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A proposito del New Realism

di Sossio Giametta Non bisogna confondere la costruzione puramente logica, di cui lesempio massimo lontologia di Parmenide (ma gi anche quella di Anassimandro), con la considerazione della realt empirica. Le due sfere sono eterogenee e incompatibili. E questa eterogeneit e incompatibilit ha dato luogo alle dicotomie di razionalismo ed empirismo, idealismo e realismo. Ma poich si tratta pur sempre di due modi di vedere la stessa realt, la tentazione di irrompere con luna nella sfera dellaltra si dimostrata irresistibile nella storia della filosofia occidentale. Anche perch il progresso possibile solo nella conoscenza della realt empirica. Lo si vede in particolare nei casi di Anassimene, Melisso e Giordano Bruno, per menzionare solo i pi clamorosi. Ci sarebbe anche Spinoza, che addirittura mette insieme le due cose, deus e natura (deus sive natura) solo che possibile che egli abbia voluto indicare non unidentit ma una diversit, non una sola cosa con due nomi, ma due cose diverse che per in definitiva ne sono una sola. Un esempio da noi Severino, nel quale questa confusione scalza alla base la sua filosofia. Egli si affanna a distinguere, nella scia di Parmenide, lessente dal non essente, ma poi dice, a differenza di Parmenide, che tutte le cose sono eterne. Per le cose che, come Schopenhauer insegna, non sono altro che effetti (per Nietzsche le cose sono i limiti delluomo), si esauriscono nelle loro relazioni reciproche e hanno realt solo nel loro agire come intuizioni, esistono in quanto cose solo nel divenire, ossia, secondo Severino, nellapparire che illusione e non-essente. Come fanno, essendo illusioni non-essenti, a essere eterne? E daltra parte, se lessere o lessente fosse invece, come a noi sembra, una continua creazione e dunque un continuo divenire, dove tutto nasce e muore, ma non il nascere e morire stesso? Ci gli impedirebbe il ragionamento che trae da Parmenide: Parmenide mostra che ci che , lessente, non pu provenire dal non essente e nel non essente non pu dissolversi; e poich il mondo lapparire dellincominciare ad essere e del cessare di essere, da parte delle cose, le cose del mondo non possono essere degli essenti e il loro apparire solo illusione. [] Questa struttura [la sua struttura originaria del destino della verit]

mostra che le cose del mondo non possono essere illusione, ma sono essenti, e dunque sono eterne, tutte; s che il loro variare non pu essere inteso come il loro provvisorio sporgere dal nulla, ma come il comparire e lo scomparire degli eterni. Cos egli ha scritto nel Corriere della Sera del 12 marzo 2008, metamorfosando malamente la dottrina delle idee di Platone, cio attribuendo leternit alle cose e non alla legge delle cose. Un autore che invece questa fondamentale distinzione lha fatta Giulio Cesare Vanini. Di poco posteriore a Bruno e a lui affratellato dal martirio (Andiamo a morire allegramente da filosofo, disse sublimemente al boia che era venuto a prelevarlo per portarlo al rogo, previo strappo della lingua), ne il successore naturale: la scepsi dopo la fede e gli eroici furori. Ecco come unisce e disgiunge le due cose: Dio di se stesso principio e fine; manchevole di ciascuno dei due, non bisognoso n delluno n dellaltro, ed padre e insieme autore di entrambi. Esiste sempre, ma senza tempo, perch per lui n scorre il passato n sopraggiunge il futuro. Regna dovunque ma senza luogo, immobile ma senza quiete, infaticabile senza muoversi. Tutto fuori di tutto; in tutte le cose ma non vi compreso; fuori di esse ma non ne escluso. Regge luniverso dallinterno, dallesterno lo ha creato. Buono pur essendo privo di qualit, grande pur essendo privo di quantit. Totalit senza parti, immutabile, produce nelle altre cose mutamento. Il suo volere potere e la volont gli necessaria. semplice, e nulla in Lui in potenza, ma tutto in atto, anzi Egli stesso puro, primo, medio ed ultimo atto. Infine tutto su tutto, fuori di tutto, in tutto, oltre tutto, prima di tutto e tutto dopo tutto (da Mario Carparelli, Morire allegramente da filosofi, Il Prato, p. 10). Purtroppo, questa confusione tra metafisica e realt empirica c stata anche nel pensiero debole. E c, pur nella correzione, nellattuale ritorno al pensiero forte, che passa per Umberto Eco, Paul Boghossian, Diego Marconi, Paolo Flores dArcais, Maurizio Ferraris, a partire dal saggio di John Searle, La costruzione della realt sociale (1995). Il pensiero forte, infatti, conserva lo stesso impianto del pensiero debole, fluttua sulla sua stessa onda. Lo corregge, ma in un certo senso lo prosegue, trascinato da esso. Non mette il dito sullerrore di fondo: lillegittima interpretazione del principio di Nietzsche: Non ci sono fatti, solo interpretazioni.

