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Romano Penna

Le prime comunit cristiane


Persone, tempi, luoghi, forme, credenze

Carocci editore

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In conclusione, resta il fatto che il cristianesimo delle origini una realt quanto mai sfaccettata, dovendo la sua esistenza a una pluralit di personaggi diversi e altrettanto a una serie di varie comunit che ad essi fanno capo. Pur concentrandosi tutto attorno all'unico evento-Cristo, di l deriva comunque un fenomeno pluralistico, sicch non affatto inappropriato parlare di cristianesimi al plurale (cfr. Rinaldi, 2008). In effetti, le comunit studiate non sono soltanto geograficamente dislocate, ma sono anche diversificate tra di loro sia per la comprensione dell'evangelo sia per la loro struttura interna. E ci vale gi all'inizio per una differenza in contemporanea (ad esempio, tra la chiesa di Gerusalemme e quella di Corinto), ma anche in seguito sulla linea di una successione temporale (ad esempio, nella stessa chiesa di Roma tra gli anni cinquanta del i secolo e la fine del li secolo). i. Tipologia comunitaria La diversa tipologia delle prime comunit cristiane si constata soprattutto nell'ambito delle chiese paoline, anche se la loro variet si ritrova sostanzialmente pure a proposito delle altre chiese. Un sicuro criterio di individuazione, a questo proposito, si trova nel fatto che esse sono marcatamente segnate dallo specifico ambito religioso di origine, a cui gli autori dei testi ad esse indirizzati o da esse provenienti si adeguano, mantenendone poi viva l'impronta anche nel trascorrere del tempo. Ebbene, in questo senso si possono distinguere grosso modo tre tipi di chiese. In primo luogo c' il tipo giudeo-cristiano, che si pu scindere in due sotto-tipi. L'uno quello delle chiese composte esclusivamente da cristiani di etnia ebraica, com' il caso delle chiese palestinesi e soprattutto di quella gerosolimitana, di cui per non abbiamo una documentazione diretta. L prese forma la prima confessione della fede cristiana in termini appunto giudaizzanti (come Rom i,3b-4a), caratterizzata da una cristologia cosiddetta bassa. L'altro sotto-tipo il caso soprattutto della chiesa di Roma. Qui i cristiani sono probabilmente in maggioranza di
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provenienza giudaica, ma ad essi associata anche una forte componente di origine gentile, la quale, tuttavia, dal punto di vista confessionale sostanzialmente improntata a una interpretazione dell'evangelo di tipo giudaizzante (cfr. supra, pp. 87-94). Sicch, l'innegabile differenziazione etnica di fatto superata e armonizzata, sul piano ermeneutico, da una posizione fondamentalmente unitaria (sia pure con punte pi conservatrici), segnata da una stretta prossimit alla matrice giudaica. Ci spiega il confronto palese, anzi tematizzato, del rapporto tra "giudaismo" e "cristianesimo", che viene dispiegato mano a mano nelle pagine della lettera col indirizzata. Nel testo epistolare ai Romani pi che mai l'evangelo viene confrontato con la Legge in modo abbastanza rimarcato; e se ci non costituisce una innovazione assoluta, visto che altrettanto avveniva gi nella Lettera ai Calati, la vera novit consiste doppiamente nel fatto che la chiesa romana, a differenza di quelle galatiche, si originata nell'ambito del giudaismo locale e nel fatto che Paolo tratta l'argomento con toni meno emotivi e quindi pi calibrati e persuasivi. C' poi un tipo etnicamente (e religiosamente) misto, in prevalenza gentile ma insieme anche giudaico: il caso della chiesa di Corinto, ma anche, verosimilmente, delle chiese di Antiochia, dell'Asia Minore, nonch di Alessandria. I cristiani che le compongono sono di entrambe le provenienze. Limitandoci a Corinto (cfr. supra, PAR. 6.3), la componente pagana attestata soprattutto in iCor 12,2; per la componente giudaica, si vedano le vicende narrate in At 18,1-8, ma la questione di un conflitto non particolarmente sentita. Tutt'al pi, si percepisce vagamente qualche eco della peculiarit delle radici giudaiche del cristianesimo, sia nel divieto di adire i tribunali pagani (iCor 6,1-8), sia nella polemica contro l'idolatria (ivi 8-10), peraltro condotta nei termini di un possibilismo che stato definito come caratteristico di un halakista ellenistico (cfr. Tomson, 1990, p. 220; e anche Bockmuehl, 2000), sia nella riaffermazione della risurrezione dei morti (iCor 15), sia nel tema delle collette a favore della chiesa di Gerusalemme (iCor 16,1-4; 2Cor 8-9), sia poi nella formulazione dei due concetti contrastanti di nuova alleanza (iCor 11,25) e di antica alleanza (2Cor 3,14). In ogni caso, Paolo cita, s, l'Antico Testamento, ma molto parsimoniosamente. Anche nelle chiese d'Asia il confronto a volte conflittuale tra le due anime palese in pi di uno scritto (come in Ef e Ap). Infine c' un tipo etnicamente gentile: il caso, sia pure diversificato, delle chiese di Tessalonica, di Filippi e della Galazia. La loro origine gentile esplicita in iTes 1,9 e in Gai 4,8, mentre implicita in Fil 4,8. Nelle lettere indirizzate ai Tessalonicesi e ai Filippesi Paolo di fatto non
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fa mai riferimento esplicito ad alcun passo delle Scritture di Israele; queste infatti, non essendo adeguatamente conosciute, non potevano avere valore argomentativo. Quanto alla questione del rapporto giudaismocristianesimo, esso pu appena affiorare sporadicamente con qualche tono molto duro (iTes 2,14-16 sull'imitazione delle chiese della Giudea) o comunque molto velato (Fil 3,2 sullo stare in guardia dai cani) riferito ai Giudei in quanto si oppongono alla predicazione paolina della croce di Cristo. Quello della Galazia, invece, un caso a parte: pur sapendo che le chiese di quella regione sono comunque di origine gentile, pu sorprendere l'ampio e argomentato rimando alle antiche Scritture ebraiche presente nella lettera ad esse indirizzata; ma ci si spiega al meglio con la necessaria esigenza di polemizzare ad armi pari con chi tentava di giudaizzare i Calati ed eventualmente con quei Calati stessi che gi avevano ceduto all'insidia. Di nessuna di queste chiese noi conosciamo tanto bene la storia successiva a Paolo come avviene per la chiesa di Roma (che pur non di sua fondazione). Ebbene, dovrebbe essere ormai acquisito il dato secondo cui essa, nonostante la Lettera ai Romani, fu nei secoli improntata al giudeo-cristianesimo (cfr. supra, PAR. 4.4), gi a partire dal fatto che persine l'uccisione di Paolo, a quanto risulta, fu motivata da accuse mosse contro di lui da giudeo-cristiani ultraconservatori appartenenti alla stessa comunit romana (cfr. Brown, Meier, 1987, pp. 150-5). 2. Pluralismo identitario In ogni caso, le prime comunit cristiane testimoniano un fenomeno n monolitico n impermeabile, contrariamente a quanto succeder in alcuni luoghi e momenti della storia seguente. Anzi, proprio la pluralit all'interno e la disponibilit verso l'esterno sono sicuri criteri di non-settarismo e di ecclesialit (cfr. Theissen, 2008; 2010, pp. 431-3). Del resto, sono gli stessi scritti canonici del i secolo a documentare uno stato di cose pluralistico, che per la verit andrebbe considerato esso pure come distintivo e irrinunciabile. Il discorso in materia coinvolge il tema pi generale del canone neotestamentario, cio dei 27 scritti che appunto compongono la magna charta del cristianesimo, che si chiama Nuovo Testamento (in senso letterario). A dispetto del fatto che il processo della loro canonizzazione (culminato definitivamente solo nel iv secolo) port quegli scritti a livelli di assolutezza, di universalit e di globalit, non bisogna dimenticare che essi all'origine furono invece connotati da caratteristiche opposte, cio dalla occasionalit, dalla localizzazione e dalla frammentariet (cfr. Penna, 1994). Nella loro interpretazione non si pu prescindere da questa dimensione origi-

