possibilit di fruire pacificamente, nella sicurezza, della propria sfera privata: godimento delle propriet, sicurezza della famiglia e della propria persona. Vivere libero significa anche poter fare valere il proprio malcontento, attraverso le concioni. Quanto alla libert politica, Machiavelli convinto che la partecipazione al potere interessi un numero ristretto di individui, perch la maggioranza desidera la libert per vivere sicura. Inoltre, l'effettiva direzione degli affari politici compito di una classe ristretta. Per legalit si intende, all'interno del pensiero machiavelliano, il rispetto dei patti: ad esso, come abbiamo visto, il Principe pu derogare, ma nel reggimento interno dello Stato bene che vi si attenga. Il popolo che vede la sua sicurezza garantita da leggi che lo stesso Principe rispetta, vive tranquillo. Le leggi

assumono inoltre, in Machiavelli, il classico ufficio educativo: la moltitudine regolata da leggi, come quella romana, virtuosa pi degli stessi governanti (anche in questo caso abbiamo qualche accenno di demofilia). Alla salvezza dello Stato deve essere subordinata anche la religione. Vi , in Machiavelli, una polemica anticristiana che vede nell'universalismo della Chiesa una forza sovversiva. Ci nonostante, anche il Cristianesimo pu divenire ottimo strumento di governo e di educazione, se concorre a rafforzare il senso di devozione allo Stato. Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Machiavelli fa l'esempio di Numa: questi eredit da Romolo un popolo ferocissimo, che riusc a civilizzare grazie alla religione. Numa ... trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civilt, e la constitu in modo che per pi secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica; il che facilit qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare. E' questa religiosit, osserva Machiavelli, ad aver fatto la grandezza di Roma: essa all'opera nel suo valore militare e civile, nel mantenere gli uomini buoni e nel far vergognare i colpevoli. Tuttavia, non vi in queste pagine alcun sentimento di autentica religiosit, se con questa intendiamo un vero e profondo sentimento interiore della divinit. La religione appare qui soltanto il rivestimento mitologico di cui hanno bisogno le fondamentali norme etiche e civili per radicarsi nel cuore dell'uomo. Numa, spiega Machiavelli, simul di avere dimestichezza con una Ninfa, la quale gli ispirava le sue decisioni; ma fece questo solo perch, volendo introdurre ordini nuovi e inusitati ... dubitava che la sua autorit non bastasse. E cos occorre fare in genere: veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perch altrimenti non sarebbero accettate: perch sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in s ragione evidenti da poterli persuadere a altrui. Per gli uomini savi che vogliono trre questa difficult ricorrono a Dio. Cos fece Licurgo, cos Solone, cos molti altri che hanno avuto il medesimo fine di loro. Insomma, la religione svolge il ruolo cruciale di "sacralizzare" i buoni ordinamenti politici, di dare loro profonde radici nel cuore degli uomini, radici che servono a superare la naturale debolezza o cattiveria degli uomini stessi. La religione possiede questa forza straordinaria, le cui alternative sono ben misera cosa, giacch dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' difetti della religione. E perch i principi sono di corta vita, conviene che quel regno manchi presto, secondo che manca la virt d'esso. Donde nasce che gli regni i quali dipendono solo dalla virt d'uno uomo sono poco durabili, perch quella virt manca con la vita di quello; e rade volte accade che le sia rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice: Rade volte discende per li rami l'umana probitate, e questo vuole quei che la d, perch da lui si chiami.

6. Hobbes
Cenni biografici
Thomas Hobbes nasce nel 1588 a Malmesbury e riceve la sua educazione universitaria tra il 1603 e il 1608 a Magdalen Hall in Oxford. Nel 1608 viene chiamato dal barone Cavendish come precettore per il figlio; Hobbes rimarr sempre legato alla famiglia Cavendish.

Tra il 1610 e il 1615 accompagna il suo allievo in un viaggio sul Continente, entrando in contatto, a Venezia, con un collaboratore di Sarpi e familiarizzandosi con i grandi temi della polemica anti-papale. In questo periodo i suoi interessi sono umanistici; nel 1629, a 41 anni, traduce la Guerra del Peloponneso di Tucidide. Nel 1630 intraprende un nuovo viaggio sul Continente, durante il quale scopre gli Elementi di Euclide, che danno avvio ai suoi interessi filosofico-scientifici, sviluppatisi anche con la frequentazione degli scienziati a casa Cavendish. Tra 1634 e il 1636 di nuovo sul Continente; a Parigi conosce l'ambiente intellettuale che ruota intorno a Mersenne, quindi lo stesso Mersenne e Cartesio, forse Galilei. Nel 1640 completa e fa circolare il manoscritto degli Elements of law, natural and politic, con i quali prende posizione sulle controversie degli anni '30, schierandosi dalla parte del re. Di l a pochi mesi si insedia il Lungo Parlamento e Hobbes, sentendosi in pericolo, torna in Francia. Dal 1640 al 1651 vive in Francia, scrivendo, pubblicando o preparando le sue opere filosofiche. Nel 1642 esce la prima edizione del De cive; la seconda vedr la luce nel 1647. E' in questi anni che matura l'idea di un sistema filosofico articolato in tre parti: De corpore, De homine, De cive. Nel 1649, probabilmente dopo l'esecuzione di Carlo I, Hobbes compone il Leviathan, che gli crea problemi per la interpretazione eterodossa delle Scritture. Alla fine del 1651 torna in Inghilterra. Nel 1655 pubblica il De corpore e nel 1658 il De homine. Dopo la restaurazione diviene un bersaglio dell'episcopato; nel 1666 un disegno di legge rende punibile l'eresia e un comitato esamina il Leviathan; ma Hobbes ha potenti protezioni (anche il Re) e non viene disturbato. Le opere che scrisse negli anni successivi - e che non pot e non volle pubblicare - riguardano il tema dell'eresia e la sua non punibilit da parte del potere civile. Nel 1666 scrive il Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune d'Inghilterra, nel 1668 la Narrazione storica dell'eresia e nel 1670 Behemot, or the Long Parliament. Nel 1675 lascia Londra; muore ad Hardwick nel dicembre del 1679, a 91 anni.

Il pensiero politico
A differenza della maggior parte degli scrittori politici, Hobbes non si occup mai attivamente di politica, n come uomo di parte, n come consigliere di principi. In confronto a Machiavelli - ha osservato uno storico inglese - Hobbes rimane soltanto un dotto. Ci non significa, tuttavia, che la sua opera non risenta delle questioni politiche contemporanee; al contrario, essa pu essere considerata come una risposta al problema cruciale del suo tempo, ossia all'esigenza di garantire l'unit dello Stato contro le minaccie di disgregazione insite sia nelle discordie religiose e nel contrasto tra potere civile e potere religioso, sia nel dissenso tra corona e parlamento. Sono anni, quelli della prima met del '600, in cui l'Europa dilaniata dalla Guerra dei Trent'Anni (16181648), mentre l'Inghilterra scossa da fortissimi contrasti politici, religiosi ed economici, che culmineranno nella guerra civile tra sostenitori del re (cavalieri) e sostenitori del parlamento (teste rotonde), e che - tra vicende alterne (sconfitta del re e sua decapitazione nel 1647, dittatura repubblicana di Cromwell dal 1647 al 1658, restaurazione nel 1660 - condurranno alla Glorious Revolution del 1688, con la quale l'assolutismo, in terra inglese, viene definitivamente sconfitto. In questo scenario drammatico - caratterizzato dalla guerra civile - Hobbes si schiera dalla parte del re, elaborando una delle teorie politiche pi rigorosamente e conseguentemente assolutistiche. Hobbes, ha scritto Bobbio, spinto a filosofare dal turbamento che suscita in lui il pericolo della dissoluzione dello Stato; la guerra civile torna quasi ossessivamente nelle sue pagine, come il peggiore di

tutti i mali, come la morte del corpo politico, come ci che desertifica la vita umana, impedendole qualsiasi sviluppo. Se vero che il pensiero politico dominato da alcune grandi antitesi - come autorit/libert, unit/anarchia -, Hobbes sicuramente sollecitato dal primo termine di tali antitesi e non dal secondo. L'autore del Leviatano, scrive ancora Bobbio, ossessionato dall'idea della dissoluzione dell'autorit, dal disordine che consegue alla libert del dissenso sul giusto e sull'ingiusto, dalla disgregazione dell'unit del potere ... in una parola dall'anarchia che il ritorno allo stato di natura. Il male che egli paventa maggiormente ... non l'oppressione, che deriva dall'eccesso di potere, ma l'insicurezza, che deriva al contrario, se mai, dal difetto di potere[12] . La discordia e il conflitto nascono, secondo Hobbes, dalle false opinioni che gli uomini hanno intorno all'idea di giusto e di ingiusto: dunque la causa principale del disordine di natura filosofica e filosofica dovr essere la risposta. Essa dovr venire dalla filosofia morale, la quale dovr servirsi, secondo Hobbes, dello stesso metodo (il metodo geometrico) che ha permesso alla filosofia naturale di raggiungere risultati indiscutibili. Anche la filosofia morale, in tale modo, diverr un sapere certo, dove non vi sar spazio per il caos delle opinioni divergenti, e dal quale potr nascere una scienza politica rigorosa. Quello di Hobbes pertanto il tentativo di costruire un'etica e una politica dimostrative, aventi lo stesso rigore e la stessa certezza delle scienze naturali. In questa battaglia per la costruzione di un'etica e di una politica dimostrative (o, come diremmo oggi, "scientifiche"), Hobbes si trova a combattere su diversi fronti. Anzitutto, contro la dottrina aristotelica, secondo la quale nella conoscenza del giusto e dell'ingiusto non possibile raggiungere quei risultati certi cui perviene il ragionamento matematico e bisogna quindi accontentarsi di risultati soltanto probabili; in questa prospettiva - che aveva dominato per secoli la cultura occidentale - l'etica e la politica non fanno parte delle scienze teoretiche, che hanno per oggetto il 'necessario' (ci che cos e non pu essere altrimenti) e raggiungono risultati certi, ma delle scienze pratiche, che si occupano del 'probabile'. Ne consegue che se lo strumento delle scienze teoretiche, che si muovono nel regno del 'certo', la logica (ossia l'arte della dimostrazione), quello delle scienze pratiche, che si occupavano del probabile (e dunque delle 'opinioni'), la retorica (ossia l'arte di argomentare e persuadere). In secondo luogo, Hobbes deve combattere contro scolastici vecchi e nuovi, che fondano le loro teorie non sul ragionamento e sull'esperienza, ma sul principio di autorit, seguendo e ripetendo senza alcuno spirito critico l'insegnamento di Aristotele. Infine, il filosofo inglese deve combattere contro quelli che egli definisce gli "ispirati", ossia tutti i fanatici, i visionari e i falsi profeti che parlano non per ragione, ma per fede. E' quindi evidente che il sostegno di Hobbes alla causa monarchico-assolutistica non prende nessuna delle strade tradizionali: il potere del re non viene difeso in nome del diritto divino, o in base ad argomenti religiosi, sentimentali o tradizionalistici. La teoria assolutistico-monarchica di Hobbes sar basata su argomenti rigidamente razionalistici, ispirati ad una ragione matematico-geometrica eguale a quella delle scienze naturali. Essa proceder dunque scomponendo il fenomeno nei suoi elementi primi o semplici, dai quali, come punti di partenza certi, procedere attraverso dimostrazioni rigorose. Dunque Hobbes un teorico razionalista della sovranit assoluta. Non solo: egli anche il sostenitore di una teoria artificialistica dell'ordine politico, in virt della quale lo Stato concepito come una macchina, un artificium, mediante il quale l'uomo tenta di rimediare ai difetti della natura. Anche su questo piano, la teoria di Hobbes si contrappone frontalmente a quella di Aristotele. Nel modello aristotelico il sorgere e lo svilupparsi dello Stato veniva spiegato servendosi non di una costruzione razionale, ma di una ricostruzione storica delle fasi attraverso le quali l'umanit si sarebbe evoluta, passando dalle forme pi primitive a quelle pi evolute di societ, sino a quella forma perfetta di societ (in quanto autosufficiente) che lo Stato. Come noto[13], le tappe principali di tale ricostruzione storica erano tre (famiglia, villaggio, citt) e ognuna sorgeva "per natura": la comunit che si costituisce per la vita di tutti i giorni - scrive Aristotele nella Politica - per natura la famiglia. ... La prima comunit che deriva dall'unione di pi famiglie volte a soddisfare un bisogno non pi giornaliero, il villaggio. ... La comunit perfetta di pi villaggi costituisce ormai la citt. Ognuna di queste tappe dunque l'esito di un processo naturalistico, fondato sui bisogni degli uomini e sulla loro natura, che costitutivamente socievole. E' stato giustamente osservato che la durata, la continuit, la stabilit e la vitalit di cui questo modello ha dato prova sono davvero sorprendenti:

esso giunge immutato sino alle soglie dell'era moderna, se vero che ancora Bodin e Althusius si rifanno ad esso. Tenendo conto di ci, risulta evidente il posto di rilievo che spetta ad Hobbes nella storia del pensiero politico, dato che a lui si deve, in sostanza, l'elaborazione di un modello completamente diverso da quello aristotelico e che prender il suo posto, appunto come modo prevalente di spiegare l'origine e lo sviluppo dello Stato, almeno sino ad Hegel, vale a dire sino agli inizi dell'800. Secondo il modello hobbesiano (che poi coincide con il modello giusnaturalistico), lo Stato non l'esito di un processo naturalistico, che si evolve senza fratture da una forma minima di societ ad una forma massima, ma il frutto di una decisione consapevole, con la quale gli uomini decidono di abbandonare lo stato di natura e "creare" uno stato civile. Lo Stato non nasce dunque per una serie di cause naturali e attraverso l'operare di condizioni obiettive (e dunque per la "forza delle cose"), ma per una convenzione umana: esso un artificium, un atto della volont razionale. E tale artificium nasce come risposta ai problemi che affliggono l'uomo nello stato di natura, dove egli vive libero ed eguale a tutti gli altri. Tutti i pensatori giusnaturalisti condivideranno tale modello dicotomico, frutto non di una ricostruzione storica, ma di un'ipotesi razionale: l'uomo vive o nello 'stato di natura', dove tutti gli individui sono liberi ed eguali, o nello 'stato civile'. Tertium non datur. Ma poich l'uomo, per le ragioni pi diverse (ogni giusnaturalista dar infatti una caratterizzazione differente dello stato di natura), non pu continuare a vivere nello stato naturale, allora egli decider di uscirne e, con un atto di volont consapevole, fonder lo stato civile. Come si pu vedere, il modello hobbesiano sostanzialmente agli antipodi di quello aristotelico: a) ad una spiegazione storico-sociologica dell'origine dello Stato subentra una spiegazione razionalistica (basata sull'ipotesi di ragione che nello stato di natura gli uomini siano tutti liberi ed eguali tra di loro); b) ad una visione dello Stato come esito inevitabile della natura umana subentra una visione dello Stato come antitesi allo stato di natura; c) ad una concezione organicistica dello Stato subentra una concezione individualistica (lo Stato il frutto di un accordo che gli individui, liberi ed eguali, stipulano tra di loro); d) ad una teoria naturalistica del fondamento del potere statale viene sostituita una teoria contrattualistica o artificialistica; e) il principio di legittimazione dello Stato non pi la forza delle cose, ma il consenso degli individui che lo compongono. Di tutte queste differenze, ha scritto Bobbio, la pi rilevante ... quella che riguarda il rapporto individuo-societ. Nel modello aristotelico all'inizio c' la societ (la societ familiare come nucleo di tutte le forme sociali successive); nel modello hobbesiano al principio c' l'individuo. Nel primo caso lo stato prepolitico per eccellenza ... uno stato in cui i rapporti fondamentali sono rapporti fra superiore e inferiore, e quindi sono rapporti di diseguaglianza, quali sono appunto i rapporti fra padre e figli e fra padrone e servi. Nel secondo caso lo stato prepolitico, cio lo stato di natura, essendo uno stato di individui isolati, viventi al di fuori di qualsiasi organizzazione sociale, uno stato di libert e di eguaglianza, ovvero di indipendenza reciproca, ed quello stato per l'appunto che costituisce la condizione preliminare necessaria dell'ipotesi contrattualistica, giacch il contratto presuppone al suo sorgere soggetti liberi ed eguali. Allo stesso modo che nello stato di natura sono naturali la libert e l'eguaglianza, nello stato sociale del modello aristotelico sono naturali la dipendenza e la diseguaglianza. In quanto stato di individui liberi ed eguali, lo stato di natura la sede dei diritti individuali naturali, a partire dai quali viene costituita in varia guisa e con vari esiti politici la societ civile[14]. Ma torniamo ad Hobbes. Se dietro la concezione naturalistica dello Stato che caratterizzava la teoria aristotelica stava la visione dell'uomo quale essere naturalmente sociale, dietro la concezione artificialistica dello Stato che distingue il pensiero di Hobbes sta una visione dell'uomo quale essere naturalmente asociale. Partiamo dunque dall'antropologia hobbesiana, ossia dalla sua visione dell'uomo naturale, cercando di non

dimenticare che l'uomo naturale l'uomo che vive nello stato di natura, ossia in quella condizione che precede, logicamente e storicamente, la creazione della societ e dello Stato (con le quali si entra nello stato civile). Anzitutto, Hobbes sostiene che gli uomini sono uguali tra di loro; o meglio, che le differenze esistenti non intaccano una condizione di sostanziale eguaglianza. La natura ha fatto gli uomini cos eguali, nelle facolt del corpo e dello spirito, che, quantunque si trovi spesso un uomo pi forte o pi intellignete di un altro, tuttavia in complesso la differenza tra uomo ed uomo non tanto notevole che un uomo possa pretendere per s un beneficio, il quale non possa pretendere un altro egualmente. Infatti, riguardo alla forza corporea, il pi debole ha sempre abbastanza forza, per uccidere il pi forte, o per mezzo di macchinazione segreta, o alleandosi con altri, che si trovano nello stesso pericolo. Ed in quanto alle facolt dello spirito - lasciando da parte le arti fondate sulla parola, e specialmente l'abilit procedente da regole generali ed infallibili, chiamata scienza, che solo pochi posseggono, e per poche cose, non essendo una facolt innata, n appresa, come la prudenza, senza studio io trovo una eguaglianza anche pi grande tra gli uomini, che per la forza materiale. Poich la prudenza non che esperienza, che, in un tempo eguale, egualmente si acquista da tutti gli uomini. Da questa eguaglianza di mezzi nasce l'eguaglianza delle aspirazioni. E poich i beni sono scarsi, quando due uomini aspirano ad uno stesso bene che non possono ottenere contemporaneamente, essi diventano nemici e tentano di distruggersi o sottomettersi a vicenda. Da ci nasce uno stato di diffidenza reciproca permanente, che conduce ciascuno se non a fare la guerra, quanto meno a prepararvisi. Dunque l'eguaglianza di fatto, unita alla scarsit delle risorse e al diritto di tutti su tutto (lo ius in omnia), destinata a generare uno stato di spietata concorrenza, che minaccia continuamente di degenerare in lotta violenta. Fin qui le condizioni obiettive dello stato di natura, che non dipendono dalla volont degli uomini. A tali condizioni si aggiungono per le passioni, che sono invece caratteristiche proprie dell'uomo. Per Hobbes l'uomo in primo luogo un essere naturalmente asociale: gli uomini non hanno piacere - al contrario molta molestia - di stare in compagnia di altri, dove non sia un potere, che li tenga tutti in soggezione. Altrove Hobbes dice che gli uomini sono refrattari alla verit, perch sono attratti dalla brama di ricchezze o dall'appetito di piaceri sensuali, oppure dall'impazienza di stare a meditare e dall'avventatezza. Il filosofo inglese dedica una particolare attenzione alla passione della vanagloria, come movente di contrasto tra gli uomini. In sintesi Hobbes indica tre cause di contrasto tra uomini: nella natura umana noi troviamo tre cause principali di lotta: la competizione, la diffidenza, la gloria. La prima fa combattere gli uomini per guadagno, la seconda per la salvezza, la terza per la reputazione; la prima usa la violenza, per impadronirsi di altri uomini, donne, fanciulli ed armenti, la seconda, per difenderli, la terza fa uso di inezie, come una parola, un sorriso, un'opinione differente e qualunque altro segno di disprezzo, o direttamente verso una persona o generalmente per mezzo di una riflessione sul suo parentado, sui suoi amici, sulla sua nazione, sulla sua professione, sul suo nome. In ultima analisi, l'uomo guidato da un inesausto desiderio di potere. Ne deriva che lo stato di natura caratterizzato dall'eguaglianza, dalla libert e dallo ius in omnia di tutti, nonch dall'assenza di qualsiasi potere superiore agli individui - necessariamente uno stato di guerra permanente. Ci non significa che gli uomini siano permanentemente in guerra tra di loro, ma che la disposizione di fondo quella al combattimento e che la pace sempre e soltanto una tregua tra due guerre. La condizione umana, nello stato di natura, dunque terribile. In tale condizione non v'ha luogo ad industrie, poich il frutto di esse sarebbe incerto; e per conseguenza non v' agricoltura, non navigazione n uso di quei comodi importati per via di mare, n di comodi edifizii, n di macchine, per rimuovere oggetti che hanno bisogno di molta forza, n v' conoscenza della superficie terrestre, n del tempo, n delle arti, delle lettere e del vivere sociale: e, quel ch' peggio di tutto, domina un

continuo timore ed il pericolo di una morte violenta; e la vita dell'uomo solitaria, povera, lurida, brutale e corta. Una condizione cos terribile che alcuni potrebbero metterne in dubbio la realt: non forse strano che la natura stessa abbia reso gli uomini atti a distruggersi tra loro? Non si tratter forse di una conclusione viziata da un'eccessiva astrazione, dedotta com' da una certa analisi delle passioni umane? E una ricerca maggiormente basata sull'esperienza non potrebbe rivelare che la situazione umana non poi cos fosca? La risposta del filosofo inglese assai interessante: colui il quale avanza tali obiezioni, scrive Hobbes, consideri allora che, quando egli stesso intraprende un viaggio, si arma, e cerca di andare bene accompagnato, e che, quando va a dormire, chiude la porta, e, anche stando in casa, chiude i suoi forzieri, pur sapendo che vi sono leggi e pubblici ufficiali armati per vendicare tutte le ingiurie che gli potessero venir fatte, e si accorger quale opinione egli ha dei suoi vicini, quando cavalca armato, dei suoi concittadini, quando chiude le porte, dei suoi figli e dei suoi servi, quando chiude i forzieri. Non accusa egli altrettanto con i suoi atti il genere umano, di quanto io faccia con le parole? Hobbes non pensa che lo stato di natura fosse lo stato universale degli uomini nell'epoca primitiva; per lui lo stato di natura non una realt storica, ma un'ipotesi della ragione. Essa pu tuttavia essere verificata in almeno tre contesti: nelle societ primitive, nel caso della guerra civile e nei rapporti internazionali. In ognuno di questi casi, infatti, i soggetti interessati (anche nel caso in cui siano Stati) non riconoscono alcun potere superiore a loro stessi e si comportano come se godessero dello ius in omnia: la conseguenza un permanente stato di guerra o di predisposizione alla guerra. La descrizione hobbesiana dello stato di natura dunque fortemente pessimistica e si colloca agli antipodi di quella che sar l'analisi rousseauiana: certo che la vita, nello stato di natura hobbesiano, appare intollerabile e, quel che pi conta, esposta al male capitale, ossia alla morte violenta. Ma l'uomo non composto solo di passioni asociali e pericolose; egli possiede anche la ragione, che gli suggerisce convenienti argomenti per la pace. Questi argomenti sono chiamati, dice Hobbes, leggi di natura. Le leggi naturali altro non sono che quei suggerimenti che la retta ragione d all'uomo, partendo dal presupposto che il bene supremo sia la vita stessa. Sono quindi regole subordinate e finalizzate ad una prima regola fondamentale, che prescrive di cercare la pace. Queste regole vanno osservate solo se si ben sicuri che raggiungano il fine voluto: se il fine la pace, esso viene raggiunto solo se tutti rispettano la regola di cercare la pace. Ne discende che tale regola va seguita solo se tutti contemporaneamente la rispettano. Dalla legge fondamentale di natura, con la quale ordinato agli uomini di procurare la pace, deriva questa seconda legge, che un uomo volentieri, quando altri lo fanno, e per quanto creder necessario alla pace ed alla difesa sua, rinunzii al suo diritto sopra tutte le cose, e sia contento di avere tanta libert contro gli altri uomini, quanta concessa ad altri uomini contro di lui; poich, fin quando ogni uomo conserva questo diritto, di fare ci che gli pare, tutti gli uomini restano in istato di guerra. Ma se gli altri uomini non lasceranno il loro diritto, come lui, allora non vi ragione che se ne spogli lui solo: perch sarebbe un esporsi come preda - al che non obbligato nessuno- piuttosto che un disporsi alla pace. Molto semplicemente: le leggi naturali (o dettami della retta ragione) esistono anche nello stato di natura, ma obbligano soltanto in foro interno e non in foro externo, vale a dire in coscienza e non nei comportamenti esterni. Poich nessuno, nello stato di natura, pu assicurare che anche gli altri rispettino le leggi naturali, ne consegue che tali leggi, pur esistendo, sono inefficaci; seguirle sarebbe pertanto imprudente. E tutto ci avviene perch non vi nessuno che abbia il potere di costringere ad osservare le leggi naturali, nel caso in cui queste non vengano rispettate. Di qui la necessit dello Stato, ossia di un potere superiore a quello dei singoli individui. Per ottenere il bene supremo (la pace) occorre dunque uscire dallo stato di natura e costituire lo Stato. Qui si inserisce la tematica contrattualistica: lo Stato nasce da un accordo, che gli individui stipulano tra di loro per conservare il bene supremo. Dunque lo Stato non un fatto naturale, ma un fatto artificiale, il frutto di una decisione consapevole presa da individui liberi ed eguali. Sulla natura del patto Hobbes d indicazioni molto precise. I primi giusnaturalisti moderni parlavano, in genere, di due tipi di patto: il pactum societatis,

con il quale un certo numero di individui decidono di comune accordo di vivere in societ e, in un secondo momento, il pactum subjectionis, con il quale tale societ si sottomette ad un determinato potere politico. Il primo patto trasforma una moltitudo in populus; il secondo un populus in una civitas. Hobbes parla invece di un unico patto, che chiama pactum unionis, e che li contiene entrambi: esso coincide infatti, quanto ai soggetti contraenti, con il pactum societatis, giacch esso non prevede un patto tra popolo e sovrano, ma tra tutti gli individui tra di loro, in favore di un terzo (il sovrano, che non un contraente del patto, bens un suo beneficiario); e, quanto al contenuto, coincide con il pactum subjectionis, giacch altro non contiene se non la sottomissione ad un potere supremo, motivata dal fatto che soltanto essa pu garantire quella sicurezza che nello stato di natura non esiste. Del resto, nella prospettiva di Hobbes il pactum societatis, preso isolatamente - come patto con il quale si costituisce una societ, ossia un insieme di individui che condividono alcuni fini - non ha senso, perch tale societ si reggerebbe esclusivamente sui dettami della retta ragione e dunque sarebbe precaria come lo stato di natura. Occorre pertanto che tale patto sia, al tempo stesso, un atto di sottomissione ad un potere comune, al fine di abbandonare la precariet dello stato naturale. In conclusione: i contraenti del patto teorizzato da Hobbes sono i singoli individui tra di loro e non il popolo da un lato e il sovrano dall'altro; quanto al contenuto, tale patto prevede la sottomissione al potere sovrano, ossia la rinuncia a tutti i diritti naturali, tranne quello alla vita, purch gli altri facciano altrettanto; infine il sovrano (sia esso un'assemblea o un individuo) non un contraente del patto, bens un terzo, un beneficiario. Il potere sovrano ottenuto da un simile patto, per conseguire realmente lo scopo per cui stato creato - e cio uscire irrevocabilmente da quella condizione terribile che lo stato di natura - deve essere irrevocabile, assoluto, indivisibile. L'irrevocabilit una delle ragioni che hanno spinto Hobbes a dare al suo pactum unionis la forma di un pactum societatis. Se infatti il patto hobbesiano coincidesse con il semplice pactum subjectionis - che vede da una parte il popolo, gi costituito, e dall'altro il sovrano - esso correrebbe il rischio di essere revocabile, giacch potrebbe essere interpretato come un rapporto tra mandante e mandatario, il quale implica sempre un potere condizionato e in qualche modo strumentale (e spesso temporalmente limitato). Insomma, se qualcosa appartiene a qualcuno (in questo caso, la sovranit al popolo), come questo qualcuno pu cederla a qualcun'altro (in questo caso, al sovrano), cos pu decidere di riprendersela, se colui al quale l'ha affidata viola, a suo parere, le regole del patto. Contro tale pericolo Hobbes sceglie la formula che abbiamo visto, adducendo inoltre due argomenti. Il primo si basa su una difficolt di fatto: se uno dei due contraenti fosse il populus (e non una semplice moltitudo), allora per rescindere il contratto sarebbe sufficiente la maggioranza di esso; ma quando i contraenti sono, indistintamente, tutti i membri della societ in quanto singoli (cio come moltitudine e non come popolo), allora la rescissione richiederebbe l'unanimit. E poich non pensabile, osserva Hobbes, che tutti i cittadini siano contemporaneamente d'accordo nel voler revocare il sovrano, ne consegue che tale revoca sarebbe di fatto impossibile. Il secondo argomento si basa invece su una impossibilit di diritto: poich il patto di unione concepito come un contratto a favore di un terzo (ossia come un contratto nel quale i contraenti assumono un obbligo non solo l'uno verso l'altro, ma anche verso un terzo), per rescinderlo non sufficiente il consenso dei contraenti, ma necessario anche quello del terzo verso cui tali contraenti si sono obbligati. Ci implica che per rescindere un simile patto non basta il consenso di tutti i governati (consenso unanime che, come abbiamo gi visto, assai improbabile), ma necessario anche quello del sovrano stesso. Per quanto riguarda l'assolutezza del potere sovrano, Hobbes si contrappone a tutte le teorie che in vario modo tendono a limitare il potere dello Stato. Assoluto in Hobbes ha il significato classico di legibus solutus, sciolto dalle leggi, superiore alle leggi stesse. Insomma il potere sovrano, in quanto sovrano, potestas superiorem non recognoscens. In quegli anni, tuttavia, si facevano sempre pi strada le dottrine anti-assolutistiche e costituzionalistiche. Uno dei loro argomenti era legato proprio alla fondazione contrattualistica del potere: se il patto avvenuto tra il popolo e il sovrano, il potere di quest'ultimo pu essere condizionato dall'adempimento di certi obblighi. Ma abbiamo gi visto che Hobbes elimina alla radice tale problema, configurando il patto come pactum societatis a favore di un terzo non contraente. Per Hobbes, infatti, il popolo non pu esistere prima dell'istituzione del potere; precisamente l'istituzione di un potere sovrano che trasforma una moltitudine dispersa e insicura in un popolo. Un altro argomento sul quale si

misurer la distanza di Hobbes dai pensatori liberali riguarda il contenuto del patto, ossia la quantit di diritti naturali che vengono ceduti al sovrano: per i liberali sar una cessione sempre pi ridotta, per Hobbes una cessione quasi totale (gli individui conservano soltanto il loro diritto alla vita, che precisamente quello per tutelare il quale hanno abbandonato l'insicuro stato di natura). Quanto alla indivisibilit, ovvio che se tutta la costruzione hobbesiana nasce dall'esigenza di garantire l'unit dello Stato, egli vedr tanto nella divisione dei poteri, quanto nella separazione tra potere temporale e spirituale, una minaccia da scongiurare. La divisione dei poteri, dice Hobbes, o inutile o dannosa. E' inutile quando i diversi poteri vanno d'accordo, in quanto essi, sommandosi nell'accordo, costituiscono sempre un potere assoluto; dannosa quando i poteri sono in disaccordo, giacch si produce una situazione di anarchia. Il filosofo inglese aggiunge a questo un altro ragionamento dilemmatico, che riguarda un esempio di come possa avvenire una divisione del potere. Si tratta del potere di fare guerra, che, in un sistema basato sulla divisione dei poteri, conferisce al sovrano il potere di dichiararla, ma al parlamento il potere di finanziarla. Commenta Hobbes: o il potere effettivo sta nelle mani di chi eroga i finanziamenti e allora la divisione apparente, fittizia, e in sostanza vi un unico potere, che quello del parlamento; oppure il potere veramente diviso, e allora lo Stato sulla via della dissoluzione, perch non si pu fare la guerra o conservare la tranquillit pubblica senza denaro. Hobbes, infine, offre anche una disamina dei vari poteri, sulla base della quale egli intende dimostrare come questi si implichino vicendevolmente e quindi debbano concentrati nelle stesse mani, pena la loro inefficacia. Vediamo infine il problema dei rapporti con la Chiesa, al quale il filosofo inglese dedica molto spazio. La soluzione consiste in un'applicazione del principio che anima tutto il suo sistema, ossia del principio di razionalit. In base ad esso, tutto ci che, nell'ambito della religione, rientra nella ragione (e per Hobbes l'essenziale), di pertinenza dello Stato; quanto non vi rientra (ad esempio, la natura di Cristo, i premi futuri, la resurrezione dei corpi, la natura degli angeli) appartiene alla sfera spirituale. Ma - osserva Hobbes - poich definire ci che spirituale e ci che temporale pur sempre opera della ragione, tale distinzione sar rimessa al sovrano, ossia al potere temporale. Dunque delle questioni elencate poco sopra giudicheranno gli ecclesiastici, ma solo se il sovrano li investir di tale compito. Nessun contrasto dunque possibile tra Chiesa e Stato, tra doveri del cittadino e doveri del cristiano: Chiesa e Stato sono una cosa sola. Si pu dare tuttavia il caso di un sovrano non cristiano che comandi ad un suddito cristiano. Ancora una volta, per tutto ci che temporale, il suddito dovr obbedire al sovrano; viceversa, per quello che spirituale dovr obbedire a Dio. Dunque non obbedir allo Stato; ma ci non significa che possa ribellarsi ad esso. E allora? Rimane, per Hobbes, solo la strada del martirio. Nemmeno la religione rende dunque possibile la disobbedienza. L'unica possibilit di disobbedienza sta all'interno del patto, nella violazione della clausola dell'autoconservazione che regge l'intera impalcatura.

7. Locke
Cenni biografici
John Locke nasce nel 1632 a Wrington, presso Bristol. Il padre, procuratore e ufficiale giudiziario, fece parte dell'esercito parlamentare in lotta contro il Re durante la prima rivoluzione inglese. Studia ad Oxford, dove nel 1656, a 24 anni, ottiene il titolo di baccelliere e nel 1658 quello di maestro delle arti; rimane al Christ Church College come insegnante di greco e di retorica. Inizia la sua carriera universitaria come censore di filosofia morale, ma poi passa a studi di medicina e di scienza naturale, entrando in contatto con medici famosi e con Boyle. Pur non ottenendo il dottorato in medicina, svolger attivit di medico e continuer ad interessarsi di problemi scientifici, entrando anche a far parte della Royal Society. La sua attenzione verso la politica risale agli anni di Oxford. Tra il 1660 e il 1662, dopo la Restaurazione degli Stuart, scrive due trattati sui poteri del magistrato civile in campo religioso. Tra il 1662 e il 1664 scrive dei saggi sulla legge di natura, nei quali appare come sostenitore della restaurazione e dello Stato assoluto.

Nel 1666 incontra Lord Ashley, che poi diverr conte di Shaftesbury, cancelliere di Carlo II ed eminente esponente del partito whig. E' al seguito di Shaftesbury che Locke maturer le sue idee liberali. Divenuto segretario di Ashley, Locke si trasferisce a Londra ed entra attivamente in politica. Nel 1667 scrive il primo Saggio sulla tolleranza, che rimane inedito. Nel 1671 scrive due abbozzi di quello che sar la sua opera maggiore, il Saggio sull'intelletto umano. Durante le alterne fortune di Shaftesbury si reca pi volte in Francia, dove entra in contatto con la cultura cartesiana. Nel 1683, in piena repressione anti-whig, si rifugia in Olanda, dove attende alla composizione delle sue opere. Nel 1689 pubblica, anomimi, la Lettera sulla tolleranza e i Due Trattati sul governo civile. Nello stesso anno pubblica il Saggio sull'intelletto umano (che viene per datato 1690), il quale avr quattro edizioni e grande successo. Nel 1693 pubblica i Pensieri sull'educazione; nel 1695 il Saggio sulla ragionevolezza del cristianesimo. Durante gli ultimi anni della sua vita si impegna nella politica attiva e in polemiche suscitate dalle sue idee religiose. Muore nel 1704, a 70 anni.