La confusione di Vattimo e compagni, secondo Ferraris, tra ontologia ed epistemologia, tra quello che c e quello che sappiamo a proposito di quello che c. Ma pi precisamente la confusione tra metafisica e fisica. Il principio di Nietzsche resta valido sul piano metafisico, dove tutto quello che cogliamo interpretazione di qualcosa di infinito che non potremo mai cogliere nella sua essenza. Ma molto meno valido sul piano fisico. La fysis, la natura, realt, ma antropomorfizzata dalla nostra percezione. Non per niente Nietzsche sostiene che la fisica lautodescrizione delluomo:. sufficiente considerare la scienza unumanizzazione il pi possibile fedele delle cose; noi impariamo a descrivere in modo sempre pi preciso noi stessi quando descriviamo le cose e la loro successione. Goethe aveva gi detto: Luomo non comprender mai quanto egli sia antropomorfico. Aveva per anche detto: Luomo posto come reale in mezzo a un mondo reale ed dotato di organi tali, per cui pu conoscere e produrre il reale e, inoltre, il possibile. Che la fisica sia realt antropomorfizzata, provato dai continui cambiamenti, cio miglioramenti in verit e precisione, e quindi in disantropomorfizzazione, della scienza, sicch le leggi della fisica, che si vogliono cos solide, si evolvono anchesse nel tempo, vengono continuamente corrette. Basta pensare a Tolomeo e Copernico, a Newton e Einstein, a Planck ecc. Di per s lermeneutica non sarebbe dunque che la conseguenza logica, il corollario di tale principio. Ma in pratica ha dato luogo a una grandiosa confusione. Si predicata linattingibilit della verit. Ma, tanto per cominciare, nel seno stesso dellermeneutica Luigi Pareyson, maestro di Eco e Vattimo, afferma che la verit soggetto e non oggetto delle interpretazioni, sicch le interpretazioni sono le facce cangianti della sua infinit come le epoche, per Platone, sono le facce cangianti delleternit. Dunque laddio di Vattimo e del pensiero debole alla verit, a qualsiasi verit e non solo, come sarebbe stato legittimo, alla verit ultima o piuttosto ulteriore, dato

che una verit ultima non esiste; si sostenuta la costruzione sociale di tutto, anche del mondo naturale, dopo che per la grande filosofia idealistica la natura era stata interpretata come una mera costruzione umana. Si trasportato insomma il principio di Nietzsche dal piano assoluto (la vera ontologia) alla sfera intraumana, nella quale i fatti ci sono e c pure la realt (empirica), lo zoccolo duro di Eco, il fuoco che brucia, lacqua che bagna e il mondo naturale inemendabile di Ferraris: il mondo che si fa valere con le sue leggi per tutti i viventi. Non cozza ci con la suddetta imprecisione della fisica? S, come il senso di stabilit della terra, per quanto imperfetta (terremoti, maremoti ecc.), per la quale si costruiscono le case sul Vesuvio, cozza con il vita motu constat. Dunque la stabilit esiste, esistono i ritmi distesi della natura (Th. Mann), e sono per gli uomini una grande risorsa in mezzo al vertiginoso movimento delluniverso. Nella sfera intraumana riprendono pertanto pieno senso, con buona pace di Nietzsche, la conoscenza e la morale. Perch il suo nichilismo, negazione appunto della conoscenza e della morale, valido solo sul piano assoluto. In assoluto il mondo non ha un senso unitario, umanamente rilevabile, bens tutti i sensi che per le singole creature scaturiscono dallinterno secondo la loro diversa natura e misura di forza, come dice Nietzsche. Questo il prospettivismo, per il quale il mondo appare a ogni essere in una prospettiva particolare, che anche una sua abbreviazione, e cattura la realt entro i limiti e le forme particolari delle singole creature nellambito delle specie a cui queste creature appartengono. Le specie sono le intermediarie tra lassoluto e gli individui. Le prospettive degli uomini si costituiscono nellambito della specie umana (specie = lumanit con la sua storia e le sue potenzialit) e in relazione ad essa. Riposano sulla forza di gravit che le specie esercitano nei loro membri. Con la forza di gravit la specie tiene gli individui legati a s e ai suoi bisogni, che essi tutti rappresentano come organi di un organismo unitario, e costituiscono il senso della loro vita. In tal modo la gravit impedisce agli uomini di cadere nellirrazionale e nel vuoto morale del niente vero, tutto permesso zarathustriano. Per conseguenza, linterpretazione non usurpa pi il posto della verit. Le interpretazioni restano legittime e concorrenti, ognuno ha diritto alla sua, ma possono tutte essere validamente discusse e caso mai confutate in nome della verit, cio nellambito

