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Ridere di guerra: Oh!

What a Lovely War


di Cinzia Rita Gaza

La guerra inumana1, dice Hillman, e come tale appartiene alla sfera dellinenarrabile. Non ci sono parole. Le pi intense testimonianze sembrano soffrire di una frustrante afasia. La parola, di fronte allestremo, batte in ritirata. Non ci sono neanche immagini, a ben guardare. Per quante fotografie abbiamo visionato sfogliando lalbum degli orrori, non siamo riusciti a fare nostra questa realt perch, in

J. Hillman, Un terribile amore per la guerra, trad. it Adelphi, Milano 2005 (ed. or. 2004), p. 60.

ultima analisi, ci che viene a mancarci limmaginazione, lempatia2. Il cinema, allora. Il cinema, per noi popoli che la buona fortuna storica ha collocato in luoghi e tempi sostanzialmente pacificati, stato la fonte pressoch esclusiva, e comunque principale, della rappresentazione della guerra, della nostra idea di guerra. Il cinema ne definisce il canone formale, con quel quantum di fragore, sangue e visceri che la graduata sensibilit delle diverse epoche pu tollerare. Il cinema il congegno che, attraverso la stipula del contratto con lo spettatore, conferisce alla guerra una dimensione convenzionale e riconoscibile, che trasforma lesperienza indicibile in esperienza estetica. E cos, come sempre, la vita finisce per copiare larte. Cos, riferisce Ehrenreich3, le truppe speciali russe in Cecenia si bardavano alla Rambo, con tanto di bandana, occhiali a specchio e coltello. Cos la realt si compone secondo il mito, dissimulandosi tra le strutture dellimmaginario. Neanche il cinema pi crudo, pi esplicito, insomma, riesce a dare conto della realt della guerra. Anzi, mai come nel cinema di guerra il realismo diventa manierismo: quanto pi la sua rappresentazione attinge al realismo, tanto pi linvadenza della realt viene tenuta a bada, contenuta dalla diga della convenzione. Non c film (a va sans dire) capace di trasmettere lesperienza, le emozioni, la verit di sei mesi in trincea a La Somme o di sei minuti sotto una pioggia di napalm. Non c pubblico in sala capace di immaginare (giusta la constatazione di Sontag) il vero bellico, non solo perch (ancora a va sans dire) lo spettatore ha davanti a s il duplice filtro della finzione e del suo ruolo, appunto, di spettatore, ma anche perch, quandanche possedesse questa facolt empatica, un salutare istinto di autopreservazione emotiva farebbe stare la sua consapevolezza saldamente ancorata alla poltroncina. Il nostro firewall psichico molto efficiente quando si tratta di proteggerci da esperienze insostenibili. Non si vuole qui negare (ci mancherebbe altro) la potenza del processo mimesi-piet e terrore-catarsi. Piuttosto si ribadisce come, tra tutte le esperienze tragiche, quella della guerra rimanga, fondamentalmente, irrappresentabile. Non a caso, alcuni dei pi intensi film di guerra si

S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, trad. it. Mondatori, Milano 2003 (ed. or. 2003), p. 7.

B. Ehrehreich, Riti di sangue. Allorigine della passione per la guerra, trad. it. Feltrinelli, Milano 1998 (ed. or. 1997), p. 207.