Il pensiero politico
Il 13 febbraio 1689, nella grande Sala londinese dei Banchetti, a Whitehall, la regina Anna e suo marito, il Principe di Orange Guglielmo III, accettano dal Parlamento inglese la corona resasi libera per l'espulsione di Giacomo II Stuart (padre di Anna). Ma, quel che pi conta, essi accettano contemporaneamente una Dichiarazione dei diritti della Nazione nei confronti della monarchia. Tale Dichiarazione sancisce le grandi prerogative del Parlamento nei confronti della Corona (consistenti essenzialmente nella supremazia della legge su qualsiasi altro potere) e le libert personali dei cittadini. Nello stesso anno, viene emanato il Toleration Act, con il quale viene sancito il principio della tolleranza verso le diverse religioni (con l'esclusione di atei e cattolici), chiudendo cos un secolo di sanguinosissime guerre religiose. Inoltre si regolano i rapporti tra esecutivo e legislativo e viene stabilita l'indipendenza del potere giudiziario attraverso il principio dell'inamovibilit dei giudici. Anna e Guglielmo, accettando tutto ci, danno vita al primo esempio europeo di monarchia costituzionale, ossia di monarchia in cui il potere del Re non pi assoluto. Come esito della lotta contro lo Stato assoluto sorgeva cos in Inghilterra lo Stato limitato, ossia lo Stato liberale, lo Stato in cui il potere limitato sia materialmente, sia formalmente. Materialmente, in quanto vengono sottratte alla sua sfera di intervento una serie di 'materie', che vanno a costituire l'area dei diritti civili; formalmente, in quanto il suo potere, sulle materie in cui si esercita legittimamente, deve comunque seguire procedure legalmente prefissate, e in quanto deve essere suddiviso al suo interno. Tale complesso di norme e princpi - dalla separazione dei poteri alla supremazia della legge, dall'indipendenza del potere giudiziario alle garanzie giudiziarie per i cittadini, sino agli eventuali princpi generali riguardanti i diritti di libert di questi ultimi - generalmente contenuto in un documento scritto, definito costituzione. Costituzionalizzare il potere, nel senso moderno del termine, significa limitare il potere, definire per iscritto i suoi ambiti di competenza, la sua struttura, le sue procedure generali, gli strumenti per controllarlo e i princpi che deve garantire. Come dir Benjamin Constant, la costituzione un atto di sfiducia verso il potere. E' questa l'accezione liberale di costituzione, ben diversa da quella meramente descrittiva di Aristotele (che verr poi ripresa da Hegel), secondo la quale la costituzione di uno Stato semplicemente la sua organizzazione (in questo senso, come si comprender, qualunque Stato ha una costituzione). Dunque le espressioni Stato limitato, Stato liberale, Stato costituzionale sono, nel senso sopra indicato, sinomime: tutte rimandano all'idea fondamentale di un potere limitato, contrapposto al tradizionale potere assoluto; tutte sono guidate dall'idea della libert e quindi da una forte ispirazione anti-autoritaria; tutte

riflettono una vera e propria rivoluzione copernicana nell'ambito del problema politico, l'essere cio passati dal punto di vista del governante a quello del governato. La politica, insomma, vista non pi ex parte principis, ma ex parte populi. Tradizionalmente, il pensiero di John Locke considerato l'espressione pi autentica di questo esito liberale e costituzionale con il quale si era concluso il tormentatissimo '600 inglese. Il suo pensiero politico - dai due trattati sul governo civile agli scritti sulla tolleranza - considerato la prima grande concezione liberale moderna. Tanto pi che, contrariamente a quanto si pensato per anni, i due trattati, anche se pubblicati nel 1690, quindi dopo la Rivoluzione, furono in realt composti dieci anni prima: ne consegue, come stato giustamente osservato, che la grande opera politica lockiana, di solito esaltata come la giustificazione di una rivoluzione gi fatta, da considerarsi piuttosto come la proposta di una rivoluzione da fare[15]. I due bersagli polemici di Locke sono la concezione paternalistica del potere e quella assolutistica. In una parola, tanto Filmer, quanto Hobbes. Filmer era il rappresentante del legittimismo monarchico e l'autore del Patriarca, alla cui confutazione Locke dedic il Primo Trattato sul governo civile. Filmer sosteneva che il potere del re riposa sul diritto naturale di paternit e deriva, passando per i Patriarchi, da Adamo stesso. I Re sono i padri dei loro popoli; e il loro potere assoluto, come assoluto il potere di un padre sul figlio, per natura, ex generatione. E' assurdo, dice Filmer, che il potere nasca da un contratto, perch in virt di esso il popolo, che uno dei contraenti, potrebbe giudicare le eventuali infrazioni del sovrano, divenendo cos giudice e parte in causa. E' insostenibile, asserisce ancora Filmer, che il re sia costituzionale, cio sottoposto alle leggi, dal momento che proprio il re l'origine della sovranit e quindi delle leggi. Alle tesi di Filmer Locke muove pi obiezioni. Anzitutto, il passo biblico citato a sostegno delle sue tesi male interpretato. In esso si legge che Dio benedisse Adamo ed Eva, e disse loro: siate fecondi, e moltiplicatevi, e riempite la terra, e sottomettetela, e dominate sul pesce del mare e sull'uccello dell'aria e su ogni vivente che muove sulla terra. Ora, quest'ultima espressione non indica gli uomini, secondo Locke, bens gli animali, come si pu comprendere dal contesto. Inoltre, anche se fosse bene interpretato - ragion per cui Adamo sarebbe il primo sovrano assoluto della storia -, le sue conseguenze non si rivelerebbero favorevoli per le monarchie legittime; chi sarebbe, infatti, il legittimo erede di Adamo? Tutti potrebbero considerarsi legittimi eredi del primo uomo e dunque un simile argomento non rafforzerebbe certo le monarchie esistenti, ma piuttosto alimenterebbe l'anarchia. In secondo luogo, il potere paterno, osserva Locke, in realt il potere dei genitori, dunque un potere dualistico. E poich ragione e rivelazione - afferma il filosofo inglese con accenti assai moderni - ci dicono che la madre ha sui figli gli stessi diritti del padre, ne consegue che i fautori della teoria paternalistica del potere sovrano rendono un pessimo servizio alla monarchia assoluta, la quale verrebbe ad essere posta non in una, ma in due persone. In terzo luogo, il potere dei genitori un potere temporalmente determinato, che pu e deve esercitarsi soltanto nel periodo in cui i figli non sono nell'et adulta. In quarto luogo, il potere dei genitori sui figli non nasce ex generatione, ma solo in quanto i primi si dedicano alla conservazione dei secondi (come dimostra il diritto genitoriale pleno jure esercitato da genitori adottivi); dunque tale potere limitato, perch non pu violare la vita e i possessi dei figli medesimi. La conclusione di Locke che potere politico e potere paterno sono perfettamente distinti e separati, essendo fondati su basi diverse e perseguendo fini differenti. Dunque l'identificazione tra i due - base del legittimismo filmeriano a favore dei monarchi assoluti - non ha alcun fondamento. E' bene osservare che, al di l dei diversi argomenti usati da Locke, due sono i punti fondamentali della sua critica: 1) un potere concepito paternalisticamente un potere anti-liberale, in virt del quale gli individui non sono cittadini, ma sudditi, perdipi assimilati ad eterni minorenni (la polemica anti-paternalistica tipica del pensiero liberale e si far particolarmente vigorosa in Kant); 2) l'approccio di Filmer, il quale sostiene che il potere supremo, al di l del modo in cui stato conseguito (elezione, donazione, successione), ci che propriamente fa di un individuo un Re, un approccio che

abolisce il problema stesso della legittimit del potere e conduce quindi ad una totale accettazione della realt di fatto, per cui ogni potere, dice Locke - sia esso di Cromwell, di Masianello o di Sancio Pancia diventa degno di obbedienza. Se Filmer aveva indebitamente identificato il potere politico con il potere paterno, Hobbes lo ha altrettanto indebitamente identificato con il potere dispotico. Questi diversi tipi di potere nascono, per Locke, su basi diverse e quindi si rifanno a diversi princpi di legittimazione. Mettiamo a confronto il potere del politico, il potere del padre e il potere di un padrone. Il potere paterno nasce ex generatione (ad immagine e somiglianza del potere di Dio sugli uomini, ex creatione); unito alla cura, esso d diritto, temporaneamente, al comando sui figli e, correlativamente, al dovere di obbedienza da parte di questi ultimi. Il potere del padrone, invece, nasce ex delicto, ossia dalla punizione di un atto criminoso; ad esempio, colui il quale fa prigioniero un uomo all'interno di una guerra giusta, ha su di lui un potere assoluto. Ma il fondamento del potere politico, secondo Locke, non pu derivare n ex generatione, n ex delicto; esso deriva invece ex contractu, ossia da uno strumento che presuppone l'eguaglianza degli individui interessati e quindi il consenso dei medesimi. Hobbes, anche se attraverso lo strumento del contratto aveva costruito il potere politico con le caratteristiche del potere dispotico, aveva in realt trasformato il potere dispotico in un potere politico. Per Hobbes, infatti, il potere del padrone sullo schiavo non fondato sulla conquista, ma su un contratto; come gli uomini promettono obbedienza assoluta ad un sovrano per amore della pace, cos gli schiavi promettono (implicitamente) obbedienza assoluta al padrone, in cambio della vita. Per Locke, invece, il potere assoluto di un uomo su un altro non pu nascere n dalla natura (giacch gli uomini per natura sono uguali e l'unica forma di dominio che deriva dalla natura quella dei genitori sui figli e anche quella deve rispettare la vita dei figli), n da un contratto (perch nemmeno l'uomo ha tale potere assoluto sulla propria vita e dunque non pu cederlo ad alcuno). Non avendo origine n naturale n contrattuale, il potere dispotico pu, secondo Locke, essere solo e soltanto la conseguenza del fatto che un uomo aggredisce un altro e cos, messosi in stato di guerra con lui, mette a repentaglio la propria vita. Ma tale circostanza eccezionale. La differenza che corre tra Locke e Hobbes tuttavia ancora pi profonda: oltre a riguardare il fondamento del potere politico, essa riguarda il modo di concepire lo stato di natura, l'uomo stesso, la forma e il contenuto del contratto e infine, ovviamente, le caratteristiche del potere politico. Anche per Locke, come per Hobbes, gli uomini sono, nello stato di natura, liberi ed eguali. Ma la descrizione di questo stato ben diversa: mentre per Hobbes lo stato di natura era uno stato di guerra, per Locke uno stato pacifico, almeno inizialmente. Dice Locke: stato di natura e stato di guerra sono distinti tra di loro come uno stato di pace, benevolenza, assistenza e conservazione reciproca distinto da uno stato di ostilit, malvagit, violenza e reciproca distruzione. Dietro questa raffigurazione dello stato di natura si pu scorgere una visione fondamentalmente ottimistica dell'uomo: l'uomo un essere socievole, partecipe di una comune umanit, benevolo, ragionevole, avente il senso naturale della giustizia. I molteplici egoismi individuali coesistono senza urtarsi reciprocamente, anzi reciprocamente avvantaggiandosi e simpatizzando. La legge di natura una legge di conservazione e di pace. Senonch pu accadere che qualcuno violi questa legge, ossia che violi la libert di un altro; e pu accadere anche che quest'ultimo, una volta offeso, ecceda nella sua reazione, offendendo a sua volta l'offensore. Di qui pu nascere un conflitto: conflitto che, una volta iniziato, non pu terminare, perch manca un terzo superiore alle parti, manca un giudice imparziale che possa ristabilire la corretta osservanza della legge naturale. Dunque lo stato di natura, per Locke, pacifico; ma se al suo interno nasce uno stato di guerra, questo, una volta cominciato, non pu terminare. Molti critici si sono soffermati su questa ambiguit lockeana; in particolare, Cox ha sostenuto che Locke la penserebbe come Hobbes, ma sarebbe troppo pavido per dirlo. In realt, come ha osservato opportunamente Bobbio, l'ambiguit di Locke nasce da ragioni ben pi complesse. Fare dello stato di natura uno stato di guerra, assolutamente negativo, non solo era contrario alle Sacre Scritture, ma costituiva anche la base per giustificare un potere assolutistico: solo il terribile Leviatano infatti l'antitesi appropriata contro un simile stato di cose (ossia, contro uno stato di natura radicalmente negativo). A mali estremi, estremi rimedi. Viceversa, fare dello stato di natura uno stato totalmente pacifico

(come, ad esempio, aveva fatto Pufendorf), significava elaborare un formidabile argomento per dichiarare superfluo lo stato civile. E' per questi opposti motivi - che rendevano sconsigliabile assimilare lo stato di natura tanto ad uno stato di guerra, quanto ad uno di pace - che Locke si propose di elaborare una teoria politica in cui fosse dimostrata, per un verso, la necessit dello Stato e, per l'altro, la necessit che il suo potere fosse limitato. Lo Stato di Locke, insomma, avrebbe dovuto essere non l'antitesi dello stato di natura, ma la sua redenzione, non l'abrogazione delle leggi naturali, ma la loro conservazione e garanzia. Per Locke, infatti, gli uomini non sono cos ferini come in Hobbes; essi sono ragionevoli e quindi tendono a seguire le leggi di natura. Ma Locke anche un realista e quindi sa che non proprio tutti gli uomini sono ragionevoli o riescono a seguire la voce della ragione: di qui le violazioni che trasformano il pacifico stato di natura in uno stato di guerra. La differenza che separa i due pensatori inglesi non di poco conto: lo stato di natura di Hobbes uno stato di guerra per principio, quindi in modo permanente ed esclusivo; quello di Locke, invece, pu diventare, di fatto, uno stato di guerra, ma di diritto, secondo la sua essenza, non lo sarebbe, anzi sarebbe lo stato perfetto. Per concludere: diversi i mali, diversi i rimedi. Per Hobbes, nello stato di natura, si d guerra continua e inesistenza (nel senso dell'inefficacia) delle leggi naturali; lo stato civile dovr quindi avere una forza immensa; le sue leggi non dovranno essere vincolate da alcun limite. Per Locke, viceversa, l'unico difetto dello stato di natura consiste nell'assenza di un giudice imparziale: dunque il compito principale dello stato civile sar quello di rimediare a questa carenza. Lo Stato di Hobbes nasce con il compito di cancellare anche l'ultima traccia dello stato di natura, per riedificare la convivenza umana fin dai suoi fondamenti: a male radicale, rimedio radicale. Per Locke, invece, lo Stato nasce con il compito di correggere lo stato di natura e di farlo riemergere, con tutti i suoi vantaggi, quanto pi possibile, nello stato civile: a male parziale, rimedio parziale. Questa diversit spiega anche il diverso modo di congegnare il patto. Per Hobbes esso viene stipulato tra i singoli (che non costituiscono ancora un popolo, bens una moltitudine dispersa) a favore di un terzo, il sovrano, il quale, non essendo un contraente del patto ma un suo beneficiario, non vincolato ad esso in alcun modo; inoltre, attraverso il patto, i singoli si accordano per cedere tutti i loro diritti al sovrano, tranne quello alla vita (che anche il motivo per cui abbandonano lo stato di natura). Dunque in Hobbes il potere del sovrano sar assoluto; e che sia l'obbedienza il fine essenziale di tutta la costruzione hobbesiana emerge con particolare chiarezza dal fatto in Hobbes il patto di unione (con il quale ci si unisce in societ) coincide con il patto di soggezione (con il quale ci si sottomette ad un'autorit). Tra i due non si d distinzione: gli uomini si accordano tra loro e la ragione di questo accordo, nonch il suo contenuto, altro non che la sottomissione ad un potere sovrano. Per Locke, invece, il contratto in primo luogo un pactum societatis, tra gli individui che si riuniscono in societ, e poi un pactum subjectionis, il cui contenuto consiste nel conservare tutti i diritti naturali, cedendo al sovrano soltanto quello a farsi giustizia da soli. Insomma, lo Stato, in Locke, non nasce per abolire lo stato di natura, ma per conservarne e garantirne tutti i vantaggi. Inoltre Locke obietta ad Hobbes che se il sovrano rimanesse legibus solutus, egli non sarebbe nemmeno sottoposto al giudizio del giudice, la cui istituzione costituisce il fine principale dello stato civile; ci significherebbe che il sovrano rimane nello stato di natura, il che contrasta con i fini stessi che determinano il passaggio allo stato civile, ossia la tutela dei diritti naturali (i quali sarebbero sempre esposti alla totale libert naturale del sovrano). Se si verifica una tale situazione, non solo non si ha la societ civile nel senso pieno del termine, perch il sovrano ne rimane fuori, ma per i singoli individui si ha una situazione peggiore di quella che avevano nello stato di natura; mentre l, infatti, potevano giudicare del proprio diritto e difendersi, qui, di fronte al sovrano, non potrebbero far nulla. Ma quale organizzazione d Locke al suo Stato? I suoi princpi di legittimazione sono fiducia e consenso. Il potere politico, dice Locke, quel potere che ciascuno, possedendolo allo stato di natura, ha rimesso nelle mani della societ, e, in questa, ai governanti che la societ ha stabilito sopra di s, con la fiducia, espressa o tacita, che sia impiegato per il suo bene e la conservazione della sua propriet. Dunque il potere, una volta nelle mani del magistrato,

non pu avere altro fine n altro criterio che quello di conservare i membri di quella societ nelle loro vite, libert e possessi, e quindi non pu essere un potere assoluto e arbitrario ... Questo potere trae origine unicamente dal contratto e dall'accordo e dal mutuo consenso di quelli che costituiscono la comunit. In sostanza: il potere nasce con un fine ben preciso, che quello di tutelare e garantire i diritti naturali degli individui. Tale fine rende lo Stato uno strumento, rispetto ad esso (concezione strumentale del potere); inoltre lo rende limitato, giacch se deve garantire quei diritti, ovvio che non dovr violarli (concezione limitata del potere); a tale limitazione si aggiunge quella implicita nella sua nascita, dovuta all'accordo e al mutuo consenso in relazione ai fini da perseguire (concezione contrattualistica e consensuale del fondamento del potere), la quale implica che il disattendere quei fini o il venire meno al consenso renda illegittimo quel potere. Ma di quale consenso si deve trattare? Il consenso di tutti - ossia l'unanimit - evidentemente impossibile. Per due motivi: il primo di natura pratica, e consiste nel fatto che, per motivi di salute o per affari, ci sar sempre qualcuno che non potr partecipare alle pubbliche decisisioni; il secondo motivo, assai pi importante, nasce dall'ineliminabile variet di opinioni e di interessi che caratterizza ogni societ numerosa. Pretendere di governare una societ con l'unanimit significa quindi rinunciare a governarla. Non rimane che la regola della maggioranza, ossia il consenso del maggior numero: una volta costituito il corpo politico, la maggioranza ha diritto di deliberare anche per la minoranza. Ma, come abbiamo gi visto, un potere consensuale non pu essere illimitato. Quali saranno allora i limiti che anche la maggioranza incontrer nell'esercizio del suo potere? 1) Anzitutto, i diritti naturali (limitazione "materiale" del potere): abbiamo visto che il potere sovrano, all'atto della sua creazione, riceve degli individui un solo diritto naturale, quello a farsi giustizia da soli; ne consegue che l'azione del sovrano non dovr in alcun modo violare quei diritti naturali ai quali gli individui non hanno rinunciato e la cui tutela costituisce per l'appunto la stessa ragion d'essere dello Stato. Dunque al di sopra delle leggi positive si collocano le leggi naturali, che le prime non solo non devono violare, ma anzi devono garantire. In questo senso il pensiero di Locke una delle forme pi radicali di giusnaturalismo. 2) In secondo luogo, il principio di legalit (limitazione "formale" del potere). Il potere politico non pu essere esercitato in modo estemporaneo ed arbitrario, ma - dice Locke - secondo leggi promulgate e fisse e giudici autorizzati e conosciuti. E' il principio di legalit, che deve garantire la supremazia della legge, la sua certezza e l'eguaglianza di tutti di fronte ad essa. 3) In terzo luogo, il diritto alla propriet. Nessun individuo pu essere privato di una propriet senza il suo consenso; se ci accadesse, dice Locke, si dovrebbe supporre che, coll'atto di entrare in societ, si perda ci che costituiva il fine per cui si entrati in societ: assurdit troppo grossolana perch possa essere ammessa da alcuno. 4) In quarto luogo, il potere non pu trasferire ad organi diversi dal parlamento il potere legislativo. Il potere legislativo rappresenta infatti per Locke il potere supremo; supremo non nel senso di illimitato, ma nel senso di collocato al di sopra del potere esecutivo. Questi due poteri devono essere separati, sulla base di una diversa funzione: il primo deve fare le leggi, il secondo farle eseguire. Ma ci non significa che siano incomunicanti: tra di loro si d un rapporto di subordinazione, che mette al primo posto il potere che fa le leggi. Accanto a questi due poteri, Locke non nomina il potere giudiziario, ma quello da lui denominato 'federativo', che si occupa dei rapporti con gli altri Stati e che costituisce quindi un'ulteriore articolazione dell'esecutivo. Quanto al potere giudiziario, probabilmente Locke lo comprende in quello legislativo, dal momento che spetta al legislativo sovrintendere al rispetto delle leggi. La netta supremazia del legislativo-giudiziario sull'esecutivo fa s che gli eventuali abusi di potere del secondo, ai danni del primo, mettano l'esecutivo in stato in guerra con il parlamento e quindi con il popolo; quest'ultimo, a sua volta, visto che il legame fiduciario stato violato, ha il diritto di riprendersi la propria libert e di usare persino la forza per difendere i propri diritti e per ristabilire un nuovo legislativo che goda

della sua fiducia. Abbiamo dunque in Locke una piena giustificazione del diritto di resistenza, che non ritroveremo nemmeno nel pensiero, peraltro successivo, di Kant. A coloro i quali obiettano che tale diritto costituisce l'anticamera della dissoluzione dello Stato - giacch il popolo ignorante e sempre scontento e quindi collocare nelle sue mani il fondamento del potere significa esporre quest'ultimo a continue rovine Locke risponde che vero il contrario. Vale a dire, che gli uomini hanno piuttosto la tendenza a conservare le proprie istituzioni, sopportando anche molti errori e vessazioni da parte dei governanti, e che soltanto una serie davvero lunga di abusi, inganni e prevaricazioni pu spingere un popolo a ribellarsi[16]. Prima di venire al grande tema della tolleranza, bene soffermarsi su un tema che al quale abbiamo dedicato soltanto qualche cenno e che costituisce anche il cardine delle interpretazioni marxiste di Locke. E' il tema della propriet. Le interpretazioni marxiste - che per la verit sono in genere piuttosto infeconde, giacch applicano lo stesso schema a tutti i pensatori liberali, perdendo in tal modo le profonde differenze che passano tra di essi - sostengono che il pensiero di Locke consiste in una strenua difesa della propriet privata. Dunque il liberalismo di Locke altro non sarebbe che un'ideologia borghese, palesemente classista, che accompagna il sorgere e lo svilupparsi della classe borghese. E' d'altra parte lo stesso Locke ad affermare, in un passo del Trattato, che per potere politico intende il diritto di fare leggi e imporre sanzioni al fine di regolare e conservare la propriet. Sarebbe dunque evidente che la libert di cui parla Locke non universale, perch la libert dei soli proprietari, ossia dei soli borghesi: quella del pensatore inglese sarebbe pertanto una concezione classista della libert, interessata soltanto alla egoistica difesa degli interessi economici della borghesia. Lo Stato, in questa prospettiva, non sarebbe che un comitato borghese d'affari. Ora, sul fatto che la propriet occupi, nel pensiero di Locke, un posto centrale, non v' dubbio. Egli, del resto, la spiega in modo rivoluzionario, giacch ne fa un diritto naturale, basato sul lavoro e collocato nel seno stesso dello stato di natura, mentre Hobbes ne faceva un diritto convenzionale, che nasceva con lo stato civile. Ma seguiamo da vicino il ragionamento di Locke. Egli parte dal passo biblico nel quale sta scritto che Dio, originariamente, ha dato la terra e tutte le cose in comune agli uomini. Tale propriet originaria comune sembra costituire, come ammette lo stesso Locke, una grandissima difficolt, al fine di giustificare la propriet privata. Tuttavia, egli argomenta cos: vero che Dio ha dato il mondo agli uomini in comune, ma egli lo ha dato per la loro sussistenza e per il conforto della loro esistenza. Dal momento che terra, animali e frutti sono dati a tutti per il vantaggio di ciascuno, ci dovr essere un modo per appropriarsene. Tale modo non pu essere il consenso degli altri uomini, altrimenti ognuno, nonostante l'abbondanza, morirebbe di fame nell'attesa di tale consenso. Ora, se vero che la terra stata data agli uomini in comune, anche vero che la propriet della persona invece rigorosamente individuale; e come ognuno possiede individualmente il proprio corpo e la propria mente, cos possieder tutto ci che l'opera delle sue mani potr procurargli. Con il lavoro, l'uomo trae i beni dallo stato comune in cui si trovano originariamente e vi aggiunge qualcosa di individuale, che quindi li esclude dal loro primitivo stato. Insomma il lavoro aggiunge ai beni qualcosa che essi non possedevano precedentemente; e poich questo qualcosa in pi una propriet rigorosamente individuale, tali beni escono dal possesso comune (ad es., la terra lavorata propriet di chi la lavora). Facciamo attenzione: con questa argomentazione la propriet privata, per la prima volta nella storia del pensiero sociale e politico, viene collegata al lavoro. In tal modo la propriet privata - da qualcosa di statico, dato una volta per tutte, o di convenzionale - diviene qualcosa di dinamico, frutto dello sforzo e dell'attivit economica dell'uomo. E non si pu certo negare che si tratti di una concezione che si attaglia molto bene alla mentalit dei nuovi ceti borghesi inglesi, terrieri e mercantili. Ma andiamo avanti. Dapprima Locke pone dei limiti all'acquisizione della propriet privata. Il primo limite che occorre lasciare cose sufficienti e altrettanto buone agli altri; il secondo che ci si pu appropriare di quanto pu essere goduto, per cui tutto ci che eccede la nostra capacit di fruizione - e andrebbe quindi perso o deteriorato - oltrepassa tale limite. Ma tali limiti vengono superati sia grazie all'idea dell'abbondanza dei beni (per cui ne resterebbero sempre pi che sufficientemente per gli altri), sia grazie all'istituzione della moneta, che espande illimitatamente il possesso, dal momento che non deperibile. Ci giustifica possessi che superano ampiamente i bisogni personali. Sembrerebbe proprio che Locke sia un teorico dell'accumulazione illimitata. Egli avrebbe proiettato nello stato di natura - sostengono con qualche ragione

gli interpreti marxisti - un processo storico realmente realizzatosi, ossia il sorgere dell'economia borghese moderna, che non tollera limitazioni n vincoli. Tuttavia, non bisogna dimenticare che Locke adduce anche argomenti pi solidi di quello della moneta, e cio che un'economia fondata sulla propriet privata e sull'accumulazione illimitata di ricchezza genera uno sviluppo economico complessivo infinitamente superiore ai modelli pre-borghesi: un piccolo pezzo di terra coltivato privatamente, osserva Locke, rende dieci, anzi cento volte di pi di quanto renderebbe se lasciato in propriet comune (tanto vero, aggiunge Locke, che il re di un ampio e fertile territorio americano mangia, alloggia e veste peggio di un operaio giornaliero inglese). Ci nondimeno, la teoria di Locke ha anche legittimato il processo storico e dunque non si pu negare che, dal punto di vista storico, le sue tesi risentano dei forti influssi della borghesia in ascesa. Ma se ci fermasse qui, si darebbe una visione molto riduttiva della concezione lockeana. Il filosofo inglese spiega infatti pi volte che per propriet intende qualcosa di molto pi ampio della propriet dei beni materiali. Gli uomini si riuniscono in societ, dice Locke, per la mutua conservazione della loro vita, libert e averi, cose ch'io denomino, con termine generico, propriet. Non solo. Nell'Epistola sulla tolleranza, dopo aver specificato che lo Stato ha il suo fine essenziale nella tutela e nella promozione dei beni civili, dice: chiamo beni civili la vita, la libert, l'integrit del corpo, la sua immunit dal dolore, i possessi delle cose esterne. E' questa propriet, ha osservato Bedeschi, che Locke intende tutelare; e si tratta di una propriet che non si pu certo ridurre ad un significato esclusivamente economico e classista. L'ultimo punto sul quale vale la pena di soffermarsi il tema della tolleranza, che fu trattata da Locke nella famosa Epistola. L'argomento principale elaborato da Locke il seguente: il potere del magistrato civile un potere coattivo, anche se fondato sul consenso, ovvero un potere che deve imporre, anche con la forza, determinate decisioni; il potere delle istituzioni religiose invece un potere spirituale e dunque pu esercitare solo un magistero spirituale, che pu convincere, ma non pu costringere. La religione vera e salutare, per Locke, consiste nella fede interna dell'anima: un fenomeno interiore, senza il quale nulla ha valore di fronte a Dio. Ora, la caratteristica dell'interiorit quella di essere inespugnabile dall'esterno: si possono confiscare i beni, tormentare il corpo con il carcere e la tortura, dice Locke, ma tutto ci non pu mutare le convinzioni interiori di un uomo. Queste mutano soltanto con la luce di una nuova convinzione, e non certo per effetto della forza. Perci i confini tra sfera civile e sfera religiosa sono ben chiari: chi vuol confondere le due societ - afferma Locke - completamente diverse per la loro origine, per il fine che si propongono, per i loro contenuti, mescola due cose cos separate come il cielo e la terra. Stabilita tale distinzione, Locke sottolinea che i rapporti tra le varie Chiese - che sono tutte societ libere e volontarie - devono essere improntati alla pi larga tolleranza. Certo, ogni Chiesa ritiene di avere il monopolio della verit; ma si tratta, secondo Locke, soltanto di una convinzione soggettiva o di gruppo, dal momento che ognuna pensa ci per s e lo esclude per le altre. Ogni individuo entra spontaneamente in una Chiesa, sperando di aver trovato la vera religione e il culto pi gradito a Dio; ma proprio per ci, se cambiasse idea, deve poter abbandonare quella Chiesa, con la stessa libert con cui vi era entrato. Ogni Chiesa ha il diritto di fissare i propri princpi dogmatici, le proprie regole di culto e organizzative e di espellere chiunque non le rispetti; ma l'esclusione religiosa non deve avere conseguenze civili. Al decreto di scomunica, dice Locke, non deve seguire nessuna violenza, verbale o fisica, e nessun danno inflitto alla persona o ai beni. Certo, la tolleranza lockeana - nonostante il suo respiro ideale e la sua modernit - conosce due limiti ben precisi: essa esclude dal suo godimento tanto i cattolici, quanto gli atei. I primi perch riconoscono un solo sovrano, cio il Papa, e sono pronti a disobbedire al potere civile in nome di quello; inoltre, una volta al potere, non sarebbero tolleranti. I secondi, negando l'idea stessa di Dio, non riconoscono nulla di sacro e di

stabile e quindi disconoscono tutti i legami della societ. Con questi due limiti, ha osservato giustamente Bedeschi, Locke pagava un prezzo al proprio tempo: nel primo caso, a una particolare situazione politico-religiosa; nel secondo caso, alla propria cultura cristiana, da lui profondamente sentita e vissuta. Ma pur con questi limiti, egli ha posto le fondamenta di una concezione della tolleranza che costituisce un patrimonio ideale irrinuniciabile del mondo moderno.[17]

8. Rousseau
Cenni biografici
Jean-Jacques Rousseau nasce a Ginevra nel 1712, da una famiglia di piccoli artigiani, di religione calvinista. Perde ben presto la madre. Nel 1728, a 16 anni, lascia Ginevra e incontra ad Annecy, in Savoia, Madame de Warens. Sar lei ad inviarlo a Torino, dove abiurer il Calvinismo per il Cattolicesimo e verr assunto come lacch e poi come segretario in case nobiliari. Nel 1729 torna in Savoia, presso Madame de Warens, dove rimane per 11 anni, legandosi a lei sentimentalmente. Nel 1740 a Lione come precettore, quindi a Parigi. Qui si guadagna da vivere con mestieri diversi (maestro, segretario privato, copista di musica); entra inoltre in contatto con la cultura illuministica, stringendo amicizia con Diderot e Condillac e collaborando all'Enciclopedia. Nel 1745 inizia la relazione con Teresa Levasseur, dalla quale avr vari figli, che abbandoner all'ospizio dei trovatelli; sposer Teresa solo nel 1768. La sua amicizia con gli ambienti illuministici si incrina con la pubblicazione del primo Discorso (1750) e soprattutto con la pubblicazione del secondo (1755), che fu aspramente criticato da Voltaire. Nel 1756 si reca a Ginevra, dove accolto con grandi festeggiamenti; abiura il Cattolicesimo e si riconverte al Calvinismo. Nel 1757 interrompe la collaborazione con l'Enciclopedia e rompe con D'Alembert. Si rifugia quindi nella pace della campagna, a Montmorency. In questi anni d alle stampe le sue grandi opere. Nel 1760 pubblica La Nuova Eloisa; nel 1762 l'Emilio; nello stesso anno il Contratto sociale. Queste due ultime opere attirano su Rousseau la condanna degli ambienti filosofici parigini e quella delle chiese cattolica e calvinista. Vengono emessi ordini di arresto a Parigi, Ginevra, Berna. Dopo aver girovagato per l'Europa, accetta, nel 1766 l'ospitalit di Hume in Inghilterra, ma poco dopo fugge anche da l. Calmatasi la polemica, torna nel 1767 in Francia, risiedendo a Parigi e ritirandosi poi a Ermenonville, dove muore nel 1778, a 66 anni.

Il pensiero politico
E' difficile, se non impossibile, isolare il pensiero politico di Rousseau dalla sua riflessione morale sull'uomo, che egli conduce, in polemica con il proprio secolo e forse con la civilt moderna in generale, a partire da se stesso.

Voglio mostrare ai miei simili - scrive all'inizio delle Confessioni - un uomo in tutta la verit della natura, e quest'uomo sar io. Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di coloro che ho visto; oso credere di non essere fatto come nessun altro essere vivente. E' per questo approccio - caratterizzato da un forte egocentrismo, vissuto con lucida consapevolezza e descritto con straordinaria intensit espressiva - che taluni critici ritengono necessario tenere sempre presenti le pagine autobiografiche se si vuole comprendere intus et in cute ... il pensatore politico, il moralista, il romanziere, il musicista[18]. Al nesso tra autobiografia e riflessione, occorre aggiungere la tensione tra emozione e ragione, tra immagine e concetto, che caratterizza la riflessione di Rousseau. Nel Ginevrino, infatti, l'emozione precede la riflessione e il concetto nasce lentamente dopo una tempesta di immagini. Scrive sempre nelle Confessioni: due cose quasi incompatibili si uniscono in me senza che io sappia precisare in qual modo: un temperamento ardentissimo, passioni vive, impetuose, e idee lente a nascere, impacciate, che si presentano sempre in ritardo. Si direbbe che il mio cuore e la mia mente non appartengano al medesimo individuo. Il sentimento, pi rapido della folgore, inonda la mia anima, ma anzich illuminarmi mi brucia e mi abbaglia. Sento tutto e non capisco nulla ... Questa lentezza nel pensare, unita alla vivacit nel sentire, non l'ho soltanto in conversazione, ma anche da solo, quando lavoro. Le idee si ordinano nella mia testa con la pi incredibile difficolt, circolano lentamente, fermentano fino a emozionarmi, eccitarmi, darmi palpitazioni, e in bala di tale emozione non capisco nulla nettamente, non saprei scrivere una sola parola, debbo attendere. Poi a poco a poco questo gran movimento si placa, il caos si dissipa, ogni cosa si colloca al suo posto, ma lentamente, e dopo una lunga e confusa agitazione. Questo tratto cos personale e cos legato alla sfera delle emozioni costituisce la singolarit della riflessione roussoiana; se a ci aggiungiamo la forte polemica anti-illuministica, condotta con accenti calvinistici, e, nonostante questa, la costruzione razionale di un sistema politico ed educativo, avremo un'idea approssimativa di quale complessit porti con s la figura di questo pensatore. Basti pensare che Rousseau stato considerato, volta a volta, padre della Rivoluzione francese, del romanticismo, dell'anarchismo, del primitivismo, del socialismo, della democrazia, della mistica totalitaria, dell'esistenzialismo e cos via. Per quanto approssimative e semplificanti possano essere tali attribuzioni di paternit, il fatto stesso che esse si siano verificate costituisce comunque un dato significativo, sul quale bene riflettere. Anche il suo pensiero politico ha sempre suscitato vivaci discussioni e opposte interpretazioni: alcuni autori, come Talmon, hanno visto nel grande Ginevrino il precursore della democrazia totalitaria e dunque un pensatore profondamente anti-liberale (e quindi, posto che la vera democrazia non sia totalitaria, antidemocratico). Altri studiosi, come Fetscher, sottolineando la critica di Rousseau alla societ liberaleborghese, hanno visto in lui un precursore del socialismo; ci ha condotto, soprattutto in Italia, con Della Volpe, a studiare a fondo il rapporto tra il pensiero di Rousseau e quello di Marx. Vi sono infine studiosi secondo i quali Rousseau un pensatore democratico di ispirazione liberale, al quale non si possono attribuire n gli eccessi della Rivoluzione francese, che sarebbero nati da un'interpretazione errata del suo pensiero, n tantomeno i totalitarismi del XX secolo. Al di l delle interpretazioni fortemente caratterizzate dal punto di vista ideologico, Robert Derath ha ribadito l'esigenza di collocare il pensiero di Rousseau nel contesto teorico sei-settecentesco, soprattutto con riferimento al rapporto critico con il giusnaturalismo. Ed proprio nel filone giusnaturalistico, ossia nella cosiddetta scuola del diritto naturale, che Bobbio ha collocato Rousseau, insieme a Hobbes, Locke, Spinoza e Kant. Ma cosa permette di accostare autori cos diversi tra di loro, sia per le posizioni politiche, sia per quelle filosofiche? Bobbio individua due ragioni. In primo luogo, il metodo: il metodo che unisce autori tanto diversi il metodo razionale, ossia quel metodo che deve permettere di ridurre il diritto e la morale (nonch la politica), per la prima volta nella storia della riflessione sulla condotta umana, a scienza dimostrativa[19]. In altre parole, al di l delle divergenze, tutti questi autori condividono il tentativo di costruire un'etica razionale indipendente dalla teologia, capace quindi di fondare e garantire autonomamente (ossia, con le sole forze della ragione) le proprie asserzioni, senza smarrirsi in infiniti e insolubili conflitti d'opinione. Storicamente, sostiene infatti Bobbio, il diritto

naturale costituisce il tentativo di dare una risposta rassicurante al relativismo etico determinatosi con la fine dell'universalismo religioso e lo svilupparsi del libertinismo. In secondo luogo, ci che consente di riunire pensatori tanto diversi in un'unica scuola il modello. Tutti questi autori condividono l'adozione di un nuovo modello teorico, che si sostituisce, nella spiegazione del problema politico, a quello aristotelico ed costituito da due elementi antitetici: stato di natura e stato civile. Vale forse la pena - visto che abbiamo gi affrontato i loro creatori, Aristotele e Hobbes - di tornare ancora una volta su questi due modelli, al fine di cogliere in profondit le implicazioni di questo fondamentale mutamento nel modo di spiegare l'origine e il fondamento del potere politico. Come abbiamo gi visto[20], Aristotele spiega l'origine dello Stato sulla base di una ricostruzione storico-naturalistica: partendo dal bisogno biologico che presiede alla formazione della famiglia, il filosofo greco descrive le tappe principali attraverso le quali la comunit umana si allarga progressivamente, sino a costituire la citt. Tale modello rimane sostanzialmente immutato sino alle soglie dell'et moderna. Si tratta di una spiegazione storica (sia pure di una storia immaginaria) e non razionale: al posto dell'astratto stato di natura di cui parlano i giusnaturalisti - popolato di individui singoli, liberi ed eguali - che precede logicamente lo Stato, abbiamo una forma concreta, specifica e storicamente determinata di societ naturale, che la famiglia. Mentre il modello hobbesiano dicotomico e chiuso (o stato di natura o stato civile), quello aristotelico plurimo e aperto (dal momento che i gradi intermedi possono variare per quantit). Inoltre, mentre nel modello hobbesiano tra i due stati si d una radicale antitesi (o si nell'uno, o nell'altro, tertium non datur), in quello aristotelico tra i diversi stadi vi un rapporto di continuit, nel senso della progressiva evoluzione. Infine, il passaggio da una fase all'altra - dallo stato pre-politico a quello politico - proprio in quanto avviene per un naturale processo di estensione della societ, non dovuto ad una convenzione (cio ad un atto di volont razionale), ma all'effetto di cause naturali e all'operare di condizioni obiettive: avviene insomma per la forza delle cose. Il che conduce a due princpi di legittimazione ben diversi: nel caso della scelta volontaria, ci si fonder sul consenso; nel caso della forza delle cose, su uno stato di necessit. Ricapitolando: a) per ci che riguarda l'origine dello Stato, abbiamo da un lato una ricostruzione logico-razionale, dall'altro una storico-sociologica; b) per ci che riguarda la natura dello Stato, gli uni lo considerano l'antitesi dell'uomo naturale, gli altri il suo complemento, il suo sbocco naturale (artificialismo contro naturalismo); c) per ci che riguarda la struttura dello Stato, abbiamo da un lato una concezione individualisticoatomistica, dall'altro una sociale-organicistica; d) per ci che riguarda il fondamento dello Stato, abbiamo una teoria contrattualistica e una naturalistica; e) per ci che riguarda il principio di legittimit, abbiamo da un lato il consenso, dall'altro la forza delle cose. Adesso possiamo tornare a Rousseau. La sua originalit si rivela anche in rapporto alle categorie che abbiamo appena esaminato. Si potrebbe cominciare col dire che egli - a differenza di Hobbes, di Locke e dei suoi "fratelli-nemici" illuministi - non condivide la stessa fiducia nella ragione. Certo, la sua costruzione dello Stato sar egualmente razionale; ma egli avanza molte riserve sulla raison dei philosophes, alla quale contrappone la naturalit dell'uomo, le sue passioni e il suo sentimento religioso. In secondo luogo, con Rousseau lo schema si fa triadico: stato di natura, societ civile, repubblica. E il contratto - quello vero, non quello iniquo - viene a collocarsi tra la societ civile e la repubblica. Inoltre, il valore da attribuire ai diversi stadi viene rovesciato: mentre tutti gli altri giusnaturalisti, sia pure in modo molto diverso, descrivono comunque lo stato di natura come uno stato negativo, da abbandonare in favore di uno stato civile configurato come positivo, Rousseau ritiene che il primo fosse uno stato felice e il secondo, tuttora perdurante, la peggiore delle condizioni. Ed infatti il terzo stadio, la repubblica fondata sul contratto sociale, dovr recuperare - sia pure in modo totalmente politico - tutti i benefici di cui l'uomo avrebbe goduto nello stato di natura e che avrebbe perso nella societ civile. Ma alle spalle di questa diversa configurazione del modello giusnaturalistico c', per l'appunto, quella riflessione morale sull'uomo, intessuta di elementi autobiografici, dalla quale siamo partiti.

Fin dal suo primo apparire, il pensiero di Rousseau si configura infatti come una critica violenta contro la civilt e la cultura del suo tempo, critica condotta in nome dell'uomo naturale. Nel 1749 l'Accademia di Digione bandisce un concorso sul tema "Se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi". La semplice lettura del quesito provoca in Rousseau una vera e propria crisi emotiva la famosa illuminazione di Vincennes - dalla quale nasce il Discorso sulle scienze e sulle arti (1750), che vincer poi il concorso in questione. Sebbene sia in stretti rapporti, da qualche anno, con gli autori dell'Encyclopdie (per la quale aveva scritto alcune voci sulla musica), la tesi sostenuta da Rousseau in questo scritto decisamente anti-illuministica. Ma vediamo come l'autore stesso, in un passo molto celebre, descrive l'origine di questo suo scritto e la tesi centrale che lo anima. Dopo aver passato quarant'anni della mia vita in questo modo, scontento di me stesso e degli altri, tentavo inutilmente d'infrangere i legami che mi tenevano avvinto alla societ di cui avevo cos poca stima, e che mi costringevano a occupazioni sgradevoli per bisogni che ritenevo naturali, ma che erano in realt artificiosi. Improvvisamente un caso fortunato m'illumin riguardo alla mia condotta e all'idea che dovevo farmi degli altri; nei loro confronti, il mio cuore stava sempre in contraddizione con il mio intelletto, e pur avendo tante ragioni di odiarli, sentivo tuttavia di amarli. Vorrei, signore, potervi descrivere il momento che ha fatto epoca nella mia vita in modo tanto singolare, e che mi rester sempre impresso, dovessi vivere in eterno. Andavo a trovare Diderot recluso a Vincennes; avevo in tasca un numero del Mercure de France, e lo sfogliai per via. Mi cade sott'occhio il quesito dell'accademia di Digione che ha dato origine al mio primo scritto. Se mai vi fu ispirazione improvvisa, tale fu l'emozione che mi dette quella lettura. A un tratto la mia mente fu percossa da mille luci: innumerevoli idee vive mi si presentarono insieme con un'energia e una confusione tali, da darmi un turbamento inesprimibile: m'invase uno stordimento simile all'ubriachezza. Una violenta palpitazione mi opprime e mi fa ansimare: col fiato mozzo, mi lascio cadere sotto un albero del viale, e resto l una mezz'ora in una tale agitazione, che rialzandomi mi accorsi di avere l'abito tutto inzuppato di lacrime, senza che mi fossi accorto di piangere. O signore, se avessi potuto scrivere appena un quarto di ci che vidi e sentii sotto quell'albero, con quale chiarezza avrei posto in rilievo tutte le contraddizioni del sistema sociale, con quale forza avrei descritto tutti gli abusi delle istituzioni, con quale semplicit avrei dimostrato che l'uomo naturalmente buono e che soltanto a causa delle istituzioni gli uomini diventano malvagi. Quanto ho potuto rammentare della moltitudine di grandi verit che m'illuminarono in un quarto d'ora sotto quell'albero stato sparsamente diluito nei miei tre scritti principali, ossia il primo discorso, il discorso sull'ineguaglianza e il trattato sull'educazione, tre opere inseparabili, che formano un sol tutto. La tesi centrale chiara: l'uomo naturalmente buono e soltanto a causa delle istituzioni diventa malvagio. All'interno del Discorso sulle scienze e sulle arti, questa tesi viene riferita soprattutto al tema proposto: le nostre anime - scrive Rousseau - si sono corrotte via via che le scienze e le arti progredivano verso la perfezione. Diremo che si tratta di una sventura propria del nostro tempo? No, signori: i mali causati dalla vana curiosit umana sono vecchi come il mondo. Dunque il mondo moderno - mondo in cui le scienze e le arti hanno raggiunto una perfezione mai toccata prima - , sul piano morale, corrotto come non mai. Dietro l'urbanit del suo tempo, dietro quella civilisation che il vanto dell'Illuminismo, Rousseau non vede che subdole maniere di nascondere atteggiamenti deteriori ... La sua visione storica la visione di un deterioramento progressivo, di un infiacchimento continuo delle energie, a cui subentra qualcosa di molle, di non-virile, di deteriormente raffinato[21]. La tesi di Rousseau si configura quindi come uno strano incontro tra un tema tipicamente illuministico (la critica della societ) e un tema decisamente anti-illuministico, che potrebbe essere ricondotto alla tematica umanistico-religiosa della vanitas scientiarum. La decadenza morale non nasceva, come pensavano gli illuministi, dalla irrazionalit delle superstizioni (in primo luogo, quella religiosa), ma proprio dall'assenza di una coscienza religiosa, concepita come ascolto della voce interiore, semplice e naturale, che parla in ogni uomo.