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naria, che, se sembra evocare l'idea di una certa relativizzazione, certo evidenzia la loro concretezza storica n pi n meno che la fondamentale idea di incarnazione/inculturazione. A questo livello inevitabile constatare delle differenze di accentuazione, di cui i vari scritti sono di volta in volta testimoni. Si pensi al fatto macroscopico della pluralit dei racconti canonici sulla vita terrena di Ges (ben quattro) e alle molte incongruenze che questa pluralit comporta nella trasmissione sia dei fatti che lo riguardano sia dei detti a lui attribuiti. Ed altamente significativo il fatto che la chiesa successiva, la cosiddetta Grande Chiesa, non accett il tentativo semplificatore fatto verso la fine del n secolo dal siro Taziano, che volle ridurre a uno solo quei racconti operando con forbici e colla: alla facile comodit di una sola relazione si prefer la scomoda difficolt di resoconti molteplici e a volte discordanti (cfr. Hengel, 2000) ! Paradossalmente, allora, va ammesso che la canonizzazione degli scritti neotestamentari comport anche l'approvazione delle diversit in essi documentate. Qui di seguito ricordo solo alcune di queste diversit, con l'intento non certo di ridurre il cristianesimo a un cumulo di contraddizioni (come vorrebbero certi sprovveduti polemisti anticristiani da Gelso in poi), ma di mettere in evidenza che esso talmente ricco e denso (come lo la storia in quanto tale!) da implicare la coesistenza di punti di vista diversi. In esso, d'altronde, non abbiamo a che fare con un teorema matematico o con un rebus risolvibile a senso unico, ma con un mistero insondabile nel quale sarebbe sorprendente se non s'incontrassero possibilit ermeneutiche differenziate. Per cominciare, approcci diversificati all'identit di Ges sono offerti non solo dai quattro Vangeli, ma anche dai vari scrittori delle origini cristiane. Ciascuno di essi elabora e trasmette un proprio ritratto di lui almeno con sfumature diverse, a testimonianza del fatto che, se gi un qualunque personaggio pu essere considerato secondo angoli visuali differenti, la cosa vale ancor pi per la complessa figura di Ges il Cristo (e a questo proposito sarebbe interessante un confronto con la sorte ermeneutica toccata ad Alessandro Magno). Anche alcune arcaiche confessioni di fede post-pasquali divergono a vicenda, come si vede per esempio da un paio di esse documentate nell'epistolario paolino e ad esso anteriori. Cos, mentre il testo riportato in Rom i,3b-4a contrappone tra loro la nascita terrena di Ges e la sua risurrezione intesa come intronizzazione a figlio di Dio, quello citato in iCor 15,3-5 invece contrappone la sua morte salvifica e la sua risurrezione, intesa questa come rivendicazione del giusto sofferente; d'altronde
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CONCLUSIONE