tengono piuttosto alla larga dai campi di battaglia4. E allora tanto vale. Tanto vale rinunciare al realismo sconvolgente, alla scossa emotiva, tanto vale attingere a unaltra strumentazione cognitiva. Un formidabile attrezzo consiste nello sguardo comico sul materiale tragico, cosa che insiste sulla ambivalenza e sulla sostanziale complementariet e coimplicazione dei due termini, come Dario Fo, che in materia ne sa, ci ricorda: l dove una forma satirica non possiede come corrispettivo la tragedia, tutto si trasforma in buffoneria5. Ridere della guerra non significa, dunque, negarne la tragicit, anzi. Per questa ragione, come ovvio, necessario espungere dalla nostra analisi il cinema nel quale la guerra mero contesto (e anche pretesto) per vicende esilaranti estranee a essa e funziona la convenzione per la quale in guerra non muore nessuno e la violenza si riduce a qualche tramortente botta in testa. Laurel & Hardy e Jerry Lewis6, a titolo di esempio, bene rappresentano la categoria. Perch si possa ridere di guerra, la guerra deve essere testo, nel senso che, a livello cinematografico e filosofico, essa deve costituire il soggetto, deve riempire lo schermo. La guerra deve essere precisamente ci di cui si ride. Ridere della guerra ha, sostanzialmente, lo scopo di oltrepassare la barriera che lemozione e la gravit frappongono allanalisi. Il riso nasconde sotto la veste della leggerezza larma letale della critica, come con rara efficacia illustrava Bachtin: Il riso ha la forza straordinaria di avvicinare loggetto; esso introduce loggetto in una zona di brusco contatto, dove si pu familiarmente tastarlo da tutte le parti, capovolgerlo, rivoltarlo, guardarlo dallalto e dal basso, spezzarne linvolucro esteriore, gettare uno sguardo nel suo interno, dubitarne, scomporlo, smembrarlo, denudarlo e smascherarlo, studiarlo liberamente, sottoporlo a esperimento. Il riso distrugge la paura e il rispetto di fronte alloggetto, di fronte al mondo, fa di questo loggetto di un contatto familiare e cos ne prepara lanalisi assolutamente libera7. Tirando le fila, la lente del comico permette dunque osservare il tragico
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Si pensi, a puro titolo di esempio, a Gardens of Stone (1987), regia di Francis Ford Coppola; In the Valley of Elah (2007), regia di Paul Haggis; The Messenger (2009), regia di Oren Moverman. D. Fo, L. Allegri, Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 5.
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Cfr. Pack Up Your Troubles (1932), diretto da George Marshall e Raymond McCarey; Which Way to the Front? (1970) diretto da Jerry Lewis. G. Lukcs, M. Bachtin et alii, Problemi di teoria del romanzo. Metodologia letteraria e dialettica storica. Einaudi, Torino 1976 (ed. or. Lukcs 1935, Bachtin 1938).
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da un altro punto di vista e, insieme, agevola un approccio cognitivo libero da preconcetti. Il cinema di guerra che sceglie di comunicare attraverso il registro del comico poggia, in realt, su quella che definiamo epicizzazione della rappresentazione. Scomodiamo, a questo proposito, Brecht in persona e la sua teoria sulleffetto di straniamento, la sua tecnica teatrale antinaturalistica volta a evitare il processo dellimmedesimazione e dunque il turbamento. Il teatro brechtiano agisce sulla rottura della convenzione drammatica, che basata sulla sospensione dellincredulit e sul realismo generatore e manipolatore di emozioni, allo scopo di lasciare nello spettatore la piena razionalit critica. Secondo tale presupposto, il cinema, e specialmente il cinema di guerra, che voglia fare appello alla lucidit intellettuale dello spettatore deve, in primis, evitare come la peste il realismo. Tutto questo girare intorno per arrivare a parlare di un film singolare, di grande successo ma che, a ben guardare, rimasto pezzo unico. Oh! What a Lovely War una pellicola del 1969 di Richard Attenborough che attinge parimenti dal registro del comico-parodistico e da quello dellantinaturalismo brechtiano nella precisa intenzione di mantenere la distanza emotiva del pubblico. Per soprammercato, si tratta di un music hall, ancorch sui generis, ovvero del genere teatrale e cinematografico pi sfacciatamente frivolo, pi lontano per indole dalla gravitas che normalmente circonfonde il tema della guerra. Dal punto di vista tematico, Oh! What a Lovely War si inscrive nella nutrita cinematografia che della Grande guerra d una lettura antieroica quando non antimilitarista. Potremmo, del resto, osservare come il cinema di guerra, talvolta disposto a riconoscerle buone o addirittura nobili ragioni seppure denunciandone la crudelt, riserva alla Prima guerra mondiale un trattamento di particolare riprovazione. Se, per esempio, la Seconda guerra mondiale, tanto durante che dopo, stata rappresentata in tutta la sua violenza ma spesso anche nella sua idealit, la Prima paga il prezzo della condanna generale che ha seguito dappresso la fine del conflitto. Si fatica non poco, scorrendo lindice dei film sulla Grande guerra, a trovare lesiguo numero di quelli che si focalizzano su eroismo, onore, nobilt e beau geste8. Prevalgono, se non dal punto di vista quantitativo, certamente da quello dell'impronta lasciata nella storia del cinema, le pellicole che trattano la Grande guerra