La polemica di Rousseau contro la cultura - condotta in nome dell'uomo naturale, del primitivo, tutto istinto e immediatezza, vigoroso e vitale[22] - tocca punte polemiche inusitate. Parlando dei sogni pericolosi degli Hobbes e degli Spinoza, Rousseau dice che se i posteri non saranno insensati come i suoi contemporanei si rivolgeranno al cielo con queste parole: Dio onnipotente, tu che hai nelle tue mani gli spiriti, liberaci dai lumi e dalle arti funeste dei nostri padri, e rendici l'ignoranza, l'innocenza e la povert, i soli beni che possano fare la nostra felicit e che siano preziosi davanti a te. Rousseau giunge ad affermare che lo stato di riflessione uno stato contro natura e che l'uomo che medita un animale degenerato. Alcuni studiosi, come Paolo Rossi, hanno sostenuto che in queste affermazioni rintracciabile una sorta di odio teologico e calvinistico contro la scienza e la filosofia, venato di un forte moralismo profondamente anti-scettico e anti-materialistico. Ma quali modelli Rousseau contrappone alla decadente civilt dei Lumi? Anzitutto, come abbiamo gi accennato, il modello dell'uomo naturale, sano, vigoroso, semplice. Un altro modello quello di uno stato intermedio tra il primitivo stato di natura e lo stato civile sviluppato: una sorta di alba di civilt, dove gli individui, persa l'innocenza originaria che li rendeva pre-morali, avevano acquisito il senso della giustizia e della moralit e vivevano in semplicit e in pace. Finch gli uomini, scrive Rousseau, non si applicarono che ad opere che uno solo poteva compiere e ad arti che non avevano bisogno del concorso di parecchie mani, essi vissero liberi, sani, buoni e felici quanto potevano esserlo per natura, e continuarono a godere fra loro delle dolcezze di rapporti indipendenti. Qui fa la sua comparsa la tipica raffigurazione settecentesca del buon selvaggio. Infine abbiamo - e questo sar molto importante per il pensiero politico - il modello della citt antica, della polis: la Roma repubblicana o la Sparta di Licurgo sono modelli di semplicit, di virt etica e civile, di dedizione alla patria. Nei tempi moderni Rousseau rintraccia simili caratteristiche solo nella nativa Ginevra, calvinistica e democratica; ma si tratta, come sperimenter egli stesso, di una evidente idealizzazione. Dunque il modello alternativo proposto da Rousseau esalta la natura e l'antichit, di contro alla cultura e alla modernit: un modello dove campeggiano l'energia vitale dell'uomo naturale e l'organicit della polis antica. E' vero che nel Discorso Rousseau colloca anche l'elogio di Bacone, Cartesio e Newton come precettori del genere umano; ma molti critici concordano nel ritenerlo un elogio di maniera. Come stato giustamente osservato, alle convinzioni e alla politica culturale dei philosophes Rousseau aveva in realt contrapposto una radicale confutazione del nascente mondo moderno. Essa recava mescolati dentro di s, paradossalmente, elementi attinti alla tradizione calvinistica, alle analisi di Pascal, alla idealizzazione delle virt eroiche degli antichi e dei ginevrini e motivi di critica e di rifiuto che conducevano Rousseau su posizioni politiche molto pi radicali di quelle di Voltaire e di Diderot[23]. Egli infatti vedr nelle scienze e nelle arti - frutto del lusso e dell'ozio - qualcosa di meno dispotico, ma forse di pi potente del governo e delle leggi: delle ghirlande di fiori stese sulle catene di ferro che stringono gli uomini, negando loro la libert e spingendoli ad amare la schiavit come se fosse la loro condizione naturale. Il bisogno, scrive il Ginevrino, ha innalzato i troni; le scienze e le arti li hanno rafforzati. Rousseau condivide insomma il tradizionale repertorio dei moralisti di ogni tempo: la condanna del sapere intellettualistico, della ricchezza che genera nuova ricchezza e che impedisce al povero di uscire dalla sua condizione, del mondo che onora i furfanti e perseguita gli onesti e cos via. Ma se la descrizione del male la stessa, la diagnosi molto diversa: il male non dovuto all'uomo, ma all'uomo mal governato. Ancora una volta: il male dipende non dall'uomo, che naturalmente buono, ma dalla societ, dalle istituzioni sociali. E' facile comprendere che le conseguenze di una simile impostazione saranno enormi. Se la colpa non originaria, se il male non naturale, allora esso nasce sulla terra: il problema del male si sposta dal campo della teodicea a quello della politica. Come ha scritto Cassirer, Rousseau ha creato un nuovo soggetto della responsabilit e questo soggetto non l'uomo singolo, ma la societ.

Ed infatti, nel Discorso sull'origine dell'ineguaglianza (1754), Rousseau si sposta dal piano della critica al sapere al piano della critica sociale e politica. E' in questo passaggio che la critica marxista ha visto i legami tra Rousseau e Marx: qui il Ginevrino compirebbe infatti il passaggio dalla sovrastruttura alla struttura, sostenendo che la vera causa del male non di natura ideologica (ossia non sta nelle idee, nel sapere), ma economico-politica (e sta quindi nelle condizioni economiche e nelle istituzioni politiche). La vera causa della diseguaglianza - e quindi del male che affligge gli uomini - starebbe esattamente nella propriet privata. Ma torniamo al testo di Rousseau. Gli scopi del Discorso sull'origine dell'ineguaglianza sono i seguenti: determinare l'origine e il progresso della malvagit umana; mostrare il guasto irrimediabile che si prodotto nell'uomo e le origini profonde di questa sua "malattia"; cercare di rallentare, ove possibile, il decorso di tale malattia; svelare nella diseguaglianza la causa profonda della radicale mistificazione dei rapporti e della totale falsificazione di s che si verifica nella societ contemporanea. Nel tracciare la genealogia del male che affligge gli uomini, Rousseau si confronta (e si scontra) con gli altri giusnaturalisti, elaborando un'immagine dell'uomo naturale profondamente diversa. Rousseau inizia precisando il metodo con il quale egli intende risalire allo stato di natura e le finalit che giustificano tale procedimento: cominciamo dunque con lo scartare tutti i fatti, perch questi non riguardano il problema. Non bisogna prendere le ricerche in cui necessario addentrarsi in questo argomento per verit storiche, ma solo per ragionamenti ipotetici e condizionali, destinati piuttosto a spiegare la natura delle cose che a mostrarne la vera origine, e simili a quelli intorno alla formazione del mondo che ogni giorno fanno i nostri fisici. La religione ci comanda di credere che, avendo Dio stesso tolti gli uomini dallo stato di natura immediatamente dopo la creazione, essi sono disuguali perch Egli ha voluto che lo fossero; ma non ci proibisce di formare delle congetture, derivate dalla sola natura dell'uomo e degli esseri che lo circondano, intorno a quello che sarebbe potuto diventare il genere umano se fosse stato lasciato a se stesso. Ecco quello che mi si chiede e che io mi propongo di esaminare in questo Discorso. Vediamo dunque gli esiti di questa ricerca. Anzitutto, l'uomo nato libero: Rousseau sostiene che l'uomo naturale descritto da Hobbes (egoista, violento, malvagio) non affatto l'uomo naturale, bens l'uomo civile. Nello stato di natura, l'uomo libero e felice: egli ha pochi bisogni ed in grado di soddisfarli. Non esiste propriet, n oppressione; l'uomo un animale prestante, guidato infallibilmente dal proprio istinto. Due sono i sentimenti che lo caratterizzano: l'amore di s e la piet istintiva verso ogni suo simile. A questo primo stadio, succede quello del buon selvaggio, al quale abbiamo gi fatto cenno[24]. E' solo col sorgere della propriet privata, con il sorgere dell'agricoltura e della metallurgia e con la divisione del lavoro, che nasce la vera e propria diseguaglianza. E' questo lo stadio, secondo Rousseau, al quale si attaglia la descrizione hobbesiana: una guerra continua di tutti contro tutti. Per superare tale situazione i ricchi escogitano il patto iniquo, ossia un patto che prevede l'accettazione dello stato di fatto esistente in cambio della protezione contro gli eventuali pericoli. E' il momento in cui nascono la societ e le leggi, e con loro il diritto alla propriet. Si formano le comunit politiche, che stanno tra di loro come gli individui nello stato di natura hobbesiano. Tali comunit sono per imperfette, perch il controllo sull'osservanza delle leggi genericamente demandato alla societ; di qui le violazioni ripetute delle leggi medesime e quindi la necessit di istituire appositi magistrati per farle rispettare. Con i magistrati sorge il potere politico legittimo: un potere politico fondato sul contratto bilaterale tra popolo e capi. Tuttavia, poich la fondazione razionale del potere non solida, dal momento che pu essere essere continuamente rimessa in discussione, c' bisogno di un puntello irrazionale per sostenere l'autorit sovrana. Tale puntello sar la religione che, dando al potere un carattere sacro, toglier ai sudditi il diritto di disporne. Su queste basi si sviluppano le varie forme di governo, che si degradano progressivamente: con la formazione delle fazioni, dice Rousseau, si ritorna quasi all'anarchia dei tempi precedenti. Di ci approfittano gli ottimati per rendere ereditarie le loro cariche, per considerarsi proprietari di quegli Stati di cui dovevano essere solo funzionari e per considerare schiavi i loro concittadini. Si tratta di una marcia verso il dispotismo, che ripristina una sorta di eguaglianza primitiva, ma di segno opposto: quella di tutti gli uomini, in stato di schiavit, verso il loro padrone assoluto. Tale rapporto di forza e di totale soggezione una completa degenerazione dell'uomo; ne deriva che l'ineguaglianza totalmente contraria alla natura dell'uomo e che essa non trova giustificazione alcuna nel diritto naturale. Ma poich lo stato di natura irrecuperabile - non pensabile, infatti, che l'uomo cancelli la sua storia, che

ormai per lui una seconda natura - non resta che usare gli strumenti della civilt e della ragione al fine di rifondare quelle condizioni di cui l'uomo godeva nello stato di natura. Si tratta di costruire un uomo nuovo, totalmente civile, ma totalmente libero, come lo era nello stato di natura. Lo scopo del Contratto sociale (1762) infatti esplicitamente quello di trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima. Questo il problema fondamentale di cui il Contratto Sociale d la soluzione. Gi in questa definizione appare la nozione di libert elaborata da Rousseau: si liberi quando si obbedisce a se stessi. Si tratta di un punto di grande rilievo: Rousseau intende infatti la nozione di libert come autonomia, e quindi in un'accezione ben diversa dalla definizione di libert come non-impedimento. Mentre nel secondo caso libert significa facolt di compiere o non compiere certe azioni, senza esserne impediti dal potere statale, nel primo caso libert significa potere di ubbidere soltanto alle norme che ci siamo imposti. In sostanza la libert come non-impedimento, detta anche "libert negativa", coincide con lo spazio non regolato da norme imperative ed pertanto opposta alla nozione di legge (qualunque legge, in quanto tale, limita la gamma infinita dei possibili comportamenti individuali); la libert come autonomia, detta anche "libert positiva", coincide invece proprio con la nozione di legge, dove per quest'ultima si deve per intendere una norma autonoma e non eteronoma (cio non proveniente da altri). Considerate sul piano individuale, entrambe le definizioni rimandano ad una condizione di auto-determinazione: la sfera delle libert negative infatti quella sfera in cui ognuno agisce senza costrizioni esteriori, il che equivale a dire che si autodetermina, cos come accade nel caso delle libert positive. Siamo liberi, ad esempio, di non finanziare i partiti politici, sia perch nessuno ci pu legittimamente impedire di adottare tale comportamento, sia perch, potendoli anche finanziare, decidiamo di non farlo per obbedire ad una norma che ci siamo dati. Ma sul piano politico (vale a dire collettivo), tali differenti nozioni conducono a soluzione completamente diverse: se libert significa legge, ci significa che si liberi solo quando si sottoposti alla legge. Ne deriva che nulla deve essere sottratto all'imperio della legge; il che equivale a dire che il potere sociale, ossia il potere politico, illimitato. Ed infatti le clausole del contratto sociale, dice Rousseau, si riducono a una sola: l'alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunit. A coloro i quali paventano il rischio liberticida implicito nella rinuncia a tutti i diritti naturali, Rousseau risponde che la condizione rigorosamente uguale per tutti e dunque nessuno pu avere interesse a renderla onerosa per gli altri; in secondo luogo, che colui il quale si si d a tutti non si d a nessuno, ed anzi guadagna l'equivalente di ci che perde (cio i diritti naturali degli altri) e una maggior forza per conservare quello che ha. La conclusione del Ginevrino la seguente: se dunque si toglie del patto sociale ci che non gli essenziale, si trover che esso si riduce ai termini seguenti: <<Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volont generale; e riceviamo inoltre ciascun membro come parte indivisibile del tutto>>. Si forma cos il corpo sovrano: l'insieme dei cittadini, alienandosi reciprocamente tutti i propri diritti, forma un corpo morale e politico, che agir esattamente come una sorta di grande individuo. In quanto sottoposti a tale potere, gli individui saranno sudditi dello Stato; ma in quanto partecipi di tale potere, ossia in quanto membri del corpo sovrano che delibera, saranno cittadini. Essi saranno dunque, al tempo stesso, governanti e governati. In altre parole, lo Stato sar in tutti e tutti saranno lo Stato: la sovranit apparterr a tutti. Di qui Rousseau trae conseguenze anti-garantistiche: ora, il corpo sovrano, non essendo formato che dai singoli che lo compongono, non ha n pu avere alcun interesse contrario al loro interesse, e quindi non ha bisogno di dare garanzie ai sudditi, perch impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi sudditi; e noi vedremo pi avanti che non pu nuocere neanche ad alcuno di essi in particolare. Il corpo sovrano, per il solo fatto di essere tale, sempre quello

che deve essere. Ma se il corpo sovrano, essendo formato da tutti, non ha bisogno di dare garanzie ai singoli, giacch impossibile che il corpo voglia nuocere alle proprie membra, lo stesso non vero per i cittadini, considerati come singoli individui verso il corpo sovrano. Essi infatti, proprio in quanto singoli, hanno una volont e un interesse particolari, suscettibili di entrare in contrasto con la volont e l'interesse generali. In virt di questa loro limitatezza, essi devono dare quelle garanzie che il corpo sovrano non ha bisogno di offrire loro; se non le dessero, si arriverebbe all'assurdo di un individuo che gode dei diritti del cittadino senza voler adempiere i suoi doveri di suddito; si arriverebbe quindi alla dissoluzione del corpo politico. La conclusione di Rousseau logicamente ineccepibile, date le premesse del suo sistema: perch dunque questo patto sociale non sia una formula vana, esso implica tacitamente questa obbligazione, che sola pu fare forza a tutte le altre; che chiunque rifiuter di obbedire alla volont generale, vi sar costretto da tutto il corpo. Ci non significa altro se non che lo si costringer ad essere libero. Gli interpreti di Rousseau non si stancano di ricordarci la buona fede del Ginevrino, il suo intenso e sincero amore per la libert: ma quando l'idea di libert si lega a quella di costrizione, quando si arriva a sostenere che si pu "costringere alla libert", c' poco da argomentare. Siamo in presenza di una ben strana e pericolosa nozione di libert. Con il contratto sociale l'uomo entra quindi nella repubblica. Ma come descrive tale passaggio Rousseau? Egli ce lo descrive come una vera e propria trasformazione qualitativa dell'uomo. Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell'uomo un cambiamento molto notevole, sostituendo nella sua condotta la giustizia all'istinto e dando alle sue azioni la moralit che prima mancava loro. Solamente allora, subentrando la voce del dovere al posto dell'impulso fisico e il diritto al posto dell'appetito, l'uomo, il quale fino allora non aveva considerato che se stesso, si vede obbligato ad agire secondo altri pricpi e a consultare la sua ragione prima di ascoltare le sue inclinazioni. Facciamo attenzione: giustizia e moralit al posto dell'istinto, diritto al posto dell'appetito, dovere al posto dell'impulso fisico, ragione al posto dell'istinto naturale. Sembrerebbe quasi l'entrata dell'uomo ... nell'umanit! Ossia, in ci che propriamente lo distingue dal resto del regno animale. Si pensi a quanto diversa la descrizione degli altri giusnaturalisti: l'uomo dello stato civile - per Hobbes come per Locke non un "uomo nuovo", bens lo stesso uomo, solo molto meno libero, ma molto pi sicuro (in Hobbes), oppure molto pi sicuro, continuando per a rimanere molto libero (in Locke). Si tratta di un punto fondamentale, per comprendere le ragioni profonde che conducono Rousseau alle soluzioni radicali che in parte abbiamo gi visto. Non si capisce Rousseau - ha osservato acutamente Bobbio - se non s'intende che a differenza di tutti gli altri giusnaturalisti per cui lo Stato ha lo scopo di proteggere l'individuo, per Rousseau il corpo politico che nasce dal contratto ha il compito di trasformarlo. Il cittadino di Locke puramente e semplicemente l'uomo naturale protetto; il cittadino di Rousseau un altro uomo[25]. Certo, Rousseau sa che l'uomo perde alcuni vantaggi: ma ci che guadagna pare immensamente superiore e addirittura gli stessi vantaggi persi sembrano scolorire sino a sparire, se vero che egli parla di un animale stupido e limitato divenuto un essere intelligente e un uomo. Sebbene in questo stato egli si privi di molti vantaggi che gli vengono dalla natura, ne guadagna in cambio altri cos grandi, le sue facolt si esercitano e si sviluppano, le sue idee si allargano, i suoi sentimenti si nobilitano, tutta la sua anima si eleva a tal punto che, se gli abusi di questa nuova condizione non lo degradassero spesso al disotto di quella da cui uscito, egli dovrebbe benedire continuamente l'istante felice che lo strapp per sempre da quelle sue condizioni primitive e che di un animale stupido e limitato fece un essere intelligente e un uomo. Ma veniamo alla volont generale, che il cuore dello Stato rousseauiano, l'espressione del corpo politico. Abbiamo visto che essa assoluta, dal momento che nessun diritto individuale la pu limitare o intralciare. Abbiamo anche visto che tale assolutezza, secondo Rousseau, non crea alcun pericolo per i singoli, dal

momento che essa il prodotto di quel corpo le cui membra sono i singoli stessi. Ma non si pu dare il caso che tale volont sbagli? Di per se stessa, risponde Rousseau, no; pu sbagliare solo se messa in condizioni negative, solo se impedita ad essere se stessa. Da ci che si detto consegue che la volont generale sempre retta e tende sempre all'utilit pubblica: non deriva per che le deliberazioni del popolo siano sempre ugualmente rette. Si vuole sempre il proprio bene, ma non sempre lo si vede: non si corrompe mai il popolo, ma spesso lo si inganna, e soltanto allora esso sembra volere ci che male. Attenzione: la volont generale non pu mai sbagliare, il popolo non pu mai essere corrotto. Per pu essere ingannato: allora accade che la volont generale - o meglio, il popolo che la esprime - sbagli. E' bene ricordare che la volont generale non equivale, per Rousseau, alla volont di tutti: essa non un concetto quantitativo, come quello di maggioranza, bens un concetto qualitativo. La volont di tutti altro non che la somma di una serie di volont particolari, mosse da interessi particolari; la volont generale invece una volont mossa dall'interesse comune, dall'utilit comune. E' la volont comunitaria, la voce della comunit concepita come un corpo coeso e compatto, come un unico grande individuo. Come pu accadere, allora, che questa voce non si produca? In altre parole, come pu accadere che la volont generale non sia veramente tale, ma sia solo la somma di volont particolari? Un tale esito, risponde Rousseau, possibile soltanto quando l'unit del corpo sovrano lacerata dalle fazioni, ossia da raggruppamenti di interessi particolari. Allora, dallo scontro di queste fazioni non pu emergere la volont generale, ma solo una volont particolare. Rousseau un nemico dichiarato di tutte le cosiddette associazioni parziali o societ parziali. Egli sarebbe insomma, nei nostri tempi, un nemico giurato dei partiti, delle associazioni, dei sindacati. Sulla scena politica, secondo la sua concezione, devono esserci solo due attori: gli individui e il corpo sovrano, gli individui e lo Stato; solo in tal modo la volont generale potr essere sempre illuminata. Vale forse la pena di aprire una breve parentesi di "attualit" su questo importante tema. Tutto il pensiero giusnaturalistico caratterizzato dal rifiuto delle associazioni intermedie. Bobbio sostiene che la democrazia moderna nata da una concezione individualistica della societ che, sostituendosi a quella organicistica dell'antichit e del medioevo, ha fatto della societ un fenomeno artificiale, frutto della volont umana. Per fare ci, si partiti dall'ipotesi (astratta e rivoluzionaria) dell'individuo libero che si accorda con altri individui, altrettanto liberi, creando in tal modo la societ politica sulla base di un accordo volontario tra eguali. Si dunque immaginato uno Stato senza corpi intermedi, che peraltro erano caratteristici delle citt e dello Stato medievale. E' la logica individualistico-egalitaria che conduce a diffidare dei corpi o dei ceti: in essi si vede il rischio di gruppi che introducono nel corpo politico diseguaglianze, privilegi, particolarismi, rompendo in tal modo l'eguaglianza degli individui tra di loro. Ora, quello che avvenuto negli Stati democratici, osserva ancora Bobbio, esattamente l'opposto: soggetti politicamente rilevanti sono diventati sempre pi i gruppi, grandi organizzazioni, associazioni della pi diversa natura, sindacati delle pi diverse professioni, partiti delle pi diverse ideologie, e sempre meno gl'individui. I gruppi e non gl'individui sono i protagonisti della vita politica in una societ democratica, nella quale non vi pi un sovrano, il popolo o la nazione, composto da individui che hanno acquistato il diritto di partecipare direttamente o indirettamente al governo, il popolo come unit ideale (o mistica), ma il popolo diviso di fatto in gruppi contrapposti e in concorrenza tra loro, con la loro relativa autonomia rispetto al governo centrale. Sempre partendo dall'ipotesi individualistico-egalitaria, nasce anche il sistema della rappresentanza politica e non degli interessi, con relativo abbandono del vincolo di mandato. La rappresentanza degli interessi (sulla quale si fonda, ad esempio, lo Stato corporativo) implica il mandato imperativo, ossia il fatto che il mandatario pu essere revocato in qualsiasi momento dal mandante, se quest'ultimo non si ritiene adeguatamente rappresentato; la rappresentanza politica implica invece il divieto di mandato imperativo, perch, una volta eletto, il mandatario rappresenta non i suoi mandanti, ma tutta la nazione (in sostanza, si deve far carico degli interessi generali). Dice Bobbio: tanto la rappresentanza politica quanto il divieto di mandato imperativo sono stati sistematicamente violati, nelle democrazie moderne. Il divieto di mandato imperativo violato, ad esempio, dalla disciplina di partito; quanto alla rappresentanza politica e non degli

interessi, la cosiddetta concertazione con le parti sociali ha condotto alcuni a parlare di societ neocorporata. Accade sempre pi spesso che la politica economica non nasca, ad esempio, dalla discussione parlamentare tra i rappresentanti eletti dai cittadini, ma dal confronto tra il governo e i rappresentanti dei lavoratori e degli industriali. Ora, bene ricordare che tali rappresentanti anzitutto non sono eletti da tutti i cittadini (e, per la precisione, non sono eletti nemmeno dai loro mandanti) e che, in secondo luogo, sono per definizione portatori di interessi tanto legittimi quanto indiscutibilmente particolari. Tralasciamo ogni giudizio di valore e limitiamoci alla seguente constatazione: in molte democrazie liberali contemporanee si d una sorta di rivincita della rappresentanza degli interessi particolari (per quanto larghi) contro la rappresentanza politica. Ma torniamo a Rousseau e alla volont generale. Che rapporto ha tale volont con la volont della maggioranza? Variabile. Tanto per cominciare, Rousseau ci dice che dove i pareri si avvicinano all'unanimit, significa che la volont generale dominante e quindi che lo Stato sano. Ma i lunghi dibattiti, i dissensi, il tumulto - scrive Rousseau - annunciano il prevalere degli interessi particolari e il declino dello Stato. Da notare: questa concezione negativa del dissenso - che , in sostanza, una concezione negativa della variet delle opinioni - rivela quanto poco liberale sia Rousseau. Uno dei tratti caratteristici del liberalismo infatti proprio questo: la variet delle opinioni e degli interessi non solo non viene considerata un male, ma anzi un bene. Ancora una volta, in Rousseau, fa capolino l'idea di una comunit coesa, compatta, nella quale gli individui si fondono sino ad annullarsi. Tornando alla maggioranza, le sue decisioni vincolano sempre tutti gli altri, tranne che nel caso del contratto originario, con il quale viene costituito il corpo politico. Ma in tutti gli altri casi, come possono gli oppositori essere liberi, se si ritrovano soggetti a leggi alle quali non hanno acconsentito? La risposta di Rousseau la seguente: si domanda come possa un uomo essere libero e costretto a conformarsi a delle volont che non sono le sue. Come possono gli oppositori essere liberi e soggetti a delle leggi alle quali non hanno acconsentito? Io rispondo che il problema male impostato. Il cittadino consente a tutte le leggi, anche a quelle che sono state approvate suo malgrado, ed anche a quelle che lo puniscono quando egli osi violarne qualcuna. La volont costante di tutti i membri dello Stato la volont generale; grazie a questa essi sono cittadini e liberi. Quando si propone una legge nell'assemblea del popolo, ci che si domanda ai cittadini non precisamente se essi approvino la proposta oppure la respingano, ma se essa conforme o no alla volont generale, che la loro: ciascuno dando il suo voto esprime il suo parere su ci; e dal calcolo dei voti si trae la dichiarazione della volont generale. Quando dunque prevale il parere contrario al mio, ci non significa altro se non che io mi ero ingannato, e che ci che io credevo essere la volont generale non era tale. Se il mio parere particolare avesse prevalso, io avrei fatto una cosa diversa da quella che avrei voluto; e allora io non sarei stato libero. La conclusione simile a quella incontrata poco sopra, quando Rousseau parlava di costrizione alla libert. Colui il quale si ritrova in minoranza, non ha un'opinione diversa dalle altre, ma di eguale dignit: ha un'opinione sbagliata. La volont generale assimilabile alla volont di Dio: essa infallibile, e se il singolo non la condivide, significa che si sbaglia o che non ha capito. L'autodeterminazione collettiva - che infallibile - sostituisce integralmente ogni auto-determinazione individuale: l'individuo fuso nel corpo sociale. E come in un corpo assurdo (o patologico) che le membra non eseguano le decisioni della volont del corpo al quale appartengono, cos per l'individuo verso lo Stato. Vediamo, per concludere, quale struttura viene ad avere lo Stato rousseauiano. Come nel corpo di un individuo l'azione frutto di una causa morale (la volont) e di una causa fisica (la forza che l'esegue), cos nel corpo politico, nello Stato, si danno gli stessi "motori": forza e volont. La volont il potere legislativo, la forza il potere esecutivo. Ma che cos' l'esecutivo o governo? E' un mero esecutore, un corpo intermedio creato per la reciproca corrispondenza tra i sudditi e il sovrano. L'insieme dei membri componenti tale corpo intermedio si chiama, dice Rousseau, magistrati o re o principe. Resta il fatto che si tratta di un organo totalmente subordinato alla volont generale.

Infatti ci non assolutamente altro che un mandato, un impiego, nel quale, semplici funzionari del corpo sovrano, essi esercitano in suo nome il potere del quale egli li ha fatti depositari, e che pu limitare, modificare e riprendere quando gli piaccia, poich l'alienazione di un tale diritto incompatibile con la natura del corpo sociale, contraria al fine dell'associazione. Altro tema caratteristico di Rousseau la polemica contro la rappresentanza. La sovranit per Rousseau inalienabile. Proprio in quanto inalienabile, essa non pu essere rappresentata: non appena il servizio pubblico cessa di essere il principale ufficio dei cittadini, ed essi preferiscono servire con la loro borsa anzich con la loro persona, lo Stato gi vicino alla rovina. Se bisogna andare a combattere pagano delle truppe e restano a casa. A forza di pigrizia e di denaro essi hanno infine soldati per asservire la patria e rappresentanti per venderla. E ancora: la sovranit non pu essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non pu essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volont generale, e la volont non si rappresenta: o quella stessa, o un'altra; non c' via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque n possono essere suoi rappresentanti; non sono che i suoi commissari: non possono concludere nulla in modo definitivo. Ogni legge che non sia stata ratificata dal popolo in persona nulla; non una legge. Il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso: lo soltanto durante l'elezione dei membri del parlamento; appena questi sono eletti, esso ridiventa schiavo, non pi niente. Nei brevi momenti della sua libert, l'uso che ne fa merita di fargliela perdere. Il desiderio di delegare la sovranit gi un segno di decadenza politica e morale: qui Rousseau rivela tutto l'arcaismo politico del suo pensiero, il suo carattere anti-moderno. Non a caso egli richiama l'esempio dei Greci, presso i quali tutto quello che il popolo doveva fare lo faceva da s; esso era continuamente adunato nella piazza. Abitava in un clima dolce; non era avido; gli schiavi facevano i suoi lavori; il suo grande affare era la sua libert. Rousseau parla anche di limiti alla sovranit. Ma si tratta di limiti, come vedremo, del tutto teorici. L'avvio della sua argomentazione in linea con quanto abbiamo visto sinora: come la natura d a ciascun uomo un potere assoluto su tutte le sue membra, cos il potere della sovranit generale. Ma, continua Rousseau, nel caso del corpo politico, occorre considerare non solo la persona collettiva, bens anche le persone private che la compongono, la cui vita e libert sono naturalmente indipendenti da essa. Sembrerebbe dunque che vita e libert costituiscano diritti individuali, di fronte ai quali la sovranit collettiva deve arrestarsi. Tanto vero che Rousseau prosegue dicendo: si tratta dunque di distinguere bene i diritti rispettivi dei cittadini e del corpo sovrano, e i doveri ai quali i primi sono tenuti in qualit di sudditi dal diritto naturale di cui debbono godere nella loro qualit di uomini. L'alienazione iniziale degli individui a favore dello Stato comprende solo ci il cui uso sia utile alla societ e nulla di pi. Sembrerebbe dunque che Rousseau stabilisca qui un chiaro principio di limitazione del potere. Senonch, egli aggiunge subito dopo che il solo giudice di questa utilit il corpo sovrano. Cos, tutte le garanzie precedenti svaniscono nel nulla. Dunque la sovranit per Rousseau illimitata, inalienabile, indistruttibile. L'ultima caratteristica che le attribuisce l'indivisibilit. Non si pu dividere la sovranit, secondo Rousseau (che in questo, come in molti altri casi, ricorda Hobbes), pena la dissoluzione dello Stato; ma si possono dividere gli organi dello Stato, come abbiamo gi visto nella distinzione tra legislativo ed esecutivo, dove il primo ha tutta la sovranit e il secondo ha solo funzioni commisariali. Quanto ai tipi di governo, Rousseau ammette i tipi tradizionali: democratico, aristocratico, monarchico, misto. Naturalmente, per Rousseau si tratta semplicemente di governi, ossia di funzionari del legislativo, unico vero sovrano. Rousseau non stabilisce gerarchie assolute: ogni forma pu essere buona a seconda dei tempi e dei luoghi. In genere, la democrazia adatta ai piccoli Stati, l'aristocrazia ai medi, la monarchia ai

grandi. Rousseau arriva a dire che la democrazia pura (s'intende il governo democratico puro), ossia quella forma in cui i magistrati supererebbero il numero dei cittadini semplici, in sostanza un'utopia, perch richiederebbe troppa virt. E' un governo adatto agli di, dice il Ginevrino, ma non agli uomini. Rousseau concepisce anche la figura mitica del legislatore - un uomo di capacit straordinarie - come fondatore della nazione. E' una concessione al realismo, a scapito dell'approccio razionalistico. Spetta a lui la funzione che Rousseau aveva assegnato al contratto originario, ossia quello di trasformare ogni individuo, che per se stesso un tutto perfetto ed isolato, in parte di un pi grande tutto, dal quale questo individuo riceva in qualche modo la sua vita e il suo essere. Rousseau sente il bisogno di questo potere costituente mitico perch ritiene che una moltitudine cieca, la quale spesso non sa cosa vuole, non riuscirebbe da sola a fondare uno Stato razionale. Ai limiti di una fondazione razionale dello Stato rimedia anche la religione. Alla fine del Contratto, Rousseau prende in esame - e scarta - sia l'antica "religione degli dei" della citt (politicamente utile, ma superstiziosa e immorale), sia la "religione del prete" (perch il Cattolicesimo pone l'uomo in contraddizione con se stesso e rompe l'unit sociale), sia infine la "religione dell'uomo" (perch il Protestantesimo ha un carattere spirituale, che allontana l'uomo dalle cose di questo mondo). Egli propone quindi una religione civile, basata su pochi e semplici dogmi: esistenza di un Dio buono e provvidente, vita futura, felicit dei giusti e castigo dei malvagi, santit del contratto sociale e delle leggi. Nessuno pu essere obbligato a credere in questi dogmi; ma chi non vi crede, pu essere bandito dallo Stato, non in quanto empio, ma in quanto insocievole. Chi poi riconosce i dogmi, ma si comporta come se non vi credesse, deve essere messo a morte, perch ha commesso il massimo dei peccati, ossia mentire di fronte alle leggi. Infine, chiunque professi l'intolleranza non pu essere tollerato.

9. Kant
Cenni biografici
Immanuel Kant nasce a Knisberg (Prussia orientale) nel 1724. Dal 1732 al 1740 frequenta, nella citt natale, il Collegio Fridericiano. Assai importante l'influsso pietista derivante dalla madre. Dal 1740 al 1746 frequenta la facolt di Filosofia della locale Universit; dal 1746 al 1755 si impiega come precettore privato. Nel 1755 consegue il dottorato in Filosofia e la libera docenza. Pubblica la Storia universale della natura e teoria del cielo. Tra il 1762 e il 1763 scrive numerosi testi: La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche, L'unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio, Indagine sulla distinzione dei princpi della teologia naturale e della morale, Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantit negative. Nel 1764 pubblica Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime e il Saggio sulle malattie della testa. Nel 1765 ottiene il posto di sottobibliotecario presso la biblioteca del castello reale, con uno stipendio modestissimo. Continua la sua attivit didattica all'Universit, con grande successo. Nel 1766 pubblica i Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica. Nel 1770 diviene ordinario di Logica e Metafisica all'Universit della citt natale. Nel 1781 pubblica, a Riga, la Critica della Ragion pura e nel 1783 i Prolegomini ad ogni metafisica futura che vorr presentarsi come scienza. Fra il 1784 e il 1786 pubblica saggi di etica e di filosofia della storia: Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, Risposta alla domanda: che cos' l'illuminismo?, Fondazione della metafisica

dei costumi, Congetture sull'origine della storia. Nel 1786 nominato Rettore. Nel 1787 pubblica la seconda edizione della Critica della Ragion pura; nel 1788 la Critica della Ragion pratica e nel 1790 la Critica del giudizio. Nel 1793 pubblica la Religione entro i limiti della sola ragione. Nel 1794 diviene membro dell'Accademia delle scienze di Pietroburgo. Nello stesso anno pubblica la seconda edizione della Religione, che gli d molti problemi; Kant si impegna a non trattare pi argomenti religiosi. Nel 1795 pubblica Per la pace perpetua. Progetto filosofico. Nel 1797 si ritira dall'insegnamento. Nello stesso anno pubblica la Metafisica dei costumi; nel 1798 Il conflitto della facolt e l'Antropologia dal punto di vista pragmatico. Nel 1799 critica duramente la Dottrina della scienza di Fichte. Muore nel 1804, a 80 anni.

Il pensiero politico
Una concezione liberale della storia - la storia come teatro degli antagonismi - fa da sostegno, nel pensiero di Kant, alla concezione liberale del diritto - il diritto come condizione di coesistenza delle libert individuali -, e alla concezione liberale dello Stato - lo Stato come avente lo scopo non di guidare i sudditi alla felicit ma di garantire l'ordine[26]. Cos Bobbio, con la consueta lucidit, disegna i tratti costitutivi del pensiero politico kantiano. Abbiamo dunque, in primo luogo, una determinata concezione della storia, che fa da sfondo alle due direzioni principali nelle quali si articoler la riflessione politica di Kant, ossia la dottrina del diritto e la dottrina dello Stato. L'elaborazione di tale concezione storica precede non solo logicamente, ma anche cronologicamente gli scritti politici. L'Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, pubblicata nel 1784, infatti il primo scritto etico-politico di Kant. Il problema che egli si pone quello del senso della storia: esiste un'ordine nella storia umana? Esiste, in essa, un disegno della natura? E' quello che Kant suppone e che tenta di di scoprire. Tale ordine, tuttavia, non si rivela nelle vicende individuali, ma solo nella considerazione delle vicende umane in grandi proporzioni. Kant fa l'esempio dei matrimoni, delle nascite e delle morti: si tratta di fatti, egli dice, largamente influenzati dalla libera volont umana e che pertanto sembrerebbero sfuggire ad ogni regola che permettesse di calcolarne il numero; eppure le statitistiche di tali fenomeni, compiute su larga scala, rivelano che tali fatti avvengono secondo leggi naturali costanti, al pari delle condizioni atmosferiche. Subito dopo Kant aggiunge: singoli individui ed anche interi popoli non pongono mente al fatto che, pur perseguendo i loro particolari fini, ognuno a suo modo e spesso in contrasto con gli altri, procedono in realt inavvertitamente secondo il filo conduttore di un disegno della natura e promuovono quell'avanzamento che essi stessi ignorano e al quale, se anche lo conoscessero, non farebbero gran caso. Si tratta di un concetto molto importante. Non solo esiste un disegno della natura, che conferisce alla storia umana un fine (e quindi un senso) ben preciso; ma tale disegno complessivo, di segno positivo, si realizza spontaneamente, al di l della volont cosciente degli uomini e anzi proprio sfruttando le particolari inclinazioni di questi, inclusi i loro "difetti". Kant procede per tesi. Nella prima egli sostiene che tutte le disposizioni naturali di una creatura sono destinate a svolgersi in modo completo e conforme allo scopo. In altre parole, Kant convinto che tutto, in natura, abbia un fine e che tale fine guidi lo sviluppo delle cose. Se noi prescindiamo da un simile principio ossia da una concezione teleologica della natura - non abbiamo pi una natura regolata da leggi, dice Kant, ma un gioco senza scopo, e il caso sconfortante regnerebbe in luogo della ragione. Ora, nell'uomo, che l'unica creatura razionale, le naturali disposizioni hanno il loro completo svolgimento nella specie e non nel singolo. Questa la seconda tesi. Poich la ragione procede per tentativi - con l'esercizio, per prove ed errori - essa si eleva poco a poco, passando da un grado di conoscenza inferiore ad

uno superiore. E poich la vita individuale breve, occorre una serie indefinita di generazioni, che si trasmettano l'una all'altra i loro lumi, per portare i germi insiti nella nostra specie a quel grado di sviluppo che corrisponda perfettamente al loro scopo. Senza l'idea di questa et finale, aggiunge Kant, tutti gli sforzi sembrerebbero vani, cos come le stesse disposizioni naturali. Ma se vero che tutto in natura ha un fine, conclude Kant, assurdo pensare che proprio nel caso dell'uomo essa si balocchi in un gioco infantile. Nella terza tesi Kant sostiene che la natura ha voluto che l'uomo traesse da s tutto quello che va al di l dell'immediatezza naturale. In altre parole, la natura ha voluto che l'uomo fosse faber fortunae suae, per mezzo della sua abilit e della sua ragione. Dice infatti Kant: la natura ha dato all'uomo la ragione e la libert del volere; ci significa che egli non pu essere guidato dall'istinto, n da un sapere innato, ma che deve ricercare e procurarsi tutto da s. Lo dimostra il fatto che l'uomo il meno dotato, dal punto di vista fisico, per soddisfare i bisogni essenziali, rispetto agli animali: pare che qui [nel caso dell'uomo] la natura si sia compiaciuta della sua massima economia e di aver commisurato le qualit animali dell'uomo strettamente, rigorosamente al bisogno supremo d'una esistenza iniziale, quasi volesse che l'uomo dall'estremo della barbarie si conquistasse col proprio lavoro la pi grande abilit, l'interiore perfezione del pensiero e quindi, per quanto possibile sulla terra, la felicit, in modo che egli ne avesse tutto il merito e non dovesse rendere grazie che a se stesso: e con ci mirasse a destare in lui la stima razionale di s pi che a procurargli un benessere. Ma qual il mezzo attraverso il quale si realizzano le disposizioni umane? Esso, spiega Kant nella quarta tesi, l'antagonismo degli uomini in societ. Vale la pena di leggere quasi per intero questa tesi, perch si tratta di un argomento di formidabile importanza. TESI QUARTA. Il mezzo di cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte le sue disposizioni, il loro antagonismo nella societ, in quanto per tale antagonismo sia da ultimo la causa di un ordinamento civile della societ stessa. Io intendo qui col nome di antagonismo la insocievole socievolezza degli uomini, cio la loro tendenza a unirsi in societ, congiunta con una generale avversione, che minaccia continuamente di disunire questa societ. E' questa evidentemente una tendenza insita nella natura umana. L'uomo ha un'inclinazione ad associarsi, poich egli nello stato di societ si sente maggiormente uomo, cio sente di poter meglio sviluppare le sue naturali disposizioni. Ma egli ha anche una forte tendenza a dissociarsi, poich egli ha del pari in s la qualit antisociale di voler tutto rivolgere solo al proprio interesse, per cui si aspetta resistenza da ogni parte e sa ch'egli deve da parte sua tendere a resistere contro altri. Questa resistenza eccita tutte le energie dell'uomo, lo induce a vincere la sua tendenza alla pigrizia e, spinto dal desiderio di onori, di potenza, di ricchezza, a conquistarsi un posto tra i suoi consoci, che egli certo non pu sopportare, ma di cui non pu neppure fare a meno. Per tale modo si compiono i primi veri passi dalla barbarie alla cultura, che consiste propriamente nel valore sociale dell'uomo; cos a poco a poco tutte le capacit si sviluppano, si educa il gusto, si pongono mediante una continuata illuminazione le basi di un modo di pensare, che col tempo trasforma in princpi pratici le rozze disposizioni naturali verso una distinzione morale, e la societ, da unione patologica forzata, pu trasformarsi in un tutto morale. Senza la condizione, in s non certo desiderabile, della insocievolezza, da cui sorge la resistenza che ognuno nelle sue pretese egoistiche deve necessariamente incontrare, tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale arcadica di perfetta armonia, frugalit, amore reciproco: gli uomini, buoni come le pecore che essi menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore maggiore di quello che ha questo loro animale domestico; essi non colmerebbero il vuoto della creazione rispetto al loro fine di esseri razionali. Siano allora rese grazie alla natura per la intrattabilit che genera, per la invidiosa emulazione delle vanit, per la cupidigia mai soddisfatta di averi o anche di dominio! Senza di esse tutte le eccellenti disposizioni naturali insite nell'umanit rimarrebbero eternamente assopite senza svilupparsi. L'uomo vuole la concordia; ma la natura sa meglio di lui ci che buono per la sua specie: essa vuole la discordia. Dunque Kant sviluppa un'antropologia realistica, che non nega le caratteristiche "negative" dell'uomo; e tuttavia, lungi dall'assumere verso di esse un atteggiamento moralistico o di rifiuto, egli ne sottolinea e ne esalta i vantaggi, pronunciando un grande elogio dell'antagonismo. L'antagonismo tra gli uomini,

