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L'Albero della vita di Lineo la prima classificazione moderna di piante e animali. Il grande scienziato nasceva 300 anni fa.

. Il suo lavoro considerato ancora attuale. Creazionista ma, in fondo, evoluzionista: colloc l'uomo tra le scimmie antropomorfe.

Una delle classificazioni pi note della storia sicuramente quella delle categorie aristoteliche, che il filosofo distingueva in sostanza, quantit, qualit, relazione, luogo, tempo, essere, avere, agire e patire. L'elenco un po' erratico, e fa venire in mente le penitenze dei bambini: dire, fare, baciare, lettera, testamento. Ancora pi balzana la classificazione dell'Emporio celeste di riconoscimenti benevoli, un'enciclopedia cinese del decimo secolo citata o inventata da Borges: Gli animali si dividono in: appartenenti all'Imperatore, imbalsamati, addomesticati, maialini da latte, sirene, favolosi, cani randagi, inclusi in questa classificazione, che si agitano come matti, innumerevoli, disegnati con un pennellino finissimo di peli di cammello, eccetera, non pi vergini, che da lontano sembrano mosche. Da vicino tutte queste classificazioni sembrano invece pure e semplici espressioni di umorismo, volontario o involontario che sia. Anche se, con un po' di buona volont, la lista di Aristotele si pu intendere come un elenco di categorie grammaticali, ipostatizzate metafisicarnente: sostantivi, aggettivi (quantitativi e qualitativi), relaziono, avverbi (di luogo e di tempo), verbi ausiliari (essere e avere) e forme verbali (attive e passive). Tutte le classificazioni, per quanto ingenue, sono comunque la manifestazione di un istinto tassonomico che tradisce la volont di ordinamento del mondo secondo lantico principio de l divide et impera, inteso metaforicamente come classifica e comprendi. O, ancora pi anticamente, secondo la denominazione delle cose che fu la prima attivit di Adamo nel Genesi quand'ancora la sua attenzione non era stata distratta dall'arrivo di Eva: Il Signore Dio plasm dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Cos l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche. Pi che gli Ebrei, furono per i Greci a tentare una prima classificazione sistematica del mondo animale e vegetale. Aristotele dedic infatti al primo i tre libri Storia degli animali, Sulle parti degli animali e Sulla generazione degli animali, distinguendo ad esempio quelli con sangue (uomo, quadrupedi, cetacei, pesci e uccelli) da quelli senza sangue (crostacei, molluschi e entema, comprendenti tra gli altri insetti e vermi), in una divisione che ricalca quella odierna tra vertebrati e invertebrati. E il suo allievo e successore Teofrasto allarg nelle Ricerche sulle piante e Cause delle piante l'attenzione al secondo mondo, coniando il termine botanica e classificando 480 piante sulla base della loro generazione (spontanea, da seme, da radice, da un ramo, dal tronco). Dopo questi timidi inizi la classificazione del mondo della vita si rivel via via pi complessa, e produsse presto da un lato opere di dimensioni sempre pi mastodontiche, quali la Storia naturale di Plinio il Vecchio, e