di una gerarchia basata sullesperienza. Flores dArcais e Ferraris ne fanno anche se non soprattutto una questione morale e politica. Secondo loro la soppressione della verit autorizza tutte le falsit, come (dicono) quelle di Berlusconi. Hanno ragione loro e torto Vattimo, Rovatti e i postmoderni, gli irrealisti? Sebbene non si possa predicare lindifferenza assoluta della filosofia per la politica, e abbiamo avuto in realt prove grandiose del contrario, qui le cose non sono, diciamo, grandiose. Anche quando la fede nella verit era incrollabile o ritenuta tale, si sono dette e messe in giro tutte le falsit che si son volute dire e mettere in giro. Lo stesso accade nellaltro caso. Credere o non credere alla verit non cambia e non autorizza sostanzialmente niente sul piano morale e politico. Vattimo punta sulla solidariet al posto della verit e pensa che se non c la verit non ci sia neanche il fanatico che crede sia solo la sua ed pronto a mettere tutto a ferro e fuoco per farla prevalere su quella degli altri. Crede poi pure che il liberarsi della verit come fondamento, come Grund fisso, favorisca lemancipazione. Flores dArcais e Ferraris gli danno addosso sostenendo il contrario. Insomma sia dalluna che dallaltra parte si predicano ragioni valide e ragioni sbagliate. In realt la questione della verit non ha conseguenze vincolanti sul piano morale e politico, in quanto latteggiamento che si assume al riguardo dipende molto dal carattere onesto o disonesto e poco dalle teorie. Pu invece avere grande importanza politica, in bene e in male, come la storia attesta, la dottrina pura, vedi per esempio Nietzsche e Heidegger da un lato e Spinoza dallaltro. Non posso daltra parte dimenticare la risposta di Calder a chi gli chiedeva perch non faceva politica. Indic i suoi mobiles dicendo: questa la mia politica. (8 settembre 2011)

Addio postmoderno, benvenuti nellera dellautenticit


di Edward Docx, la Repubblica, 3 settembre 2011 Ho delle buone notizie per voi. Il 24 settembre potremo ufficialmente dichiarare morto il postmoderno. Come faccio a saperlo? Perch in quella data al Victoria and Albert Museum si inaugurer quella che viene definita la "prima retrospettiva globale" al mondo intitolata "Postmoderno - Stile e sovversione". Un momento. Vi sento urlare. Perch dichiarano ci? Che cosa stato il postmoderno, dopo tutto? Non l ho mai capito. Come possibile che sia finito? Non siete gli unici. Se esiste una parola che confonde, irrita, infastidisce, assilla, esaurisce e contamina noi tutti "postmoderno". E nondimeno, se lo si capisce, il postmodernismo scherzoso, intelligente, divertente, affascinante. Da Madonna a Lady Gaga, da Paul Auster a David Foster Wallace, la sua influenza arrivata ovunque e tuttora si espande. stata l idea predominante della nostra epoca. Allora: di che cosa si trattato, esattamente? Beh, il modo migliore per iniziare a capire il postmodernismo facendo riferimento a ci che c era prima: il modernismo. A differenza, per esempio, dell Illuminismo o del Romanticismo, il postmodernismo racchiude in s il movimento che si prefiggeva di ribaltare. A modo suo, il postmodernismo potrebbe essere considerato come il tardivo sbocciare di un seme pi vecchio, piantato da artisti quali Marcel Duchamp, all apice del modernismo tra gli anni Venti e Trenta. Di conseguenza, se i modernisti come Picasso e Czanne si concentrarono sul design, sulla maestria, sull unicit e sulla straordinariet, i postmoderni come Andy Warhol e Willem de Kooning si sono concentrati sulla mescolanza, l opportunit, la ripetizione. Se i modernisti come Virginia Woolf apprezzarono la profondit e la metafisica, i postmoderni come Martin Amis hanno preferito l apparenza e l ironia. In altre parole: il modernismo predilesse una profonda competenza, amb a essere europeo e si occup di universale. Il postmodernismo ha prediletto i prodotti di consumo e l America, e ha abbracciato tutte le situazioni possibili al mondo.