determinato dagli egoismi di ciascuno, la molla del progresso e della civilt, ci che consente agli uomini di perfezionarsi, di realizzare le loro disposizioni pi alte. E' proprio tale natura dell'uomo che fa sorgere il problema del diritto. Dice infatti Kant nella quinta tesi: il pi grande problema alla cui soluzione la natura costringe la specie umana di pervenire ad attuare una societ civile che faccia universalmente valere il diritto. La costruzione della societ civile - o, come dice Kant, l'istituzione di una costituzione civile perfettamente giusta - diventa quindi il problema principale dell'umanit: perch solo tale societ potr permettere agli uomini di sviluppare le loro facolt e dunque di realizzare il loro fine. Ma perch ci avvenga la societ deve possedere due qualit: libert e coazione. Poich solo nella societ, e precisamente in quella societ in cui si attui, da un lato, la massima libert, e quindi un generale antagonismo dei suoi membri e, dall'altro lato, la pi rigorosa determinazione e sicurezza dei limiti di tale libert, affinch essa possa coesistere con la libert degli altri: poich, ripeto, solo in una societ siffatta il supremo fine della natura, cio lo sviluppo di tutte le facolt, pu essere nell'umanit raggiunto, la natura vuole ancora che l'umanit debba attuare da se stessa cos questi come tutti gli altri fini della sua destinazione. Dunque Kant teorizza una rigorosa delimitazione delle libert di ciascuno. La libert di cui gode l'uomo nello stato di natura infatti distruttiva: le tendenze degli uomini fanno s che essi non possano vivere a lungo insieme in selvaggia libert. Solo nel chiuso recinto della societ civile - dice Kant - le tendenze umane, regolate secondo diritto, danno i loro frutti migliori. Quella libert, che fuori della societ civile potrebbe portare all'annientamento del genere umano, all'interno di essa, sottoposta a regole ben precise (le quali altro non sono se non il diritto), diventa un meccanismo altamente creativo, che disciplina gli impulsi umani senza annullarne il contrasto e la lotta. Giunti a questo punto, bene precisare che il passaggio dallo stato di natura alla societ civile non va inteso, nel pensiero di Kant, in termini di necessit (per evitare i gravi inconvenienti della libert selvaggia) o di utilit (perch solo nello stato civile l'uomo pu raggiungere sicurezza e benessere). Per Kant il passaggio alla societ civile non solo necessario o utile, ma anche - e in primo luogo - doveroso, ossia un dovere morale. Se non obbedissero a tale dovere, dice Kant, gli uomini sarebbero ingiusti verso se stessi, perch solo entrando nella societ civile possono sviluppare la loro umanit. Solo cos essi possono dominare e disciplinare i propri impulsi e la propria naturalit (e quindi essere veramente uomini), possono garantirsi dall'altrui prepotenza (ponendo quindi fine al regno della mera forza) e possono sviluppare e perfezionare le forme pi alte della loro umanit. E' vero che Kant non disconosce la dimensione naturale dell'uomo (gli istinti, l'amore di s, l'egoismo); ma essa costituisce solo la materia grezza che deve poi essere imbrigliata e regolata da scelte consapevoli, perch si realizzi il fine supremo della natura, ossia il pieno sviluppo delle facolt umane. Perch ci avvenga, come abbiamo gi visto, necessaria la pi ampia libert e, al tempo stesso, delle norme che regolino tale libert affinch ognuno non prevarichi sull'altro. Di qui discende la formulazione kantiana del diritto: il diritto la limitazione della libert di ciascuno alla condizione del suo accordo con la libert di ogni altro, in quanto ci possibile secondo una legge universale; e il diritto pubblico l'insieme delle leggi esterne che rendono possibile un tale accordo generale. E poich ogni limitazione della libert mediante l'arbitrio di un altro coazione, ne segue che la costituzione civile un rapporto di uomini liberi che ... vivono sotto l'impero di leggi coattive. Libert e coazione: ecco il binomio inscindibile che caratterizza il diritto. Senza libert dei singoli - e senza l'urto di queste libert - il problema del diritto non sorgerebbe nemmeno; senza coazione, la libert di ciascuno sarebbe a rischio, non garantita. La coazione riduce la libert, ma ne garantisce la coesistenza con la libert di tutti, secondo una legge universale. Libert e coazione sono dunque gli elementi fondamentali di una societ civile. Ma veniamo alla concreta articolazione dello Stato kantiano. Lo stato civile, come stato giuridico, deve

essere fondato sui seguenti tre princpi a priori: la libert di ognuno in quanto uomo; l'eguaglianza di ognuno con gli altri, in quanto suddito; l'indipendenza di ognuno, in quanto cittadino. Che tali princpi siano a priori significa che essi non sono leggi o regole che lo Stato debba stabilire, bens leggi e regole che sole rendono possibile la costituzione di uno Stato secondo i princpi della pura ragione. Non bisogna infatti dimenticare che la filosofia politica di Kant, come ha osservato Valentini, segna la pi radicale subordinazione del mondo politico al mondo morale o, se si vuole, del mondo della violenza, variamente esercitata e mascherata, al mondo della ragione. Famosa la contrapposizione che Kant istituisce tra il mondo della politica e quello della morale. Il primo - regolato dal successo, dalla prudenza e dalla riserva mentale - si ispira alle seguenti massime: fac et excusa, si fecisti nega, divide et impera. La prima massima significa: cogli l'occasione per un'arbitraria presa di possesso e, a fatto compiuto, la giustificazione si presenter sempre pi facile. Con la seconda si raccomanda invece al "principe" di addossare sempre a qualcun altro o alla natura dell'uomo la colpa di ci egli stesso ha commesso; con la terza massima, infine, si invita il "principe" a dividere tra loro i vari capi che lo hanno eletto loro superiore, e a porli in conflitto con il popolo, onde proporsi in conclusione come paladino di quest'ultimo. A queste massime Kant contrappone il comportamento ragionevole, riassunto in quella che egli chiama la formula trascendentale del diritto pubblico: tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non suscettibile di pubblicit, sono ingiuste. L'inganno e l'astuzia vengono quindi sostituite da un'assoluta lealt. Qual , infatti, il significato di un simile principio? In linea generale si pu rispondere che una massima non suscettibile di diventare pubblica una massima che, se mai fosse resa pubblica, susciterebbe tale reazione nel pubblico da rendere impossibile la sua attuazione. Le applicazioni che Kant fa di questo principio, servendosi di due esempi illuminanti, chiariscono nel migliore dei modi il suo significato. Il primo esempio si colloca nel "diritto interno" e riguarda il diritto di resistenza[27]; il secondo riguarda invece il diritto del sovrano di infrangere i patti stabiliti con altri sovrani, e si colloca pertanto nel diritto internazionale. Kant argomenta nel modo che segue. Nel caso del diritto di resistenza l'ingiustizia della ribellione si rende chiara da questo: che la massima di essa, qualora fosse pubblicamente conosciuta, renderebbe impossibile il proprio scopo. Perci dovrebbe essere tenuta necessariamente segreta. Quale cittadino, infatti, nel momento stesso in cui accetta il pactum subiectionis, potrebbe dichiarare pubblicamente che si riserva il diritto di non osservarlo? E quale valore potrebbe avere un simile patto, qualora fosse riconosciuto questo diritto ai contraenti? Venendo al secondo esempio, che cosa accadrebbe - si chiede Kant - se un sovrano, nell'atto stesso di firmare un trattato con un altro Stato, dichiarasse pubblicamente di non ritenersi vincolato agli obblighi derivanti da tale trattato? Accadrebbe naturalmente - risponde Kant - che ognuno lo sfuggirebbe oppure farebbe lega con altri stati per resistere alle sue pretese, e di conseguenza la politica con tutte le sue astuzie verrebbe meno al suo scopo, ragion per cui quella massima deve considerarsi ingiusta. Ma torniamo ai tre princpi nei quali Kant ravvisa i fondamenti della societ civile: libert, eguaglianza, indipendenza. Il principio della libert viene formulato nel modo seguente: nessuno mi pu costringere ad essere felice a suo modo (come cio egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno pu ricercare la sua felicit per la via che a lui sembra buona, purch non rechi pregiudizio alla libert degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libert possa coesistere con la libert di ogni altro secondo una possibile legge universale (cio non leda questo diritto degli altri). Si tratta di una formulazione che rimanda chiaramente alla nozione di libert come non-impedimento o libert negativa[28]. La libert quello spazio dove non arrivano n i divieti n i comandi di qualsiasi potere collettivo (e naturalmente la massima espressione del potere collettivo il potere politico, il potere dello Stato): in quello spazio vi un unico sovrano, l'individuo stesso, il quale pu fare tutto ci che gli aggrada,

pu seguire tutte le inclinazioni che desidera, pur di non ledere l'identica facolt degli altri individui. La richiesta - tipicamente liberale - quella di un'ampia sfera di indipendenza individuale; in altri termini una richiesta di limitazione del potere a vantaggio degli individui. Non a caso, Kant il pensatore liberale che polemizza nel modo pi aspro con il modello del governo paternalistico. Un tale governo, che tratta i sudditi come eterni minorenni, dei quali cerca di fare il bene, costituisce, a suo parere, il peggior dispotismo che si possa immaginare. Lo stato di minorit infatti la condizione pi lontana dalla dignit dell'uomo: ed infatti per Kant l'Illuminismo rappresenta precisamente l'uscita da tale stato. L'illuminismo l'uscita dell'uomo da uno stato di minorit il quale da imputare a lui stesso. Minorit l'incapacit di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi questa minorit se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! - dunque il motto dell'illuminismo. Ma per comprendere la vis polemica di Kant contro lo Stato paternalistico bene anche tenere conto della situazione della Germania del suo tempo. Si pensi, ad esempio, a quell'ordinanza del principato di Baden, del 1776, nella quale, partendo dal presupposto che il Consiglio di corte fosse il tutore naturale dei sudditi, si stabiliva che ad esso competeva di trattenerli dall'errore e di ricondurli sulla retta via, nonch di insegnar loro, anche contro la loro volont, il modo in cui devono organizzare l'economia domestica, coltivare i campi ed alleviare a se stessi, mediante una condizione economica pi produttiva dell'azienda, gli oneri dei tributi da loro dovuti. Oppure si pensi ancora alle leggi sul lusso, emanate dalla maggioranza dei principi tedeschi, le quali regolavano nei minimi particolari il modello e il costo degli abiti a seconda dell'et, del sesso e del ceto sociale, e stabilivano il numero degli oggetti di arredamento, delle carrozze, dei domestici e perfino delle pietanze, bevande ed ospiti in occasione di feste pubbliche, private e familiari. Ma torniamo a Kant. La sua polemica anti-paternalistica riflette una visione strumentale e formale dello Stato: esso deve limitarsi a garantire quel quadro di regole all'interno del quale si possano realizzare liberamente le energie individuali. Sarebbe un grave errore, ha osservato Bedeschi, sottovalutare la novit e la portata di questa posizione kantiana: oggi essa fa parte dei nostri comportamenti, del nostro costume, della nostra mentalit, della nostra cultura. Se lo Stato o il potere politico pretendessero di dirigere le nostre attivit economiche, sociali, politiche o culturali, noi respingeremmo questa pretesa come il pi grave degli attentati. E infatti definiamo totalitari quegli Stati dove questo avviene. Tutto ci fa talmente parte della nostra forma mentis che diventato ormai quasi un dato del senso comune. Ma quanto cammino stato necessario per arrivare a questo risultato! E non c' dubbio che Kant costituisce una tappa importante in tale cammino[29]. Venendo al principio dell'eguaglianza in quanto sudditi, questo significa che tutti devono essere egualmente sottoposti alle leggi. E' il principio dell'eguaglianza giuridico-civile. Stesse leggi, stessi diritti, stessi obblighi per tutti, senza eccezioni. Si tratta quindi di un'eguaglianza puramente formale, perfettamente compatibile con la diseguaglianza economico-sociale. Anche in questo caso bene tenere presente il contesto storico nel quale Kant operava: i privilegi ereditari erano ancora forti e consistenti, nella Germania dell'epoca. Soltanto ai nobili veniva riservato il possesso e l'acquisto di beni fondiari, nonch l'accesso alla carriera di ufficiale nell'esercito; i nobili, inoltre, godevano di una giurisdizione civile e penale particolare, e avevano il diritto di caccia sulle terre coltivate dai contadini, il diritto alla giurisdizione patrimoniale (che competeva al proprietario feudale nei confronti dei propri sudditi), il diritto infine alle innumerevoli prestazioni servili e ai privilegi derivanti dal sistema feudale che riguardava i contadini (ossia, i due terzi della popolazione tedesca di allora). In un tale contesto, l'eguaglianza formale non era certo una cosa di poco conto: essa consentiva infatti di negare tutti i privilegi di casta dell'ancien rgime e di stabilire che ogni cittadino potesse pervenire a quel grado di posizione sociale al quale potevano elevarlo il suo talento, la sua operosit e la sua fortuna, senza trovare ostacoli nelle prerogative ereditarie di altri individui. Nessuno, secondo Kant, pu trasmettere per via ereditaria la posizione occupata nello Stato; solo le "cose" - e non ci che riguarda la personalit costituiscono beni ereditari. Certo, le concrete condizioni socio-economiche, proprio in virt del principio

dell'ereditariet dei beni, potevano svuotare l'eguaglianza sino a renderla pi apparente che reale: ma resta il fatto che il principio era affermato, e che il tema delle pari opportunit (i cosiddetti diritti sociali) decisamente fuori dell'orizzonte storico nel quale opera Kant. Il terzo principio, quello dell'indipendenza in quanto cittadino, ci conduce al consueto tema della democrazia censitaria. Tutti i pensatori liberali vissuti nel Settecento e nell'Ottocento sono contrari al suffragio universale. Essi vogliono i diritti giuridico-civili per tutti, ma riservano i diritti politici ai soli proprietari. Questa scelta ha una motivazione precisa: i diritti politici, dando la possibilit di determinare le sorti politiche del Paese, richiedono speciali prerequisiti, in genere una cultura sufficiente e un interesse comune; ma soltanto la propriet, secondo questi autori, permette tanto di studiare (e quindi di raggiungere un livello culturale che consenta autonoma capacit di giudizio), quanto di condividere realmente gli interessi del proprio Paese. Anche per Kant il diritto di voto spetta dunque a chi padrone di s, ossia a chi non dipende da altri per poter vivere. Restano pertanto esclusi da tale diritto - dice Kant - il domestico, il garzone, il salariato giornaliero, il precettore privato: tutti costoro sono operarii. Invece coloro che sono artifices, ossia che possono vendere la loro opera, come l'artigiano, il fittavolo, l'insegnante, l'artista, possono anche essere cittadini (vale a dire, godere dei diritti politici). Altro problema fondamentale quello del consenso, che strettamente legato, nell'ambito del pensiero giusnaturalistico, al modo in cui stato concepito il contratto. Abbiamo visto che in Locke il potere dello Stato limitato in partenza, per via della cessione ristrettissima dei diritti individuali[30]; nell'ambito in cui si esercita legittimamente, tale potere seguir le indicazioni della maggioranza. In Rousseau, invece, il patto prevede la cessione totale dei diritti individuali allo Stato, il cui potere pertanto illimitato; tale potere verr esercitato seguendo le indicazioni della volont generale[31]. Anche in Hobbes l'alienazione dei diritti individuali era quasi totale, e dunque il potere era pressoch assoluto; inoltre il sovrano, non essendo uno dei contraenti del patto, ma un beneficiario, era in seguito svincolato da qualsiasi problema di consenso[32]. Quanto a Kant, anche il filosofo tedesco un contrattualista; egli pone cio all'origine della societ civile un contratto originario, per mezzo del quale gli uomini escono dallo stato di natura ed entrano nella societ civile. Ma Kant considera tale contratto non un fatto storico (anzi, come tale non lo giudica nemmeno possibile), bens una semplice idea della ragione. Nello scritto Sopra il detto comune "ci pu esser giusto in teoria, ma non vale per la prassi" (1793) egli scrive: questo contratto ... una semplice idea della ragione, ma che ha indubbiamente la sua realt (pratica): cio la sua realt consiste nell'obbligare ogni legislatore a far leggi come se esse dovessero derivare dalla volont comune di tutto un popolo e nel considerare ogni suddito, in quanto vuol essere cittadino, come se egli avesse dato il suo consenso a una tale volont. Questa infatti la pietra di paragone della legittimit di una qualsiasi legge pubblica. Il contratto pertanto un'idea, un principio di legittimazione, per mezzo del quale possiamo giudicare la realt esistente: ogni sovrano deve governare come se le sue decisioni dovessero derivare dalla volont comune. Ma la valutazione di tale conformit alla volont comune rimessa da Kant all'insindacabile giudizio del sovrano stesso. Qui le posizioni di Kant coincidono, in sostanza, con il modello (anch'esso tipicamente settecentesco) del dispotismo illuminato. Rispetto a Locke abbiamo dunque, in questo caso, una visione decisamente meno liberale, che infatti conduce Kant - come abbiamo gi anticipato[33] - a negare il diritto di resistenza. In Locke il contratto era un accordo tra popolo e sovrano, caratterizzato da precise clausole, la violazione delle quali, da parte del sovrano, restituiva al popolo i suoi diritti, dandogli la possibilit di resistere al potere (e quindi di rovesciarlo). In Kant, invece, il contratto solo un'idea, un principio sul quale il sovrano deve regolare il suo comportamento, ma al di fuori di qualsiasi clausola e di qualsiasi controllo che non sia un auto-controllo. Insomma, come ha giustamente osservato Bedeschi, il contratto diventa in Kant una pia intenzione, interpretabile solo dal potere sovrano, senza che il popolo possa esercitare alcun efficace controllo su di esso. Ed infatti Kant nega con forza il diritto di resistenza; in altre parole, bisogna sempre obbedire allo Stato, comunque questo si comporti; il divieto di resistenza pertanto assoluto, cio non ammette eccezioni. La ragione di una posizione cos radicale spiegata da Kant nel modo seguente: se il popolo avesse il diritto

di giudicare come viene applicata una costituzione (ed eventualmente, di ribellarsi a tale applicazione) e se il capo dello Stato fosse di parere contrario, chi potrebbe decidere da quale parte stia il diritto? Nessuno dei due potrebbe essere giudice in causa propria, ragion per cui dovrebbe esserci, al di sopra del sovrano, un altro sovrano, capace di giudicare la controversia tra quello e il popolo. Ma ci significherebbe che il sovrano non il vero sovrano. Inoltre, se il popolo avesse il diritto di sindacare l'operato del sovrano, tale diritto negherebbe alla radice la sovranit, rendendo incerta ogni costituzione giuridica; e rendendola incerta negherebbe il motivo stesso per cui si abbandonato lo stato di natura. Ci non significa, tuttavia, che il sovrano non sbagli mai. E proprio perch l'errore possibile, deve essere riconosciuto al cittadino il diritto di manifestare pubblicamente la propria opinione su ci che egli ritiene arrechi ingiustizia alla comunit. E' la famosa "libert della penna": dunque - dice Kant sempre nello scritto Sopra il detto comune ... - la libert della penna, tenuta nei limiti del rispetto e dell'amore per la costituzione sotto la quale si vive dai sentimenti liberali che ispirano i sudditi (le cui penne si limitano reciprocamente da s per non perdere tale libert), l'unico palladio dei diritti del popolo. La libert della penna, esercitata con moderazione e accompagnata dal dovere di ubbidienza, costituisce lo strumento attraverso il quale Kant ritiene che si possa conciliare l'esigenza dell'ordine e della stabilit dell'autorit con la libert e il progressivo miglioramento della specie. Kant distingue infatti, nello scritto intitolato Risposta alla domanda: che cos' l'Illuminismo? (1784), tra uso pubblico e uso privato della ragione: intendo per uso pubblico della propria ragione l'uso che uno ne fa come studioso davanti all'intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che alcuno pu farne in un certo impiego o funzione civile a lui affidata. Ora, se nel primo caso gli studiosi devono godere della pi completa libert, nel secondo essi devono ispirare la loro condotta alla volont del governo; essi possono ragionare liberamente, ma devono obbedire. Ad esempio, un ufficiale deve sempre obbedire agli ordini di un suo superiore e non pu assolutamente, mentre svolge le sue funzioni di ufficiale, ragionare pubblicamente sull'opportunit di tali ordini; ma nessuno pu impedirgli, in qualit di studioso, di criticare le strategie militari adottate dallo stato maggiore e di sottoporre le sue opinioni al pubblico. Allo stesso modo, il cittadino non pu rifiutarsi di pagare le tasse; ma, come studioso, pu criticare liberamente il sistema fiscale del suo Paese. Con tale impostazione, stato rilevato, Kant finisce per teorizzare una libert dimidiata, che trova nella volont dell'autorit il proprio limite invalicabile. Si pu (anzi si deve) ragionare pubblicamente come sembra pi giusto, ma si deve sempre e comunque ubbidire. Tuttavia tale soluzione non conduce ad una sorta di immobilismo; l'esigenza di mantenere l'ordine e di preservare l'autorit non soffoca le istanze di rinnovamento: Kant infatti convinto che quando il dibattito sollevato su un dato argomento dagli studiosi avr dato luogo ad un'ampia discussione, influendo sulla pubblica opinione, allora le nuove idee, oramai diffuse e radicate, verranno recepite dall'autorit (la quale consapevole che anche per lei vantaggioso trattare l'uomo in modo conforme alla sua dignit). La costituzione auspicata da Kant - basata sui tre princpi della libert, dell'eguaglianza formale e dell'indipendenza - da lui definita repubblicana e distinta da quella dispotica. In questo caso 'regime repubblicano' significa quel regime caratterizzato dalla distinzione tra esecutivo, legislativo e giudiziario; 'dispotico' invece quel regime caratterizzato dall'esecuzione arbitraria delle leggi che lo Stato si dato. Nel regime repubblicano il vero sovrano il legislativo, al quale l'esecutivo sottomesso. Dunque la distinzione tra regime repubblicano e regime dispotico - ruotante intorno alla questione della struttura dello Stato - non coincide con la classica divisione delle forme di governo, ossia monarchia (che Kant chiama autarchia), aristocrazia, democrazia. Kant polemizza fortemente con quest'ultima, poich in essa le assemblee deliberano e governano ad un tempo; pi facile quindi, a suo parere, che siano l'aristocrazia o l'autocrazia ad avvicinarsi allo spirito di un regime repubblicano.

10. Constant
Cenni biografici
Benjamin Constant nasce a Losanna, in Svizzera, nel 1767, da un'antica famiglia protestante di origini francesi. La madre muore quindici giorni dopo il parto. Dopo un'infanzia errabonda e disordinata, Constant compie la propria formazione universitaria tra il 1782 e il 1785, dapprima ad Erlangen (in Germania) e in seguito a Edimburgo. Dal 1795 a Parigi, dove (insieme a M.me de Stal) partecipa attivamente alle vicende politiche e intellettuali dell'et termidoriana. Nel 1796 pubblica il De la force du Gouvernement actuel de la France et de la ncessit de s'y rallier, al quale seguiranno, nel 1797, il Des ractions politiques e il Des effets de la Terreur. Nel 1799 viene nominato al Tribunato, dal quale verr estromesso nel 1802 per le sue battaglie d'opposizione. La Germania e la Svizzera (in particolare Coppet) saranno i luoghi del suo esilio, che durer sino al 1813. Tra il 1800 e il 1803 lavora ad un grande trattato di politica, che rimarr inedito. Nel 1806 scrive i Principes de politique; nel 1810 fa copiare i Fragments d'un ouvrage abandonn sur la possibilit d'une constitution rpublicaine dans un grand pays. Entrambi i trattati rimarranno inediti e verranno alla luce soltanto nella seconda met del '900. Nel 1813, dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia, Constant torna all'attivit politica e pubblicistica. Nel 1814 pubblica il De l'esprit de conqute et de l'usurpation, che incontra grande successo. Nell'aprile del 1815, dopo la fuga di Luigi XVIII, accetta la proposta di Napoleone di preparare la nuova costituzione, che avrebbe dovuto liberalizzare l'Impero. La scelta di Constant, che era stato uno dei pi acerrimi avversari di Napoleone, scandalizza l'opinione pubblica. Sempre nel 1815 d alle stampe i Principes de politique. Nel 1816 pubblica il romanzo Adolphe. Nel 1818 d alle stampa il Cours de politique constitutionnelle, dove raccoglie la maggior parte dei suoi scritti politici. Nel 1819 tiene all'Athne Royal il celebre Discorso intitolato De la libert des anciens compare celle des modernes. Nel marzo delle stesso anno viene eletto alla Camera dei deputati; inizia cos la sua lunga carriera parlamentare, che lo vedr diventare il capo riconosciuto dell'opposizione liberale. Nel 1822 pubblica i Mmoires sur les Cent-Jours e il Commentaire sur l'ouvrage de Filangieri. Oltre alla ininterrotta attivit pubblicistica, continua a lavorare, in questi anni, al De la religion, il cui primo volume appare nel 1824. Nel luglio del 1830, sebbene vecchio e ammalato, partecipa agli eventi rivoluzionari. Muore l'8 dicembre 1830, a 63 anni.

Il pensiero politico
Nonostante la singolare sfortuna della sua opera - studiata poco e male almeno sino a quindici anni fa, e tuttora largamente sconosciuta al pubblico dei non addetti ai lavori - Benjamin Constant senza dubbio un pensatore politico di prima grandezza e uno dei grandi classici del liberalismo. Vorrei dire qualcosa di pi. La vicenda di Constant si colloca in quello straordinario periodo di evoluzione storica, politica e culturale che va dalla Rivoluzione del 1789 a quella del 1830: un periodo nel quale possiamo rintracciare il luogo d'origine della nostra identit politica e istituzionale. I princpi, le ideologie, l'architettura istituzionale e persino il lessico dei nostri sistemi politici sono nati allora e tali sono sostanzialmente rimasti. Noi parliamo ancora il linguaggio inventato dalla Rivoluzione francese e ci muoviamo ancora nello "spazio politico" creato dai protagonisti di quegli eventi (si pensi soltanto alla distinzione tra destra e sinistra, che, pur con tutti i suoi limiti, continua ad essere la bussola con la quale ci orientiamo nel paesaggio politico). Eventi dei quali Constant fu protagonista, intrecciando in modo indissolubile la propria riflessione con la

partecipazione alle vicende politiche del suo tempo; nel suo caso, pertanto, sar necessario partire da una breve ricostruzione della sua vicenda storico-biografica. Nato nel 1767 a Losanna, in Svizzera, da un'antica famiglia protestante di origini francesi, e morto a Parigi nel 1830, pochi mesi dopo la Rivoluzione orleanista, Constant si riveler uno dei protagonisti pi irrequieti e controversi di quella generazione dell'intelligencija europea che visse la propria giovinezza negli anni tumultuosi della Rivoluzione, matur le proprie convinzioni pi profonde durante il dominio napoleonico e scrisse le proprie opere principali nel periodo della Restaurazione. Egli, tuttavia, a differenza di alcuni pensatori a lui contemporanei - come Hegel, ad esempio - non si limit a seguire con grande passione gli straordinari eventi storico-politici di quegli anni e a sviluppare su di essi una profonda meditazione, ma vi prese parte direttamente e attivamente, giocando pi volte un ruolo di primo piano, sia con i suoi scritti che con l'azione politica. Quando approda definitivamente a Parigi, nel 1795, Constant, che ha appena 28 anni, ha gi alle spalle un lungo ed errabondo itinerario formativo, che lo ha visto studiare nelle Universit di Oxford, Erlangen (in Germania) e Edimburgo. Ma, quel che pi conta, egli ha conosciuto e stabilito un'intensa relazione intellettuale - che diverr anche una tormentata relazione sentimentale - con Madame de Stal, figlia dell'ultimo ministro liberale di Luigi XVI, il banchiere ginevrino Jacques Necker. Ed proprio insieme all'ex ministro che Constant, nella residenza di Coppet, ha potuto discutere i grandi problemi politico-istituzionali lasciati aperti dalla Rivoluzione, manifestando un'adesione per i princpi liberali dell'89 che non rinnegher mai. Quando giunge a Parigi, tuttavia, l'eredit dell'89 ad uno dei bivi pi drammatici. Dalla congiura di Termidoro - che ha posto fine, nel luglio del 1794, al regime terroristico di Robespierre - passato poco meno di un anno e la nuova maggioranza parlamentare sta faticosamente tentando di varare una nuova costituzione (che andr in vigore nell'ottobre del 1795 e sar caratterizzata dalla presenza di un esecutivo pi forte, il Direttorio). L'obiettivo fondamentale del progetto termidoriano consentire la nascita di un sistema politico fondato sulla legalit costituzionale e sul sistema rappresentativo. Contro tale esito, tuttavia, si battono con forza, da bande opposte, gli eredi di due tradizioni politiche che Constant collocher provocatoriamente (ma lucidamente) sullo stesso piano: da un lato, la sinistra giacobina, che vede nel progetto termidoriano la fine della "democrazia pura", ossia di quel regime - lontano progenitore delle democrazie totalitarie novecentesche - fondato sulla mobilitazione permanente delle sezioni e dei club, la cui volont, priva di limiti, veniva miticamente identificata con la volont popolare; dall'altro lato, la destra monarchica pi retriva, che mira semplicemente a restaurare l'assolutismo regio dell'Ancien Rgime. In questo quadro, Constant si schiera apertamente con il Direttorio, nella convinzione che questo rappresenti, in quelle date circostanze, l'unico strumento per realizzare i princpi di libert proclamati dall'89. Ma nei vibranti pamphlets constantiani di quegli anni non troviamo soltanto brillanti argomentazioni legate alle situazione politica contingente; in essi gi si affacciano temi di grande rilievo teorico. Basti pensare all'interpretazione della Rivoluzione e del Terrore, che ispirer gran parte della storiografia liberale dell'800. Sulla base di una concezione della storia che assegna alla dimensione etico-ideale un ruolo primario - il dominio del mondo, scrive Constant, stato affidato alle sole idee. Sono le idee che creano la forza, facendosi sentimento, passione, entusiasmo. Le idee si formano e si sviluppano nel silenzio, ma esse si incontrano e si accendono al contatto con gli individui. E cos, completatesi e rafforzatesi reciprocamente, ben presto si scatenano con un impeto irresistibile -, in base a tale concezione, dicevo, Constant ritiene che le rivoluzioni si producano l dove si rotto l'equilibrio tra le istituzioni di un popolo e le sue idee, le sue aspirazioni. Ci significa che le rivoluzioni costituiscono il "sintomo" e, al tempo stesso, la "cura" di tale squilibrio; ma se esse vanno al di l dei loro obiettivi, si produce una nuova e opposta forma di "degenerazione patologica", la cui conseguenza pi evidente lo svilupparsi della reazione. Ora, secondo questa concezione, il Terrore non costituisce, come pensano gli scrittori controrivoluzionari, la nefasta e inevitabile conseguenza dei princpi dell'89, n - come teorizzano alcuni scrittori filorivoluzionari - lo strumento terribile ma storicamente necessario per salvare la Rivoluzione, bens soltanto una degenerazione patologica, scaturita da un'altra Rivoluzione, che non rispondeva alle reali aspirazioni dei Francesi e che ha determinato lo svilupparsi della reazione. Mentre la Rivoluzione dell'89, infatti, nasceva dal bisogno tipicamente moderno di indipendenza individuale, eguaglianza civile e libert politica, la Rivoluzione del '93 affondava le sue radici nell'aspirazione ad un'eguaglianza forzata e livellatrice e ad un modello politico

(quello rousseauiano) anacronistico e liberticida. Tra le due Rivoluzioni non si d, secondo Constant, parentela alcuna. Del resto, fin dalle pagine iniziali del suo primo pamphlet, Constant ha disegnato una mappa etico-politica nella quale trovano posto soltanto due schieramenti: da un lato quello della libert e dell'ordine, ispirato ad una concezione limitata e legale del potere, e dall'altro quello dell'anarchia e del dispotismo, varianti opposte di un unico fenomeno, quel potere arbitrario che scaturisce inevitabilmente da una sovranit concepita come illimitata (che poi tale sovranit sia esercitata dal re o da una minoranza che si identifica miticamente con il popolo, cambia poco). Ma la lotta di Constant perch la rivoluzione si concluda, realizzando quelli che sono i suoi autentici princpi, terminer con una sconfitta. La Repubblica direttoriale crolla definitivamente il 18 brumaio 1799, quando un ennesimo ma decisivo colpo di mano, ideato da Sieys per rafforzare l'esecutivo, spiana la strada all'avventura napoleonica. Ancora una volta il giovane teorico liberale segue gli eventi da vicino. Egli si trova infatti a Saint-Cloud, dove gli autori del colpo di Stato hanno fatto trasferire, per sicurezza, il Parlamento. Alle sette di sera gi circolano le voci sulle decisioni che verranno prese di l a poco: sostanziale esautorazione del legislativo e conferimento delle funzioni esecutive ad una commissione composta da Sieys, Ducos e Bonaparte. Constant prende carta e penna e scrive a Sieys, protestando contro lo scioglimento del legislativo, nella convinzione che solo quest'ultimo potr costituire un argine contro le fortissime ambizioni di Napoleone. Il colpo d'occhio di Constant non potrebbe essere pi rapido e lungimirante; ma, ancora una volta, le sue parole cadranno nel vuoto. Negli anni che seguono egli riuscir a trovare posto nel Tribunato, l'unico organismo costituzionale nel quale sopravviva una parvenza di libert; di qui svilupper, in nome delle libert individuali, una limpida battaglia di opposizione, che gli coster, nel 1802, la brusca interruzione della sua carriera parlamentare. Con l'uscita di scena dal Tribunato, la vicenda di Constant perde la sua aderenza diretta alle vicende storiche e politiche. Il ritorno ad una vita privata - una sorta di esilio - non segner tuttavia una fase di lungo silenzio, interrotto, come si a lungo pensato, soltanto dai suoi lavori letterari. Certo: Constant, durante questi lunghi dieci anni, partecipa alle attivit del circolo di Coppet, scrive il romanzo che lo render celebre come letterato (l'Adolphe), riprende i suoi amati studi sulle religioni e viaggia per la Germania, conoscendo Goethe, Schiller e Schelling. Ma, in realt, questi sono gli anni forse pi fruttuosi anche per il suo pensiero politico: tra il 1800 e il 1806, infatti, egli elabora una compiuta dottrina politica e costituzionale, che rimarr consegnata a due poderosi trattati, rimasti inediti per ovvie ragioni politiche e tornati alla luce soltanto quarant'anni fa. Gli anni dell'esilio si chiudono, per Constant, cos come si erano aperti: nel segno di Napoleone. Se l'estromissione dal Tribunato era stata infatti determinata dal crescente dispotismo del Primo Console, sar la sconfitta dell'Imperatore a segnare il ritorno di Constant alla politica attiva. Dopo la battaglia di Lipsia (1813), Constant pubblica infatti Conquista e usurpazione, un brillante libello antinapoleonico che gli d larga fama e segna il suo ritorno sulla scena politica. Negli anni della Restaurazione - al di l della clamorosa vicenda dei Cento Giorni (quando Constant accetta di redigere, proprio su incarico di Napoleone, la Costituzione che avrebbe dovuto liberalizzare l'Impero) - egli sar il protagonista di una lotta ininterrotta, nel nuovo quadro della monarchia costituzionale, per la difesa dei princpi e degli istituti liberali, sia dai banchi del Parlamento (dove guider l'opposizione liberale), sia attraverso le opere che, estratte in gran parte dagli inediti del periodo dell'esilio, verr pubblicando dal 1814 in poi (tra le pi famose i Princpi di politica e il Corso di politica costituzionale). Nel luglio del 1830, sebbene vecchio e ammalato, Constant partecipa agli eventi rivoluzionari, redigendo una dichiarazione in favore di Luigi Filippo e aprendo, in barella, il corteo insurrezionale. Muore pochi mesi dopo. Come avevo anticipato, ci troviamo di fronte ad un protagonista di primo piano delle straordinarie vicende storico-politiche e culturali di quegli anni. Se l'espressione non fosse abusata, verrebbe voglia di definire Constant come il prototipo del "filosofo militante", ossia di quel pensatore la cui riflessione si alimenta di passione civile e si intreccia con la vita politica nel suo senso pi ampio e pi alto. Ma veniamo al suo pensiero politico-costituzionale. Non potendo restituirne l'articolazione teorica nella sua complessit, mi soffermer su tre punti particolarmente significativi: la critica a Rousseau, la celebre

distinzione tra libert antica e libert moderna e la dottrina costituzionale. Partiamo dunque dalla critica a Rousseau. Constant distingue nettamente tra quelli che chiama i due princpi di Rousseau sulla sovranit. Il primo stabilisce che ogni autorit che governa una nazione deve emanare dalla volont generale, cio dall'intero corpo sociale; il secondo consiste nella esplicita riduzione delle clausole del Contratto sociale a una sola, cio all'alienazione completa di ogni associato, con tutti i suoi diritti, alla comunit. Tra questi due princpi, afferma Constant, occorre fare una netta distinzione: il primo, infatti, la pi salutare delle verit, il secondo il pi pericoloso degli errori. Vediamo perch. Il primo principio attribuisce legittimit soltanto a quel potere che deriva dalla societ stessa, ossia che si fonda sul suo consenso. Si tratta, in buona sostanza, del principio della sovranit popolare, in virt del quale "titolare" del potere la societ nel suo complesso; ne consegue che pu definirsi legittimo soltanto quel potere il quale venga esercitato sulla base di un esplicito mandato, conferito dagli individui che compongono la societ. Sebbene Constant sia pienamente consapevole dello sfavore che circonda tale principio in quegli anni (la volont generale richiamava infatti alla mente la terribile esperienza del giacobinismo e del Terrore), egli nondimeno si dichiara completamente d'accordo con Rousseau. A meno di non resuscitare la dottrina del diritto divino, afferma il teorico liberale, si dovr convenire che esistono soltanto due fonti della sovranit, il consenso o la forza; e soltanto la prima, a suo parere, d luogo ad un potere legittimo. Quindi, per quanto riguarda il problema della titolarit - "chi" il sovrano legittimo - la posizione di Constant coincide con quella del Ginevrino. Passiamo ora al secondo principio di Rousseau. Esso prevede - come sappiamo e come abbiamo appena ricordato - una cessione dei diritti individuali al potere politico addirittura pi larga di quella proposta dall'assolutista Hobbes: se per quest'ultimo, infatti, gli individui conservavano almeno il diritto alla vita, per Rousseau la cessione dei diritti totale, senza riserve. Qui Constant si dichiara in completo disaccordo con Rousseau: tale principio costituisce, a suo dire, la giustificazione di ogni dispotismo, giacch il sovrano, in base ad esso, verr a disporre di un potere illimitato: nessun diritto individuale potr essere infatti invocato per limitare la sfera d'azione del sovrano. Eppure Rousseau aveva escluso che il suo modello comportasse rischi liberticidi: in primo luogo, argomentava il Ginevrino, perch la condizione (cio la cessione totale dei diritti) eguale per tutti, e quindi nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri; in secondo luogo, perch tale cessione avviene nei confronti della comunit medesima, ragion per cui quei diritti che gli individui cedono in quanto "privati" li riprendono in quanto "cittadini", ossia in quanto membri perfettamente eguali di quel corpo collettivo che il sovrano. E poich il sovrano coincide con il corpo sociale, evidente che esso non pu nuocere n all'insieme dei suoi membri, n a qualcuno in particolare. A questa conclusione Constant rivolge una formidabile obiezione "pratica": Rousseau dimentica, egli scrive, che tutte le garanzie offerte da quell'essere astratto che egli chiama il 'sovrano' sono dovute esclusivamente al fatto che esso si compone di tutti gli individui, senza eccezione alcuna. Ma non appena quel sovrano dovr esercitare praticamente il suo potere, egli - dal momento che non pu farlo in prima persona - sar costretto a delegarlo a vari organi e, di conseguenza, tutte le garanzie cadranno. Il potere esercitato in nome di tutti sar in realt nelle mani di pochi: dunque non vero, conclude Constant, che la condizione rimane eguale per tutti; cos come non vero che nessuno avr interesse a renderla pi onerosa per gli altri, dal momento che esisteranno cittadini i quali, di fatto, avranno pi potere degli altri. Ma perch ho definito "pratica" questa obiezione? Perch con essa Constant non mette in discussione il principio della cessione totale dei diritti individuali, bens la realizzabilit pratica di un sistema in cui i governanti coincidano con i governati (cio, della democrazia diretta). La sua obiezione si basa su una lucida e realistica analisi delle nazioni moderne, che si differenziano nettamente da quelle antiche. Mentre le prime, infatti, erano di dimensioni assai ristrette, prevedevano l'esistenza degli schiavi, si basavano essenzialmente sulla guerra e trascuravano il commercio, le seconde sono invece caratterizzate da una grande estensione territoriale, da una popolazione assai numerosa e dalla crescente tendenza a procurarsi le risorse necessarie attraverso il commercio, piuttosto che tramite la guerra; le nazioni moderne, inoltre, grazie al progresso morale e culturale, non ammettono pi la schiavit, cosicch quasi tutti i cittadini sono costretti a lavorare; infine, sono caratterizzate da un intenso amore per l'indipendenza individuale. Tutte queste caratteristiche

rendono semplicemente irrealizzabile la partecipazione diretta e costante di tutti gli individui all'esercizio della sovranit: il loro numero e le loro attivit lavorative non lo permetterebbero comunque, e in ogni caso la loro "mentalit" non li spinge in quella direzione. Ne consegue che, anche nelle societ basate sul consenso, i governanti rimarranno distinti dai governati. Ma Rousseau ben lontano dal realismo e dalla lucidit di cui d prova Constant: egli ha in mente il modello della polis, o meglio, quella versione idealizzata che ne fa un modello di societ organica, coesa e compatta; un modello che sar alla base anche delle riflessioni politiche di Hegel e di Marx, e che porter tutti costoro ad avvertire come laceranti e negative (come "scissioni" da superare) quelle distinzioni - tra societ e Stato, tra individuo e cittadino, tra pubblico e privato - nelle quali Constant individuer non solo il contrassegno della modernit, ma anche e soprattutto la garanzia delle sue molteplici libert e del suo benessere. Ma torniamo all'obiezione "pratica": la tesi di Rousseau (che sar poi ripresa dai democratici dell'Ottocento) - appartenendo a tutti, il potere non potr abusare contro alcuno - cade nel momento della sua traduzione in pratica, perch di fatto il potere viene sempre esercitato da pochi (i parlamentari, i ministri, i vari funzionari dell'amministrazione pubblica). Ne consegue che anche nelle societ democratiche rimane in piedi la necessit di un sistema di garanzie che protegga i cittadini dai possibili abusi del potere. Se tali garanzie vengono a mancare, i rischi sono immensi: da un lato, i singoli individui si trovano sottomessi senza riserve alla volont generale; dall'altro, la volont generale finisce per coincidere con la volont di quei pochi che detengono il potere. Si produce cos una "beatificazione" del potere sovrano, che rende il "dispotismo democratico", che si ammanta della legittimazione popolare, ben pi pericoloso del "dispotismo autocratico". Ma la critica constantiana a Rousseau non si ferma all'obiezione "pratica": il modello teorizzato dal Ginevrino considerato pericoloso da Constant non solo perch la democrazia pura e diretta praticamente irrealizzabile, ma anche (e soprattutto) perch, qualora lo fosse, sarebbe il peggiore dei dispotismi. Per comprendere l'argomentazione constantiana occorre rifarsi alla sua celebre distinzione tra libert antica e libert moderna. Che cosa intende oggi per libert - si chiede Constant nel famoso Discorso del 1819 - un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d'America? Egli intende il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere n arrestato, n detenuto, n messo a morte, n maltrattato in alcun modo a causa dell'arbitrio di uno o pi individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua propriet e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne ottenere il permesso e senza rendere conto delle proprie intenzioni e della propria condotta. Il diritto di riunirsi con altri individui sia per conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che egli i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare le sue giornate o le sue ore nel modo pi conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di ciascuno di influire sulla amministrazione del governo, sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l'autorit sia pi o meno obbligata a prendere in considerazione. La libert dei Moderni coincide dunque in larga parte con i diritti individuali di libert: libert di pensiero, libert religiosa, libert economica, libert di spostamento, libert di associazione, garanzie giudiziarie. Tali libert conferiscono agli individui, su ognuna di quelle materie, la facolt di fare o di non fare, ossia la libert di agire a proprio talento, senza che lo Stato li possa ostacolare, n con divieti n con comandi. Ognuno di noi, ad esempio, libero di riconoscersi (o non riconoscersi) in una qualsiasi religione, oppure di disconoscerle tutte; lo Stato non ha comunque voce in capitolo, se non quella di tutelare le nostre scelte individuali e di impedire che esse possano ledere i diritti altrui. La libert coincide, in questo caso, con una condizione di indipendenza individuale dal potere, con uno spazio privo di ostacoli, sgombro, vuoto: sta a noi usarlo come meglio crediamo. A questo insieme di libert civili (dette anche libert "negative" o libert "private"), che costituiscono il cuore della libert moderna, si aggiunge poi la libert politica (detta anche libert "positiva" o "pubblica"), che consiste nella possibilit di prendere parte alle decisioni collettive, in genere tramite l'elezione di rappresentanti. La libert degli Antichi, secondo Constant, era invece una cosa ben diversa: essa consisteva