dall'altro lato classificazioni sempre pi complicate e cervellotiche, basate su lunghe sfilze di nomi e attributi quali Physalis annua ramosissima, ramis angulosis glabris, foliis dentato-serratis. Nel Settecento la situazione era ormai diventata ingestibile, e la botanica e la zoologia attendevano un Messia che venisse a mettere ordine nel disordine dei loro ordinamenti. Lo trovarono entrambe nello svedese Carlo Linneo, di cui quest'anno si celebra il terzo centenario della nascita con manifestazioni di ogni tipo e in ogni luogo: oltre a innumerevoli congressi internazionali, la celebre rivista Nature gli ha infatti consacrato una copertina, la sua patria gli ha dedicato un'emissione filatelica, dopo averlo gi effigiato sul biglietto da 100 corone, il Museo Linneo di Uppsala ha aperto le porte del suo giardino e della sua casa, e la Societ Linnea di Londra ha esibito la sua collezione originale di 40.000 specie, oltre alla sua biblioteca di 16.000 libri e alla sua corrispondenza. Col senno di poi, si pu dire che Linneo trov un uovo di Colombo: classificare animali e piante come si fa con le persone, semplicemente mediante un cognome generico e un nome specifico come Physalis angulata. Ironicamente, a quell'epoca n Svezia le persone di solito non avevano un cognome, e usavano semplicemente un patronimico: ad esempio, il nonno di Linneo si chiamava Ingemar Bengtsson, cio figlio di Bengt: fu il padre di Linneo a darsi questo cognome, ispirandosi a un suo bosco di lino, tigli, e latinizzandolo in Linneus. Altrettanto ironicamente, il metodo di nomenclatura binomiale era gi stato anticipato di un paio di secoli dai due fratelli Gaspare e Giovanni Bauhin. Cosa come era stata parzialmente anticipata, sempre di un paio di secoli e da Corrado Gesner, l'organizzazione abbozzata da Linneo, e poi divenuta classica, delle forme viventi in domini, regni, fila, classi, ordini, famiglie, generi, specie, sottospecie e razze. A prima vista si trattava di un'altra sospetta lista di categorie, ma questa volta il principio ispiratore era quello giusto: non pi una classificazione basata su caratteri apparenti, come nel duecentesco trattato Sugli animali di Alberto Magno, che distingueva alla maniera cinese quelli che camminano, che volano, che nuotano e che strisciano, bens una classificazione ad albero genetico che oggi riconosciamo come basata sulla storia evolutiva. Naturalmente non la vedeva cosi Linneo, che era un creazionista e credeva che le specie principali fossero uscite dalle mani di Dio come Venere dalla spuma del mare, fatte e finite una volta per tutte. D'altronde la sua metafisica era ancora biblica, visto che egli descriveva se stesso come un secondo Adamo e il proprio lavoro col motto: Deus creavit, Linnaeus disposuit. Dio cre, Linneo dispose. Non a caso, sulla copertina del Sistema della natura, il capolavoro che pass gradualmente dalle undici pagine della prima edizione del 1735 alla classificazione di 4.400 specie animali e 7.700 vegetali della decima del 1758, era raffigurato un uomo che nel Giardino dell'Eden assegna i nomi alle creature. Ci nonostante, Linneo non era completamente fissista: riconosceva, ad esempio, che per ibridazione e acclimatazione possono nascere nuove specie, a partire da quelle create direttamente da Dio. Quanto all'uomo, lo colloc non al sommo del creato ma tra le scimmie antropomorfe, attirandosi di conseguenza scontate accuse di empiet da parte dell'arcivescovo di Uppsala, com' il prevedibile e immutabile destino di chiunque osi sfidare scientificamente la superstizione religiosa. Un destino che Linneo affront coscientemente, attestando in una lettera del 1747 che chiamare l'uomo scimmia, o la scimmia uomo, irrita i teologi, ma va fatto perch cos ordina la scienza.

Oggi teologi sono rimasti fermi a quell'irritazione, ma la scienza andata molto avanti sulla via indicata da Linneo, di una classificazione gerarchica della vita basata su caratteristiche osservabili degli organismi. Anzitutto, sostituendo il suo creazionismo con l'evoluzionismo, che Darwin arriv a formulare solo dopo aver studiato a fondo la sua classificazione. E poi, passando dalle sue osservabili macroscopiche, quali gli stami e i pistilli per una classificazione di tipo sessuale delle piante, ad analisi microscopiche basate sulla struttura del Dna. Su queste basi gli scienziati stanno oggi ricostruendo il vero Albero della Vita, riscrivendo il vero Genesi e scoprendone il vero Autore, all'insegna del motto coniato da Spinoza e condiviso da Einstein: Deus, sive Natura, Dio, cio la Natura.