Senza pretesa di esustivit, citiamo Sergeant York (H. Hawks, 1941); Von Richtofen and Brown (R. Corman, 1971); The lost battalion (R. Mulcahy, 2001); Flyboys (T. Bill, 2006); Der Rote Baron (Nikolai Mllerschn, 2008).

dal punto di vista dell'"inutile strage", della insensatezza del massacro che ha segnato il debutto della guerra di massa. Oh! What a Lovely War si colloca indubbiamente nel solco della denuncia. L'inadeguatezza dei comandi militari che hanno tradotto in strategie fallimentari l'inettitudine e la miopia della politica; la retorica che ha camuffato la mancanza di senso; l'assurdit del sacrificio: tutti gli aspetti di questa guerra concorrono a farne una memoria inemendabile che il cinema si incarica di ratificare. Il film, per giunta, si colloca alla confluenza di due diversi contesti. Se la sua gestazione (come vedremo) ne evidenzia la schietta finalit di decostruzione e ricombinazione della memoria e della retorica della Prima guerra mondiale, l'anno della sua realizzazione cinematografica lo mette in inevitabile relazione con il portato della Guerra del Vietnam e del Sessantotto, per cui, accanto all'impietoso giudizio sulla Grande guerra, affiora il giudizio di ripulsa sulla guerra tout-court cos come testimoniata dalla protesta pacifista e antimilitarista. Del resto, anche un altro fondamentale film di guerra del periodo, MASH, ufficialmente ambientato nella Guerra di Corea, sotto traccia adombra lattualit vietnamita9. Oh! What a Lovely War10 la trasposizione cinematografica dell'omonimo spettacolo teatrale messo in scena dalla compagnia del Workshop Theatre. La genesi della pice, a sua volta, piuttosto articolata e risale al 1961, quando Charles Chilton realizz per la BBC il programma radiofonico The Long, Long Trail: Soldiers' Songs of the First World War. Chilton non aveva conosciuto suo padre, caduto in Francia nel 1917. Di ritorno da una vacanza, nel 1958 fece tappa nel nord della Francia, alla ricerca, risultata vana, della tomba del padre, il cui nome tuttavia trov sul monumento commemorativo tra quelli dei trentacinquemila soldati britannici missing in action nel corso della battaglia di Arras. Profondamente colpito dallesperienza, Chilton mise mano al programma radiofonico con lintento di rinverdire la memoria di tante vite spezzate. Il risultato fu una trasmissione di sessanta minuti, una

Il film (regia di Robert Altman, 1970) svela il suo gioco attraverso lanacronismo: ambientato negli anni Cinquanta, mette in scena mezzi militari e abiti in uso nel 70. Probabilmente per questo, oltre che per la corrosiva critica antimilitarista, la sua proiezione stata vietata allinterno delle basi militari USA per lunghi anni. Le informazioni sulla versione teatrale e sul precedente programma radiofonico sono desunte dai siti http://en.wikipedia.org/wiki/Oh!_What_a_Lovely_War e http://www.bbc.co.uk/news/magazine-15691707 .
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storia raccontata attraverso una quarantina di canzoni in voga nelle trincee inglesi della Grande guerra, in massima parte ormai dimenticate, tratte da Tommys Tunes, una raccolta del 1917, i cui testi furono per da Chilton modificati e adattati in chiave satirica. Nello stesso anno, aveva fatto scalpore The Donkeys, A History of the British Expeditionary Force in 191511, un libro dello storico militare Alan Clark, futuro ministro nel governo Tatcher. Il libro deve il suo titolo a uno sferzante giudizio, attribuito a un generale tedesco12, secondo il quale i soldati inglesi erano lions led by donkeys. Il lavoro di Clark, che si inserisce nella produzione storiografica revisionista destinata a segnare il giudizio sulla Grande guerra dei decenni successivi, traccia unanalisi impietosa delloperato dei generali britannici, non solo colpevoli dellelevatissima quantit di perdite dovuta alla loro insipienza, ma anche dellessere stati guidati nella condotta della guerra dallinteresse prioritario della loro carriera e dai giochi di potere. Si deve a The Donkeys limpietoso ritratto degli alti comandi britannici dipinto da Oh! What a Lovely War, sia nella sua versione teatrale che in quella cinematografica. Nel 1962 Chilton scrisse una seconda versione del suo programma. Gerry Raffles, direttore del radical Workshop Theatre, lo ascolt e propose a Chilton di scriverne una versione per il palcoscenico. Joan Littlewood, fondatrice e direttrice artistica del Workshop Theatre, diede allo spettacolo un nuovo titolo, Oh! What a Lovely War appunto, e un nuovo mordente politico, appropriato al nuovo sentire della cultura, definitivamente affrancata dalle retoriche nazionaliste. Littlewood dubitava che lo spettacolo avrebbe ottenuto lautorizzazione dallufficio di censura13, anche in relazione alle proteste degli eredi del maresciallo di campo Douglas Haig (the Butcher of the Somme, la cui reputazione aveva peraltro gi subito duri colpi da parte degli storici britannici quali Alan Clark) che ne chiedevano la sospensione a causa della spietata caricatura di cui il loro congiunto era oggetto. Fu per intercessione della principessa Margaret che lo spettacolo pot andare in scena in un teatro del West End ottenendo un grande successo. Era il 1963.