nell'esercitare collettivamente, ma direttamente, molte funzioni della sovranit, nel deliberare sulla piazza pubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare giudizi; nell'esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o assolverli. Si trattava quindi di una libert esclusivamente pubblica, consistente nel partecipare direttamente alle decisioni dello Stato. E poich tali decisioni venivano prese con il concorso di tutti, gli individui - in quanto cittadini - erano liberi; come privati, tuttavia, essi non possedevano alcuna libert, perch la sovranit collettiva non riconosceva alcun limite alla propria giurisdizione. La libert di cui godevano gli Antichi, in quanto cittadini, poteva dunque andare di pari passo con il totale asservimento degli individui. Ed precisamente questa la libert teorizzata da Rousseau: una libert che si identifica con l'autonomia del corpo collettivo, laddove la libert moderna, secondo Constant, in larga parte una condizione di indipendenza individuale. Apparentemente si tratta soltanto di due diverse forme di autodeterminazione (e quindi di libert): con la prima siamo liberi perch, direbbe Rousseau, obbediamo alle leggi che noi stessi ci siamo dati; con la seconda siamo liberi perch, spiegherebbe Constant, nessuno pu ostacolare le nostre scelte individuali. Rimane tuttavia una differenza: mentre la libert antica, riproposta da Rousseau, una forma di autodeterminazione collettiva, quella moderna, difesa da Constant, una forma di autodeterminazione individuale. E non una differenza di poco conto. Risulta evidente, infatti, che nelle decisioni collettive si formano inevitabilmente una maggioranza e una minoranza; e quando non facciamo parte della prima, noi non obbediamo affatto a noi stessi, ma alla maggioranza. O meglio, a quella minoranza che esercita il potere in nome della maggioranza. Ecco perch la democrazia pura, che non attribuisce ai cittadini nessuna garanzia in quanto individui, il peggiore dei dispotismi: perch ci che nessun tiranno oserebbe fare in suo nome, dice Constant, i governanti "democratici" lo possono imporre nel nome del popolo. Il contrasto di fondo che oppone Constant a Rousseau riguarda dunque il modo stesso di concepire la libert: la libert autentica, secondo Constant, non quella teorizzata dal Ginevrino, ma quella di cui godono i Moderni. Essa consiste in un'ampia sfera di indipendenza individuale, nella quale il potere non ha il diritto di intervenire e che anzi ha il dovere di tutelare. Viceversa, nella societ teorizzata da Rousseau le autodeterminazioni collettive (le leggi adottate dal corpo sovrano) sostituiscono totalmente le autodeterminazioni individuali. Non esistono infatti libert individuali, ma solo libert collettive. Il corpo collettivo - ossia, il potere dello Stato - pu occuparsi di tutto: le leggi possono estendersi a qualsiasi aspetto della realt, senza incontrare alcun ostacolo. La societ allora, in quanto corpo collettivo, sar totalmente sovrana; gli individui, in quanto singoli, saranno totalmente asserviti. E' questa la libert che Rousseau e i giacobini hanno proposto alla Francia: una libert anacronistica, che la Francia non poteva volere e contro la quale si rivoltata. La libert dei Moderni, ci dice Constant, ben diversa: essa consiste in un'ampia sfera di indipendenza individuale, combinata - e non sostituita! - con la libert politica (beninteso, esercitata tramite la forma rappresentativa). I moderni non vogliono tutele soffocanti o, quel che peggio, liberticide. La conclusione di Constant di quelle inequivocabili: la libert individuale, lo ripeto, ecco la vera libert moderna. Attenzione, per. Ci non significa che Constant intenda rinunciare alla libert politica; egli infatti aggiunge subito dopo: La libert politica ne [della libert individuale] garanzia; la libert politica quindi indispensabile. Qui Constant esprime con particolare chiarezza il senso della sua posizione: le libert civili si devono combinare con la libert politica, giacch soltanto quest'ultima ci consente di controllare il potere, che tende sempre ad abusare delle sue prerogative; ed il potere, in questa sua tendenza, pu trovare un alleato nell'eccesso di privatismo che caratterizza i moderni. Il pericolo della libert moderna - scrive Constant, sempre nel Discorso - che, assorbiti nel godimento della nostra indipendenza individuale e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, noi possiamo rinunciare troppo facilmente al nostro diritto a partecipare al potere politico. Quindi quello di Constant non un liberalismo angustamente privatistico, come spesso stato ritenuto (e non solo dalla critica marxista); viceversa un liberalismo cosciente dei rischi insiti nel privatismo dei

moderni e consapevole del ruolo insostituibile della partecipazione politica. Ci non consente, tuttavia, di sostenere che Constant sia un democratico: non solo e non tanto perch egli sia contrario al suffragio universale (che del resto nessuno proponeva, in quegli anni), ma perch le libert politiche rappresentano, nel suo pensiero, lo strumento per garantire le libert civili; le prime sono un mezzo, le seconde un fine. Nella migliore delle ipotesi, si potrebbe sostenere che Constant sia un pensatore liberal-democratico, giacch ha compreso che libert civili e libert politiche, indipendenza e partecipazione, devono essere combinate, in quanto la totale politicizzazione dell'esistenza, cos come la sua privatizzazione integrale, costituiscono pericoli opposti ma simmetrici al mantenimento della libert dell'uomo. Ma per sostenere che Constant sia un liberal-democratico bisogna assumere che la democrazia sia soltanto il prolungamento e il perfezionamento quantitativo del liberalismo, cio che essa non abbia fatto che universalizzare, quando la situazione storica lo ha consentito, quei diritti politici che, insieme ai diritti civili, il liberalismo aveva gi parzialmente realizzato con il sistema censitario. Tale interpretazione sicuramente legittima (e a chi vi parla non dispiace affatto); altrettanto sicuro, tuttavia, che essa non rende ragione del del lungo conflitto che ha opposto liberali e democratici nel corso dell'Ottocento, n delle differenze teoriche e assiologiche che tuttora distinguono la tradizione liberale da quella democratica; infine, in essa non si potr sicuramente riconoscere tutta la tradizione democratica e, in particolare, le sue componenti pi pure. Come abbiamo visto, l'errore di fondo che Constant attribuisce a Rousseau quello di aver impostato il problema della legittimit del potere esclusivamente in termini di titolarit ("chi" il legittimo titolare del potere politico?), trascurando completamente la questione dell'estensione ("quanto ampio" deve essere il potere politico, a prescindere da chi lo detenga?). La delimitazione a priori della sfera d'azione del potere con la correlativa istituzione di un'ampia sfera di diritti individuali - costituisce dunque il primo e irrinunciabile passo per garantire la libert. Senza questa limitazione fondamentale, anche le tecniche costituzionali, afferma Constant, diventano inutili: si ha un bel dividere il potere, nel senso di assegnarlo ad organi diversi; se la sua somma totale illimitata, la libert persa. Dunque Constant convinto che la garanzia fondamentale della libert risieda nella "limitazione materiale" del potere[34], la quale a sua volta garantita dallo spirito pubblico e dalla libert di stampa. Ma compiuto questo primo fondamentale passo, certamente indispensabile procedere all'individuazione di un sistema di forme legali che regoli la struttura e l'esercizio del potere ("limitazione formale"). I punti salienti del costituzionalismo constantiano sono la teorizzazione del potere neutro e preservatore, la forte impronta garantista (nel duplice aspetto dell'indipendenza della magistratura e delle garanzie giudiziarie) e l'insistenza sull'importanza del potere municipale (e dunque di forti autonomie locali). Prima di addentrarci nell'esame del sistema costituzionale non resta che fare cenno all'evoluzione del suo autore, che da repubblicano divenne monarchico. Come stato opportunamente osservato, tale cambiamento non implica questioni di principio, ma si risolve in una questione prevalentemente tecnica. Constant concepisce la dottrina costituzionale come una "dottrina dei mezzi", rispetto a quei "fini" che vengono individuati dalla teoria politica. Ora, circa i fini della politica Constant non ha mai cambiato idea, dagli anni del Direttorio a quelli della Restaurazione. Non a caso, nel 1815, quando d alle stampe i Princpi di politica, egli scrive: spesso, nelle ricerche che vado pubblicando, si ritroveranno non soltanto le stesse idee, ma le stesse parole di miei precedenti scritti. Presto saranno venti anni che mi occupo di considerazioni politiche e ho sempre professato le stesse opinioni, formulato i medesimi voti. Allora domandavo la libert individuale, la libert della stampa, l'assenza di arbitrio, il rispetto per i diritti di tutti. E' ci che reclamo oggi con zelo non minore e con pi grande speranza. Ma non soltanto sul piano dei princpi politici che si pu riscontrare una indiscutibile coerenza. Anche sul piano dei mezzi costituzionali si d una sostanziale continuit: i princpi ispiratori e l'architettura complessiva del costituzionalismo constantiano rimangono infatti immutati, sia nella versione repubblicana (sino al 1803), sia in quella monarchica (nel 1814-15). In breve: il passaggio dalla forma repubblicana a quello monarchica nasce dall'adattamento dei mezzi alle circostanze storiche e politiche. Dopo il 1814 Constant convinto che la soluzione monarchico-costituzionale rappresenti l'unica strada, nell'Europa della Restaurazione, per conciliare libert e stabilit.

Ma veniamo all'assetto dello Stato constantiano, che vede il potere sovrano suddiviso in cinque poteri. In primo luogo, abbiamo il potere neutro e preservatore, che nella versione repubblicana veniva attribuito ad un organo costituito ad hoc, mentre nella versione monarchica viene attribuito al re. Si tratta di uno dei tratti pi originali del costituzionalismo constantiano: il potere preservatore ha lo scopo di intervenire, quale supremo garante dell'organismo costituzionale, ogniqualvolta quest'ultimo sia minacciato dall'urto tra i poteri attivi (ossia, tra l'esecutivo e il legislativo). Le ragioni che spingono Constant a escogitare tale istituto - modellato sulle funzioni arbitrali del monarca costituzionale inglese - vanno collocate nella tormentata vicenda rivoluzionaria della Francia: dopo l'89, infatti, la Francia era andata incontro ad una serie impressionante di fallimenti costituzionali, tutti derivanti dal fatto che il legislativo e l'esecutivo si erano svincolati, a turno, dai loro limiti, finendo per distruggere le garanzie costituzionali. Cos era avvenuto con la Convenzione egemonizzata da Robespierre, e cos si era ripetuto con il Direttorio di Barras, sino a culminare nel dispotismo napoleonico. Il potere preservatore chiamato a risolvere questi problemi, ossia a svolgere la funzione di giudice supremo degli altri poteri: quando questi entrano in contrasto irrimediabile tra di loro esso interviene, ricorrendo alle temibili armi dello scioglimento (del legislativo) o della destituzione (dell'esecutivo). Ma per assolvere un simile compito, il potere preservatore deve possedere le caratteristiche che gli consentano di essere realmente imparziale, ossia egualmente distante dagli interessi dell'esecutivo come da quelli del legislativo. E' a questo scopo che Constant lo qualifica come potere neutro, ossia nonattivo; ci significa che in nessun caso esso potr sostituirsi - esercitando in modo vicario funzioni legislative o esecutive - ai due poteri che deve giudicare. E significa altres che i suoi provvedimenti saranno esclusivamente politici: ad essi non dovr seguire l'irrogazione di alcuna pena. Se nella fase repubblicana la "terziet" ed indipendenza del potere preservatore viene raggiunta con un complesso congegno di meccanismi istituzionali, nella fase monarchica esso verr affidato semplicemente al monarca, il quale, in virt della sacralit della sua persona, perci stesso superiore ed equidistante rispetto agli altri poteri. Ci implica, come facile intuire, che nel costituzionalismo constantiano il potere del re sar soltanto un potere neutro e che pertanto il monarca non eserciter direttamente n funzioni esecutive, n funzioni legislative. Esso costituir il punto di equilibrio sul quale poggia l'intero sistema, impedendo che questo degeneri in forme arbitrarie, siano queste di tipo assembleare o governativo. Al potere rappresentativo Constant riconosce un ruolo cruciale: nessuna libert pu esistere in un grande paese, egli afferma, senza assemblee forti, numerose e indipendenti. Nella fase monarchica del suo pensiero Constant scinde tale potere in due rami: il potere rappresentativo durevole (la Camera alta, di tipo ereditario) e il potere rappresentativo dell'opinione (la Camera bassa, di tipo elettivo). L'istituzione della Camera ereditaria resa necessaria, secondo Constant, dall'esistenza del monarca ereditario: in un paese che respinga ogni distinzione di nascita non si potrebbe certo accettare che la suprema carica dello Stato sia ereditaria. La monarchia ne verrebbe quindi indebolita, e ci sarebbe esiziale per l'organismo costituzionale, visto il ruolo assegnatole di potere neutro e preservatore. Sotto questo punto di vista, quindi, la Camera ereditaria svolge una funzione difensiva nei confronti del potere reale; ma essa svolge, al tempo stesso, anche una funzione limitativa, dal momento che la carica di Pari, una volta assegnata, diventa ereditaria, e quindi fa s che il membro della Camera alta entri in una condizione di effettiva indipendenza dal potere reale. Infine, la presenza di due Camere - l'una ereditaria, l'altra elettiva - dovrebbe garantire un equilibrio dinamico al sistema politico-costituzionale, consentendo l'incontro tra le esigenze di ordine e continuit e le istanze di trasformazione proprie di una civilt in evoluzione. Il potere esecutivo viene denominato potere ministeriale, per sottolinearne la sua distinzione dal potere reale. Nella versione del 1815 esso viene nominato (ed eventualmente revocato) dal re ed esercita, sulla base della fiducia congiunta del monarca e della camere, le funzioni di governo. Fondamentale, in questo ambito, il principio della responsabilit dei ministri e dei funzionari inferiori, che Constant afferma con forza. I ministri possono essere accusati per tre motivi: per abuso del loro potere legale; per atti illegali pregiudizievoli all'interesse pubblico; per attentati contro la libert. In quest'ultimo caso i ministri rientrano nella classe dei cittadini, e quindi devono essere giudicati dai tribunali ordinari; nei primi due casi, invece, essi devono rispondere ad un tribunale speciale, costituito dalla Camera dei Pari. Mettere sotto accusa dei ministri, infatti, come intentare un processo tra il potere esecutivo e il potere del popolo; occorre pertanto individuare un giudice che abbia un interesse parimenti distinto da entrambi i contendenti; ed precisamente quello che accade con la Camera ereditaria. Ma non sufficiente aver istituito la responsabilit per i ministri;

essa deve venire estesa a tutti i gradi della pubblica amministrazione. Se si punisce soltanto il ministro che d una disposizione illegale e non il funzionario che la esegue - osserva Constant - si colloca la riparazione tanto in alto da non poterla spesso conseguire. I funzionari non possono invocare il principio dell'obbedienza, perch questa non pu mai essere cieca; essi risponderanno pertanto dei loro errori di fronte ai tribunali ordinari. Quanto al potere giudiziario, esso - nella versione monarchica - viene nominato dal re e trova nel principio della inamovibilit la garanzia della propria indipendenza. Accanto ad esso, tuttavia, si devono prevedere pene severe per quei giudici che si allontanino, nell'esercizio delle loro funzioni, dall'osservanza delle leggi; inoltre per il cittadino deve sempre essere prevista la possibilit di appellarsi contro una sentenza. La concezione garantista di Constant si fonda infine su altri tre capisaldi: il sistema della giuria, l'affermazione dei diritti dei condannati e il rigoroso rispetto della forme legali. Il giurato, dice Constant, giudica come giudicherebbe il buon senso di ogni individuo, come giudicherebbe lo stesso accusato se non si trattasse di se stesso. Vale la pena di ricordare, sia pure per inciso, che per Constant il sistema della giuria contribuisce in modo fondamntale alla formazione di un'etica civile, perch chiama qualsiasi cittadino alla conoscenza delle leggi e dell'amministrazione pubblica e lo solleva alla considerazione dei princpi che tutelano la sua libert e la sua sicurezza. Per quanto riguarda i condannati, Constant sostiene che essi non devono vedere gravata arbitrariamente la propria pena: questa deve essere proporzionata alla colpa, priva di qualsiasi supplizio che leda la dignit umana e irrogata sulla base di leggi precedenti il delitto. Il diritto di grazia rappresenta infine l'ultima risorsa contro l'inevitabile inconveniente delle leggi, vale a dire il loro carattere generale e astratto, che non pu prevedere le infinite sfumature della realt. Quanto alle "forme legali", Constant osserva come spesso si invochi la loro attenuazione o abolizione allegando il pretesto della sicurezza pubblica. Contro la tentazione ricorrente della "giustizia sommaria", Constant adduce due argomenti fondamentali: in primo luogo, le forme legali sono una salvaguardia e dunque la loro soppressione equivale all'irrogazione di una pena; ma sottomettere l'accusato a questa pena come punirlo prima di averlo giudicato. In secondo luogo, tali forme o sono necessarie o sono inutili: se sono inutili, si chiede Constant, perch conservarle nei processi ordinari? E se sono necessarie, perch privarsene nei processi pi importanti? Quando si tratta di una colpa leggera e quando l'accusato non minacciato nella vita o nell'onore - scrive Constant - la sua causa viene istruita nel modo pi solenne ... ma quando si tratta di un misfatto spaventoso, e quindi dell'infamia e della morte, si sopprimono d'un colpo tutte le garanzie! si chiude il codice delle leggi, si abbreviano le formalit! come se si pensasse che quanto pi un'accusa grave, tanto pi sia superfluo esaminarla. L'ultimo pilastro dell'edificio costituzionale constantiano il potere municipale, che consiste in sostanza in una articolata rete di poteri locali, ai quali vengono assegnate competenze amministrative sulla base di un criterio territoriale. Vale la pena di sottolineare l'importanza di una simile innovazione, che precede di quasi cinquant'anni le ben pi celebri riflessioni di Tocqueville sui pregi dell'autogoverno e sui difetti del centralismo amministrativo. Con l'istituzione di un potere locale, al quale vengono riconosciute sfere di autonoma competenza, Constant ha infatti tentato di impedire, come stato giustamente osservato, che la Francia fosse rinchiusa nella costrizione di una centralizzazione dalla quale essa uscir, a fatica, solo alla fine del XX secolo.

11. Hegel
Cenni biografici
Georg Wilhelm Friedrich Hegel nasce nel 1770 a Stoccarda, dove compir gli studi ginnasiali. Nel 1788 si iscrive all'Universit di Tubinga, dove si dedica a studi teologici e filosofici e dove stringe vincoli di amicizia con Hlderlin e Schelling. Terminati gli studi, nel 1793 si trasferisce a Berna, dove fa il precettore; a questo periodo, tra il 1793 e il 1796, che risalgono alcuni importanti scritti giovanili.

Nel 1797 si trasferisce a Francoforte, di nuovo come precettore. A questo periodo risalgono scritti filosofici assai importanti, come Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. Compone anche un commentario all'opera sull'economia politica di Steuart e inizia il saggio che verr pubblicato postumo con il titolo La costituzione della Germania. Nel 1799, grazie all'eredit paterna, pu abbandonare il precettorato e dedicarsi interamente agli studi. Nel 1801 si abilita all'insegnamento accademico all'Universit di Jena. In quella citt pubblica il saggio intitolato Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling e, insieme a quest'ultimo, cura la pubblicazione del "Giornale critico della filosofia". All'Universit tiene corsi di logica, filosofia della natura e filosofia dello spirito. Nel 1805 viene nominato professore straordinario. Nel 1806, durante l'occupazione francese, Hegel deve sospendere la propria attivit. Alla fine dell'anno si trasferisce a Bamberga, dove, nel 1807, pubblica la Fenomenologia dello spirito. Sempre a Bamberga Hegel si occupa come redattore della locale gazzetta. Nel 1808 si trasferisce a Norimberga, dove viene nominato preside del locale ginnasio. Tra il 1812 e il 1816 pubblica la Scienza della logica. Nel 1816 viene nominato professore di filosofia all'Universit di Heidelberg. Nel 1817 pubblica l'Enciclopedia delle scienze filosofiche e il saggio politico intitolato Valutazione degli atti a stampa dell'Assemblea dei deputati del regno del Wrttemberg negli anni 1815 e 1816. Nel 1818 viene nominato professore all'Universit di Berlino. Nel 1821 pubblica la Filosofia del diritto. L'insegnamento berlinese di Hegel ha enorme risonanza, non solo in Prussia, ma in tutta la Germania colta. Nel 1822, 1824 e 1826 Hegel compie alcuni viaggi all'estero (in Belgio e in Olanda, a Praga, a Vienna e a Parigi). Nel 1830 viene nominato rettore dell'Universit di Berlino. Muore nel novembre del 1831, colpito dal colera.

Il pensiero politico
Nella storia del pensiero filosofico Hegel rappresenta una presenza ingombrante, con la quale, nel bene o nel male, necessario fare i conti: da qualsiasi parte si guardi alla filosofia contemporanea - scriveva Bobbio nel dopoguerra - Hegel sta sempre in mezzo, e sembra, con la sua gigantesca mole quasi precludere la vista di ci che sta al di l. Hegel l'inizio, oltre il quale si pu anche non andare; ed l'inizio proprio perch insieme la conclusione di tutto quello che lo precede. Tutte le strade conducono ad Hegel; o, che lo stesso, tutte le strade partono da Hegel.[35] Ed infatti due tra le principali correnti della filosofia contemporanea sono state in qualche modo ricondotte, pi o meno persuasivamente (ma sempre con qualche ragione), a Hegel: successo con il marxismo (Marx ed Hegel), cos come accaduto con l'esistenzialismo (Kierkegaard e Hegel, Sartre ed Hegel, Heidegger ed Hegel). A ci si aggiungano le tradizionali interpretazioni idealistiche di Hegel (secondo la linea Kant, Fichte, Schelling), le interpretazioni irrazionalistiche, che vedono nel pensatore di Stoccarda un teologo e un mistico, e quelle posizioni che si riconnettono ad Hegel in nome dello storicismo. Il fatto che il pensiero di Hegel rappresenta l'ultima grande sintesi filosofica, l'ultimo tentativo di costruire un sistema filosofico unitario, totalizzante ed esaustivo. Non certo questa la sede per esporre, o anche solo tratteggiare, un simile sistema filosofico. Vorrei per riuscire ad illustrarne alcune caratteristiche, perch risultino pi chiari, in seguito, taluni aspetti del suo pensiero politico. Di Hegel - e del suo idealismo assoluto - sono state avanzate, come dicevo, moltissime interpretazioni, che accentuano aspetti diversi della sua opera; tuttavia, anche se con notevole semplificazione, tali interpretazioni possono essere ricondotte a due posizioni principali.

La prima vede in Hegel l'ultimo grande teologo cristiano. La sua sarebbe una filosofia di ispirazione religiosa, perch avrebbe al suo fondo un tema tipicamente religioso: il rapporto tra finito e infinito. Hegel come i suoi amici romantici - sarebbe stato, sin dai suoi anni giovanili, appassionato e tormentato dal tema (e dal bisogno) dell'Assoluto. Da questo punto di vista, la cultura illuministica, imperniata sulle regole di un intelletto chiaro e distinto, appare ad Hegel e ai romantici tedeschi come una cultura priva di contenuto e di vita, astratta e dualistica. Essa ha separato la ragione dal sentimento, la vita pubblica da quella privata, l'individuo dallo Stato, l'uomo da Dio; ha ridotto la natura ad un meccanismo quantitativo; ha prodotto una definizione astratta dell'uomo, nella quale si persa tutta la particolarit del singolo, derivante dalla sua appartenenza nazionale, della sua cultura, in una parola, della sua storia. La conoscenza intellettuale tipica dell'Illuminismo, procedendo per concetti generali e astratti, logicamente concatenati, avrebbe prodotto un progressivo allontamento dalla realt con tutta la sua ricchezza e la sua molteplicit; inoltre avrebbe prodotto una serie infinita di dualismi, che hanno separato l'uomo da tutto ci con cui l'uomo intimamente legato, rendendolo cos scisso e infelice. Questa critica all'Illuminismo - che nasce dal bisogno di unit e di conciliazione, dalla ricerca dell'Assoluto comune tanto ad Hegel quanto alla cultura romantica. E in ci sta lo sfondo religioso di queste posizioni: ogni ricerca di assoluto infatti, in quanto tale, una ricerca di tipo religioso. Ma la risposta di Hegel a questo bisogno sar diversa da quella degli altri protagonisti del Romanticismo: egli, infatti, per recuperare il rapporto con l'Assoluto non si affider al sentimento, al sapere immediato o alla fede, ma alla ragione. Si tratter - naturalmente - di una ragione ben diversa da quella degli illuministi: non il cartesiano intelletto chiaro e distinto, che si rif al modello del sapere matematico-geometrico, ma una ragione speculativa e dialettica, capace cio di accogliere dentro di s tutta la ricchezza e la contraddittoriet del reale, in un quadro organico. In questa prospettiva il mondo apparir ad Hegel come la manifestazione di uno spirito infinito, manifestazione che tuttavia oscura e incompleta e che la filosofia ha il compito di chiarire e penetrare. La filosofia speculativa dovr insomma consentire quella riconciliazione dell'infinito con il finito, di Dio con il mondo, che neppure il Cristianesimo riuscito a condurre a compimento. Riconciliazione significa superamento di tutti i dualismi e ritorno alla totalit perduta; quando questa totalit sar raggiunta, per opera dell'uomo, il finito avr acquistato un valore infinito. Alcuni critici sostengono dunque che al fondo della filosofia di Hegel vi sarebbe un problema di salvezza. In questo senso essa sarebbe una filosofia religiosa, anzi l'ultima filosofia cristiana e forse l'ultima grande teologia: la filosofia di Hegel altro non sarebbe altro che una ricerca di Dio, la quale sfocia in una grandiosa teodicea. La dialettica sarebbe lo strumento per cogliere questo risultato. L'Assoluto non pu che essere, infatti, qualcosa di profondamente unitario e organico; non pu che essere una totalit. Ma soltanto la dialettica consente di cogliere una simile entit, perch essa va al di l dell'intelletto - il quale vede dualismi ovunque: spirito e natura, natura e storia, ragione e sentimento, interno ed esterno, soggettivo e oggettivo, finito e infinito -, scoprendo che il ritmo stesso della realt divenire, ossia passaggio di s ad altro da s per tornare infine in s. L'idea che l'attivit spirituale (che per Hegel la realt stessa) sia questo divenire, questo passaggio continuo, gli consente di superare tutti i dualismi cui abbiamo fatto cenno, per comporre un quadro unitario, che tuttavia non perde nulla della molteplicit del reale. Se si riflette su quanto ho appena detto, si possono forse gi cogliere le fondamenta dell'altra interpretazione di Hegel, quella che vede in lui il fondatore dello storicismo, ossia di una filosofia laica, totalmente immanente, che si contrappone frontalmente alla religione, o che comunque la considera superata dalla filosofia: l'al di l - in questa prospettiva - non sarebbe che un falso problema, perch esiste solo l'al di qua. L'Assoluto, insomma, altro non che la realt stessa, il mondo, la storia. Avevo detto, poco fa, che la riconciliazione con l'Assoluto viene raggiunta per opera dell'uomo, il quale acquista in tal modo un valore infinito. Per essere pi precisi dovremmo dire che scompare il dualismo di finito e infinito, e ci poniamo finalmente dal punto di vista dell'Assoluto. Ma poich tutto ci realizzato dall'uomo e si compie nella storia, Dio e la Storia coincidono, tanto vero che la storia, per Hegel, altro non che la vera teodicea, cio la vera dimostrazione di Dio. Ma in tal modo sono poste le basi per una concezione totalmente immanente: Dio, infatti, non al di l, non qualcosa di diverso dal mondo e di trascendente rispetto ad esso; il vero infinito il finito stesso, e non c' quindi un altro orizzonte al di l della storia dell'uomo. In questa

prospettiva la filosofia di Hegel pu essere interpretata come una filosofia radicalmente immanentistica o atea (sia nella versione marxista, e quindi con forti connotazioni politiche, sia in quella heideggeriana, e quindi con forti connotazioni esistenzialistiche). Comunque la si voglia interpretare - ultima grande filosofia cristiana e quindi ultima grande teologia, oppure prima grande filosofia laica o atea - l'opera di Hegel rimane in ogni caso l'ultimo tentativo di conciliare la filosofia con la realt, tanto sul terreno politico quanto su quello religioso: la verit - scrive ancora una volta Bobbio - che il sistema di Hegel, nella sua complessit, le comprende tutte e due [le interpretazioni]: la filosofia di Hegel una teologia mondana. Tutto l'interesse di Hegel infatti concentrato su questo mondo: e in ci hanno ragione le interpretazioni immanentistiche o atee (siano esse marxiste o esistenzialistiche o storicistiche). Ma le categorie con cui viene compreso questo mondo sono categorie teologiche. La storia per Hegel, come accade nelle concezioni teologiche e trascendenti, il dramma dell'uomo alienato. Ma a differenza delle concezioni teologiche, la riappropriazione, che restituisce l'uomo a se stesso e segna la fine del dramma storico, appartiene a questo mondo. La sua dunque s una teologia, ma una teologia secolarizzata, immanente. La stessa che ritroveremo in Marx. Passiamo ora a vedere il pensiero politico, cercando di tenere presenti alcuni dei concetti che abbiamo appena illustrato: la polemica contro l'astrattezza e i dualismi della cultura illuministica; l'idea della fondamentale unitariet della realt; la filosofia come conciliazione con questa realt; infine, l'Assoluto (che poi la realt stessa) come totalit organica, ossia come entit nella quale le singole parti mantengono la loro individualit, ma solo convergendo a realizzare un'unit, un fine comune senza il quale non sarebbero nemmeno concepibili. Cominciamo col dire che Hegel ebbe sempre un vivissimo e appassionato interesse per la politica, intesa nel suo significato pi ampio: non solo, quindi, gli eventi immediatamente politici, ma anche le vicende precedenti che ne spiegano la genesi e permettono di intenderne le linee di sviluppo; non solo gli aspetti politico-istituzionali e politico-diplomatici, ma anche i processi sociali che stanno al di sotto di essi (Hegel si interess molto di economia, sulla qual cosa hanno ovviamente insistito soprattutto gli interpreti marxisti). Il primo scritto di Hegel, rimasto inedito fino al 1893, si intitola la Costituzione della Germania ed assai interessante per tre ragioni: il primo la rivendicazione appassionata dell'unit tedesca; il secondo, connesso al primo, il giudizio di Hegel su Machiavelli; il terzo che in esso troviamo gi, sia pure in nuce, tutti gli elementi che informeranno la concezione hegeliana dello Stato. Quanto al primo punto, la Costituzione della Germania si apre con una secca e drammatica constatazione: la Germania - dice Hegel - non pi uno Stato. L'infinito bisogno di unit politica - per usare un'espressione del Rosenkranz[36] - la molla che muove tutto il lavoro: da tale bisogno scaturisce il parallelo tra l'Italia di Machiavelli e la Germania di quel tempo, entrambe disarticolate e frammentate in una miriade di Stati e staterelli; e da questo parallelo nasce l'appassionata difesa che il filosofo tedesco fa del pensiero di Machiavelli. Ma ascoltiamo le parole dello stesso Hegel. Nel tempo della sventura, quando l'Italia correva verso la sua miseria ed era il campo di battaglia delle guerre che i prncipi stranieri conducevano nelle sue regioni, e insieme forniva i mezzi per le guerre e costituiva il prezzo di esse, quando essa affidava la sua propria difesa all'assassinio, al veleno, al tradimento o alle passioni della plebaglia straniera, le quali per i suoi assoldatori erano costose e devastatrici e ancor pi spesso temibili e pericolose, mentre poi tra i suoi condottieri alcuni si elevavano a prncipi; quando Tedeschi, Spagnoli, Francesi e Svizzeri la saccheggiavano e governi stranieri decidevano sulla sorte di questa nazione: allora, nel profondo sentimento della generale miseria, dell'odio, dello scompiglio, della cecit un uomo di Stato italiano con fredda assennatezza concep l'idea necessaria della salvezza dell'Italia attraverso la sua unione in un solo Stato. Egli descrisse con rigorosa coerenza la via che rendevano necessaria tanto questa salvezza quanto la corruzione e il cieco furore del tempo; e chiam il suo principe ad assumersi l'elevato ruolo di un salvatore dell'Italia e la gloria di porre fine alla sventura [...].

Hegel difende con vigore Machiavelli dalle accuse che gli sono state tradizionalmente rivolte: in primo luogo, egli dice che un uomo che parla con una passione cos vera e profonda non poteva avere n abiezione nel cuore, n capriccio per il capo. Il suo fine, poi, basterebbe a rendergli onore: riunire il popolo in uno Stato. Solo nello Stato, infatti, possibile, secondo Hegel, la libert; lo Stato una delle manifestazioni pi alte dell'eticit dell'uomo, ossia della sua capacit di uscire dal particolarismo, dall'egoismo, dalla ristretta sfera dei bisogni individuali. Ma invece di vedere nel Principe un'opera animata da un intento cos alto, prosegue Hegel, si visto in esso soltanto un manuale di tirannia. E c' di pi: nei casi in cui stata riconosciuta la nobilt del fine, stata tuttavia aspramente criticata la scelta dei mezzi. Qui Hegel attacca con durezza tale posizione, nella quale vede un tipico esempio della "morale comune": e se esso [il fine nobile] pur concesso, per, si dice, i mezzi sono esecrabili e qui la morale ha un'ampia possibilit di tirar fuori le sue trivialit, che lo scopo non santifica i mezzi, ecc. Qui per non si pu parlare di alcuna scelta di mezzi: le membra cancrenose non possono esser curate con l'acqua di lavanda. Una situazione in cui veleno e assassinio sono divenute armi consuete, non sopporta nessun blando antidoto. Una vita vicina alla putrefazione pu essere riorganizzata soltanto attraverso il comportamento pi energico. La morale comune per Hegel individualistica e astratta, proprio perch l'individuo - considerato al di fuori di quei legami che lo avvincono alla societ, allo Stato, al suo tempo - non che un'astrazione. Occorre dunque considerare il tempo e le condizioni dell'Italia di Machiavelli, per comprendere i mezzi proposti dal Fiorentino; e non giudicarli da quel non-luogo e non-tempo nel quale si colloca l'ideale astratto. Il terzo argomento con il quale Hegel difende Machiavelli sulla stessa linea, ossia si basa sul richiamo alla storia: sommamente irrazionale il trattare l'esecuzione di un'idea che sorta immediatamente dall'osservazione della situazione dell'Italia come un compendio di princpi politico-morali onnivalente, per tutte le circostanze, cio adatto a nessuna situazione specifica. Si deve giungere alla lettura del Principe immediatamente dalla storia dei secoli trascorsi prima di Machiavelli, con l'impressione che questa ci ha dato; esso cos non solo viene giustificato, ma apparir come una concezione sommamente grande e vera di una autentica mente politica di grandissimo e nobilissimo sentire. Ma al di l di queste argomentazioni, l'idea stessa di costituire lo Stato che, agli occhi di Hegel, possiede un infinito valore e che deve farci valutare il comportamento del Principe in tutt'altro modo: da questo lato il comportamento del Principe appare sotto tutt'altro aspetto. Ci che, qualora fosse compiuto da un privato, sarebbe esecrabile, ormai una giusta punizione. Verso uno Stato l'effettuazione dell'anarchia il delitto supremo, o piuttosto l'unico delitto; poich tutti i delitti di cui lo Stato s'interessa mettono capo ad esso; e quelli che aggrediscono lo Stato stesso non mediamente come gli altri delinquenti, bens immediatamente, sono i pi grandi delinquenti e lo Stato non ha nessun dovere superiore a quello di conservare se stesso e di annientare nel modo pi sicuro la potenza di questi delinquenti. Ancora una volta, proprio come in Machiavelli, lo Stato il bene supremo e dunque l'assenza di Stato il male peggiore: non c' un principio che superi lo Stato. E dunque l'obiettivo politico in tal misura "etico", che - sostiene Hegel pensando alla situazione della Germania - va perseguito, se necessario, con la forza: la massa comune del popolo tedesco con i suoi stati regionali, che non vogliono sapere altro che la scissione delle popolazioni tedesche e ai quali la riunificazione di esse qualcosa di estraneo, dovrebbe esser riunita in un solo corpo attraverso la forza di un conquistatore; essi dovrebbero esser costretti a considerarsi appartenenti alla Germania. Ma che cos' uno Stato, per Hegel? E' qualcosa di organico, di coeso e compatto; un "intero", una totalit organica rispetto alla quale le parti (cio, gli individui) non sono che membra, articolazioni. In caso contrario, non si d uno Stato, ma solo un'aggregazione instabile. L'Impero germanico infatti crollato, dice

Hegel, perch esso era simile ad un mucchio di pietre che si uniscono per costruire una piramide, ma che, perfettamente tonde, devono restare tali, senza incastrarsi: non appena la piramide incomincia a muoversi verso il fine per il quale essa si formata, ecco che si disf, o, nel migliore dei casi, non regge al minimo urto. La concezione hegeliana dello Stato - stato opportunamente osservato - non dunque individualistica (come nei pensatori giusnaturalisti)[37], bens organicistica: lo Stato non un aggregato di individui che si uniscono per meglio proteggere i loro diritti individuali, bens un organismo in cui, come in ogni organismo, le parti obbediscono alla logica del "tutto", e i singoli si sentono (e sono) articolazioni di una totalit, e agiscono in vista della coesione e della difesa di quest'ultima. Questa visione dello Stato, che compare in questo primo scritto politico, non verr mai abbandonata dal filosofo tedesco. Tale concezione profondamente unitaria non impedisce a Hegel - sempre nella Costituzione della Germania - di polemizzare a pi riprese con il centralismo amministrativo francese: la pedante mania di voler determinare ogni dettaglio, l'illiberale gelosia per ogni ordinamento e amministrazione di uno stato, di una corporazione, ecc., questa critica meschina di ogni azione privata dei cittadini dello Stato che non abbia un rapporto diretto al potere dello Stato, ma solo un qualche rapporto generale, si rivestita dell'abito dei princpi razionali, secondo i quali nessun soldo proveniente dal lusso comune, che venga adoperato per i poveri in una regione di 20 o 30 milioni di abitanti, pu essere elargito senza che prima ci sia stato, non solo concesso dal governo supremo, ma anche comandato, controllato, sorvegliato. Nella cura dell'educazione, la nomina di ogni maestro di ogni scuola rurale, la spesa di ogni pfennig per ogni vetro di finestra della scuola rurale - come della stanza del consiglio del villaggio, la nomina di ogni portiere o guardiano di tribunale, di ogni giudice di villaggio - deve essere un'emanazione e un prodotto del governo supremo; ogni boccone che provenga dal terreno che lo costituisce dev'essere portato alla bocca secondo una direzione che esaminata, calcolata, legittimata e comandata attraverso lo Stato, la legge e il governo. Ma la rivendicazione di un ampio decentramento - in tutto ci che Hegel ritiene "accidentale" - non toglie che il potere centrale sia fortissimo e che l'intero Stato rimanga sempre un organismo nel quale le parti sono per principio subordinate al tutto. Passiamo ora alla formulazione matura del pensiero politico di Hegel, contenuta nella Filosofia del diritto (1821). Poich le tematiche socio-politiche si trovano in un punto ben preciso del complesso sistema filosofico elaborato da Hegel, sar opportuno dare qualche indicazione, sia pure sommaria, su di esso. Anzitutto il sistema hegeliano - che scandito, in ogni sua parte, dal ritmo triadico della dialettica - si articola in tre grandi partizioni: la logica (la scienza dell'Idea in s e per s), la filosofia della natura (la scienza dell'Idea nel suo alienarsi da s) e la filosofia dello Spirito (la scienza dell'Idea che dal suo alienamento ritorna in s). Al culmine del sistema sta dunque la filosofia dello Spirito, che a sua volta si articola in tre momenti: lo Spirito soggettivo (che lo spirito individuale, considerato nel suo lento e progressivo emergere dalla natura, dalle forme pi elementari a quelle pi mature della vita psichica), lo Spirito oggettivo (che lo spirito cos come si manifesta nelle concrete istituzioni sociali) e infine lo Spirito assoluto (che il momento in cui lo Spirito giunge alla piena consapevolezza della propria infinit, tramite le forme dell'arte, della religione e della filosofia). La sezione che ci interessa ovviamente quella dello Spirito oggettivo, giacch in essa troviamo il pensiero socio-politico di Hegel. Anche lo Spirito oggettivo, a sua volta, si articola in tre momenti: diritto, moralit, eticit. Il volere libero che caratterizza l'uomo si manifesta anzitutto come volere del singolo, considerato come persona fornita di capacit giuridiche: siamo dunque nella sfera del diritto, che Hegel definisce astratto o formale, giacch riguarda l'esistenza esterna della libert delle persone, concepite come puri soggetti di diritti, indipendentmente dai caratteri specifici e dalla condizioni concrete che li differenziano tra di loro. La persona trova la garanzia esterna della propria libert nella propriet, che - per essere reciprocamente riconosciuta - ha bisogno dell'istituto giuridico del contratto. Nella sezione dedicata al diritto troviamo il noto attacco alle teorie giusnaturalistiche: anzitutto, Hegel nega

che in natura possano esistere dei diritti, dal momento che questi sorgono soltanto l dove esista una relazione sociale di reciproco riconoscimento, con la quale gli individui sono gi oltre l'immediatezza della loro vita naturale; in secondo luogo, spiegare la complessa realt delle istituzioni politiche basandosi su forme giuridiche elementari come il contratto costituisce, agli occhi di Hegel, un tentativo assurdo e inconsistente. Ma vediamo come avviene il passaggio dal diritto alla moralit: le norme giuridiche, nella loro oggettivit, chiedono al singolo un'obbedienza soltanto esterna o formale, che non implica il suo assenso o coinvolgimento interiore; il passaggio alla sfera della moralit avviene per l'appunto quando all'autorit esterna della legge subentra l'interiorizzazione del dovere. Qui la volont libera dell'individuo non si identifica pi con una "cosa" (la propriet), ma con una condizione interiore: dalla persona giuridica siamo cos passati al soggetto morale. La libert interiore, osserva Hegel, era ignota agli Antichi, mentre contraddistingue la forma moderna dell'individualit: essa venuta al mondo per opera del Cristianesimo, per il quale l'individuo come tale ha valore infinito, indipendentemente dal suo rango sociale. Il cittadino degli Stati moderni, a differenza di quello della polis greca, non si identifica in modo immediato e irriflesso con le norme e i valori collettivi della societ alla quale appartiene; le norme e i valori provenienti dall'ordinamento sociale e politico devono avere adesione, riconoscimento o anche fondamento nel suo cuore, nella sua disposizione d'animo, nella sua coscienza e nella sua intelligenza. Tuttavia, anche la forma della moralit solo un momento della dialettica dello Spirito oggettivo e come tale deve essere superata: essa infatti, in quanto sgorga da un proponimento, prende la forma dell'intenzione, la quale, sollevandosi all'universalit, persegue il bene; ma il bene, in questa fase, soltanto un'idea astratta, che per raggiungere l'esistenza concreta ha bisogno di una volont soggettiva altrettanto astratta, la quale pu anche essere "cattiva", ossia incapace di realizzare il dovere. In altri termini, il dominio della moralit caratterizzato dalla separazione tra la soggettivit (che deve realizzare il bene) e il bene (che deve essere realizzato): quest'ultimo rimane pertanto soltanto un dover-essere. Da ci la contraddizione tra essere e dover-essere, che tipica della morale, soprattutto di quella kantiana, che Hegel critica per la sua formalit e astrattezza, cio per la sua mancanza di contenuti concreti e per la sua impotenza a realizzarsi nella realt. La separazione tra soggettivit e bene viene superata nella sfera dell'eticit, nella quale il bene si attuato concretamente, pervenendo all'esistenza. Infatti, mentre la moralit la volont soggettiva - cio interiore e privata - del bene, l'eticit la moralit sociale, ovvero la realizzazione del bene in quelle forme istituzionali che sono la famiglia, la societ civile e lo Stato. In altre parole, il dovere trova un contenuto concreto nei compiti etici che attendono ogni individuo e che sono determinati dal suo ruolo familiare, sociale e politico, all'interno degli ordinamenti esistenti: in questo quadro, il bene non pi un irraggiungibile ideale della coscienza individuale, ma un mondo storico-sociale presente, qui e ora, come razionalit in atto. L'eticit rappresenta dunque il superamento della spaccatura tra interiorit ed esteriorit, che propria della morale del dovere; nello stesso tempo, configurandosi come una sorta di morale che ha assunto le forme del diritto (giacch si realizza esternamente in precise forme istituzionali), o come una sorta di diritto che ha assunto le forme della morale (giacch lo scopo di quelle forme istituzionali esterne il perseguimento del bene universale), l'eticit risulta in grado di superare le opposte unilateralit del diritto e della morale. Nel tipico linguaggio di Hegel, il diritto e la moralit non sono che due astrazioni, la cui verit l'eticit: nell'universale "sostanza etica" di un popolo (vale a dire, in un sistema definito di valori che si incarnano in un certo quadro politico-istituzionale) l'individuo raggiunge quella concreta consistenza che mancava alle figure ancora astratte della persona giuridica e del soggetto morale. Delineato il complesso sistema nel quale si colloca la riflessione socio-politica di Hegel, possiamo ora passare a vederne pi da vicino i contenuti. Ci troviamo dunque nella sfera dello Spirito oggettivo e, all'interno di questa, nella sezione dell'eticit, il cui primo momento, come ho gi accennato, la famiglia: questa costituisce il momento immediato o naturale dell'eticit, poich al suo interno i legami di amore, benevolenza e assistenza reciproca si fondano su un vincolo di tipo naturale. Il compimento della famiglia sta nell'educazione dei figli che, una volta cresciuti e divenuti personalit autonome, escono dalla famiglia per dare origine a nuove famiglie, ognuna avente un proprio interesse. In tal modo si trapassa nel secondo momento dell'etiticit, costituito dalla societ civile.