In cosa crede chi crede? di Maurizio Ferraris e Piergiorgio Odifreddi

Ferraris. Ho letto il manoscritto del tuo ultimo libro, Perch non possiamo dirci cristiani, e meno che mai cattolici, non senza un interesse di bottega, visto che avevo appena finito di scrivere un libro sulla religione, Babbo Natale, Ges Adulto. In cosa crede chi crede? e ho scoperto che, contrariamente a quello che pensavo, abbiamo idee opposte. Voglio dire: nessuno di noi due credente, almeno mi pare. Per tu dici che ci sono, malgrado tutto, dei credenti. Io non ne sono cos convinto. La mia impressione che molti credano di credere, ma non credano davvero. Chi, per esempio, tra quelli che si professano cattolici apostolici e romani crede che Cristo veramente risorto, o che risorger lui, il credente, o che Cristo davvero presente nelle ostie? Del resto, se i credenti credessero davvero in un'altra vita, perch si affannerebbero tanto in diete e palestre che dovrebbero prolungare questa vita? Insomma, i migliori testimonial della incredulit sono i cristiani secredenti piuttosto che gli atei miscredenti. Odifreddi. Per quanto riguarda me, ti pare bene: ovviamente non sono credente, in nessun senso della parola. Per gli altri, immagino che si possa credere in qualcosa. Ad esempio, non faccio fatica ad accettare che qualcuno possa dire di credere al Dio di Spinoza, magari aggiornato nella versione di Whitehead: cioe', a un Dio il cui corpo sia l'universo, e i pensieri della cui mente siano le leggi che lo regolano. Io non ci credo, perche' mi sembra solo una bella metafora parlare della natura e delle sue leggi come del corpo e della mente di (un) Dio: una metafora che rischia di confondere le acque, usando una terminologia teologica per cio' che e' invece "soltanto" scientifico. Sono invece d'accordo con te, se ti riferisci ai cattolici quando dici che, dicendo di credere, si sbagliano e pensano (o si illudono) soltanto di credere. Il mio libro cerca appunto di "dimostrarlo", facendo vedere in maniera puntigliosa le incomprensibili assurdita' che un cattolico dovrebbe credere, per potersi dire tale: dalla natura una e trina della divinita', alla transustanziazione del pane e del vino, alla verginita' della Madonna, e cosi' via. Dietro a questa impossibilita', secondo me, sta un interessante problema filosofico: e cioe', si puo' credere a cio' che non si capisce? I sedicenti "misteri della fede" sono appunto cose che per definizione non si possono capire, se no che misteri sarebbero? Ma se non si capiscono, come si possono credere? Che ne pensa un filosofo? Ferraris.