A. Clark, The Donkeys, A History of the British Expeditionary Force in 1915, Hutchinson, London 1961. Non pare qui necessario ripercorrere il dibattito sullattribuzione di questo giudizio, per il quale si rimanda al sito http://en.wikipedia.org/wiki/Lions_led_by_donkeys .
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Fino al 1968, era il vigore il Theatres Act del 1843, secondo il quale i copioni dovevano essere sottoposti per approvazione allufficio del Lord Ciambellano.

Passiamo finalmente al film. Nel 1969 usc nelle sale la versione cinematografica dello spettacolo di Littlewood, a cui il celebre attore Richard Attenborough aveva messo mano lanno precedente reclutando un cast14 che oggi chiameremmo stellare. Il film, di cui Attenborough fu anche produttore, segnava il suo debutto alla regia. In quella fine del decennio, linquietudine serpeggiante per la Guerra del Vietnam era diventata aperta opposizione, cosa che favoriva la trasposizione della tematica di inizio secolo di Oh! What a Lovely War nella scottante attualit. Lo spettacolo teatrale15 aveva avuto vasta risonanza anche in ragione della sua forte presa di posizione ideologica di rifiuto della guerra e delle sue giustificazioni da parte del potere.

Lopera di adattamento di Attenborough ebbe cura di conservare importanti suggestioni della versione teatrale, particolarmente della sua ambientazione antinaturalistica e allegorica. Mentre le sequenze attinenti il fronte sono girate in esterno, in unambientazione realistica, la
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Tra gli altri, ricordiamo Dirk Bogarde, John Gielgud, John Mills, Laurence Olivier, Jack Hawkins, Michael Redgrave, Vanessa Redgrave, Ralph Richardson, Maggie Smith, Susannah York. Lo spettacolo, tra il 1964 e il 1965, fu rappresentato anche a Broadway, nel Broadhurst Theater, mentre, nel Regno Unito, la BBC adatt la versione teatrale a programma radiofonico che trasmise per lungo tempo, cosa singolare se si considera che proprio da un radio play traeva origine lo spettacolo.
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location in cui si muove il potere, politico e militare, quella surreale che Littlewood aveva ideato per lo spettacolo: un padiglione end-of-thepier, che nella vita reale dinizio secolo rappresentava, per lautocelebrazione della buona societ, un palcoscenico. Non ci sfugga questo gioco di scatole cinesi: la realt che Littlewood prima e Attenborough poi mettono in scena essa stessa finzione, illusione, chimerica proiezione di un mondo a misura una classe dominante incosciente, in fuga dalle proprie responsabilit e dalla tempesta che si andava addensando sullEuropa. Per il film, Attenborough scelse una location che diede al film una forte caratterizzazione, il Brighton West Pier, allepoca gi in rovina, con la sua aristocratica Concert Hall, compiuta espressione della spumeggiante Belle Epoque: unarchitettura in grado di esprimere eloquentemente lostentazione e la frivolezza dellet edoardiana e di creare lo stridente contrasto tra linferno della trincea e la spensieratezza balneare che iperbolicamente descrive la sconsideratezza dei decisori. in una scenografia a ci ispirata che il film ha inizio. Nel salone dallarchitettura leggera e luminosa, il pavimento costituito da una enorme carta geografica dellEuropa, su cui regnanti, capi di Stato, ministri, diplomatici e generali passeggiano scambiandosi battute da loro pronunciate nella realt storica a ridosso dello scoppio della guerra. La regia della sequenza, i movimenti dei personaggi in scena hanno un carattere squisitamente teatrale, come teatrale la rappresentazione dellassassinio dellarciduca Ferdinando e della moglie, che cadono colpiti a morte dallo scatto della fotografia di gruppo. Riluttante e in lacrime, il vecchio Francesco Giuseppe, pressato dal suo ministro degli esteri, firma la dichiarazione di guerra. Segue un concitato scambio di battute tra gli uomini di potere. La situazione sfugge loro di mano e la mobilitazione militare pare scavalcarli in un clima irriflessivo e incontrollato. Da un punto di vista narrativo, il film presenta un intreccio esile e, di fatto, irrilevante: scoppia la guerra, alcuni giovani si arruolano volontari, sperimentano la disillusione e lo sconforto della vita di trincea e della morte allingrosso e, rassegnati, vanno incontro a una morte assurda in una guerra che perde senso a mano a mano che ingigantisce le sue proporzioni. La vicenda presentata in una successione di episodi privi di solidi nessi narrativi, la qual cosa ha suscitato riserve in una parte della critica. La frammentariet strutturale dello spettacolo non riesce a