Quella della societ civile forse la sezione pi importante dello Spirito oggettivo. Vediamo perch. Abbiamo gi detto che Hegel manifest sempre il pi vivo interesse per quei processi che si svolgono, per cos dire, "al di sotto" della politica, e senza i quali quest'ultima non potrebbe essere compresa. Infatti Hegel studi a fondo tanto le dinamiche sociali (ad esempio, nella Rivoluzione francese), quanto i processi economici (attraverso la lettura delle opere di Steuart, Smith e Say). Ed proprio nella sezione dedicata alla societ civile che noi abbiamo un preciso riscontro di tali studi: qui, infatti, le considerazioni di carattere economico sono strettamente intrecciate all'analisi dei rapporti sociali e giuridici. La trattazione che ne risulta - ossia, l'aver dato autonoma collocazione al momento della "societ civile", distinguendola dallo "Stato" - rilevante per tre motivi: 1) perch Hegel sente il bisogno di distinguere tra la sfera economico-sociale e la sfera dello Stato. Una distinzione che Marx far sua e che entrata nell'uso corrente; ancora oggi, infatti, noi non distinguiamo come facevano i giusnaturalisti - tra stato di natura e stato civile o politico, intendendo quest'ultima come lo spazio regolato dalle norme dello Stato; ma distinguiamo tra societ civile (intesa come insieme di rapporti civili, economici, sociali, culturali) e Stato, come luogo delle istituzioni specificamente politiche; 2) perch Hegel d una rappresentazione fortemente critica della societ civile, attraverso una descrizione che ricava dalla societ borghese pi avanzata del suo tempo (ossia l'Inghilterra); 3) perch Hegel istituisce un collegamento molto complesso tra societ civile e Stato. La societ civile, come sempre, si articola in tre momenti: il primo il sistema dei bisogni (che contiene quella descrizione della societ borghese moderna ricavata dalle opere degli economisti politici), il secondo l'amministrazione della giustizia e il terzo costituito dalla sicurezza pubblica (Polizei) e dalle corporazioni. Al suo primo apparire, come sistema dei bisogni, la sfera della societ civile si caratterizza subito, secondo Hegel, per una "perdita" di eticit. Mentre nella famiglia, infatti, si d uno spirito etico immediato o naturale - evidente nei legami di amore e solidariet che si stabiliscono in maniera irriflessa -, nel sistema dei bisogni ognuno si comporta verso gli altri in modo esterno e autonomo, perseguendo cio il proprio interesse o vantaggio, a prescindere da quello altrui. Il sistema dei bisogni viene pertanto definito da Hegel come il "sistema dell'atomistica", ossia quel sistema nel quale ogni individuo persegue il proprio particolare (atomistico) interesse: ragion per cui la societ civile si trasforma in un campo di battaglia dove, in nome dell'interesse privato, tutti combattono contro tutti. E' anche vero, tuttavia, che Hegel sottolinea come, grazie alla divisione del lavoro e allo scambio, l'egoismo dell'individuo e il suo apparente isolamento si rovescino in un sistema di dipendenza universale, per cui la sussistenza e il benessere del singolo e la sua esistenza giuridica sono intrecciate con la sussistenza, il benessere e il diritto di tutti. Si tratta di considerazioni che potrebbero essere avvicinate alla teoria smithiana della "mano invisibile", secondo la quale nella societ civile, attraverso il meccanismo della concorrenza, il perseguimento degli interessi particolari condurrebbe, inintenzionalmente, al soddisfacimento degli interessi generali. Ma, in realt, il giudizio di Hegel sulla societ civile rimane assai negativo, giacch egli non condivide l'ottimismo smithiano sugli effetti spontanei del mercato e perch, qualora tali esiti positivi si realizzino, essi sono solo il frutto di una "necessit cieca", priva di reale razionalit. Pur apprezzando la conquista moderna dell'individualit come libert civile, che premia e stimola i talenti individuali, Hegel convinto che tale libert, lasciata a se stessa, produca inevitabili e drammatici squilibri. Tanto che la societ civile, nei suoi contrasti, finisce per offrire lo spettacolo della dissolutezza, della miseria, e della corruzione fisica ed etica. Ma allora perch Hegel colloca la societ civile, che produce simili effetti, nel momento dell'eticit? In primo luogo, perch in quanto sfera economica essa il luogo dove gli uomini soddisfano i loro bisogni, entrando in molteplici rapporti di collaborazione e creando quindi un tessuto sociale articolato e complesso, che pu essere considerato uno sviluppo di quel primo tessuto sociale che la famiglia (con la quale si d dunque una certa continuit). In secondo luogo, perch la societ civile caratterizzata dal lavoro, ed soltanto con il lavoro, secondo Hegel, che l'uomo si solleva al di sopra della mera naturalit:

nella produzione - ha osservato Bedeschi - l'uomo trasforma e domina la natura; al tempo stesso egli entra in contatto con gli altri uomini, poich il lavoro sempre lavoro sociale; lavoro e produzione umani non sono solo processi materiali, ma costituiscono anche un intreccio di idee, di rappresentazioni, di aspirazioni e di fini storicamente determinati, e al tempo stesso in costante divenire; la cultura pratica sviluppa la cultura teoretica, in un processo ininterrotto. Ci troviamo dunque in uno dei punti pi alti dello spirito oggettivo. Detto questo, il giudizio complessivo di Hegel sulle contraddizioni prodotte della societ civile rimane assai negativo: essa infatti, come abbiamo gi ricordato, caratterizzata dalla ricerca del massimo profitto o utile, dall'accumulazione in poche mani di ricchezze sproporzionate, dalla dipendenza e dalla povert degli operai dell'industria, il cui lavoro, inoltre, sempre pi parcellizzato e diviso, e quindi limitato e ottuso. Tutto ci determina, secondo Hegel, il decadere di una grande massa al di sotto della misura di un certo modo di sussistenza, dando luogo in tal modo alla formazione della plebe. Qui Hegel anticipa i temi della questione sociale, che avrebbero dominato la seconda met dell'Ottocento. Attenzione, per: nonostante gli spunti fortemente critici di Hegel verso il meccanismo della societ civile borghese, non si deve incorrere nella tentazione di farne un pre-marxista. Il filosofo tedesco, infatti, come stato opportunamente ricordato, da un lato tiene fermo al principio della propriet privata, nella quale vede la manifestazione essenziale della spiritualit e della libert umana; e, dall'altro lato, condanna come vuota astrazione l'ideale dell'eguaglianza sociale, visto che la realt ci mostra come gli uomini siano diseguali tra loro per doti fisiche, per attitudini e talenti, per doti intellettuali e morali. Ma osserviamo pi da vicino l'articolazione della societ civile hegeliana. Al suo interno si danno tre classi o ceti: la classe sostanziale, che quella dei proprietari terrieri, largamente rimessa alla natura e ai cicli naturali; la classe riflessa o formale, che quella dell'industria, la quale ha per suo compito l'elaborazione dei prodotti naturali e che deve trarre i propri mezzi di sussistenza dalla riflessione e dall'intelletto (tale classe si divide a sua volta in tre ceti: artigiani, operai e commercianti); infine la classe generale, composta dai burocrati dello Stato, che ha per proprio compito la cura degli interessi generali. E' bene ricordare che Hegel annette la massima importanza alle classi sociali, perch in esse l'individuo esce dalla propria semplice privatezza e si colloca in una dimensione universale. Il filosofo tedesco polemizza dunque contro coloro i quali ritengono che quando un individuo entra a far parte di una classe, in questo modo egli limiti e perda se stesso, e che mutili in certa misura la propria personalit; in realt, sostiene Hegel, quando si dice che un uomo deve essere qualcosa o qualcuno, si intende dire che egli deve appartenere a una determinata classe, perch solo cos egli sar qualcosa di sostanziale. Quanto agli altri momenti della societ civile, vale la pena di soffermarsi non tanto sull'amministrazione della giustizia (che Hegel inserisce subito dopo il sistema dei bisogni perch i rapporti civili richiedono una serie di regole e garanzie reciproche), quanto sulla Polizia e sulla Corporazione. Con il concetto di 'polizia' Hegel intende l'insieme dei provvedimenti con i quali lo Stato interviene nella vita economica e sociale nell'interesse della collettivit, in particolare per aiutare coloro i quali soccombono nelle lotte economiche. Hegel non teme, come Kant o come i liberali in genere, lo Stato eudemonistico o lo Stato interventista: egli infatti convinto che i compiti dello Stato non possano restringersi alla tutela della propriet e della personalit, ma che debbano estendersi a garantire la sicurezza e stabilit della vita di tutti i cittadini. In particolare lo Stato dovr difendere gli individui contro il fortuito della vita sociale, nonch contro le conseguenze di azioni economicamente necessarie, giuridicamente lecite, ma dannose dal punto di vista dell'interesse collettivo. Si tratta di situazioni sociali che non ammettono di essere regolate mediante norme giuridiche oggettivate, e che possono essere affrontate soltanto tramite atti particolari della pubblica amministrazione. In sostanza, proprio perch Hegel pessimista circa il funzionamento autonomo della sfera economico-sociale moderna, egli si pone il problema dell'intervento dello Stato: mentre nella famiglia, infatti, l'individuo seguito e sostenuto affinch partecipi alla vita e alle attivit sociali, nella societ civile l'individuo lasciato solo, nella accidentalit e nell'insicurezza. Questa situazione, osserva acutamente Hegel, colpisce soprattutto gli addetti dell'industria, dal momento che tale ramo di attivit economiche si colloca all'interno di un mercato avente dimensioni mondiali: ci fa s che i meccanismi di evoluzione economica rimangano assai lontani dagli individui, rendendo loro difficilissimo essere "previdenti". Per

combattere questi inconvenienti gli interventi ad hoc della pubblica amministrazione (ossia, il momento della 'polizia') non sono tuttavia sufficienti; Hegel si affida quindi in gran parte alle corporazioni. Si tratta di un altro tema di grande importanza: la societ moderna, per Hegel, deve essere corporativa. Mentre la classe sostanziale e quella generale sono coese e compatte, la classe dell'industria afflitta dal particolarismo e dall'egoismo: pertanto essa dovr essere organizzata in modo corporativo. In sostanza, Hegel, con le corporazioni, si propone di restituire alla societ civile quei rapporti di solidariet, quei vincoli di unit e quei legami organici, che essa in un primo tempo sembrava escludere, condannata com'era alla perdita dell'eticit. E infatti Hegel dice che accanto alla famiglia, la corporazione costituisce la seconda radice etica dello Stato, la radice profondata nella societ civile. Se il singolo non fosse componente di una corporazione legittima (ovvero autorizzata dallo Stato), esso sarebbe senza dignit di classe, e sarebbe ridotto, dal suo isolamento, al lato egoistico dell'industria. Hegel lamenta, quindi, l'abolizione delle corporazioni che ha caratterizzato il mondo moderno: di qui derivato, a suo parere, non solo un danno sociale, ma anche etico-politico. Le societ moderne, rispetto alle antiche, consentono infatti soltanto una partecipazione limitata agli affari dello Stato; ma tale partecipazione essenziale per lo sviluppo etico, perch solo partecipando agli interessi generali l'uomo supera le proprie finalit strettamente private ed acquista la sua eticit. Ora, la corporazione offriva quella partecipazione che nelle societ moderne lo Stato non pu dare. Quanto all'efficacia di tale soluzione, ha osservato Bedeschi, se vero che Hegel non concepisce le corporazioni come le vecchie gilde restrittive (egli ha cura di sottolineare pi volte che in s e per s la corporazione nom una casta chiusa, e che anzi lo Stato deve vigilare su di essa, sul suo funzionamento, per evitare che essa si chiuda in s e si degradi a misero regime di casta), altrettanto vero che difficile sottrarsi all'impressione che egli sia ricorso a strumenti tutto sommato arcaici per porre rimedio ai problemi moderni della concorrenza e dell'atomismo. La corporazione hegeliana, infatti, mostra chiaramente i propri legami con il pensiero organicisticoromantico ... . Del resto, non certo un caso che un ordinamento corporativo non abbia avuto possibilit di attuarsi da nessuna parte, e men che mai l dove la societ borghese ha avuto un forte sviluppo (a meno che non si voglia vedere nelle corporazioni ... i sindacati; ma questa una bizzarria sulla quale non mette conto di spendere parole). Inoltre, parimenti difficile sottrarsi all'impressione che Hegel attribuisca alle corporazioni un ruolo tutto sommato troppo impegnativo: esse, infatti, dovrebbero trasformare la societ civile borghese moderna in qualcosa d'altro, cio in un organismo coeso e compatto, capace quindi di trapassare da uno stadio di eticit solo relativa a quello stadio di eticit piena e assoluta che proprio dello Stato. (Il fine della corporazione, - dice Hegel - in quanto limitato e finito, ha la sua verit [...] nel fine universale in s e per s, e nella assoluta realt di esso; la sfera della societ civile trapassa quindi nello Stato.) Obiettivo troppo impegnativo, e tutto sommato irrealistico, dicevamo; ma anche tale da ledere o da imbrigliare, se realizzato, il meccanismo dell'antagonismo, della concorrenza, del conflitto sociale, senza il quale non c' societ civile, ovvero non c' societ moderna. Lo sguardo di Hegel sembra rivolto qui pi al passato che non al futuro. Veniamo infine al terzo momento dell'eticit, ossia allo Stato. Esso il culmine dello Spirito oggettivo: ci significa che nello Stato si compenetrano e fondono il principio della famiglia (che unit sostanziale, ma immediata e irriflessa) e quello della societ civile (che il diritto della particolarit, mediato, ma in modo cieco e inconsapevole, dall'universale). Lo Stato dunque la manifestazione pi alta dell'eticit, in quanto con esso sorge qualcosa di assolutamente nuovo, una unificazione reale e profonda degli individui. Nello Stato l'universale non pi astratto, perch ricomprende il particolare; e il particolare non pi unilaterale, perch viene ricondotto consapevolmente all'univerale. Per Hegel lo Stato il razionale in s e per s. Ma andiamo al di l delle formule. In sostanza, Hegel si propone di soddisfare due esigenze. Da un lato, egli non pu concepire lo Stato in funzione degli individui (come accade nel pensiero liberale), cio non pu far sua una visione strumentale dello Stato; nella sua concezione, infatti, il tutto viene prima delle parti, le quali si costituiscono grazie ad esso, e similmente gli individui acquistano senso e significato solo all'interno dello Stato e in virt di esso. Dall'altro lato, Hegel convinto che lo Stato moderno non debba disconoscere i

diritti civili dei singoli (conquistati dalla Rivoluzione francese), ma farne uno dei suoi momenti essenziali. In realt la soluzione di Hegel, che vorrebbe vedere questi due aspetti organicamente fusi, conduce ad un difficile equilibrio, nel quale l'individuo soccombe. Lo Stato, in quanto manifestazione pi alta dell'eticit, lascia infatti ben poco spazio all'individuo e alle sue ragioni. Hegel compie una vera e propria divinizzazione dello Stato: l'ingresso di Dio nel mondo - egli scrive - lo Stato; il suo fondamento la potenza della ragione che si realizza come volont. A fronte di ci, gli individui sono soltanto elementi accidentali, che nulla hanno di autonomo da proporre o da rivendicare: Tutto ci che l'uomo , egli lo deve allo Stato: solo in esso egli ha la sua essenza. Ogni valore, ogni realt spirituale, l'uomo l'ha solo per mezzo della Stato. Ma perch Hegel avrebbe compiuto una simile divinizzazione? Uno dei motivi profondi sta nella connessione istituita tra popolo (inteso come stirpe) e Stato. Una connessione cos stretta da costituire un'identit: nell'esistenza di un popolo lo scopo sostanziale di essere uno Stato e di mantenersi come tale: un popolo senza formazione politica (una nazione come tale) non ha propriamente storia; senza storia esistevanto i popoli prima della formazione dello Stato, e altri ancora esistono, come nazioni selvagge. Si tratta di una visione per comprendere la quale occorre fare riferimento alla filosofia della storia di Hegel. Per Hegel la storia una successione di popoli, ciascuno dei quali esprime un principio, contribuendo in tal modo alla realizzazione del Weltgeist, dello Spirito del mondo. La manifestazione pi alta di un popolo la sua costituzione politica, che non affatto qualcosa di casuale o arbitrario, ma intimamente connessa con la religione, l'arte, la filosofia, i costumi e l'economia di quel popolo. Si tratta di una concezione tipicamente romantica, che fa perno sulla sostanza spirituale di un popolo, sullo spirito del popolo. Questo spirito in sostanza il genio nazionale di un popolo, dal quale proviene tutto ci che quel popolo realizza. In una tale concezione lo Stato non espressione od opera degli individui, bens dello spirito del popolo; e gli individui hanno senso e significato solo all'interno dello Stato, solo grazie ad esso. In questo quadro la concezione giusnaturalistico-contrattualistica del rapporto cittadino-Stato viene completamente rovesciata, poich lo Stato non esiste per i cittadini, bens esso il fine, e quelli sono i suoi strumenti. Ne segue che, poich uno Stato ha una costituzione e delle leggi, l'individuo deve obbedire a quella costituzione e a quelle leggi: e solo in tale obbedienza egli ha la propria libert. Da queste considerazioni, facile intuire che le posizione di Hegel si contrapporranno al giusnaturalismo e al contrattualismo. Hegel respinge il concetto stesso di stato di natura, perch la natura dell'uomo la spiritualit, la razionalit; lo stato di natura non altro, ai suoi occhi, che lo stato della bestialit. Ora, poich in tale stato non esiste alcuna razionalit (mentre per tutti i giusnaturalisti esisteva, anche se era inefficace), non esiste alcun stato giuridico che precede quello della societ e dello Stato, e dunque non esiste alcun diritto originario come diritto naturale pre-esistente alla societ e alla politica. Del resto, l'antiindividualismo di Hegel fortissimo; riprendendo una nota affermazione di Aristotele, egli afferma che il popolo [Volk, ma Aristotele aveva detto polis] precedente al singolo; se infatti il singolo separato non nulla di autonomo, esso deve, similmente alle altre parti, essere in una unit col tutto. E chi non pu essere socievole oppure per la sua autonomia non ha bisogno di ci, non parte del popolo, perci o belva o Dio. Di qui un completo rovesciamento: mentre per i giusnaturalisti il popolo un insieme di individui che decidono di unirsi in una societ politica, la quale un ente artificiale, un posterius e non un prius, per Hegel, invece, il tutto viene prima della parte, il popolo prima del singolo. Quanto al contratto, Hegel lo trova un'idea inservibile per intendere la natura dello Stato, sia perch applica al diritto pubblico le categorie del diritto privato, sia perch introduce un elemento di indipendenza e di indifferenza tra le componenti costitutive dello Stato: basta riflettere un momento - afferma Hegel - per rendersi conto che la coesione tra principe e suddito, tra governo e popolo, ha a proprio fondamento una unit originaria e sostanziale, e che nel contratto si prende le mosse, invece, dal contrario, cio dall'egual indipendenza e indifferenza delle parti, l'una rispetto

all'altra; l'accordo che esse stipulano su qualche cosa un rapporto casuale, che nasce dal bisogno e dall'arbitrio soggettivo di entrambi. Come si vede, la critica di Hegel al giusnaturalismo e al contrattualismo viene condotta sempre in nome della sussunzione di tutti gli individui in un universale, cio in nome di un organicismo che respinge l'idea dello Stato come aggregato di individui e lo concepisce piuttosto come un Intero che si articola in parti, in modo tale che, essendo ogni parte solo una rifrazione dell'Intero, ciascuna ha senso solo all'interno di esso. Resta da vedere quale significato abbia in Hegel il termine costituzione. Esso non va infatti confuso con il significato che gli attribuisce il costituzionalismo liberale[38], giacch in Hegel indica semplicemente l'organizzazione dello Stato. Ne segue che la costituzione non ovviamente il frutto di un'elaborazione a tavolino: ogni popolo che abbia raggiunto un certo livello di civilt ha sempre la costituzione che gli adeguata. Questa non potr mai essere abolita, bens soltanto modificata; inoltre - come il filosofo non manca di sottolineare - il presupposto stesso di una costituzione contiene immediatamente che la modifica possa avvenire soltanto per via conforme alla costituzione medesima. Dove si vede che Hegel non pu concepire mutamenti costituzionali violenti o rivoluzionari, ma solo interventi riformatori nell'ambito del sistema politico-istituzionale esistente. Ma che struttura ha lo Stato hegeliano? Egli prevede tre poteri: legislativo, esecutivo, sovrano. Si tratta quindi di una monarchia costituzionale. Ma attenzione: Hegel non parla di separazione dei poteri, anzi polemizza apertamente con Montesquieu, perch il teorico francese avrebbe trasformato il giusto principio della differenza, della differenziazione e della articolazione in un principio di ostilit e di timore di ciascun potere di fronte all'altro. Il sistema dei contrappesi produce forse un equilibrio, osserva Hegel, ma non un'unit vivente; e inoltre la limitazione reciproca pu solo condurre alla distruzione dell'unit dello Stato. Hegel non prende nemmeno in considerazione (se non di sfuggita, e per liquidarla) l'idea che sta al fondo della teoria di Montesquieu, e cio che il potere deve essere il pi possibile frazionato e diviso, e che nella divisione e nell'equilibrio fra i vari poteri risiede la migliore garanzia contro il dispotismo. Per Hegel, al contrario, ciascuno dei poteri che costituiscono lo Stato la totalit, per il fatto che esso ha attivi in s e contiene gli altri momenti, sicch non si pu assolutamtne parlare di divisione dei poteri, bens di una loro connessione organica: soluzione che pu apparire astratta e speculativa, ma che, in realt, sviluppa una teoria dello Stato politico come qualcosa di armonico, di privo di conflitti. Quanto al potere del monarca, Hegel lo contrappone frontalmente alla sovranit popolare: in tale antitesi - egli dice - la sovranit popolare appartiene alla confusa concezione, della quale sta a base la rozza rappresentazione di popolo. Il popolo, considerato senza il suo monarca e senza l'organizzazione necessariamente e immediatamente connettiva della totalit, la moltitudine informe, che non pi Stato, alla quale non spetta pi alcuna delle determinazioni che esistono soltanto nella totalit formata in s sovranit, governo, giurisdizione, magistratura, classi, e qualsiasi altra. Per quanto riguarda le prerogative del monarca, Hegel dice che in una perfetta organizzazione dello Stato, il re preme soltanto il culmine della decisione formale [...]. Pertanto, a torto si esigono in un monarca qualit oggettive; egli deve dire soltanto s e mettere il puntino sulla i. E poco dopo Hegel ribadisce che in una monarchia bene ordinata, appartiene unicamente alla legge il lato oggettivo, ossia a che cosa il monarca debba soltanto apporre l''io voglio' soggettivo. Al di l dell'apparente simbolicit del potere del monarca, Hegel non indica alcun limite preciso ai suoi poteri, che sono peraltro molto estesi, giacch egli nomina tutti i funzionari dello Stato. Quanto al potere governativo, Hegel non svolge considerazioni di particolare interesse, salvo idealizzare la classe dei burocrati ( la coscienza dello Stato, dice, e la cultura pi eminente). Ma nel potere legislativo che possiamo misurare tutta l'arretratezza di Hegel. Da un lato, egli esalta il ruolo della rappresentanza, perch vede in essa un indispensabile raccordo tra societ civile e Stato. Senza tale mediazione, la societ civile non potrebbe far valere i propri interessi e la sfera politico-statuale resterebbe isolata: il risultato sarebbe che la prima verrebbe repressa e la seconda si trasformerebbe in una struttura arbitraria. Hegel

considera quindi la rappresentanza un elemento fondamentale dello Stato moderno. Dall'altro lato, tuttavia, egli la concepisce in modo feudale, senza alcun collegamento con il principio della sovranit popolare. Sono venute di moda - egli dice - un numero indicibilmente grande di storte e false concezioni e di modi di dire intorno al popolo, alla costituzione e alle classi, che sarebbe vana fatica volerle citare, discutere e rettificare, La concezione che, anzitutto, suole aver dinanzi la coscienza comune, intorno alla necessit o all'utilit del concorso delle classi, particolarmente questa, all'incirca: che i deputati del popolo, o, anzi, il popolo debba intendere nel miglior modo che cosa serva al suo meglio; e che esso abbia la volont indubbiamente migliore per questo meglio. Per quanto riguarda il primo punto, fatto sta, invece, che popolo, in quanto con questa parola si designa una parte speciale dei componenti d'uno Stato, significa la parte che non sa quel che vuole. Sapere che cosa si vuole, e, ancor pi, che cosa vuole la volont che in s e per s, la ragione, il frutto di una conoscenza e di una penetrazione pi profonda che, appunto, non affare del popolo. La rappresentanza non deve rappresentare il popolo o i molti, bens le cerchie organizzate della societ civile. Avremo dunque una camera ereditaria, formata dai rappresentanti della nobilt terriera (sulla base del maggiorascato, per evitare l'accidentalit dell'elezione) e una camera bassa, formata dai deputati delle corporazioni. Ancora una volta, insomma, lo Stato di Hegel non uno Stato di individui, ma uno Stato di ceti, di comunit, di corporazioni, caratterizzate da rapporti armonici e solidaristici. Lo Stato - egli dice infatti - essenzialmente un'organizzazione di membri tali, che per s sono cerchie, e in esso nessun momento si deve mostrare come moltitudine inorganica. I molti, come singoli, la qual cosa si intende volentieri per popolo, sono certamente un insieme, ma soltanto come moltitudine - massa informe il cui moto e il cui fare sarebbe, appunto perci, soltanto elementare, irrazionale, selvaggio e orribile. Una volta stabilito che la rappresentanza non pu essere intesa come rappresentanza o del popolo o dei singoli o dei molti, e deve essere invece rappresentanza delle comunit nelle quali si organizza la societ civile, non pu stupire che Hegel sia contrario all'elezione dei deputati da parte degli elettori, che a suo avviso si riduce a un vile gioco dell'opinione e dell'arbitrio. I rappresentanti delle corporazioni dovranno piuttosto essere designati dalle corporazioni medesime sulla base di un rapporto fiduciario. Possiamo ormai tirare le somme, rifacendoci ancora una volta all'analisi di Bedeschi. Con questa illustrazione del potere legislativo, Hegel ha certamente delineato il modello di una monarchia costituzionale, ma altrettanto certamente non di una monarchia parlamentare (del resto, egli sempre stato un avversario dichiarato della monarchia parlamentare). Nel suo disegno, infatti, il governo e i pi alti funzionari dello Stato sono di nomina regia, che insindacabile, ed essi soli hanno il senso dello Stato e la conoscenza di ci che sia l'universale in s e per s; il potere del sovrano, che costituisce la vera e propria chiave di volta dello Stato, non ha limiti precisi e chiaramente definiti, ed caratterizzato da una sostanziale ambiguit, sicch esso pu avere un ruolo diverso a seconda delle diverse situazioni sociali e politiche; sovrano e governo hanno pieno diritto di iniziativa; il legislativo sembra avere un ruolo esclusivamente consultivo, e quindi non il potere supremo (come era invece non soltanto in Locke, ma anche in Kant). Una conclusione politica certo assai modesta, questa di Hegel, soprattutto se considerata alla luce degli sviluppi politici della societ europea dopo il 1830. Ma l'aspetto pi interessante della sua concezione non va cercato nella sua teoria del potere politico (nella quale si riflette certamente tutta l'angustia dell'arretratezza tedesca), quanto piuttosto nel suo sforzo di delineare quella che stata chiamata una terza via fra assolutismo e democrazia. In questo senso il modo peculiarmente hegeliano di concepire il rapporto fra Stato e societ civile, e il ruolo complesso che le corporazioni hanno in questo rapporto, costituiscono, comunque li si voglia valutare, gli aspetti pi interessanti del pensiero politico di Hegel.[39]

12. Marx
Cenni biografici

Karl Marx nasce a Treviri (in Renania) nel 1818, da famiglia ebraica poi convertitasi al Protestantesimo per evitare le misure antisemitiche prese dal governo prussiano. Nel 1835 inizia la sua formazione universitaria, iscrivendosi, dapprima a Bonn e poi a Berlino, alla Facolt di Giurisprudenza. Segue poco le lezioni, e studia piuttosto autonomamente, facendo amplisssime letture di storia, filosofia, diritto e letteratura. Entra in contatto con i giovani hegeliani e studia a fondo la filosofia di Hegel. Nel 1838 si laurea a Jena, con una tesi sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e di Epicuro. Nel 1842 abbandona, in seguito all'accentuarsi della politica reazionaria del governo prussiano, i progretti di carriere accademica. Si dedica al giornalismo politico, divenendo caporedattore della "Rheinische Zeitung" (che viene chiusa nel 1843). Sposa Jenny von Westphalen. Nel 1844 pubblica Per la critica della filosofia del diritto di Hegel e La questione ebraica. In settembre conosce Engels. Sempre nel 1844 stende i Manoscritti economico-filosofici. In collaborazione con Engels e B.Bauer scrive La sacra famiglia. Nel 1845 stende, insieme a Engels, L'ideologia tedesca. Nel 1846 Marx ed Engels costituiscono una rete di comitati di corrispondenza comunisti tra tedeschi, francesi e inglesi. Nel 1847 pubblica Miseria della filosofia. Aderisce alla Lega dei Giusti, che diverr poi Lega dei comunisti. Nel 1848 pubblica il Manifesto del partito comunista. Dopo le varie agitazioni rivoluzionarie, ripara dapprima in Francia e poi in Inghilterra. Nel 1850 pubblica Le lotte di classe in Francia. Si dedica alla riorganizzazione della Lega dei comunisti. Nel 1851 si ritira dall'attivit politica, dedicandosi ai suoi studi e vivendo in una situazione di permanente disagio economico. Nel 1852 pubblica Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte. Tra il 1857 e il 1859 scrive i Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica. Nel 1859 pubblica Per la critica dell'economia politica. Tra il 1862 e il 1863 scrive le Teorie sul plusvalore. Nel 1866 inizia la stesura del I libro del Capitale, che verr pubblicato ad Amburgo l'anno successivo. Muore nel 1883 a Londra, a 65 anni.

Il pensiero politico
La prima opera di Karl Marx, scritta nel 1842-43 ma rimasta inedita sino al 1927, si intitola Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (che da qui in avanti chiameremo, per comodit, Kritik). Per quanto si tratti di un'opera incompleta, essa rappresenta comunque un testo denso e importante, che ci permette di affrontare subito il decisivo tema del rapporto tra Hegel e Marx. Non solo. Nella Kritik - stando alle stesse testimonianze di Marx - si troverebbe formulata l'idea centrale della filosofia marxiana matura, vale a dire del materialismo storico. Nella prefazione a Per la critica dell'economia politica (1859), Marx ricorda infatti il suo giovanile lavoro su Hegel, affermando che in esso arriv alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi n per se stessi, n per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza. Tali rapporti materiali stavano in quella che Hegel aveva definito "societ civile"[40], la cui anatomia, proseguiva Marx, da cercare nell'economia politica. Lo stesso Marx, dunque, ritiene che i capisaldi della concezione materialistica della storia siano contenuti nella sua prima opera. Ed in effetti nella Kritik noi troviamo due acquisizioni capitali: la prima che alla concezione idealistica della storia - secondo la quale quest'ultima la manifestazione dell'Idea o Spirito, da

cui tutto emana e a cui tutto ritorna - Marx sostituisce la visione secondo cui la storia va spiegata sulla base dei rapporti materiali dell'esistenza, che ne costituiscono il sostrato effettivo e reale. La seconda che l'anatomia di quei rapporti materiali (che si manifestano non nello Stato, ma nella societ civile) va ricercata, secondo Marx, nell'economia politica. Siamo di fronte, con tutta evidenza, ai due capisaldi del materialismo storico; ma su quest'ultimo, e sulla connessa teoria economica, torneremo pi avanti. Per ora, rimaniamo sulla Kritik e, in particolare, sul rapporto che in essa Marx stabilisce con Hegel. Per un verso si tratta di un rapporto radicalmente critico: Marx accusa infatti Hegel di aver operato un vero e proprio rovesciamento della realt, per cui tutto ci che finito, concreto e materiale sarebbe stato privato di una propria effettiva realt e, allo stesso tempo, l'astratto, il pensiero, l'ideale sarebbe stato trasformato nell'unica autentica realt, divenendo cos il vero soggetto. Tale procedimento emergerebbe molto bene, secondo Marx, nel rapporto che Hegel istituisce tra famiglia e societ civile da un lato, e Stato dall'altro: nel 262 della Filosofia del diritto Hegel dice infatti che lo Spirito, l'idea reale (ossia intera), a scindersi nelle due sfere ideali (vale a dire astratte, in quanto meri "momenti" dell'intero) della famiglia e della societ civile. Dunque, dapprima viene lo Spirito, che la vera realt (il vero soggetto), il quale poi "produce" la famiglia e la societ civile, che sono quindi sue manifestazioni, suoi "oggetti". Siamo di fronte, secondo Marx, al procedimento del rovesciamento speculativo (o dell'inversione soggetto/predicato), che caratterizza l'intera filosofia hegeliana: per un verso, Hegel ha sostantificato l'astratto (cio lo Spirito), facendone un soggetto reale, il quale viene rappresentato come se agisse secondo un'intenzione determinata; per altro verso, egli ha degradato il reale concreto (cio la famiglia e la societ civile) ad un mero prodotto di quell'astratto sostantificato. L'intero procedimento dunque ispirato, ha scritto Bedeschi[41], a un misticismo logico, panteistico: i rapporti reali (che caratterizzano la famiglia e la societ civile) sono presentati da Hegel non come qualcosa di autonomamente reale, ma come una una manifestazione, un fenomeno dello Spirito. Nella Kritik, quindi, Marx rivolge ad Hegel la stessa critica avanzata qualche anno prima da Feuerbach, il quale, osservando come per Hegel il finito costituisse l'inveramento dell'infinito, sosteneva che una una filosofia che deduca il finito dall'infinito non conduce mai ad un vero e proprio riconoscimento dell'autonomia del finito. Dunque Marx, come Feuerbach, rivendica contro l'idealismo hegeliano la positivit e la specificit del finito, del concreto, del determinato, e la sua irriducibilit al pensiero; di qui anche la rivalutazione dei bisogni, della sensibilit, della materialit dell'uomo. E' la rivendicazione materialistica contro l'idealismo. Rispetto a Feuerbach, tuttavia, nell'analisi marxiana vi sono due elementi in pi: anzitutto, l'utilizzazione di tale schema critico (l'inversione speculativa tra soggetto e oggetto) in un contesto di filosofia politica; in secondo luogo, la maggiore articolazione di tale schema, con l'accusa al procedimento hegeliano di infecondit ermeneutica e di crasso positivismo. Infecondit ermeneutica poich, essendo lo scopo del metodo hegeliano quello di ritrovare nell'empirico lo sviluppo dell'Idea, ci fa s che nulla si sappia della specificit dell'empirico che si sta trattando; crasso positivismo perch l'empirico, lasciato tal quale , finisce per assurgere a incarnazione dell'Idea, e quindi viene santificato cos com'. Fin qui la critica del giovane Marx al suo maestro. Tuttavia, Marx trova nel metodo hegeliano anche qualcosa di positivo. Veniamo cos al lato non critico, ma anzi di consonanza, che Marx stabilisce con Hegel (e che si accentuer nella maturit: egli riconoscer che la stesura delle sue opere mature deve molto alla rilettura della Scienza della logica di Hegel). Dice infatti Marx, sempre nella Kritik: pur con tutti questi limiti, riconosciamo in Hegel della profondit, in questo suo cominciare ovunque con l'opposizione delle determinazioni (proprie dei nostri Stati) e porvi l'accento. Il profondo, in Hegel, starebbe nel cominciare ovunque con l'opposizione delle determinazioni: tale metodo che gli consente di intendere la natura degli Stati moderni. Vedremo che Marx, come lo stesso Hegel, intende in realt tale 'opposizione reale' come una 'contraddizione logica'. Per comprendere questa differenza, gi chiarita da Kant, ci possiamo rifare ad un testo dello stesso Marx. Estremi reali non possono mediarsi fra loro, proprio perch sono reali estremi. Ma neanche abbisognano di alcuna mediazione, perch sono di opposta natura. Non hanno niente di comune l'uno con l'altro, non si