Forse "filosofo" dir troppo. Diciamo "filosofante". Ma per quello che ci interessa mi sembra che basti e avanzi. In effetti, una condizione come quella che descrivi tu, per cui il vero credente non sa ci in cui crede, suggerisce delle domande maliziose. Come, per esempio: "Sei sicuro di credere nel Dio dei cristiani o in uno che gli assomiglia molto?". Il bello che sono convinto che quasi tutti credano, appunto, in un Dio privato, che ha solo delle somiglianze di famiglia, se le ha, con quello in cui credono gli altri. Di qui un interrogativo imbarazzante: a quale Dio si rende un sacrificio quando ci si trova in chiesa? A tutti? un politeismo molto pi che ind. O pi probabilmente nessuno - e questo, si noti, non da parte di increduli, ma di credenti. Questo ovviamente pone dei problemi filosofici: come diceva Quine, non c' entit senza identit, e questo Dio sconosciuto dei cristiani sembra incarnare ( il caso di dirlo) il paradosso di una entit che non ha una identit, che pu essere qualsiasi cosa, come il Sarchiapone nella vecchia scenetta di Walter Chiari. Uno potrebbe obiettare che non cos, che in effetti nella fede cristiana ci sono delle cose strane e incredibili, ma non incomprensibili. Che insomma non c' solo la Trinit, ma anche, per esempio, la Resurrezione. Ma, mi chiedo, quanti cristiani credono che risorgeranno, o anche "solo" che Cristo sia risorto? E s che Paolo di Tarso lo diceva chiaro e tondo: "se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la vostra fede". A questo punto, non ci si stupisce pi di niente e, in particolare, non ci si sorprende pi del fatto che, come ricordi nel tuo libro, i Vangeli non parlino affatto di Resurrezione, ma solo di una tomba che prima occupata, e poi vuota. , se vuoi, la situazione fotografata in una barzelletta che circola tra ecclesiastici. Si trovano dei resti nel Santo Sepolcro. Costernazione. Poi i Francescani dicono: "in fondo non cos male, ne faremo delle reliquie"; i Domenicani aggiungono: "del resto, si potrebbero reinterpretare le Scritture"; e i Gesuiti, stupefatti: "Allora davvero esistito!" Odifreddi. Borges non diceva proprio che la religione e' una barzelletta, ma quasi: piu' precisamente, che e' un ramo della letteratura fantastica. E infatti, come questa, essa richiede una sospensione del principio di realta': lo si fa quotidianamente, quando si leggono romanzi o si guardano film non realisti e io credo addirittura che proprio qui stia uno dei motivi per cui la gente ancora crede: perche' e' abituata fin da sempre ad accettare storie inverosimili per il solo gusto di sentirsele raccontare, e di lasciarsene stupire ed emozionare. Ad esempio, i bambini di oggi vivono nelle favole, nei programmi televisivi, nei videogiochi, e gli adulti non sono da meno, coi loro reality show e la loro letteratura di evasione. Tutto questo prepara il terreno a credere all'inverosimile e, a questo punto, la religione non sembra essere tanto diversa. Anzi, io mi chiedo, piu' in generale, se l'intero genere "fantasy", religione compresa, non sia altro che una rimozione della realta' e un sintomo di psicosi collettiva. il che, in fondo, era la diagnosi che ne dava Freud, anche se lui poi sottolineava pure l'aspetto di nevrosi collettiva, a proposito dei riti e delle pratiche religiose. Naturalmente, vale anche il contrario: cioe', che le psicosi e le nevrosi non sono altro che religioni personali. Puo' suonare un po' iconoclasta, ma in fondo e' stato una persona insospettabile come il Dalai Lama a dire che "le religioni sono cure per le malattie dell'anima", intendendo che malattie diverse richiedono cure diverse. Il mio corollario, pero', e' che chi e' spiritualmente sano non ha bisogno di religioni. Ferraris. Potrebbero per facilmente obiettarti che non c' malattia peggiore di quella che non si riconosce come tale, e che non c' malato pi grave di quello che si sente sano. In fondo, molte religioni ragionano proprio cos: siamo tutti peccatori, o comunque siamo tutti malati. Io, poi, per quel che mi riguarda, non mi sento particolarmente sano, n vedo in giro tanta gente che scoppia di salute, anche mentale, e anzi, per ci che riguarda la salute mentale, "scoppiare di salute" ha un aspetto vagamente sinistro... Non per questo mi curo con la religione. Forse starei meglio, ma proprio non riesco a crederci, pi forte di me, che pure, in et diverse, mi sono appassionato a Sandokan e a