trovare, se non a tratti, una convincente coesione cinematografica16, recita il Morandini. Una tale lettura forse non coglie lintenzionalit del registro usato da Attenborough, il quale ha confezionato il film, piuttosto che come narrazione, come sequenza di quadri relativamente autonomi, giusta lo stile dichiaratamente vaudeville, riprendendo ora episodi di uomini in trincea, avviliti e depressi, ora i rarefatti saloni in cui i comandi danno prova di cinismo, incompetenza e superficialit.

Citiamo sommariamente alcuni di questi quadri: quello in cui, durante un party, un uomo e una donna discutono se sia bon ton vestire a lutto per chi ha subito una perdita; quello in cui, durante un ballo, si mostrano intrighi e ambizioni personali tra generali; quello in cui, in un comizio, Sylvia Pankhurst invano tenta di convincere una folla ostile dellinsensatezza della guerra; quello in cui, durante una funzione religiosa, un pastore dichiara ai soldati che tutte le religioni del mondo benedicono limpegno in guerra; quello in cui, allingresso in guerra degli Stati Uniti, un energico capitano yankee, con espressione di sfida, volge verso di s la mappa che un impietrito Haig sta consultando. Altri episodi, che a mio avviso sono quelli che hanno dato forza e carattere a questo particolarissimo film, meritano una descrizione pi particolareggiata. Lallegoria vacanziera della prima sequenza prosegue nel racconto dellinconsapevolezza che ha segnato lingresso in guerra. La famiglia
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Il Morandini, Dizionario dei film, http://trovacinema.repubblica.it/film/oh-che-bellaguerra/121000 .

Smith, protagonista del film, si trova sulla spiaggia quando arriva una fanfara militare. La folla, e gli Smith con essa, segue la banda fino a entrare sul West Pier, allingresso del quale, in guisa di insegna di luna park, si accendono le lampadine dellinsegna World War One. Gli Smith entrano, pagando il biglietto dingresso al botteghino al generale Haig in persona. Seguiamo gli Smith che assistono allo spettacolo (prima di marionette, subito sostituite da persone) dei corazzieri francesi che partono per il confine belga, salutati dalle donne, e che montano in groppa ai cavalli di una giostra mentre un ufficiale canta la gaia canzone Belgium put the kaibosh on the Kaiser. Cambio di scena: i corazzieri affranti o feriti, stanno sdraiati a terra nella retrovia. Una breve inquadratura mostra unanaloga situazione in campo tedesco.