la celebrazione innica di Cristo in Fil 2,6-8, di composizione probabilmente pre-paolina, non parla n di Figlio n di risurrezione. Inoltre, una classica diversificazione quella che riguarda Paolo e Giacomo a proposito del valore delle opere morali nell'evento della giustificazione davanti a Dio. Infatti, mentre il secondo le inserisce come costitutive della giustificazione stessa, il primo invece le esclude radicalmente, dando spazio unicamente alla grazia di Dio e quindi a una concezione del cristianesimo non identificabile con un moralismo. E il tema, come si vede, non affatto di second'ordine. In pi, l'idea stessa di chiesa e persine della sua struttura varia a seconda che si tratti della prassi di Ges o di quella post-pasquale, diverse tra di loro. In questo secondo stadio, poi, bisogna almeno distinguere tra la prospettiva giudeo-cristiana e quella paolina, per non dire di quella giovannea. Mentre le chiese giudeo-cristiane sono organizzate per lo pi sulla base di un singolo presidente, al pi attorniato da un consiglio di presbteri o anziani (cos Gerusalemme e Roma), quelle paoline invece poggiano su di una direzione collegiale di presidenti o semmai di epscopi ma non di presbteri (secondo una concezione pi "democratica"), sia pur dovendo calcolare un passaggio dal Paolo storico alla generazione successiva. Oltre a ci, un cenno merita pure il campo dell'etica, che nella fase gesuana e giudeo-cristiana conosce una certa radicalit non pi condivisa nel cristianesimo di marca gentile. Infatti Ges chiamava a un abbandono di ogni cosa per mettersi alla sua sequela (Me 10,21), mentre Paolo richiede ai cristiani di rimanere nella condizione in cui si trovano quando sono chiamati (iCor 7,17.24). Inoltre la comunit matteana esige una forte adesione alla Legge che invece Paolo e le sue comunit contestano. Ma va detto che, se pur il giudeo-cristianesimo nella prima generazione non era riuscito a imporsi sul piano rituale (con la circoncisione), riusc poi a farlo nella seconda generazione sul piano della rigorosit etica (cfr. Theissen, 2008, pp. 89-97). Infine, anche l'attesa escatologica che varia a seconda dei diversi scritti, per quanto riguarda non soltanto l'intensit soggettiva dell'attesa stessa, ma anche la dimensione oggettiva concernente la portata individuale o collettiva della fine. Per esempio, mentre Luca nel Vangelo e negli Atti s'interessa soprattutto alla sorte ultima dei singoli (il vecchio Simeone, il ricco epulone, il povero Lazzaro, il buon ladrone, Stefano), il Giovanni dell'Apocalisse privilegia piuttosto la fine globale del tempo presente con l'adottare in pi tutta una rigogliosa simbologia che as271