I primi postmodernisti si legarono in un movimento di forte impatto, che mirava a rompere col passato. Ne deriv una permissivit nuova e radicale. Il postmodernismo stato una rivolta apprezzabilmente dinamica, un insieme di attivit critiche e retoriche che si prefiggevano di destabilizzare le pietre miliari moderniste dell identit, del progresso storico e della certezza epistemica. Pi di ogni altra cosa il postmodernismo stato un modo di pensare e di fare che ha cercato di eliminare ogni sorta di privilegio da qualsiasi carattere particolare e di sconfessare il consenso del gusto. Come tutte le grandi idee, stato una tendenza artistica evolutasi fino ad assumere significato sociale e politico. Come ha detto il filosofo egiziano-americano Ihab Hassan, nella nostra epoca si affermato un "forte desiderio di dis-fare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell individuo, l intero territorio del dibattito occidentale". Il postmodernismo apparve per la prima volta come termine filosofico nel libro del 1979 dell intellettuale francese JeanFrancois Lyotard intitolato " The Postmodern Condition ", nel quale si affermava che gruppi diversi di persone utilizzano il medesimo idioma in modi differenti e ci implica che possano arrivare a vedere il mondo con occhi alquanto differenti e personali. Cos, per esempio, il sacerdote utilizza il termine "verit" in modo assai diverso dallo scienziato, che a sua volta intende la medesima locuzione in modo ancora diverso rispetto a un artista. Di conseguenza, svanisce completamente il concetto di una visione unica del mondo, di una visione predominante. Se ne deduce sostenne ancora Lyotard - che tutte le interpretazioni convivono, e sono su uno stesso piano. Questo confluire di interpretazioni costituisce l essenza del postmodernismo. Purtroppo, il 75 per cento di tutto ci che stato scritto su questo movimento contraddittorio, inconciliabile, oppure emblematico della spazzatura che ha danneggiato il mondo accademico della linguistica e della filosofia "continentale" per troppo tempo. Non tutto per da buttar via. Due sono gli elementi importanti. Il primo che il postmodernismo un offensiva non soltanto all interpretazione dominante, ma anche al dibattito sociale imperante. Ogni forma d arte filosofia e ogni filosofia politica. Il confronto epistemico del postmodernismo, l idea di de-