Madame Bovary, senza mai credere alla Resurrezione. Ed qui che avviene la cosa pi imbarazzante. Immaginiamo che fossi una ascoltata guida spirituale e che un giorno, sporgendomi alla finestra, dicessi che bisogna votare in un certo modo perch altrimenti Sandokan si offende, o anche solo che un valido motivo per attuare la pace nel mondo sta nel fatto che in quel modo si realizzano le aspirazioni di Tremal Naik e di Charles Bovary. Non stento a pensare che questo comportamento getterebbe nella costernazione chi mi affezionato. Ma - e davvero questo per me un problema, non una domanda retorica - c' qualcosa di radicalmente diverso nella religione cattolica? Si dir che per i cattolici le vicende bibliche ed evangeliche non sono romanzi, ma un'arma a doppio taglio. Non sarebbe meglio che la moltiplicazione dei pani e dei pesci fosse un romanzo? Odifreddi. John Nash, il matematico che ha ispirato il film "A beautiful mind" e che di malattie mentali e di guarigioni "miracolose" se ne intende, mi ha detto testualmente che "essere mentalmente sani, significa VOLER ESSERE mentalmente sani". E questo e' il problema: molti malati, mentali o spirituali, non vogliono affatto guarire, e stanno benissimo come sono, cioe' malati. E' un paradosso, ovviamente, lo star bene quando si sta male, ma e' precisamente quello che succede ai religiosi: i quali, io credo, non desiderano altro se non prolungare per tutta la vita i "piaceri dei tormenti" infantili. Perche', per come la vedo io, le religioni rispondono appunto a esigenze tipicamente infantili: il volere, cioe', dare un senso al mondo e alla vita in generale. Cosi' come, sempre per come la vedo io, l'esistenzialismo affronta problematiche tipicamente adolescenziali: non a caso, leggere Dostoevskij o Sartre sconvolge a quindici anni, ma annoia a quaranta. Cosi' come i fumetti divertono da bambini, ma appaiono sciocchi quando si e' adulti (mentalmente, ovviamente, non anagraficamente). Come direbbe l'Ecclesiaste (il quale, per curiosita', e' un libro apocrifo che non sta nella Bibbia ebraica, ma solo in quella cristiana), "c'e' un tempo per ogni cosa". E lo stesso Paolo di Tarso, nella "prima lettera ai Corinzi", diceva: "quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. ma, divenuto uomo, cio' che era da bambino l'ho abbandonato" (anche se, nel suo caso, sembra che sia caduto dalla padella nella brace). Se posso condensare in un motto cio' che penso a questo riguardo, direi che da giovani sentiamo che il mondo e' diverso da noi, e pretendiamo di cambiare il mondo. Da maturi, sentiamo che il mondo e' diverso da noi, ma ci accontentiamo di cambiare noi stessi. Da saggi, infine, sentiamo che il mondo e' diverso da noi, e che va bene cosi'... Ferraris. Difatti (o, meglio, difetti, dato l'argomento), questo proprio il punto su cui mi piacerebbe che si riflettesse. Non ho particolare gusto nel polemizzare con la religione, anche perch sotto questo nome c' una infinit di cose. Ma, anche a concedere alla religione (cio, in Italia, essenzialmente al cattolicesimo) tutto quello che vuole, e cio tra l'altro anche cose difficili da accettare come l'intromissione nella vita politica, e il pontificare su questioni scientifiche nello stesso momento in cui si parla tranquillamente dei miracoli, resta un problema di fondo nella mentalit religiosa. Questo. Paolo non solo diceva che se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede. Ma aggiungeva che se Cristo non fosse risorto noi saremmo i pi miserabili tra gli uomini. Ecco, proprio mi sfugge. Perch dovremmo considerarci miserabili solo perch non rinasceremo, perch la nostra vita non ha niente di miracoloso, perch prima o poi finisce? Da questo punto di vista, noi moderni che ci consideriamo tanto superiori agli antichi abbiamo fatto dei passi indietro spaventosi. Nel libro cito, alla fine, una epigrafe che si era fatta incidere sulla tomba un legionario romano, dunque non un sofisticato intellettuale: "Sono sicuro che non c' domani". Sembra una frase piena di iattanza, ma sembra soltanto. Perch l'alternativa sarebbe il famoso argomento di Pascal della scommessa: mi conviene pensare che c' un domani, tanto cosa ci

perdo? Al massimo, niente. Ecco, magari lo scommettitore non ci perde niente, e non si accorger nemmeno di aver perso la scommessa se, come probabile, la perder; ma gli altri, che magari non hanno scommesso, devono sottostare ai gusti dello scommettitore, che (a seconda delle varie religioni) potr decidere di farsi saltare con una cintura esplosiva, di non autorizzare le trasfusioni ai figli, o semplicemente di fare obiezione di coscienza, se medico, alle interruzioni di gravidanza. Non sarebbe pi serio, pi giusto, e alla fine anche pi nobile non scommettere su cose tanto importanti? Ricordo di aver visto da ragazzo la tomba di Jim Morrison al Pre Lachaise, e con lo spray qualcuno aveva scritto pi o meno "Jim morto / non importa / perch un trip ce lo riporta". Era gi pi realistico che la Resurrezione. Ma non meglio, anche moralmente, non pi giusto e pi serio rassegnarsi e basta? Come si legge su un'altra pietra tombale romana: " cos, ci che vedi, non pu essere altrimenti".

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