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sente negli altri autori cristiani. Per non dire poi del fatto che la convinzione di vivere gi negli ultimi tempi attutisce la pur reale proiezione verso unaparousta imminente. Ci che in tutte queste espressioni di vita comunitaria potrebbe sembrare ad alcuni una mancanza di logica, in realt la testimonianza dell'esistenza di uno spazio aperto e largo, nel quale ci si muove con sufficiente libert; e se vero che si tratta di una pluralit limitata, essendo racchiusa dentro un canone, pure vero che la diversit garantita dal canone stesso, essendo fondata nientemeno che nell'oggettivit della storia (cfr. Redali, 2004). Perci, pur senza ripetere l'iperbole di Ernst Bloch secondo cui le eresie sono il meglio che una religione possa produrre (cfr. Bloch, 1971, p. 24), abbiamo comunque la prova che non si pu pretendere di rinchiudere n in una semplice formula didattica n in un'unica modalit esperienziale la vastit e la sfaccettatura di dati che in definitiva riguardano l'eccedenza ermeneutica di Dio stesso e del suo inviato Ges Cristo. 3. Convergenze unitarie La pluralit e la diversificazione delle prime comunit cristiane si compongono in unit proprio e soltanto nel nome di questo Ges Cristo, con un patrimonio di fede che il risultato di un lungo travaglio ermeneutico a cui esse lentamente approdano e su cui convergono. Certo che esse non hanno ancora un'autorit centrale che sovrintenda a tutte quante (a p. 167 dicevamo che se nel i secolo c' un "papa", questi semmai Paolo con la sua preoccupazione per tutte le chiese [2Cor 11,28], ovviamente per le chiese da lui fondate), e non conoscono neppure una federazione vera e propria. Ma sentono sempre pi di essere componenti dell'unica chiesa di Cristo (cfr. anche Augias, Cacitti, 2008, p. 114). A questo proposito, la sfaccettata situazione confessionale della chiesa di Efeso (cfr. supra, pp. 158-9) pu valere come paradigma identitario delle varie comunit cristiane. Nonostante tutto, infatti, esiste un common pattern constatabile sia sul piano della fede cristologica sia sul piano del comportamento etico, che in sintesi possiamo enucleare come segue (cfr. Tellbe, 2009, pp. 302-4). Anzitutto, la fede cristologica presenta una struttura di base comune e condivisa, riassumibile nei seguenti punti fondamentali: (i) in continuit con le Scritture, (2) Dio, il Padre, (3) si rivelato in Ges Cristo, uomo storico e Signore glorificato, (4) che mediatore in quanto offre il pieno accesso a Dio (5) aperto a tutti gli uomini, (6) essendo tutto ci confermato dallo Spirito e (7) orientato a un futuro compimento con il ritorno dello stesso Cristo Ges. Anche l'etica, conseguente all'intervento di Dio in Ges
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CONCLUSIONE

Cristo, implica una struttura di base comune, riassumitele nei seguenti punti essenziali: (i) l'uomo chiamato a dare una risposta personale, (2) qualificabile come accoglienza-rawedimento-fede e (3) vissuta all'interno di una comunit articolata (4) in atteggiamenti di devozione e conformazione a Cristo nell'amore e nell'umilt, (5) con la rinuncia a diversi valori di questo mondo quali potere-ricchezze-egoismi, in particolare alla partecipazione ai culti idolatrici, (6) ma anche con l'assunzione di molti valori positivi, propri delle varie culture, e (7) con la disponibilit alla sofferenza per la causa di Cristo. In questo modo le chiese (o la chiesa) diventano il luogo in cui la multiforme sapienza (polypoikilos sophia) di Dio, attuata in Cristo Ges, traluce e si manifesta al mondo intero (Ef 3,10).

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