privilegiarne un significato, ha pertanto condotto ad alcune conquiste utili per il genere umano. Se infatti ci si impegna per sfidare il ragionamento prevalente e predominante, ci si impegna altres per dare voce a gruppi fino a quel momento emarginati. Cos il postmodernismo ha aiutato la societ occidentale a comprendere la politica della differenza e quindi a correggere le miserabili iniquit ignorate fino a quel momento. Il secondo punto va maggiormente in profondit. Il postmodernismo mirava a qualcosa di pi che pretendere semplicemente una rivalutazione delle strutture del potere. Affermava che noi tutti come esseri umani altro non siamo che aggregati di quelle strutture. Sosteneva che non possiamo prendere le distanze dalle richieste e dalle identit che tali discorsi ci presentano. Adios Illuminismo. Bye bye Romanticismo. Il postmodernismo, invece, afferma che ci muoviamo attraverso una serie di coordinate su vari fronti - classe sociale, genere, sesso, etnia - e che queste coordinate di fatto costituiscono la nostra unica identit. Altro non c . Questa la sfida fondamentale che il postmodernismo ha portato al grande convivio delle idee umane, in quanto ha cambiato il gioco, passando dall autodeterminazione alla determinazione dell altro. Eccoci per giunti alla domanda trabocchetto, la pi subdola di tutte: come sappiamo che il postmodernismo alla fine, e perch? Prendiamo in considerazione le arti, la linea del fronte. Non si pu affermare che l impatto del postmodernismo sia minore o in via di estinzione. Anzi, il postmodernismo esso stesso diventato il sostituito dell ideologia dominante, e sta prendendo posto nella gamma di possibilit artistiche e intellettuali, accanto a tutte le altre grandi idee. Tutti questi movimenti in modo impercettibile plasmano la nostra immaginazione e il modo col quale creiamo e interagiamo. Ma, sempre pi spesso, il postmodernismo sta diventando "soltanto" una delle possibilit che possiamo utilizzare. Perch? Perch tutti noi siamo sempre pi a nostro agio con l idea di avere in testa due concetti inconciliabili: che nessun sistema di significato possa detenere il monopolio sulla verit, e che nondimeno dobbiamo riformulare la verit tramite il nostro sistema scelto di significati. Forse, il modo migliore per spiegare le ragioni di questo sviluppo usare la mia forma d arte, il romanzo. Il postmodernismo ha

influito sulla letteratura sin da quando sono nato. In effetti, il modo stesso col quale ho scritto questo articolo - mescolando parzialmente a livello di consapevolezza tono formale e tono informale - in debito verso le sue stesse idee. Stile alto e stile basso coesistono allo scopo precipuo di creare occasioni di stupore, sorpresa, introspezione. Il problema, per, quello che potremmo definire il paradosso del postmodernismo. Per qualche tempo, quando il Comunismo croll, la supremazia del capitalismo occidentale parve messo a dura prova proprio ricorrendo alle tattiche ironiche del postmodernismo. Col passare del tempo, per, si presentata una nuova difficolt: tenuto conto che il postmodernismo se la prende con qualsiasi cosa, ha iniziato ad affermarsi una sensazione di confusione, finch negli ultimi anni diventata onnipresente. Una mancanza di fiducia nei dogmi e nell estetica della letteratura ha permeato la cultura e pochi si sono sentiti sicuri o esperti a sufficienza da riuscire a distinguere la spazzatura da ci che non lo . Pertanto, in assenza di criteri estetici attendibili, diventato sempre pi conveniente stimare il valore delle opere in rapporto ai guadagni che esse assicuravano. Cos, paradossalmente, siamo arrivati a una fase nella quale la letteratura stessa ormai minacciata, prima dal dogma artistico del postmodernismo, poi dagli effetti involontari di tale dogma, l egemonia dei marketplace. Esiste inoltre un paradosso parallelo, in politica e in filosofia. Se deprivilegiamo tutte le posizioni, non possiamo affermare alcuna posizione, pertanto non possiamo prendere parte alla societ e quindi, in definitiva, un postmodernismo aggressivo diventa indistinguibile da una specie di inerte conservatorismo. La soluzione postmoderna non servir pi da risposta al mondo nel quale ci ritroviamo a vivere. In quanto esseri umani, noi non desideriamo esplicitamente essere lasciati in compagnia del solo mercato. Perfino i miliardari vogliono essere collezionisti di opere d arte. Certo, internet quanto di pi postmoderno esista su questo pianeta. Il suo effetto pi immediato in Occidente pare essere stato la nascita di una generazione che maggiormente interessata ai social network che alla rivoluzione sociale. Tuttavia, se sappiamo guardare oltre scopriamo un secondo effetto negativo indesiderato: una smania a conseguire una sorta di veridicit offline. Desideriamo essere riscattati dalla volgarit dei