richiedono l'un l'altro, non si integrano l'un l'altro. L'uno non ha nel suo seno brama, bisogno, anticipazione dell'altro. [...] A questo sembra contrapporsi: les extrmes se touchent. Che polo nord e polo sud si attraggono, e parimenti si attraggono sesso femminile e sesso maschile, onde dal congiungimento delle loro estreme differenze nasce l'uomo. Ora a Marx non interessano le opposizioni reali, ma le contraddizioni logiche, giacch egli ritiene che queste costituiscano l'essenza della moderna societ borghese: in essa infatti vi sarebbe scissione/contraddizione (e non semplice opposizione!) tra societ civile e Stato, ossia tra societ e politica, tra borghese e cittadino. Ma in cosa consiste tale scissione/contraddizione? Nel fatto che nella societ pre-borghese la posizione economico-sociale e quella politica fanno tutt'uno: la sudditanza/diseguaglianza economico-sociale corrispondeva alla sudditanza/diseguaglianza politica; il servo della gleba era per ci stesso suddito, il proprietario terriero era per ci stesso signore. Nell'epoca borghese, invece, questi due mondi si separano: in tale separazione implicito un progresso, rispetto alle societ schiavistiche o servili, perch si crea una sfera pubblica in cui tutti sono uguali. Ma tale uguaglianza solo politica e si contrappone alla sfera socioeconomica, dove permangono le diseguaglianze. L'uomo ne risulta scisso: da un lato, come cittadino, uguale a tutti gli altri; dall'altro, come individuo empirico, profondamente diseguale agli altri. Cosa accaduto? Anzitutto Marx ha accettato integralmente da Hegel il principio dialettico, ossia la coppia scissione/contraddizione. In secondo luogo, egli - proprio facendo di tale scissione/contraddizione la caratteristica della societ moderna - ha trasferito, come ha osservato Kelsen, le contraddizioni logiche dal pensare all'essere. Marx non vede contrasti nella realt, ma contraddizioni logiche. Qual la differenza, rispetto ad Hegel? Che Hegel propone un superamento puramente speculativo di tali contraddizioni, mentre Marx riterr che esse vadano superate con un atto pratico-rivoluzionario. Inoltre, la concezione dialettica della realt - l'idea che essa sia intimamente autocontraddittoria - conduce non all'elaborazione di una sociologia scientifica, ma ad una teoria rivoluzionaria, il cui obiettivo essenziale non soltanto conoscere ed eventualmente modificare la realt, ma piuttosto sovvertirla. Infine occorre osservare che nell'avvertire la scissione come contraddizione opera il concetto tipicamente romantico di 'totalit organica', vale a dire l'idea di un'unione differenziata degli opposti, dove cessa la tensione tra gli stessi. Il mondo moderno, cos per Hegel come per Marx, ha dissociato ci che nella polis antica era totalit[42]: in essa non si dava contrasto tra particolare e universale, tra individuo e Stato, tra soggetto e oggetto, tra cittadino e individuo empirico. Tanto Hegel quanto Marx - uniti da questa idealizzazione della polis antica - anelano all'unit, all'unificazione, alla totalit organica, che il mondo moderno-borghese avrebbe frantumato e atomizzato, a causa del suo individualismo/particolarismo. Ma mentre Hegel si sforza di imbrigliare, superare e sublimare tale atomismo, che per lui caratterizza soltanto la societ civile, con una serie di strumenti (quali l'amministrazione pubblica, la corporazione, lo Stato), Marx intende invece superare tale atomismo, nel quale egli rintraccia la natura stessa dell'intera societ borghese, tagliando quelle che per lui ne sono le radici, ossia la propriet privata. L'organicismo di Hegel vuole mediare le differenze (e non sopprimerle), quello di Marx vuole invece realizzarsi attraverso un rigoroso egualitarismo. Ma l'aspirazione la stessa: fondere l'individuo nel tutto, trasformarlo in un momento di una totalit compatta, coesa, armonica. Il tratto saliente della libert dei moderni - l'indipendenza individuale, il riconoscere all'individuo una sfera sacra di autodeterminazione - proprio ci che costituisce il suo difetto principale, agli occhi di Marx: esso significa infatti che l'uomo inteso non come specie ma come individuo e che la societ solo un'aggregazione di individui indipendenti e non un qualcosa di profondamente e organicamente unitario. Organicismo, egualitarismo e utopismo fanno tutt'uno, aprendo un abisso incolmabile tra il socialismo di cui parla Marx e il liberalismo moderno. Nel quadro che ho appena illustrato, infatti, la posizione di Marx verso i diritti individuali (civili e politici) conquistati dalla tradizione liberale - e in seguito universalizzati da quella democratica - del tutto negativo. O meglio: Marx riconosce che tali diritti, dando luogo ad una sfera pubblica dove tutti sono eguali, costituiscono un passo in avanti, rispetto alle societ antiche e feudali; ma, al tempo stesso, egli ritiene che essi siano uno degli elementi della contraddizione fondamentale della societ moderna, giacch presuppongono la separazione e il contrasto tra cittadino e borghese, quindi tra societ e Stato, tra economia e politica. Ora, tale separazione/contrasto interpretata da Marx - come abbiamo gi ricordato - nei termini

di una contraddizione dialettica, ovverosia come scissione di qualcosa che originariamente era unito e che quindi tende inevitabilmente a riunirsi: in questa prospettiva, i diritti universali dell'uomo, per Marx, a) svolgono la stessa funzione mistificante delle rappresentazioni religiose, mascherando, tramite l'universalit astratta dello Stato, il dominio di classe; essi sono in realt diritti 'borghesi', dunque diritti classisti e perci falsi, ipocriti; b) essendo frutto della scissione che caratterizza la societ borghese moderna, essi verranno inevitabilmente superati con la scomparsa di quest'ultima e il sorgere di una societ radicalmente diversa (quella proletaria), caratterizzata dal superamento di tutte le scissioni e di tutti gli antagonismi. Ricapitolando: nella teoria marxiana non si tratta di allargare i diritti politici - che i liberali, nell'Ottocento, volevano riservare soltanto ai proprietari - a tutti, come far la tradizione democratica; n si tratta di integrare i diritti civili e i diritti politici, una volta estesi a tutti, con i diritti sociali, ossia con una serie di garanzie volte a far s che i primi non vengano resi inefficaci dalle condizioni socio-economiche. In tutti questi casi, diritti di diversa natura sono stati innestati sul medesimo tronco, e hanno dunque integrato, e non cancellato, quelli precedenti. E' chiaro che questa integrazione non cos pacifica - non lo sul piano teorico e non lo stata sul piano storico. Per potersi integrare, questi diritti, essendo finalizzati alla tutela di beni diversi, devono reciprocamente rinunciare a qualcosa: di qui le diverse interpretazioni della democrazia moderna, da quelle che pongono l'accento sulla libert individuale (liberal-democratiche) a quelle che pongono l'accento sulla partecipazione sociale (democrarico-liberali o social-democratiche). Ma, pur nella diversit, queste posizioni condividono una serie di valori e di istituzioni: la libert individuale per tutti (e i connessi diritti e garanzie), la libert politica per tutti (ossia il suffragio universale), e infine una serie di garanzie sociali (pi o meno estese) per rendere effettive le prime e per garantire pari opportunit a tutti. Nulla di tutto questo in Marx: la democrazia liberale per lui nient'altro che la 'democrazia borghese', falsa e ipocrita; una vera e propria maschera, che serve ad occultare l'oppressione e lo sfruttamento del proletariato da parte della borghesia, e che sparir tra le macerie quando il proletariato, attraverso la rivoluzione ineluttabile, rovescer violentemente la societ borghese, dando luogo ad una societ totalmente diversa. I diritti civili e politici altro non sono che quella maschera; essi non hanno alcuna portata e alcun valore universali. Essi sono soltanto lo strumento di un dominio di classe: annientato tale dominio, saranno annientati anch'essi. Nella societ comunista, del resto, il problema dei diritti non esister affatto: esso infatti l'espressione, secondo Marx, di una societ caratterizzata dall'antagonismo delle classi. Veniamo ora al materialismo storico. Presupposto di tale concezione della storia che non esista un'essenza umana in generale, determinabile astrattamente. Tale determinazione astratta stata compiuta tanto dall'idealismo (che ha visto nell'uomo soltanto il suo lato attivo, ossia la sua capacit di intervenire attivamente nella realt, di trasformarla, trascurando completamente il lato sensibile, materiale), quanto dal materialismo alla Feuerbach (il quale ha visto nell'uomo soltanto la materia come mera sensibilit, come mera ricettivit del mondo esterno, trascurando completamente il lato attivo e creativo). L'essenza dell'uomo, per Marx, non invece determinabile una volta per tutte, a prescindere dalla concrete condizioni storiche della sua esistenza; la sua essenza non pu essere clta rimanendo sul piano interiore della coscienza, oppure concependolo naturalisticamente come qualsiasi altro elemento della natura, perch la natura dell'uomo storia, ossia rapporto attivo e mutevole con la natura e con gli altri uomini. Ora, tale rapporto d luogo a forme storicamente determinate di lavoro e produzione, che sono le vere matrici della personalit umana. Cosa distingue - si chiede Marx nell'Ideologia tedesca - gli uomini dagli animali? Noi possiamo dire che li distinguono la coscienza o la religione; ma in realt gli uomini cominciarono a distinguersi dagli animali allorch cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza ... Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro vita materiale. E' dunque il lavoro che contraddistingue l'uomo, ossia la sua capacit di stabilire un rapporto attivo e modificatore con la realt che lo circonda. Il materialismo storico si basa su questi presupposti: l'essenza umana non determinabile una volta per tutte, ma si manifesta nel concreto processo storico, attraverso le forme che viene assumendo; presupposto empirico di questa storia sono le condizioni materiali, dunque le condizioni economiche, nelle quali l'uomo si trova ad operare e che egli tende a trasformare. Ascoltiamo tale concezione nella sua formulazione pi

classica, tratta dalla prefazione a Per la critica dell'economia politica. Nella produzione sociale della loro esistenza - scrive Marx - gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volont, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze positive materiali. L'insieme di questi rapporti costituisce la struttura economica della societ, ossia la base reale sulla quale si eleva una soprastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma , al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Ecco il famoso economicismo marxiano. La struttura della storia - il luogo nel quale occorre cercare le leggi della storia, la sua anatomia - sono i rapporti economici. Tutto il resto - forme del diritto e dello Stato (dunque anche della politica), morale, religione, metafisica - sovrastruttura, ossia qualcosa che deriva dalla struttura e che, in ultima analisi, va spiegato in base ad essa. La sovrastruttura si modifica quando si trasforma la struttura, e non viceversa. Ecco perch la concezione idealistica della storia, secondo Marx, profondamente sbagliata: perch essa capovolge il processo storico effettivo, facendo delle idee la spiegazione delle cose, mentre sono le cose che spiegano le idee. Una vera teoria della storia non spiega la prassi partendo dalle idee, ma al contrario spiega la formazione delle idee partendo dalla prassi materiale e perci giunge al risultato che tutte le forme e i prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell'autocoscienza o trasformandoli in spiriti, fantasmi o spettri, ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate. Ne consegue, conclude Marx, che non la critica ma la rivoluzione la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria. Questo approccio ci consente di illustrare un altro concetto fondamentale: quello di ideologia. Per Marx la storia storia di lotta di classi, ossia di lotte socio-economiche, che trasformano la struttura economica della societ. Vi sempre una classe che opprime e una classe che viene oppressa. Tutte le forme sovrastrutturali (a cominciare dalle istituzioni giuridico-politiche, per finire con le manifestazioni spirituali) non sono che mezzi con i quali la classe dominante esprime e realizza il suo dominio: in questo senso esse sono "ideologiche", poich realizzano tale dominio occultandolo dietro una pretesa universalit. Ideologia significa dunque, per un verso, inconsapevolezza, coscienza capovolta: gli ideologi elaborano le illusioni della classe dominante su se stessa, perch considerano le idee (le dottrine giuridiche, politiche, filosofiche) come un prodotto dello spirito, quando esse non sono che un prodotto delle condizioni materiali, cio delle forme di produzione; per altro verso, ideologia pu significare aperta ipocrisia, atto con il quale l'interesse di classe viene mascherato da interesse comune. Sappiamo, dunque, che la storia determinata dall'evoluzione della struttura economica e non certo dalle idee. Ma qual la molla di tale evoluzione? Essa costituita, per Marx, dal rapporto tra 'forze produttive' (ossia gli uomini, i mezzi e le conoscenze che servono a produrre) e 'rapporti di produzione' (vale a dire, i rapporti che si instaurano fra gli uomini nel corso della produzione e che trovano espressione nei rapporti di propriet; in sostanza, sono i rapporti sociali). Quando le forze produttive raggiungono un certo grado di sviluppo, esse entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, i quali non rappresentano pi condizioni di sviluppo per tali forze produttive, bens vere e proprie catene. Subentra allora un'epoca di rivoluzione sociale, attraverso la quale i rapporti sociali vengono radicalmente trasformati. Ma questo avviene soltanto quando la vecchia formazione sociale ha sviluppato tutte le forze produttive cui pu dare corso; con la completa maturit che una forma sociale prepara la propria crisi. Riscontriamo in queste posizioni, ancora una volta, l'eco della dialettica storica di Hegel. Marx tuttavia ammette che tale processo dialettico ha una fine. I rapporti sociali di produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica, a suo parere, del processo di produzione sociale. La borghesia sviluppa forze produttive tali che consentiranno di superare l'antagonismo, attraverso un processo (caratterizzato inizialmente dalla dittatura del proletariato) il cui esito finale sar la societ comunista, vale a dire una societ senza classi, priva di contraddizioni, e pertanto priva di ogni necessit di oppressione o di mediazione tra contrasti: dunque una societ senza Stato

e senza politica. Il testo in cui forse si pu cogliere nel modo pi chiaro l'applicazione alla realt della concezione materialistica della storia il Manifesto del 1848. Qui ritroviamo anzitutto l'analisi della funzione storica della borghesia, che Marx esalta in termini assai positivi: la borghesia, egli dice, ha modificato la faccia della terra in una misura che non ha precedenti nella storia, mostrando ai popoli che cosa possa l'attivit umana. Ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi d'Egitto, gli acquedotti di Roma e le cattedrali gotiche; ha portato a termine ben altre spedizioni che gli spostamenti dei popoli e le Crociate in Terrasanta. La borghesia ha realizzato per la prima volta l'unificazione del genere umano: agevolando le comunicazioni e trascinando nella civilt tutti i paesi riuscita costruire un mercato mondiale e a porre le basi per un reale cosmopolitismo. Ma questo soltanto un aspetto della valutazione marxiana della borghesia, che riguarda soprattutto il passato (ossia, la sua funzione storica) di tale classe; per il futuro Marx assimila infatti la borghesia allo stregone che non riesce pi a dominare le forze da lui evocate, e che pertanto destinata a soccombere nella lotta di classe con il proletariato. Inoltre nel Manifesto troviamo la critica dei cosiddetti socialismi non-scientifici. Marx divide la letteratura socialista e comunista in tre tendenze di fondo: il socialismo reazionario, quello conservatore o 'borghese' e quello critico-utopistico. Il socialismo reazionario quello che attacca il capitalismo in nome non del futuro, ma del passato: in forme 'feudali', 'piccolo-borghesi' o 'tedesche', esso guarda alla societ pre-capitalistica (pre-rivoluzionaria e pre-borghese) come ad un modello positivo. Il socialismo conservatore o borghese quello di coloro che vorrebbero rimediare agli inconvenienti del capitalismo senza distruggere il capitalismo stesso: nella loro mentalit a-dialettica, dice Marx, costoro vorrebbero i lati positivi del capitalismo senza quelli negativi, non accorgendosi che essi sono inestricabilmente connessi e che pertanto il capitalismo non pu essere "curato", ma deve essere distrutto. Il socialismo e comunismo critico-utopistico invece rappresentato dalle teorie pre-marxiste di Saint-Simon, Fourier e Owen: per avendo avuto il merito di aver intravisto l'antagonismo tra le classi e le contraddizioni del mondo moderno, questi autori non hanno riconosciuto al proletariato alcuna funzione autonoma e si sono rivolti invece a tutti i membri della societ, per sviluppare un'azione pacifica di riforme. Sganciati dalla realt concreta, essi non hanno fatto che elaborare 'ideali' astratti, privi di qualsiasi efficacia: ad essi Marx contrappone il proprio socialismo scientifico, basato su un'analisi critico-scientifica dei meccanismi sociali del capitalismo e sull'individuazione del proletariato come forza rivoluzionaria destinata ad abbattere il sistema borghese e a costruire una societ totalmente nuova. Passiamo ora a delineare, per sommi capi, la teoria economica contenuta nel Capitale, ossia l'anatomia della societ borghese. Marx critica l'economia classica (detta economia borghese) perch scambia per naturale ci che un prodotto storico: il modo di produzione borghese-capitalistico. In realt quest'ultimo il frutto di un determinato cammino storico e reca in s i germi della propria dissoluzione. La fine del modo di produzione borghese segner, per Marx, la fine dei modi di produzione antagonistici, ossia basati sul rapporto signore-servo; ma soltanto passando attraverso questa fase che si porranno le basi per lo sviluppo di forze produttive tali da consentire nuovi rapporti di produzione, ossia una nuova societ. Nell'analisi economica di Marx vi sono due capisaldi: la teoria del valore e la legge di sviluppo della societ capitalistica. La teoria del valore/lavoro non nuova - essa infatti gi presente negli economisti classici, come Smith e Ricardo -, ma nuove sono le conseguenze che Marx ne trae. L'assunto semplice: il valore di una merce dato dal lavoro occorso per produrla; quindi, valore = lavoro. Ne consegue che le merci vengono scambiate, sul mercato, attraverso la reciproca commisurazione del lavoro occorso per produrle. Ma il lavoro stesso, che cos'? Nella societ capitalistica una merce come tutte le altre, sottoposta alla compra-vendita: Marx denomina questo tipo particolare di merce 'forza-lavoro'. Il proprietario della forzalavoro il proletario, che non ha altro da vendere, se non la sua capacit di lavorare; vendendo questa 'merce' egli ottiene in cambio il salario. Ma come si determina il valore della forza-lavoro (ossia, come si determina il salario)? Come in tutti gli altri casi, ossia attraverso la quantit di lavoro necessario per produrla: in questo caso ci significa che il valore della forza-lavoro equivale al valore dei mezzi di sussistenza necessari per consentire alla forza-lavoro di esistere.

Tuttavia, la forza-lavoro, osserva Marx, una merce sui generis: essa infatti, oltre ad avere un proprio valore, in grado di saper creare altro valore, attraverso la produzione di altre merci. Solo il lavoro, infatti, crea valore; le macchine (il capitale costante, secondo la terminologia di Marx) non fanno che cedere ai prodotti il proprio valore, che gi contenuto nel loro prezzo. Ora, da questa peculiarit della forza-lavoro che scaturisce il plusvalore: il capitalista compra la forza-lavoro come qualsiasi altra merce, ossia pagandola secondo il valore corrispondente alla quantit di lavoro socialmente necessario a produrla, che, nel caso dell'operaio, corrisponde a quello dei mezzi che gli sono necessari per vivere, lavorare e riprodursi. Tuttavia l'operaio ha la capacit di produrre un valore superiore a quello che gli viene corrisposto con il salario; tale valore, che incorporato nelle merci prodotte, non viene tuttavia dato al suo produttore, ossia al lavoratore stesso, ma viene trattenuto dal capitalista. Facciamo un esempio: un operaio lavora per 10 ore e quindi crea prodotti per un valore uguale a 10; se il capitalista gli corrispondesse tutto il valore del prodotto non realizzerebbe alcun guadagno; di conseguenza, il valore equivalente al salario deve essere inferiore al valore globale prodotto dall'operaio. Poniamo che tale valore sia fissato a 6: ne consegue che nelle prime sei ore l'operaio avrebbe creato prodotti aventi un valore equivalente al proprio salario; nelle restanti quattro egli avrebbe quindi "regalato" il proprio lavoro (plus-lavoro) al capitalista. Dal 'plus-lavoro' dell'operaio discende quindi il 'plus-valore' di cui si impossessa il capitalista: con questa teoria Marx ritiene di aver dato una spiegazione scientifica dello sfruttamento, sfruttamento che possibile solo in quanto il capitalista possiede quei mezzi di produzione di cui sprovvisto l'operaio, il quale quindi "costretto" a vendersi sul mercato. Dal plus-valore deriva il profitto, che non coincide per con il primo. Occorre tenere presente che un'impresa, per funzionare, ha bisogno sia del capitale variabile (destinato ai salari), sia del capitale costante (macchinari e tutto ci che serve al funzionamento della fabbrica); poich il plus-valore deriva soltanto dai salari, ossia dal capitale variabile, il suo saggio risiede nel rapporto tra plus-valore medesimo e capitale variabile. Serviamoci ancora una volta di un esempio: se il capitale variabile 6 e il plus-valore 4, il saggio del plus-valore sar quattro sesti, ossia due terzi, ossia il 66,6%. Il capitalista deve tuttavia investire non soltanto in capitale variabile (salari), ma anche in capitale costante (macchinari): ne consegue che il saggio di profitto non coincide con il saggio di plus-valore, ma scaturisce dal rapporto tra il plus-valore da un lato e la somma del capitale variabile e del capitale costante dall'altro. Tornando al nostro esempio: il capitale variabile era 6, il plus-valore era 4; assumiamo che il capitale costante sia 1; ne segue che il saggio di profitto sar 4 diviso 7 (6+1), dunque quattro settimi, ossia il 57,1%. Il saggio di profitto pertanto sempre minore del saggio di plus-valore. Quanto alla legge di sviluppo della societ capitalistica, Marx la esprime con la formula D-M-D'. In un'ipotetica societ mercantile semplice - ossia in una societ nella quale ciascun lavoratore sia proprietario dei mezzi produzione e produca pertanto autonomamente un certo tipo di merce - la circolazione avrebbe la forma M-D-M (merce-denaro-merce): ciascun produttore scambia la merce con denaro, al fine di acquistare un'altra merce; sarebbe una transizione finalizzata esclusivamente al consumo. Viceversa la circolazione capitalistica, come abbiamo anticipato, ha la forma D-M-D' (denaro-merce-denaro), dove D' deve essere maggiore di D: il capitalista insomma compra con il proprio denaro la merce necessaria alla produzione e rivende poi per denaro le merci prodotte. Tutto il movimento finalizzato ad accrescere il capitale, ossia a produrre profitto; ma tale profitto non viene interamente consumato, pena l'estinzione del processo; esso quindi viene reinvestito. La societ capitalistica quindi retta dalla logica del profitto privato e non da quella dell'interesse collettivo. Inutile ricordare che tali posizioni sono state pi volte criticate. Anzitutto, esiste una linea di pensiero - che risale ad Adam Smith e, tramite la scuola austriaca di Menger e Mises, giunge sino a Hayek - secondo cui la competizione economica tra una pluralit di soggetti liberi, mossi dall'interesse privato e disciplinati da regole generali, risulta essere il modo migliore per produrre l'interesse collettivo, mentre le economie collettivistiche, incentrate sull'abolizione degli interessi privati e sul perseguimento pianificato dell'interesse collettivo, produrrebbero, a dispetto delle loro intenzioni, soltanto una condizione di miseria diffusa (e la storia del XX secolo, a questo riguardo, si incaricata di dare una spettacolare evidenza a tale argomento). In secondo luogo, la teoria del valore/lavoro stata sottoposta a numerose critiche, rilevando come nel determinare il valore della merce entrino in gioco altri fattori (in primo luogo, quello della sua scarsit o della richiesta che incontra). In terzo luogo, la tesi secondo cui il profitto costituirebbe un "furto" ai danni

del lavoratore occulta completamente il fatto che l'imprenditore arrischia il proprio capitale - anticipandolo sotto forma di macchinari e di salari - in un'impresa il cui esito sempre incerto e dalla quale pu anche derivare la perdita del proprio denaro; e il profitto viene per l'appunto a remunerare tale "rischio", nonch l'inventitit dell'imprenditore, che svolge la funzione socialmente cruciale di creare lavoro e ricchezza. Un dato certamente campeggia, alla fine del nostro secolo: l'economia di mercato, pur con tutti i suoi difetti (che sono numerosi), ha saputo creare societ in cui la ricchezza aumentata e si diffusa in proporzioni che non conoscono eguali nella storia dell'uomo; e verso queste societ, non a caso, si dirigono tutte le popolazioni povere della terra. A ci si aggiunga il fatto che il comunismo - ovunque sia stato realizzato, sia pure nelle condizioni culturali, sociali ed economiche pi diverse (in Europa come in Asia, in America come in Africa) - ha sempre coinciso con l'annientamento delle libert civili e politiche, mentre l'economia di mercato sempre convissuta con regimi liberal-democratici ( soltanto sul finire del XX secolo, e in regimi spesso originariamente comunisti, che hanno iniziato a svilupparsi sistemi economicamente liberi, ma privi della libert civili e politiche). Tutto ci non significa affatto che l'economia di mercato sia priva di difetti e che quindi non richieda un costante intervento per rimediare ai suoi aspetti negativi. Essa, insomma, non costituisce affatto il paradiso in terra: ma questo obiettivo, contrariamente a quanto avvenuto per il comunismo, non mai stato nei progetti originari. Ma torniamo a Marx. Il pensatore tedesco delinea un'analisi catastrofistica del capitalismo, in virt della quale quest'ultimo destinato a morire per opera delle sue immani contraddizioni. Vediamone le tappe principali. In un primo momento il capitale cerca di accrescere il plus-valore aumentando la giornata lavorativa: il maggiore plus-lavoro d luogo a maggiore plus-valore; tornando al nostro esempio, se la giornata era di 10 ore (6 di lavoro e 4 di plus-lavoro), allungandola a 15 il plus-lavoro, ossia il plus-valore, sale da 4 a 9. Ma questa strategia incontra dei limiti oggettivi, perch oltre una certa soglia la forza-lavoro cessa di essere produttiva. Ne consegue che il capitalismo punta non ad aumentare la giornata lavorativa ('plus-valore assoluto'), ma a ridurre la parte delle giornata lavorativa necessaria per pagare il salario: ci si pu ottenere soltanto migliorando la produttivit del lavoro, ad es. con l'innovazione tecnologica. Si avr cos il 'plus-valore relativo'. Tornando al nostro esempio: la giornata lavorativa rimane di 10 ore, ma, grazie all'introduzione di nuovi macchinari, l'operaio riesce a produrre in 3 ore la quantit di merci corrispondenti al suo salario, ragion per cui il plus-lavoro sale da 4 a 7, pur restando invariata la quantit delle ore lavorative. Ma l'aumento di produttivit conseguito in tal modo produce, oltre ad una maggiore conflittualit operaia, il fenomeno delle cicliche crisi di sovrapproduzione, ossia delle fasi in cui l'offerta di merci supera la loro domanda sul mercato. Ci avviene, secondo Marx, perch nel capitalismo vige l'anarchia della produzione, in virt della quale i capitalisti si precipitano "alla cieca" nei settori dove il profitto pi alto, facendo s che in quel settore si determini una sovrapproduzione. Il risultato di tali crisi la disoccupazione, che va ad accrescere il cosiddetto 'esercito industriale di riserva'. Oltre alle crisi cicliche, il capitalismo afflitto, secondo Marx, da un altro inconveniente strutturale: la caduta tendenziale del saggio di profitto. Poich le necessit della produzione capitalistica inducono a investire una quota sempre maggiore di capitale nel capitale costante (macchine e materie prime) rispetto al capitale variabile, ne consegue che il saggio di profitto, derivando dal plus-valore, che a sua volta deriva dai salari, destinato a decadere progressivamente: ma la progressiva decadenza del profitto non altro che la progressiva decadenza del capitalismo, giacch quest'ultimo altro non che la ricerca del profitto. Questo il vero tallone d'Achille del capitalismo, per Marx; altri invece ritengono, inclusi alcuni marxisti, che l'innovazione tecnologica, rendendo pi produttivo il lavoro, determini non la diminuzione ma l'aumento dei profitti. In conclusione: la caduta tendenziale del saggio di profitto, pi la concorrenza, pi le crisi cicliche - il tutto nel quadro della generale anarchia produttiva - condurranno ad un assetto sociale caratterizzato dalla netta scissione tra due classi: da un lato la classe dei capitalisti, sempre pi ristretta e sempre pi ricca; dall'altro lato la classe proletaria, sempre pi numerosa e sempre pi povera. E poich il capitalismo ha un carattere naturalmente internazionale, tale ultima scissione antagonistica tende a prodursi su scala mondiale, tendendo all'estremo limite la contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali. Di qui il celebre epilogo del I libro

del Capitale: la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventanto incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l'ultima ora della propriet privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.

13. Tocqueville
Cenni biografici
Alexis de Tocqueville nasce a Verneuil, presso Parigi, nel 1805, da una famiglia aristocratica legata ai Borbone. Nel 1827 viene nominato giudice uditore al tribunale di Versailles, dove conosce Beaumont, con il quale frequenta le lezioni di Guizot alla Sorbona. Nel 1830 giura fedelt alla nuova monarchia orleanista. Nel 1831 parte con Beaumont per studiare, su incarico del Ministero degli Interni, il sistema penitenziario degli Stati Uniti. Nel 1832 ritorna in Francia e si dimette da magistrato. Nel 1835 pubblica la I parte della Dmocratie en Amerique, che incontra un grande successo. Nello stesso anno sposa Mary Motley. Nel 1837 si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati, ma viene battuto; si ripresenter e verr eletto nel 1839. Nel 1840 pubblica la II parte della Dmocratie en Amerique, che non incontra il successo della prima. Il 27 gennaio 1848 pronuncia un celebre discorso alla Camera, in cui dichiara di ritenere imminente una rivoluzione. Appena un mese pi tardi Luigi Filippo viene travolto da un moto popolare. Viene istituita la Repubblica e instaurato un governo provvisorio repubblicano-socialista. Tocqueville viene eletto all'Assemblea Costituente. In seguito alla vittoria di Luigi Napoleone alle elezioni del dicembre 1848 Tocqueville d le dimissioni dagli incarichi diplomatici che aveva assunto. Nel maggio del 1849 viene rieletto all'Assemblea Nazionale. Diviene Ministro per gli Affari Esteri, ma soltanto per cinque mesi; dopo che Bonaparte ha sciolto il governo, Tocqueville rifiuter infatti di far parte di quello successivo. Dopo il colpo di Stato del dicembre 1851 si ritira dall'attivit politica. Nel 1852 lavora intensamente ad un'opera sulla Rivoluzione francese; compie studi a Tours sulla societ d'ancien rgime e in Germania sul sistema feudale. Tornato in Francia scrive L'Ancien Rgime et la Rvolution, che viene pubblicato nel 1856 ed ottiene un grande successo. Muore nel 1859 a Cannes, a 54 anni.

Il pensiero politico
Nella generale riscoperta dei classici del pensiero liberale - riscoperta avviatasi a partire dai primi anni '80 l'opera di Tocqueville ha occupato (ed occupa) un posto di primo piano. La straordinaria analisi della democrazia moderna - straordinaria per acutezza e per lungimiranza, essendo stata formulata negli anni trenta dell'Ottocento -, la polemica contro il centralismo amministrativo, l'esaltazione delle autonomie locali e dell'associazionismo, l'interpretazione della Rivoluzione francese (della quale Tocqueville, assumendo un punto di vista diverso da quello degli attori rivoluzionari, individua con chiarezza i legami di continuit con l'assolutismo monarchico), infine la diagnosi delle patologie insite nella civilt moderna in quanto civilt egualitaria e di massa: tutto questo conferisce all'opera di Tocqueville un fascino notevolissimo, derivante soprattutto dal fatto che le sue previsioni e i suoi timori sulle societ democratiche, formulati quando quest'ultime erano appena ai loro inizi, si sono rivelati in gran parte esatti. Tocqueville era un aristocratico. Un aristocratico - dir Royer-Collard - che aveva accettato la disfatta; ma,

come stato recentemente osservato[43], questo famoso giudizio coglie soltanto in parte nel segno. Tocqueville indubbiamente un aristocratico: lo per nascita ed anche per temperamento; tuttavia, come vedremo, il suo un pensiero autenticamente liberale. Nato nel 1805 da nobile famiglia, egli aveva respirato sin dall'infanzia l'aria della Restaurazione: la sua famiglia era stata ligia ai Borboni, sotto i quali aveva trovato fortuna e onori, e soltanto il Termidoro aveva salvato i suoi genitori dalla ghigliottina; la madre nipote del difensore di Luigi XVI nel processo che lo avrebbe condotto al patibolo - gli cantava con voce commossa, quando era bambino, le canzoni sulla tragica fine del re. Tuttavia, nonostante l'educazione ricevuta, quando i Borboni (nel luglio del 1830) furono travolti dalla Rivoluzione, il giovane Tocqueville giur fedelt a Luigi Filippo. Fu una scelta assai difficile, che lo pose in contrasto con la famiglia e con l'ambiente del quale faceva parte, e che egli ritenne comunque necessaria, convinto com'era che, qualora anche la monarchia costituzionale orleanista avesse fallito, la Francia sarebbe sprofondata nel caos e nell'anarchia. In una lettera a Stoffels scriveva: le classi medie hanno fatto la rivoluzione, e Dio voglia che esse non debbano pentirsene molto presto. Gi i ceti inferiori le trattano come una nuova aristocrazia: i giornali soffiano sul fuoco e il popolo, divenuto ormai una potenza, cerca di avere i suoi adulatori. Giungeranno mai le classi medie ad organizzarsi in modo da resistere al movimento che le spinge? Avranno mai una condotta abbastanza intelligente da sentire i pericoli della loro posizione attuale e da sapersi unire per apportarvi qualche rimedio? Lo spero; ma non oso affidarmi molto a questa speranza. In ogni caso, dalla soluzione di questo problema dipender il nostro avvenire. Con l'adesione all'orleanismo Tocqueville non difende solo un determinato ordine sociale (quello borghese), ma qualcosa di molto pi ampio: egli difende un ordine politico-costituzionale - vale a dire, quella monarchia costituzionale che costituisce il primo esempio continentale di Stato dal potere limitato -, alle cui spalle vi erano i valori delle tradizione liberale. Occorre ricordare che il giovane Tocqueville si forma negli anni della Restaurazione francese, ossia in un'et che - ad onta del nome - non aveva certo 'restaurato' l'edificio dell'ancien rgime, ormai irrevocabilmente crollato, ma che aveva piuttosto segnato la nascita sul suolo francese di una monarchia costituzionale, capace di garantire quelle conquiste civili che risalivano agli anni della Rivoluzione e che erano state soppresse dal dispotismo napoleonico. La genesi del pensiero di Tocqueville va dunque collocata, come ha giustamente sostenuto De Caprariis, sullo sfondo della cultura e delle lotte politiche dell'et della Restaurazione: in quegli anni, Tocqueville aveva riscoperto il valore autenticamente liberale della Rivoluzione dell'89, distinguendola dalle degenerazioni sanguinose del Terrore; perci, quando si deline la politica reazionaria di Carlo X (caratterizzata dal tentativo di sopprimere le garanzie costituzionali), egli si schier con fermezza dalla parte dei liberali. Ci non toglie che l'adesione al regime orleanista fu per Tocqueville, per le ragioni che abbiamo ricordato, molto penosa; sicch il viaggio in America, come stato rilevato[44], fu da lui intrapreso non soltanto per conoscere direttamente una grande repubblica democratica, ma anche per sfuggire a una situazione politicamente e psicologicamente delicata. Tocqueville part, insieme a Beaumont, nell'aprile del 1831 e torn in patria nell'ottobre dell'anno seguente: da questo lungo viaggio - durante il quale egli visit moltissime localit ed ebbe numerosissimi contatti - che nacque La dmocratie en Amrique, scritto nel biennio 1833-34 e pubblicato nel 1835. Il libro ebbe un immediato successo, che rivel come il suo autore fosse un pensatore capace non solo di analizzare magistralmente il presente, ma anche di individuare le tendenze che si sarebbero sviluppate in futuro. In questo senso Tocqueville non fu solo un eminente studioso della societ e della politica, fu anche un profeta, nel significato positivo e realistico ... della parola[45]. Ma che cosa vide il pensatore normanno nella giovanissima nazione americana? Confesso - dice Tocqueville in una delle tante straordinarie pagine de La dmocratie en Amrique - che nell'America ho visto qualcosa di pi dell'America: vi ho cercato l'immagine della democrazia stessa, delle sue tendenze, del suo carattere, dei suoi pregiudizi, delle sue passioni, e ho voluto studiarla per sapere almeno ci che da essa dobbiamo sperare o temere.

Su un punto infatti Tocqueville non ha dubbi: la democrazia il nostro destino. Molti europei videro negli Stati Uniti il proprio passato: un continente ancora vergine, allo stato di natura, dove si andava edificando una civilt e dove si era appena riprodotta, su scala naturale, la scena grandiosa di quel contratto sociale che aveva dominato le teorie politiche europee tra Seicento e Settecento. Tocqueville, con eccezionale lungimiranza, intuisce invece che gli Stati Uniti non rappresentano, per l'Europa, il suo lontanissimo passato, bens il suo futuro prossimo; non ci che essa ha alle sue spalle, ma ci che la attende. L'atteggiamento di Tocqueville per la democrazia venato da una profonda ambivalenza, della quale egli lucidamente consapevole. Da un lato, egli riconosce che democrazia significa progresso sociale e civile: in essa ogni uomo, essendo uguale agli altri, sente un uguale bisogno dei suoi simili, sicch l'interesse particolare si fonde con l'interesse generale; nella democrazia, inoltre, la maggioranza dei cittadini gode di un benessere maggiore rispetto al passato. Dall'altro lato, Tocqueville non pu fare a meno di osservare come nelle democrazie manchi l'entusiasmo e l'ardore della fede, come esse abbiano meno splendore, meno gloria, meno forza, infine come esse tendano ad un appiattimento e ad un conformismo generali. Ho per le istituzioni democratiche - scrisse il pensatore normanno in un celebre appunto di lavoro - un gusto di testa, ma sono aristocratico per istinto, cio disprezzo e temo la folla. Amo con passione la libert, la legalit, il rispetto dei diritti, ma non amo la democrazia, ecco il fondo del mio animo ... La libert la prima delle mie passioni, ecco la verit. Come ha finemente osservato Raymond Aron, Tocqueville oscilla nei suoi giudizi sulla societ democratica tra la severit e l'indulgenza, tra la reticenza del cuore e l'adesione esitante della ragione. Ma v' un punto sul quale il pensatore normanno non ha dubbi o esitazioni: la tendenza verso la democrazia gli appare infatti come un processo necessario e inevitabile, che caratterizza tutta la storia moderna. Nell'XI secolo, egli dice, la nobilt aveva un valore incalcolabile; nel XII secolo gi la si poteva comprare; e negli ultimi settecento anni non si incontra in tutta la storia della Francia un solo avvenimento di particolare importanza che non si sia risolto in favore dell'eguaglianza sociale: le crociale e le guerre con gli Inglesi decimano i nobili e dividono le loro terre; il costituirsi dei comuni introduce la libert democratica in seno alla monarchia feudale; l'invenzione delle armi da fuoco rende uguali il plebeo e il nobile sul campo di battaglia; la stampa offre le medesime risorse alla loro intelligenza; la posta porta le notizie alla soglia della capanna del povero come alla porta dei palazzi; il protestante sostiene che tutti gli uomini sono ugualmente in grado di trovare la via del Cielo. La scoperta dell'America apre mille nuove strade alla fortuna e offre ricchezza e potere all'oscuro avventuriero. E se la linea di tendenza questa, si chiede Tocqueville, come si pu pensare che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo e le monarchie assolute, indietregger davanti ai borghesi e ai ricchi? Anche la sorte della grande borghesia ormai segnata, ed essa dovr fare i conti con il livellamento democratico. Di fronte alla grandiosit e ineluttabilit di questo processo storico - che avanza da tanti secoli, che ha sormontato qualsiasi ostacolo e che ancora oggi progredisce in mezzo alle rovine che ha prodotto - Tocqueville prova una sorta di "terrore religioso". Ma proprio perch si tratta di un processo ineluttabile, inutile scandalizzarsi di fronte a certe caratteristiche della democrazia, rifiutarla da un punto di vista sentimentale o culturale, maledirla o esecrarla; non resta che prenderne atto e, se possibile, influire su di essa. Se il progresso democratico ineluttabile, non resta che cercare di dirigerlo. Scrive Tocqueville: educare la democrazia, rianimare, se possibile, le sue fedi, purificare i suoi costumi, regolare i suoi movimenti, sostituire, poco per volta, la scienza degli affari all'inesperienza, la conoscenza dei suoi reali interessi ai suoi ciechi istinti; adattare il suo governo ai tempi e ai luoghi, modificarlo secondo le circostanze e gli uomini: questo il principale dovere che oggi s'impone ai nostri governanti. E' necessaria una scienza politica nuova per un mondo ormai completamente rinnovato. Ma le classi dirigenti francesi non hanno fatto nulla di tutto ci; esse hanno abbandonato la democrazia a se stessa, ai suoi istinti e ai suoi impulsi. Il risultato che la Francia conosce e soffre tutti i mali della democrazia, senza godere dei suoi pregi. Il compito che si propone Tocqueville va proprio in questa

direzione: egli si propone di studiare a fondo la democrazia per dirigerla e purificarla, per aiutare la vecchia Europa a realizzarne consapevolmente le conquiste e, al tempo stesso, per cancellarne (o limitarne) i pericolosi difetti. Gli Stati Uniti offrono, per questo compito, un terreno ideale: l, infatti, il principio democratico - liberato da tutto ci che lo ostacolava nelle societ europee - cresciuto liberamente e rigogliosamente, sviluppandosi dapprima nei costumi e quindi nelle leggi. Naturalmente Tocqueville non ha alcuna intenzione di raccomandare all'Europa la pedissequa imitazione del sistema americano; ma poich quest'ultimo costituisce la forma pi avanzata e matura di democrazia, ci consente di mettere a fuoco presupposti e implicazioni di tale modello socio-politico, i suoi vantaggi e i suoi pericoli, al fine di decidere consapevolmente quali tratti della democrazia sia utile realizzare, e quali sia bene respingere, sul continente europeo. Come dicevamo all'inizio, Tocqueville cerca nell'America qualcosa di pi dell'America: vi cerca l'immagine della democrazia stessa, il suo 'modello', il suo 'tipo ideale' (nel senso weberiano del termine). Ci significa che siamo lontani da qualsiasi idealizzazione: infatti il pensatore normanno sar affascinato da alcuni aspetti, ma preoccupato per altri; aderir razionalmente a certi princpi e a certi istituti della democrazia americana, ma non mancher di mettere in guardia contro le loro degenerazioni, che in alcuni casi sono inevitabili. Il quadro che ne risulta, come stato osservato, pu apparire - e in effetti - sostanzialmente contraddittorio. Ma si tratta di una contraddizione altamente produttiva sia sul piano conoscitivo che su quello eticopolitico[46]. Sar infatti proprio questa ambivalenza - vale a dire, la non completa identificazione di Tocqueville con i valori della democrazia moderna, non completa identificazione dovuta proprio alla cultura aristocratica dalla quale proviene - a consentire al pensatore normanno di gettare sulla democrazia lo sguardo pi lucido di tutto l'Ottocento. Veniamo dunque all'analisi contenuta ne La dmocratie en Amrique: tra le novit che attirarono la mia attenzione durante la mia permanenza degli Stati Uniti - leggiamo nelle prime pagine - nessuna mi ha maggiormente colpito dell'uguaglianza delle condizioni. La democrazia per Tocqueville anzitutto eguaglianza delle condizioni. Questa identificazione stata criticata da alcuni studiosi, che l'hanno trovato generica e imprecisa. Essa invece, come stato giustamente rilevato, una categoria socio-politica assai pregnante, perch comprende, oltre che determinazioni economiche, sociali, giuridiche e politiche, anche determinazioni culturali e spirituali[47]. La democrazia insomma qualcosa di pi che un insieme di istituti giuridico-politici; essa anche un sistema socioeconomico e un sistema culturale-spirituale: e il principio ispiratore di ognuna di queste dimensioni la 'eguaglinza delle condizioni'. Non bisogna dimenticare, del resto, che nel pensiero di Tocqueville convivono due aspetti: quello politico in senso stretto e quello pi generalmente sociologico. E secondo alcuni studiosi[48] l'aspetto sociologico dell'opera tocquevilliana sarebbe assai pi importante di quello politico. Riprendendo un giudizio di Marcel Prlot, Valentini sostiene infatti che Tocqueville stato il primo politologo, il primo scienziato politico contemporaneo; la Dmocratie en Amerique andrebbe quindi posta a fianco dei Six livres de la Rpublique di Bodin, dell'Esprit des Lois di Montesquieu e della stessa Politica di Aristotele. Ma torniamo alle riflessioni di Tocqueville: senza fatica constatai - dice lo studioso normanno a proposito degli Stati Uniti - la prodigiosa influenza che l'eguaglianza delle condizioni esercita sull'andamento della societ: essa d allo spirito pubblico una determinata direzione, alle leggi un determinato indirizzo, ai governanti nuovi pincpi, ai governati abitudini particolari. Subito mi accorsi che questo fatto estende la sua influenza assai oltre la vita politica e le leggi, e che domina non meno la societ civile che il governo: infatti crea opinioni, fa sorgere sentimenti, suggerisce usanze e modifica tutto ci che non crea direttamente. Pertanto, pi studiavo la societ americana, pi vedevo nell'eguaglianza delle condizioni la forza generatrice da cui pareva derivare ogni fatto particolare; e me la ritrovavo continuamente davanti come un punto centrale, in cui convergevano tutte le mie osservazioni.