Ritroviamo la famiglia Smith in un teatro in cui una provocante soubrette, cantando Are We Downhearted? No! invita i giovani ad arruolarsi. I ragazzi Smith, dopo qualche esitazione, salgono sul palcoscenico con gli altri uomini in sala a prendere the Kings Shilling. Lepisodio racconta, neanche troppo allegoricamente, lentusiasmo e la spensieratezza con cui i giovani del 1914 hanno risposto alla chiamata delle armi. La ragione, ci rammenta Mosse17, va ricercata in quella lunga latenza della guerra europea nota come Pace dei Centanni. Dopo le guerre napoleoniche, lEuropa ha combattuto poche e brevi guerre, lultima delle quali, quella franco-prussiana, risaliva a quattro decenni prima. La generazione del 1914 entrata in guerra priva della nozione della realt della guerra per affrontarne una che non aveva precedenti quanto a violenza e letalit.
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G. L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, RomaBari 2002 (ed. or. 1990), pp. 59-60.

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Il film si dipana tra scene di trincea e lelegante padiglione del Brighton West Pier, ora salone delle feste, ora Quartier Generale. Il contrasto richiama alla mente un altro capolavoro del cinema di guerra: Paths of Glory, di Stanley Kubrick. Nel film del 1957, dal registro del tutto scevro da ironia, gioca un essenziale ruolo drammatico lalternanza tra il fango delle trincee e gli sfarzosi saloni in cui lo Stato Maggiore decide delle vite di migliaia di soldati sulla base di questioni di opportunit personale. Alla accorata denuncia di Kubrik, Attenborough sostituisce la rappresentazione impietosamente comica degli alti gradi dellesercito. Centrale nelleconomia del film il balletto degli alti ufficiali che cantano Oh! What a Lovely War. Alla parete, visibile in una rapida inquadratura, un tabellone riporta il numero esorbitante e crescente dei caduti e lo zero delle iarde di terreno conquistate.

Altro episodio degno di nota quello della tregua di Natale18, che storicamente ha avuto luogo tra tedeschi e britannici dapprima presso Ypres, poi in altri punti del fronte intorno al 25 dicembre 1914. Il film ripropone piuttosto fedelmente, seppure riducendone la durata, quanto risulta dalle testimonianze e dalle lettere: i soldati si scambiano sigari, liquori e opinioni sulla guerra e sui comandi e verificano, soprattutto, la falsit bypartisan della propaganda che descrive il nemico come brutale e disumano. I nemici fraternizzano tra loro riconoscendo nellaltro la propria stessa umanit. Rispetto, cortesia e osservanza della tregua fanno della Christmas Truce uno scampolo di Ottocento nel contesto dellinimicizia totale del Novecento.

Il regista francese Christian Carion nel 2005 ha fatto un film sullepisodio, Joieux Nol.

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Nel rispetto della tradizione del music hall, il film presenta parti recitate inframmezzate da balletti e canzoni alla cui leggerezza affidato, attraverso il suo rovesciamento, tutto il peso della tragedia. C ununica intrusione di tono esplicitamente drammatico. In un estaminet delle retrovie, in un clima di sguaiata baldoria da caserma, una cantante in abbigliamento succinto imita Charlie Chaplin, accompagnata dai cori e dalle risate dei soldati. Poi, in un repentino cambio di stato danimo, la cantante intona con accento triste e appassionato La Chanson de Craonne19, una di quelle canzoni disfattiste e antimilitariste20 presenti in tutte le guerre e fieramente osteggiate dai comandi. La tristezza contagia i soldati, che si chiudono in un avvilito silenzio. Questo interludio di alta intensit emotiva, che interrompe il lucido distacco brechtiano che governa tutto il film, riecheggia unaltra canzone in un altro, gi citato, grande film sulla Grande guerra. La sequenza finale di Paths of Glory si svolge parimenti in un estaminet, in cui i soldati, in attesa di essere di nuovo trasferiti in prima linea, stanno bevendo e ridendo chiassosamente, quando compare una giovane prigioniera tedesca che, pressata dal taverniere, canta con un filo di voce una canzone popolare, Der Treue Husar, che i soldati, commossi e immalinconiti, prendono a cantare con lei a bocca chiusa. Una tale simmetria pare suggerire che Attenborough, nel confezionare il suo film, avesse in mente il modello di Kubrick e che questa sequenza rappresenti, in fondo, un omaggio al grande maestro. Certo, la drammatica e trasgressiva Pia Colombo ben altro dallindifesa e virginale Christiane Kubrick, ma la loro funzione narrativa identica: fare riaffiorare nellottundimento della vita di trincea la persistenza sentimentale ed emozionale della condizione umana. Jack Smith lultimo a morire. Uno sparo lo coglie appena uscito in perlustrazione dalla trincea. Una macchia di colore rosso sembra a tutta prima sangue, ma si rivela essere un cespo di papaveri sfocato. Jack continua a camminare, seguendo un filo rosso che, dal campo di battaglia, lo conduce attraverso il salone, adorno di papaveri, in cui la guerra era stata dichiarata e in cui, sotto il suo sguardo smarrito, i capi di Stato stanno firmando la pace. Jack continua a camminare e si spoglia delle armi e dellelmetto. Si sofferma a guardare le donne della sua
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Per inciso, la stessa canzone viene cantata da un soldato condannato a morte per ferita autoinflitta nel toccante seppure leggero Un long dimanche de fianailles di JeanPierre Jeunet (2004).
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Ne riportiamo il rfrain: Adieu la vie, adieu l'amour, / Adieu toutes les femmes / C'est bien fini, c'est pour toujours / De cette guerre infme / C'est Craonne sur le plateau / Qu'on doit laisser sa peau / Car nous sommes tous condamns.