nostri consumi, dalla simulazione del nostro continuo atteggiarci. Se il problema per i postmodernisti stato che i modernisti avevano detto loro che cosa fare, allora il problema dell attuale generazione esattamente il contrario: nessuno ci sta dicendo che cosa fare. Questo crescente desiderio di una maggiore veridicit ci circonda da tutte le parti. Lo possiamo constatare nella specificit dei movimenti food local, per i cibi a chilometro zero. Lo possiamo riconoscere nelle campagne pubblicitarie che ambiscono ardentemente a raffigurare l autenticit e non la ribellione. Lo possiamo vedere nel modo col quale i brand stanno cercando di prendere in considerazione un interesse per i valori dell etica. I valori tornano ad avere importanza. Se andiamo ancor pi in profondit, ci accorgiamo della crescente rivalutazione dello scultore che sa scolpire e del romanziere che sa scrivere. Jonathan Franzen ne un esempio calzante: uno scrittore encomiato in tutto il mondo perch si sottrae alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla propria epoca. Ci che conta, dopo tutto, non soltanto la storia, ma come raccontata. Queste tre idee - specificit, valori, autenticit - sono in aperto conflitto con il postmodernismo. Stiamo dunque entrando in una nuova era. Potremmo provare a chiamarla "lEt dell Autenticit". Vediamo un po come andranno le cose. (Traduzione di Anna Bissanti) (5 settembre 2011)

Baruffe torinesi su favole e verit


Durante lestate un dialogo tra Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris ha rilanciato la disputa neo-realismo vs postmoderno (vedi anche Almanacco di filosofia, MicroMega 2011). Ma davvero non esiste una terza via capace di rinunciare alle favole postmoderne senza mettere da parte la fondamentale ermeneutica del sospetto che propria di ogni "pensiero critico"? di Pierfranco Pellizzetti Neo-Realismo vs. Postmoderno Debole? Insomma, Cesare Zavattini o Wim Wenders? Il dibattito ferragostano tra Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris, apparecchiato sulle pagine de La Repubblica il 19 agosto, potrebbe essere letto come una disputa interna alla famiglia accademica torinese, in cui il pi giovane tra i due contendenti (Ferraris, gi cucciolo della redazione che nel 1983 assiem in volume la raccolta di saggi eponima del debolismo o, come lo chiama Carlo Augusto Viano, flebilismo) elabora ancora una volta il lutto delluccisione simbolica del padre accademico (appunto, Vattimo), tradito per i pi up to date lidi del post-post-modernismo. Chi scrive, distinto parteggerebbe per lagonista under, certo pi spiritoso dellover e probabilmente lui s ancora studioso, quando il suo antico maestro ormai campa di rendita; come risult ancora una volta laprile scorso, nella performance vattimiana al Festival della Laicit di Reggio: la sua giustificazione dellessere credente (in dio o Chavez?) era solo la deliberata volont di prendersi gioco delluditorio o che altro? Quale loggetto dellattuale contendere? Presto detto (si fa per dire): se, in campo ontologico, dunque riguardo ai modi di esistenza della realt, valga solo linterpretazione oppure si mantenga un nocciolo duro di fattualit. Discussione che entra almeno nel suo secondo secolo di vita, come ricerca di una via altra tra idealismo e positivismo. Daltro canto lo snobismo torinese ama il remake. Anche filosofico. Operazione in cui uno come lo scrivente, che bazzica marciapiedi infinitamente sottostanti al ciel dei cieli del pensiero che riflette su se stesso, evita accuratamente di addentrarsi; lascia senza troppi rimpianti o frustrazioni a tipi come John Searle le questioni sul misterico del "come pu esserci un insieme epistemicamente oggettivo di affermazioni relative a una

realt che ontologicamente soggettiva" (Creare il mondo sociale, Cortina, Milano 2010 pag. 21). Eppure anche il rozzo frequentatore del fatto sociale bruto intuisce che la filosofia sar pure un genere letterario, quanto leconomia, la sociologia o la teologia; ci nonostante lassunto dellermeneutica quale teoria della verit-storicit, che interpreta il Moderno producendo favole e miti, incontra qualche difficolt a non evaporare davanti allobiezione di Flores dArcais: una favola pu smentire unaltra favola? (Almanacco di filosofia, MicroMega 2011). Difatti, dopo loverdose decostruttiva, dopo tanto accatastare nuvole postmoderniste, dopo i tanti appelli narcisistici alla condizione del nomadismo senza scopo, in cui il bla-bla benaltristico finiva per produrre lische di pesce consistenti quanto il fumo di una papier mais da intellettuale di Rive Gauche, lestensore di queste note aveva apprezzato il tentativo di ritrovare un ancoraggio di senso/significati. Ben venga dunque chi dice che "senza ontologia non ci possono essere n epistemologia n etica, perch la realt (lontologia) il fondamento della verit (lepistemologia) e la verit il fondamento della Giustizia (letica). (M. Ferraris,Ricostruire la decostruzione, Bompiani, Milano 2010 pag. 89). Possiamo spingere per la nostra ricostruzione post decostruzione fino al punto di rinunciare a quella fondamentale ermeneutica del sospetto che chiamiamo "critica"? Ferraris lo nega. Per, quanto conseguente laddove contesta laffermazione che la realt viene ricostruita comunicativamente e presentata sotto forma di illusione, forgiata appunto dal Potere come arma al servizio della propria autoperpetuazione? Pu negare la grande mistificazione come gioco degli specchi (deformanti) linguistici, in nome di una irriducibile verit della realt, quando tale verit-realt viene condivisa linguisticamente? Pu farlo dopo "le armi di distruzione di massa irachene" o il "ghe pensi m" berlusconiano? Il mondo (per qualcuno) sar pure una favola, ma (per tutti noi) anche il campo di battaglia dove eserciti doccupazione combattono per la conquista di una legittimit gabellata quale naturalit, corrispondenza allordine naturale delle cose. E questo, prima dei filosofi decostruttori e affabulatori, ce lo prospetta proprio un uomo