Eguaglianza delle condizioni e sistema democratico fanno quindi tutt'uno. Come ha potuto verificarsi tale fenomeno? Vale a dire, come mai il principio democratico, che in Europa ha incontrato cos numerosi ostacoli, negli Stati Uniti ha potuto svilupparsi sino a permeare di s ogni aspetto della vita sociale? Le cause fondamentali sono due, secondo Tocqueville. Anzitutto, ci dipende dalle caratteristiche degli emigranti che andarono a vivere in America: essi si trovavano tra di loro in una condizione di eguaglianza (condizione evidentemente anomala, rispetto alla societ europea del tempo, dove il lavoro dei secoli aveva prodotto diseguaglianze di tutti i tipi); inoltre essi si erano formati nelle lotte religiose, il che aveva purificato i loro costumi ed elevato la loro cultura; la maggior parte di essi aderivano ad una corrente religiosa (il Puritanesimo) nota per l'austerit dei suoi princpi e che, al tempo stesso, si era congiunta in pi punti con le pi avanzate teorie democratico-repubblicane; essi avevano inoltre ricevuto, nel vivo delle lotte politicoreligiose che avevano sconvolto il loro paese d'origine, una straordinaria educazione politica, per cui sapevano bene cosa significasse porsi sotto la protezione della legge o reclamare i diritti di libert (anche in questo la loro situazione era anomala, rispetto agli altri popoli europei); infine, appartenevano tutti alle classi agiate della madrepatria. L'unione di tutti costoro sul suolo americano diede quindi luogo, secondo Tocqueville, ad un singolare fenomeno: la creazione di una societ dove non si trovavano n nobili e plebei, n ricchi e poveri, ma una generale (relativa, s'intende) eguaglianza delle condizioni. In secondo luogo, il suolo americano non permetteva (almeno al nord) il sorgere dell'aristocrazia terriera, perch la difficolt di dissodarlo richiedeva gli sforzi costanti del proprietario stesso; la terra rendeva assai poco e pertanto essa venne spezzettata in piccole propriet, coltivate dal proprietario medesimo. L'insieme di queste condizioni perdur per tutto il Seicento, cosicch la Nuova Inghilterra si and configurando come una societ spiritualmente e socialmente omogenea, ben diversa dalla societ europea. In questo quadro, nonostante taluni radicalismi dovuti al fanatismo puritano, le leggi politiche della Nuova Inghilterra assunsero un carattere assai pi avanzato rispetto a quelle europee: i princpi generali su cui poggiano le costituzioni moderne, questi princpi che la maggior parte degli Europei del XVII secolo comprendeva appena e che trionfavano allora in modo incompleto in Gran Bretagna, sono tutti riconosciuti e fissati dalle leggi della Nuova Inghilterra: la partecipazione del popolo agli affari pubblici, il voto non vincolato all'imposta, la responsabilit dei governanti, la libert individuale e il giudizio per giuria sono stabiliti senza discussione e in modo effettivo. In questo brano si possono gi cogliere le profonde consonanze di Tocqueville con la democrazia americana. Di questa lo affascinano anche altre aspetti, come la mobilit sociale, la vitalit della societ civile e l'autonomia ammistrativa. Circa la mobilit sociale, Tocqueville non intende certo affermare che anche negli Stati Uniti non vi siano dei ricchi; non solo questi ci sono, ma - osserva il pensatore normanno - non conosco un paese in cui l'amore per il denaro occupi un posto maggiore nel cuore umano. Ci non toglie che la fortuna vi circoli con una rapidit incredibile, tanto che raro vedere due generazioni consecutive raccoglierne i favori. La libera iniziativa economica, priva di barriere socio-politiche, prorompe nella societ americana con tutta la sua forza, conducendo ad una societ in cui le classi medie rappresentano la maggioranza. Quanto alla societ civile, anch'essa caratterizzata da una straordinaria vitalit, che il risultato della sua indipendenza dal potere politico. Non c' paese al mondo - scrive Tocqueville - ove gli uomini facciano, in definitiva, tanti sforzi per creare il benessere sociale. Non conosco un popolo che sia riuscito a crare scuole altrettanto numerose ed efficienti; chiese pi adatte ai bisogni religiosi degli abitanti; strade comunali meglio tenute. Non bisogna dunque cercare negli Stati Uniti l'uniformit e stabilit di vedute, la cura minuziosa dei particolari, la perfezione dei procedimenti amministrativi; ci che vi si trova l'immagine della forza, un po' selvaggia, vero, ma piena di potenza, l'immagine della vita, disseminata di contrariet, ma anche di movimento e di sforzi. E' un modello opposto a quello europeo del dispotismo illuminato, dove uno Stato paternalistico (e quindi autoritario) veglia continuamente sul suddito, controllando e predisponendo la stessa vita sociale. Si tratta tuttavia di una protezione il cui prezzo sta nella libert e nella vitalit: se poi questa autorit, nello stesso tempo in cui allontana le pi piccole spine dal mio passaggio, padrona assoluta della mia libert e della mia vita; se monopolizza il movimento e la vita al punto che, quando essa

langue, tutto langue, quanto essa dorme, tutto dorme, quando essa muore, tutto muore? Come si pu vedere, qui Tocqueville si spinge molto avanti nell'apprezzamento della societ liberaldemocratica, fino ad accettare interamente e quasi ad identificarsi - ha scritto Bedeschi - con il suo fattore dinamico, individuato nella 'spontaneit assoluta di autodeterminazione degli individui'. Ecco perch il famoso giudizio di Royer-Collard, che ho citato all'inizio, coglie soltanto parzialmente nel segno: perch Tocqueville non soltanto colui il quale considera la democrazia qualcosa di ineluttabile, ma anche un pensatore che aderisce intimamente al modo moderno di intendere la libert. Infine, come dicevo, egli apprezza enormemente l'autonomia amministrativa che contraddistingue gli Stati Uniti: essa costituisce, ai suoi occhi, la massima espressione e, al tempo stesso, la condizione fondamentale della libert e della vitalit presenti nella democrazia americana. I suoi strumenti sono i comuni e le contee, i quali, pur nella variet delle forme assunte, si basano tutti sul medesimo principio, secondo cui ognuno il miglior giudice di ci che lo riguarda direttamente e quindi il pi qualificato per provvedere ai suoi bisogni particolari. Comuni e contee, dice Tocqueville, vegliano sui loro particolari interessi; lo Stato governa, ma non amministra. A questo principio si possono trovare eccezioni; ma non si trova mai sostenuto un principio contrario. Questa dottrina ha determinato una serie di conseguenze positive: anzitutto, che gli ammistratori locali debbano essere scelti dai cittadini stessi; tale principio elettivo ha impedito la formazione di gerarchie; e poich vi sono tanti funzionari indipendenti quante sono le funzioni, il potere amministrativo si disseminano in una molteplicit di mani; non esistendo gerarchia amministrativa ed essendo gli amministratori irrevocabili sino alla fine del mandato, stato necessario introdurre i tribunali nell'amministrazione, per mezzo dei quali i corpi secondari e i loro rappresentanti sono costretti a ubbidire alle leggi. Tocqueville sa bene che una nazione non pu vivere, se il potere non viene accentrato; ma sa anche che tale accentramento acquisisce una forza immensa e finisce per soffocare una societ, se si unisce a quello ammistrativo, perch inibisce e alla fine uccide lo spirito di iniziativa. L'esempio pi evidente la Francia. Negli Stati Uniti, invece, il pi alto accentramento politico si accompagna al pi alto decentramente amministrativo: da questa combinazione nascono tutti i vantaggi della democrazia americana. Fin qui i pregi della democrazia americana; ma dall'analisi di Tocqueville emergono anche i suoi molti difetti e i suoi numerosi pericoli. I difetti e i limiti emergono attraverso la comparazione che il pensatore normanno istituisce tra democrazia e aristocrazia: in primo luogo, l'aristocrazia appare dotata di maggiore energia. In generale, i popoli liberi mostrano nei pericoli un'energia infinitamente superiore a quella dei popoli che vivono in regimi oppressivi o tirannici; ma, aggiunge Tocqueville, ci accade soprattutto nei popoli liberi presso i quali prevale l'elemento aristocratico. La democrazia molto pi adatta a governare una societ pacifica o a fare, quando occorra, uno sforzo anche vigoroso, ma di breve durata; essa non riesce ad affrontare per lungo tempo le grandi tempeste politiche per una semplice ragione: perch gli uomini scrive Tocqueville - si espongono ai pericoli e alle privazioni per entusiasmo, ma non vi restano esposti a lungo se non per riflessione. Ma proprio la riflessione - cio la chiara percezione dell'avvenire fondata sulla cultura e sull'esperienza - ci che manca alla democrazia: il popolo, dice Tocqueville, pi che ragionare intuisce; e se i mali che gli si prospettano sono grandi, possibile che esso dimentichi i mali pi grandi che forse l'attendono in caso di sconfitta. La carenza di riflessivit e cultura si rivela anche nella legislazione delle democrazie: vero che le leggi democratiche tendono generalmente al bene della massa, perch emanano dalla maggioranza dei cittadini, la quale pu certamente sbagliare, ma non pu avere un interesse contrario a se stessa; e occorre riconoscere che leggi aristocratiche tendono a monopolizzare potere e ricchezza, perch l'aristocrazia costitutivamente minoritaria: se ne pu concludere che gli scopi della democrazia, quando legifera, sono pi utili all'umanit di quelli aristocratici. Ma altrettanto vero, sostiene Tocqueville, che l'aristocrazia infinitamente pi abile della democrazia nella scienza della legislazione: padrona di s, non affatto soggetta a impulsi passeggeri; essa ha programmi a lungo termine che sa maturare fino a che si presenti l'occasioone favorevole. L'aristrocrazia procede saggiamente; essa conosce l'arte di far convergere nello stesso tempo, verso uno stesso punto, la forza collettiva di tutte le leggi. Non cos la democrazia: le sue leggi sono, quasi sempre, difettose o intempestive. Mentre la massa del popolo pu essere sedotta e traviata a causa della propria ignoranza e delle proprie passioni, un corpo

aristocratico, invece, un uomo fermo e illuminato che non muore mai. Il pensatore normanno rivolge inoltre alla democrazia americana delle critiche circostanziate. Egli rileva che la rieleggibilit del Presidente fa s che questo non governi pi nell'interesse dello Stato, ma in quello della propria rielezione. In secondo luogo, Tocqueville colpito dal fatto che le qualit pi eccellenti sono molto diffuse tra i governati, ma assai rare tra i governanti; tale mediocrit della classe politica dovuta, a suo parere, al fatto che molto difficile elevare la cultura del popolo americano oltre un certo livello, sia perch gli individui sono quasi totalmente assorbiti dalle attivit economiche, sia perch se l'istruzione elementare alla portata di tutti, quella superiore non quasi alla portata di nessuno e quando viene comunque intrapresa ci avviene con scopi immediatamente professionali (vengono insomma studiate soltanto le scienze che preparano ad un mestiere o che sono comunque di utilit immediata). L'insieme di queste circostanze rende i cittadini americani poco capaci di scegliere, come propri rappresentanti, uomini di merito; ma a ci occorre aggiungere un difetto costitutivo della democrazia, vale a dire il fatto che essa sviluppa al massimo grado il sentimento dell'invidia. L'ansia di affermarsi sul piano sociale mobilita emotivamente il singolo, l'incertezza del successo lo irrita, ed egli si agita, si stanca, si inasprisce. Tutto ci che in qualche modo lo supera - scrive Tocqueville - gli pare allora un ostacolo ai suoi desideri, e non c' superiorit, anche legittima, la cui vista non affatichi i suoi occhi. Le classi elevate non sono odiate, ma guardate senza alcuna benevolenza, cos come poco graditi sono i grandi ingegni: ne consegue che se gli istinti naturali della democrazia spingono il popolo ad allontanare gli uomini eminenti dal potere, un istinto non meno forte porta tali uomini ad allontanarsi dalla carriera politica. Non a caso, la Camera dei rappresentanti offre uno spettacolo miserevole di volgarit e di ignoranza; per converso, osserva tuttavia Tocqueville, il Senato offre un'immagine radicalmente diversa, essendo composto di uomini di altissima levatura morale e professionale. La ragione di questo singolare contrasto rinvenuta dal pensatore normanno nel sistema elettivo, che per la Camera diretto, mentre per il Senato prevede due gradi. Ecco un'altra dimostrazione di come non si possa lasciare la democrazia ai suoi (spesso bassi) istinti e di come essa debba sempre essere filtrata e corretta. Ma, al di l di questi pur considerevoli difetti, la democrazia afflitta da un pericolo ancora maggiore, che proviene dalla sua stessa essenza e che rischia, alla lunga, di immiserire le energie migliori della societ. Questo pericolo consiste nello strapotere della maggioranza, nella famosa 'tirannia della maggioranza'. In democrazia quest'ultima tende a divenire sempre pi forte; n ci deve meravigliare, perch la democrazia, prima di essere un insieme di istituti giuridico-politici, un atteggiamento intellettuale e morale, il quale si fonda - secondo Tocqueville - sull'idea che vi sia pi cultura e saggezza in molti uomini riuniti, piuttosto che in uno solo: la teoria dell'eguaglianza applicata all'intelligenza. Questa concezione ha trovato negli Stati Uniti perfetta applicazione nel completo asservimento del legislativo alla maggioranza e nelle scarse garanzie date alle minoranze: il legislativo , di tutti i poteri politici, quello che obbedisce pi volentieri alla maggioranza. Gli americani hanno voluto che i membri del potere legislativo fossero nominati direttamente dal popolo, e per un periodo molto breve, al fine di obbligarli a sottomettersi non solo alle opinioni generali, ma anche alle passioni giornaliere dei loro elettori. Sempre pi di frequente, continua Tocqueville, gli elettori tracciano per il deputato una sorta di linea di condotta, alla quale egli si deve attenere; ma nel momento in cui i deputati ricevono, di fatto, un mandato imperativo, l'unica differenza con il governo della piazza, osserva Tocqueville, sta nell'assenza dei tumulti. Ci fa s che per le minoranze rimanga uno spazio davvero esiguo: a chi pu rivolgersi, negli Stati Uniti, un uomo o un partito che abbia subito un'ingiustizia? Il risultato di una simile situazione una sorta di tirannia pi efficace e raffinata dei vecchi sistemi assolutistici europei; pi efficace perch il potere della maggioranza ha una forza quantitativamente e qualitativamente maggiore di quella del monarca. Sotto il governo assoluto di uno solo, il dispotismo, per arrivare all'anima, colpiva grossolanamente il

corpo; e l'anima sfuggendo a quei colpi, s'elevava gloriosa al di sopra di esso: ma nelle repubbliche democratiche la tirannide non procede affatto in questo modo: essa trascura il corpo e va diritta all'anima. Il padrone non dice pi: tu pernserai come me o morirai; dice: sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da questo giorno tu sei uno straniero tra noi. Conserverai i tuoi privilegi di cittadinanza, ma essi diverranno inutili, poich, se tu ambisci l'elezione da parte dei tuoi concittadini, essi non te l'accorderanno, e se chiederai solo la loro stima, essi fingeranno anche di rifiutartela. Resterai fra gli uomini, ma perderai i tuoi diritti all'umanit. Quando ti avvicinerai ai tuoi simili, essi ti sfuggiranno come un essere impuro; e anche quelli che credono alla tua innocenza, ti abbandoneranno, poich li si fuggirebbe a loro volta. Va in pace, io ti lascio la vita, ma ti lascio una vita che peggiore della morte. Che cosa consente, allora, alla democrazia americana - dove il principio della sovranit popolare riceve un'applicazione cos pervasiva - di restare, nonostante tutto, una democrazia liberale? La risposta sta in una serie di contrappesi, che costituiscono dei veri e propri anticorpi alle caratteristiche antiliberali della democrazia pura. Anzitutto abbiamo la divisione dei poteri: la tendenza allo strapotere del legislativo, tipica delle democrazie pure, frenata negli Stati Uniti dall'indipendenza dell'esecutivo (ossia del Presidente), il quale possiede, ad esempio, il diritto di veto. Si potrebbe anche aggiungere che l'elezione diretta del capo dell'esecutivo conferisce a quest'ultimo lo stesso grado di legittimit democratica che possiede il legislativo. In secondo luogo, abbiamo il giur nella giustizia penale e civile: Tocqueville ritiene, come Constant, che la partecipazione ai processi nella veste di giurati crei nel popolo un abito giuridico, ossia una disposizione al rispetto dei diritti altrui, contro le tendenze egoistiche e anarcoidi. Questi contrappesi, per quanto importanti, non sarebbero tuttavia sufficienti. Un ruolo decisivo spetta, ancora una volta, al decentramento amministrativo e al corpo dei giudici. Sul primo ci siamo gi soffermati: qui basti ricordare che il governo centrale si deve affidare ai comuni ed alle contee per eseguire le proprie direttive; in tal modo questi enti vengono a costituire, secondo Tocqueville, una sorta di scogli nascosti, che possono ritardare o dividere il potente flutto della volont popolare. E' questa la differenza fondamentale che separa la democrazia americana da quella europea (in particolare, da quella francese): mentre quest'ultima ha ereditato il centralismo politico-ammistrativo della monarchia assoluta, quella americana nata come democrazia, senza precedenti assolutistici e rivoluzionari. In essa il principio della sovranit popolare viene dal basso, dai costumi e dalle abitudini delle comunit puritane, dai modi di organizzare il potere locale, nei comuni e nelle contee, anche quando il legame con l'Inghilterra non permetteva di utilizzare tale sistema a livello centrale: la sovranit popolare si sviluppata 'dal basso verso l'alto' e 'dai costumi alle leggi'. Il suo principio fondante - la sovranit popolare - ha ricevuto un'applicazione e un consenso che non sono riscontrabili sul continente europeo: negli Stati Uniti il dogma della sovranit del popolo non una dottrina isolata, che non tenga conto n delle abitudini n dell'insieme delle idee dominanti, ma pu considerarsi invece come l'ultimo anello di una catena di opinioni che circonda tutto il mondo anglo-americano. La Provvidenza ha elargito a ciascun individuo, chiunque esso sia, quel tanto di ragione necessario perch egli possa dirigersi da solo nelle cose che lo interessano personalmente. E' questa la gran massima sulla quale negli Stati Uniti riposa la societ civile e politica; il padre di famiglia l'applica ai suoi figli, il padrone ai suoi servi, il Comune ai suoi amministrati, la Provincia ai Comuni, lo Stato alle Provincie, l'Unione agli Stati. Estesa all'intera nazione questa massima diviene il dogma della sovranit popolare. Sono chiari, in questo brano, i riferimenti - per contrasto - all'Europa e, in particolare, alla Francia: la sovranit popolare non una dottrina isolata, ossia che non tenga conto delle abitudini e dell'insieme delle idee dominanti. Evidente la critica alla teoria politica partorita dalla cultura illuministica: essa non tiene conto della storia, del passato, della concreta configurazione assunta dalla societ e dalla mentalit degli uomini; la ragione si erge, assoluta, di fronte al reale nella sua variet e molteplicit, non riconoscendo ad esso alcuna razionalit e pretendendo quindi di ridisegnarlo completamente secondo i suoi astratti criteri. Viceversa, negli Stati Uniti, la democrazia (vale a dire, il principio della sovranit popolare) si innestato naturalmente sul tronco della realt sociale e culturale. Ma torniamo all'ultimo contrappeso che consente alla democrazia americana di essere una democrazia

liberale: gli uomini di legge, che Tocqueville chiama 'legisti'. Essi svolgono una funzione cruciale nel sistema americano, perch intervengono in due fasi sulle leggi, ossia sullo strumento-principe della democrazia: nella fase della redazione (nelle assemblee legislative spetta a loro redigere materialmente i testi di legge) e in quella dell'applicazione, in quanto giudici. I legisti rappresentano, agli occhi di Tocqueville, una specie di aristocrazia, nella societ democratica americana: essi formano un 'corpo', essendo uniti dagli studi comuni e da una comune mentalit. Questa mentalit consiste in una istintiva tendenza all'ordine, in un amore naturale delle forme e in un grande disgusto per le azioni della moltitudine: come si pu vedere, sono presenti il richiamo alla legalit, allo spirito giuridico (concepito come qualcosa di opposto al disordine violento della piazza) e all'ordine[49]. Perci negli Stati Uniti il corpo dei legisti forma il pi potente contrappeso alla democrazia: quando il popolo si lascia inebriare dalle proprie passioni, o si abbandona ai propri impulsi, i legisti gli fanno sentire un freno quasi invisibile che lo modera e lo trattiene: ai suoi istinti democratici, essi oppongono segretamente le loro tendenze aristocratiche; al suo amore della novit, il loro rispetto superstizioso per ci che antico; all'immensit dei suoi piani, le loro vedute ristrette; al suo disprezzo delle regole, il loro gusto per le forme; e alla sua foga, la loro abitudine di procedere con lentezza. Bedeschi ha giustamente osservato che queste pagine non devono essere catalogate come semplicemente conservatrici: la critica tocquevilliana del potere irresistibile o tirannico della maggioranza nelle societ democratiche, che si esprime sia attraverso il conformismo di massa sia attraverso passioni o impulsi irrazionali ... ispirata a un rispetto religioso per l'individuo, per la sua libert intellettuale e morale, per l'autonomia della sua sfera interiore e della condotta che ne discende. E' una critica, insomma, autenticamente liberale[50]. Concludiamo facendo qualche cenno alla seconda parte della Democrazia in America. Scritta a pochi anni di distanza, essa non costituisce un semplice prolungamento della prima; il lettore assiste infatti a vari e significativi cambiamenti, che non sempre sono coerenti con le tesi sostenute nella prima parte. In primo luogo, mentre la prima parte dell'opera pi concreta e mira a offrire, con testimonianze e informazioni di prima mano, un ritratto socio-politico della democrazia americana, nella seconda parte quest'ultima passa sullo sfondo, mentre l'Autore, guardando prevalentemente alla situazione francese ed europea, mira soprattutto a cogliere le caratteristiche pi generali di una civilt egualitaria. Oltre ad essere pi astratta nel metodo, la seconda parte della Democrazia in America , in secondo luogo, pi pessimistica nella sostanza e nel tono; il concetto della 'tirannia della maggioranza' viene ripreso e approfondito sino a divenire il connotato essenziale delle societ democratiche, caratterizzate da un pesante conformismo di massa. In terzo luogo, il centralismo politico-amministrativo viene visto come una tendenza in certa misura inevitabile delle societ democratiche, il che significa che quanto pi la democrazia realizza se stessa (cio eguaglia le condizioni sociali), tanto pi distrugge la libert intesa come autodeterminazione dei singoli e autonomia della societ civile[51]. In quarto e ultimo luogo, nella seconda parte emerge con grande rilievo un problema di formidabile importanza: la rivoluzione industriale e i suoi effetti sulla societ. E qui i toni pessimistici di Tocqueville saranno assai vicini a quelli della contemporanea letteratura socialista. Vediamo ora di chiarire meglio tutti i punti appena indicati. Fra i temi che tornano con forte accentuazione negativa v' anzitutto quello delle conseguenze dell'uguaglianza sullo spirito pubblico. Man mano che i cittadini diventano pi simili, cresce la disposizione di ciascuno a identificarsi nella massa e a credere in essa, il che significa che l'opinione pubblica, l'opinione della maggioranza, viene a godere, presso i popoli democratici, di un singolare potere: essa non fa valere le proprie opinioni attraverso la persuasione, ma le impone e le fa penetrare negli animi attraverso una specie di gigantesca pressione dello spirito di tutti sull'intelligenza di ciascuno, ragion per cui si pu prevedere che la fede nell'opinione pubblica diverr una specie di religione, di cui la maggioranza sar il profeta. Inoltre la cultura tipica delle societ democratiche sar sempre pi una cultura di massa, priva di idee originali e pervasa di idee generali, accettate senza discussione:

gli uomini che vivono in epoche di eguaglianza - osserva Tocqueville - hanno molte curiosit e poco tempo libero; la loro vita cos pratica, cos complicata, cos agitata, cos attiva, che resta loro soltanto poco tempo per pensare. Gli uomini dei secoli democratici amano le idee generali, perch queste li dispensano dallo studiare i casi particolari; esse contengono, se cos posso esprimermi, molte cose in piccolo volume, e producono molto in poco tempo. L'eguaglianza delle condizioni produce un analogo livellamento nello spirito pubblico: uomini uguali nei diritti, nell'educazione, nella fortuna, cio uomini di uguale condizione, hanno necessariamente bisogni, abitudini e gusti assai simili; e poich vedono le cose sotto lo stesso aspetto, la loro mente propende naturalmente verso idee analoghe, e per quanto ciascuno possa discostarsi dai suoi contemporanei e farsi convinzioni proprie, finiscono per ritrovarsi tutti, senza saperlo e senza volerlo, in un certo numento di opinioni comuni. In una societ siffatta le personalit fortemente marcate e originali sono sempre pi rare, le grandi rivoluzioni intellettuali e spirituali pressoch impossibili. Infine, l'eguaglianza, che pure porta grandi vantaggi, induce negli uomini un amore eccessivo per il benessere materiale: una sorta di materialismo, negatore di qualsiasi trascendenza, finisce per diventare l'atteggiamento spirituale della societ, il quale a sua volta isola gli uomini gli uni dagli altri, portando ciascuno a occuparsi soltanto di se stesso e del proprio status sociale. In generale, nei popoli democratici l'amore per l'eguaglianza sopravanza quello per la libert: essi vogliono l'eguaglianza nella libert, dice Tocqueville, ma se non possono ottenerla, la vogliono anche nella schiavit. Questo atteggiamento deriva dal materialismo e dall'individualismo delle societ democratiche: preoccupati soltanto di fare fortuna, gli individui non scorgono pi lo stretto legame che unisce la prosperit di ciascuno a quella di tutti. Estrema unformit sociale e individualismo sfrenato, per quanto possano apparire contrapposti, si mostrano sempre, nell'analisi di Tocqueville, come due facce della stessa medaglia, come i due aspetti inscindibili della societ democratica. Ai cittadini di questa societ i diritti politici sembrano un contrattempo noioso, che li distoglie dalle loro occupazioni; essi se ne lasciano quindi privare volentieri[52]. Ecco cos che la democrazia - che nasce come unione di diritti civili e politici, estendendo per la prima volta a tutti i secondi - contiene nel suo seno tendenze profonde verso l'annullamento di quelle libert. Essa pu cos dare luogo, in certe circostanze, al cesarismo: sufficiente che il nuovo Cesare provveda alla prosperit di tutti gli interessi materiali e che garantisca l'ordine. E' comunque l'accentramento politico-amministrativo il vero pericolo mortale delle democrazie moderne. Anche meno di cento anni fa, scrive Tocqueville, esistevano in Europa privati o enti indipendenti che amministravano la giustizia, arruolavano soldati, riscuotevano imposte e che spesso promulgavano norme. Oggi lo Stato ha ormai avocato a s tutte le funzioni della sovranit: esso non tollera pi alcuna istituzione intermedia tra s e il cittadino. E' insomma andata persa, sostiene Tocqueville sulle orme di Montesquieu, quella ricca articolazione pluralistica della societ civile, che in vario modo limitava il potere dello Stato e tutelava la libert. Sappiamo come negli Stati Uniti sia stata evitato questo lento soffocamento della societ civile; ma in Europa le cose sono andate altrimenti, soprattutto dove il principio egualitario si affermato attraverso una rivoluzione violenta. Scomparse infatti di colpo tutte le istituzioni intermedie, lo Stato si trovato di fronte un'immensa massa da amministrare e l'accentramento si quindi rivelato necessario. In generale, su tutta l'Europa scesa la coltre di una legislazione uniforme, che si sviluppata di pari passo con il processo democratico. Il risultato stato ovunque lo stesso: il sovrano ha concentrato nelle sue mani tutto il potere che era diffuso nella societ, finendo in tal modo per doversi occupare di tutti i pi minuti affari amministrativi. E' nato cos un nuovo Stato paternalistico, in cui il sovrano si ritiene responsabile delle azioni e del destino di ciascuno dei sudditi e opera al fine di illuminarli e aiutarli, rendendoli - se occorre felici loro malgrado. Dal canto loro, i cittadini considerano sempre pi il potere politico sotto questa prospettiva, invocando il suo aiuto per qualsiasi circostanza o bisogno. Secondo Tocqueville, in tutti i paesi d'Europa l'amministrazione pubblica non solo diventata pi centralizzata, ma anche pi inquisitiva e pi minuziosa; ovunque essa penetra pi profondamente di un tempo negli affari privati; ovunque regola a suo modo un numero sempre pi grande di azioni sempre pi piccole e si insedia, ogni

giorno di pi, a fianco di ogni cittadino, intorno a lui e sopra di lui, per assisterlo, consigliarlo e costringerlo. A ci si deve aggiungere la rivoluzione industriale, con l'immenso aumento del bisogno di infrastrutture che essa porta con s: strade, canali, porti, ecc. Ma queste sono opere che soltanto lo Stato pu intraprendere: il suo intervento si estende quindi "necessariamente" anche alla sfera economica. Il quadro complessivo che ne risulta fa s che i vecchi concetti di 'dispotismo' o di 'tirannide' risultino ormai inadeguati: l'oppressione che vige nei sistemi democratici infatti del tutto diversa dalle oppressioni che l'hanno preceduta. Essa molto pi diffusa e pi "dolce", perch non fa tanto affidamento sulla coercizione fisica, quanto sulla persuasione. Giustamente celebre la pagina in cui Tocqueville profetizza le caratteristiche della societ democratica del futuro. Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali - scrive il pensatore normanno - che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e se ancora possiede una famiglia, si pu dire perlomeno che non ha pi patria. Al di sopra di questi uomini, prosegue Tocqueville, si erge un potere immenso e tutelare, che provvede al loro benessere e alla loro sorte. Tale potere assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. Assomiglierebbe all'autorit paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare l'uomo all'et virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all'infanzia; contento che i cittadini si svaghino, purch non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicit, ma vuole esserne l'unico agente ed il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, regola le loro successioni, spartisce le loro eredit; perch non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere? Contro questo immenso e dolce dispotismo - che asservisce totalmente gli individui e che crea un mostruoso sistema di controllo capillare, di uniformit intellettuale e morale e di infiacchimento delle coscienze e della societ civile - Tocqueville invoca come rimedio soprattutto un largo decentramento amministrativo, sul tipo di quello statunitense, e un ampio sviluppo dell'associazionismo. Egli infatti vede nelle associazioni (politiche, economiche o culturali che siano) una sorta di "grandi individui", illuminati e potenti, che non possono essere assoggettati a piacere, n oppressi in segreto, e che difendendo i loro diritti particolari contro le esigenze del potere salvano le libert comuni. Qui si coglie, stato acutamente osservato, la vocazione schiettamente pluralistica della concezione liberale di Tocqueville, in netto contrasto con quanto si era storicamente realizzato in Francia nell'incontro fra l'esperienza democratico-giacobina e la tradizione del centralismo amministrativo[53]. Tocqueville confida inoltre, con argomentazioni assai vicine a quelle di Constant, nella libert di stampa: la libert di stampa infinitamente pi preziosa nelle nazioni democratiche, che non nelle altre; essa il solo rimedio alla maggior parte dei mali prodotti dall'eguaglianza. L'eguaglianza isola e indebolisce gli uomini; ma la stampa pone a fianco di ciascuno un'arma potentissima, che pu essere usata anche dal pi debole e dal pi isolato. L'eguaglianza toglie a ogni individuo l'appoggio di coloro che lo circondano; ma la stampa gli permette di chiamare in aiuto i suoi concittadini e tutti i suoi simili. La stampa ha accelerato i progressi dell'eguaglianza ed uno dei suoi migliori correttivi. Tocqueville crede all'efficacia di questi rimedi, tanto che afferma di aver voluto sottolineare i pericoli che l'eguaglianza fa correre alla libert perch questi pericoli sono s tremendi, ma non per questo sono insormontabili. Con un movimento tipico del suo pensiero, egli passa infatti a considerare nuovamente i vantaggi che la democrazia sembra comunque garantire: anzitutto essa distribuisce pi equamente le ricchezze, facendo s che scompaiano le grandi diseguaglianze economiche; e se vero che in essa gli animi non hanno pi l'energia che caratterizzava le epoche aristocratiche, altrettanto vero che i costumi sono pi

miti e le legislazioni pi umane; le grandi dedizioni e i grandi entusiasmi sono rari, ma altrettanto rare sono le grandi crudelt e le grandi violenze; la vita degli uomini diventa pi lunga e sicura, e la cultura, sia pure in forme pi approssimative, ha una diffusione assai pi estesa. In breve, quasi tutti gli estremi si mitigano e si smussano; quasi tutti i punti salienti si cancellano, per far posto a qualche cosa di medio, che contemporaneamente meno elevato e meno basso, meno luminoso e meno cupo di quello che si vedeva prima nel mondo. Senonch, la rivoluzione industriale complica sensibilmente questo quadro. Essa determina infatti una serie di pericolosi effetti: anzitutto le crisi cicliche, che il pensatore normanno ritiene strutturali. In secondo luogo, essa promuove una divisione del lavoro che mortifica gli individui, proprio nel momento in cui la societ si apre ai talenti individuali: quando un operaio si dedica unicamente e con continuit alla fabbricazione di un solo oggetto, finisce con l'assolvere questo lavoro con destrezza singolare. Perde, per, nello stesso tempo la facolt generale di applicare la mente alla direzione del lavoro. Diventa ogni giorno pi abile e meno capace, e si pu dire che in lui l'uomo si degrada nella stessa misura in cui l'operaio si perfeziona. Oltre a ci, la misera condizione operaia accompagnata dal continuo innalzamento della condizione dei capitalisti: mentre l'operaio riduce sempre pi la sua intelligenza allo studio di un solo particolare, il padrone fa spaziare ogni giorno di pi il suo sguardo su un vasto insieme e il suo spirito si allarga nella stessa proporzione in cui quello dell'altro si restringe. Presto non sar pi necessaria al secondo altro che la forza fisica, senza l'intelligenza; il primo ha invece bisogno della scienza, e quasi della genialit, per riuscire. Uno assomiglia sempre pi all'amministratore di un vasto impero, e l'altro a un bruto. Cos' tutto questo, si chiede Tocqueville, se non la formazione di una nuova aristocrazia? Dunque dalle viscere pi profonde della democrazia rinasce il suo antico nemico? In un certo senso, risponde il pensatore normanno, proprio cos. Si tratta per di un'aristocrazia nuova, che non assomiglia a quelle che l'hanno preceduta: le leggi e le consuetudini obbligavano le aristocrazie passate a prendersi cura dei loro servitori, alleviandone la miseria; l'aristocrazia manifatturiera, invece, dopo aver abbrutito e impoverito gli uomini di cui si serve, li abbandona, in tempi di crisi, alla carit pubblica; n l'abitudine, n il dovere legano gli industriali e gli operai. Da questo punto di vista l'aristocrazia manifatturiera uno delle pi dure, dice Tocqueville, che siano mai apparse sulla terra. Le assonanze con l'analisi marxiana sono evidenti. E' stato per giustamente osservato che mentre in Marx opera un'ispirazione salvifica ed escatologica (l'inferno della condizione operaia prepara il paradiso della societ comunista), in Tocqueville prevale il pessimismo dell'intelligenza e il realismo della spregiudicata osservazione storica. Occorre ricordare, inoltre, che la riflessione del pensatore normanno animata da valori che si collocano agli antipodi di quell'aspirazione all'egualitarismo - e quindi ad una societ coesa e compatta, nella quale l'individuo si fonde nel tutto - che costituisce il tratto saliente del pensiero di Marx. La realt che Tocqueville il primo pensatore liberale che coglie e sperimenta drammaticamente le tendenze liberticide insite della democrazia moderna: esse sono costituite - come abbiamo visto - dal pervasivo conformismo di massa, dalla crescente uniformit prodotta dell'egualitarismo, dall'accentramento politicoamministrativo (che conduce all'ipertrofia degli apparati statali) e, da ultimo, dalla rivoluzione industriale, con la connesse questioni sociali. Sotto questo profilo, stato giustamente osservato, l'opera di Tocqueville costituisce la migliore smentita della tesi secondo la quale il pensiero etico-politico liberale sarebbe una pura e semplice apologia della societ borghese moderna. Di tale societ Tocqueville ha certo colto i progressi e i vantaggi rispetto alle societ pre-borghesi, in primo luogo la sua capacit di produrre una libert quale espressione pi alta della personalit umana e della sua intima energia creatrice. Al tempo stesso, per, Tocqueville non ha ignorato i pericoli che nella societ democraticoborghese minacciano la libert, e anzi li ha posti, drammaticamente, al centro della propria analisi. E proprio in questa tensione da cercare l'aspetto pi affascinante e pi moderno del suo pensiero.[54]

Note al testo
[*] Il lettore si chieder perch tredici, dal momento che le lezioni sono dodici. La questione molto semplice. Avevo considerato imprescindibile il pensiero di Agostino, e dunque avevo preparato la lezione. [2] F. Valentini, Platone, in Id., Politica, I vol., Sansoni, Firenze 1969, vol. I, p. 63. [3] Nei dialoghi platonici frequente il richiamo all'arte medica, come modello da imitare: essa, basandosi su una rigorosa metodologia induttiva e dialogica, costituisce, agli occhi di Platone, un sapere scientifico. Inoltre la malattia spiegata come perturbamento dell'armonia di un corpo sano, perturbamento che pu essere superato solo con la collaborazione tra medico e paziente. [4] Cfr., supra, p. 8. [5] Cfr., supra, cap. 1, pp. 21-22. [6] Cfr., supra, cap. 2, p. 34. [7] Cfr., supra, cap. 1, p. 16. [8] Cfr., supra, cap. 3, p. 46. [9] F. Valentini, Politica, Sansoni, Firenze 1969, p. 423. [10] La considerazione di Machiavelli non affatto scontata. Soltanto avendo presente la serie di guerre e di rivolgimenti politici di cui l'Italia teatro nella prima met del '500 - guerre accompagnate da una girandola di alleanze che si scompaginavano e si ricomponevano nel giro di pochi mesi, e rivolgimenti segnati da varie 'efferatezze' - si pu comprendere quanto pregnante sia l'espressione machiavelliana di variazione grande delle cose ... fuori di ogni umana coniettura. [11] N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. III, TEA, Milano 1993, p. 42. [12] N. Bobbio, La teoria politica di Hobbes, 1981, in Id., Hobbes, Einaudi, Torino 1989, p. 30. [13] Cfr., supra, cap. 2, pp. 27-29. [14] N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, in N. Bobbio e M.Bovero, Societ e stato nella filosofia politica moderna, Il saggiatore, Milano 1979, pp. 44-45. [15] N. Bobbio, Studi lockiani (1965), in Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1971!, p. 84. [16] E' interessante osservare come la Dichiarazione di indipendenza (1776) delle colonie americane dalla madrepatria inglese riprender quasi letteralmente gli argomenti addotti da Locke, circa un secolo prima, per giustificare il diritto di resistenza. [17] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 72. [18] P. Casini, Introduzione a Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1981 (2 ed.), p. 8. [19] N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, in N.Bobbio e M. Bovero, Societ e stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore, Milano 1979, p. 20. [20] Cfr., supra, cap. 2. [21] F. Valentini, Politica, II vol., Sansoni, Firenze 1969, p. 145.

[22] L'uomo probo, scrive Rousseau, un atleta al quale piace combattere nudo; egli disprezza tutti quei vili ornamenti che impacciano l'uso delle sue forze e che, nella maggioranza, non sono stati inventati che per celare qualche deformit. [23] P. Rossi, Introduzione, in J.J. Rousseau, Opere, Sansoni, Milano 1993, p. XX. [24] Cfr., supra, pp. 110-111. [25] N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, cit., p. 68. [26] N. Bobbio, Kant e le due libert (1960), in Id., Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1971!, p. 161 [27] Per diritto di resistenza si intende il diritto di disobbedire, in determinate circostanze e per determinate ragioni, all'autorit. Come si ricorder, Locke ammetteva tale principio: cfr., supra, cap. 7, p. 98. [28] Su tale nozione, cfr., supra, cap. 8, p. 114, e, infra, cap. 10, pp. 147-148. [29] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 102. [30] Cfr., supra, cap. 7. [31] Cfr., supra, cap. 8. [32] Cfr., supra, cap. 6. [33] Cfr., supra, cap. 7, p. 98. [34] Sul concetto di "limitazione materiale", cfr., supra, cap. 7, p. 89. [35] N. Bobbio, Studi hegeliani, in Id., Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1971!, p. 227. [36] Rosenkranz un allievo di Hegel, che fu anche il suo primo biografo. [37] Cfr., supra, capp. 6, 7 e 8. [38] Cfr., supra, cap. 7, p. 89. [39] G. Bedeschi, Il pensiero politico di Hegel, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 91-92. [40] Sulla nozione di societ civile in Hegel, cfr., supra, cap. 11, pp. 168-173. [41] G. Bedeschi, Introduzione a Marx, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 6. [42] Sull'idealizzazione della polis antica nel pensiero politico moderno, cfr., supra, cap. 10, p. 146. [43] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 177. [44] Ivi, p. 180. [45] Ivi, p. 180. [46] Ivi, p. 180. [47] G. Bedschi, Il pensiero politico di Tocqueville, Laterza, Roma-Bari 1996, p.13. [48] Si pensi all'interpretazione di F. Valentini, contenuta nel II volume di Filosofia politica, op.cit..

[49] Tocqueville sottolinea, ad esempio, il criterio del 'precedente' nell'esercizio della giustizia americana e inglese, ritenendo che esso costituisca un fattore di ordine e conservazione. [50] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, cit., p. 198-199. [51] Alcuni studiosi hanno infatti istituito un parallelo tra la camica di forza del centralismo politicoamministrativo di cui parla Tocqueville e il tema weberiano della razionalizzazione burocratica. [52] Su questo aspetto della modernit si era gi soffermato Constant: cfr., supra, cap. 10, pp. 149-150. [53] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, cit., p. 209. [54] Ivi, p. 216.

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