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famiglia che, malinconiche, stanno facendo un picnic su un prato rigoglioso di papaveri, poi va a sdraiarsi sullerba, accanto ai suoi fratelli. Nel film quasi assente il colore rosso. La cifra stilistica della fotografia quella di un colore tenue, sbiadito, fan. Il colore rosso compare raramente, nelle divise o nel simbolo della Croce Rossa. Una scelta stilistica assai particolare per un film di guerra la mancanza persino del rosso del sangue, che non compare neanche sulle bende dei feriti. Sul campo di battaglia, esso sostituito da quello dei papaveri, i red poppies che sono assurti, per gli inglesi, a simbolo dei caduti della Grande guerra. I papaveri rappresentano un filo conduttore (un fil rouge di nome e di fatto) allinterno del film: sono nelle mani degli arciduchi dAustria quando vengono uccisi, vengono dati in mano ai soldati mandati a morire, compaiono in primo piano ai margini delle trincee, vengono raccolti e donati. I papaveri evocano il sangue in un film che pone lenfasi sulla finzione, non sul realismo ma sulla trasposizione teatrale della realt in quella prospettiva brechtiana di cui si parlava. Il sangue un elemento che induce turbamento e raccapriccio, che simbolicamente riassume violenza, sofferenza e morte. Vorrei rammentare, a questo proposito, come in MASH si rinvenga una soluzione diversa eppure affine per la rappresentazione del sangue sul campo di battaglia. Esso compare in brevissime inquadrature su corpi straziati, sotto i ferri chirurgici dei protagonisti che sono per protetti dallorrore dalla loro anestetizzante goliardia, tanto che lo spettatore finisce per coglierlo solo con la coda dellocchio. Attenborough sembra fortemente consapevole del fatto che la visione del sangue catalizza lattenzione e ottunde la lucidit critica e dunque la evita. La sequenza finale del film inquadra le donne Smith, vestite di bianco, dallespressione triste. Esse si trovano su un prato con croci bianche disposte geometricamente. Una lenta e lunga ripresa aerea con zoom a ritroso rivela la sconfinata immensit del campo di croci mentre il coro dei soldati morti canta: And when they ask us, how dangerous it was, / Oh, we'll never tell them, no, we'll never tell them: / We spent our pay in some cafe, / And fought wild women night and day, / 'Twas the cushiest job we ever had. / And when they ask us, and they're certainly going to ask us, / The reason why we didn't win the

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Croix de Guerre, / Oh, we'll never tell them, oh, we'll never tell them / There was a front, but damned if we knew where. In stridente contrasto con la potente eloquenza dellimmagine, c, in questa canzone finale, tutta la reticenza che nasce da unamara rinuncia a comunicare, a trasmettere ai vivi la verit profonda dellesperienza della guerra. Questo finale, a ben guardare, ci riporta a quanto si diceva allinizio, allindicibilit della guerra, allo scacco cognitivo a cui va incontro chiunque tenti di descriverla. Qui risiede il valore artistico e intellettuale di Oh! What a Lovely War. Se la guerra non pu essere narrata, il film la aggira e la presenta su un piano irriducibilmente disconnesso dalla realt arrivando, alla fine, a toccare le emozioni facendo il tragitto pi lungo, quello che passa attraverso lintelligenza.

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