di guerra; il generale dei generali David H. Petraeus: quello che i decisori politici pensano sia accaduto ci che conta, pi di quanto sia effettivamente accaduto. Difatti nella sua (molto blas, dunque torinese) querelle con lex maestro Vattimo, lallievo le spara davvero grosse: "se diciamo che la cosiddetta verit un affare di potere, perch abbiamo fatto i filosofi invece che i maghi?". Non so Ferraris, ma altri continuano a ragionare sospettosamente sulla realt sociale, proprio perch su di essa sono al lavoro tanti spudorati maghi illusionisti. Magari per dirla alla Pierre Bourdieu per "rendere problematico quello che appare scontato" e mostrare come levidente sia sempre costruito, a partire da poste in palio e rapporti di forza. La Forza, un punto da cui ripartire nelle faccende umane dopo tanta indefinitezza debolistica. Non uninesitente forza dei fatti "veri", quanto lintrinseca cogenza del dominio e della sottomissione. In tutta la loro materialit. Atteggiamento laico e critico, cui faceva appello una altro torinese (lui per ben poco snob; semmai severo come gli antichi maestri alla Gaetano Salvemini) il buon Viano quando bastonava in un libello einaudiano, dellEinaudi del bel tempo che fu (Va pensiero, 1985), la combriccola dei "flebili". Appunto, dal Vattimo al Ferraris. (25 agosto 2011)

Che cosa c dietro il nuovorealismo?


di Franca DAgostini 1. Senza filosofia Il dibattito sul new realism e il post-postmoderno aperto sulle pagine di Repubblica da Maurizio Ferraris, e proseguito con il confronto tra Ferraris e Vattimo (luno new realist, o anzi: nuovorealista, laltro vetero-postmodernista o cos sembra) soffre a mio parere di un problema di fondo: lassenza di filosofia. Certo non si richiede filosofia in senso scientifico-accademico sulle pagine dei giornali, e sarebbe assurdo chiedere a Vattimo e Ferraris che specifichino sui quotidiani le loro posizioni di rispettivamente avversario e difensore della verit e della realt, rispetto a posizioni oggi attive nel dibattito filosofico, in Italia e altrove, sui temi da loro trattati. Per, specie quando si parla di concetti cos tipicamente e inequivocabilmente filosofici, forse varrebbe la pena lasciare da parte (almeno un po) le considerazioni pi generiche, per addentrarsi in quel che il compito proprio del filosofo, come ricorda molto bene Roberto Casati nella sua recente Prima lezione di filosofia (Laterza, 2011), ossia la negoziazione concettuale. Allora sarebbe interessante capire di quali nozioni di realt e/o di verit stanno parlando, e quali nuove versioni dei due venerabili concetti propongono. Per esempio, Ferraris favorevole al cosiddetto realismo modesto, che semplicemente presuppone lindipendenza di qualcosa detto reale, e non specificato, dai nostri strumenti conoscitivi, o preferisce il realismo del senso comune, secondo cui reale ci che comunemente riteniamo essere tale? Conoscendo un po i lavori di Ferraris, sarei portata ad accettare la seconda ipotesi, ma sarebbe interessante valutare le sue ragioni nel contesto della discussione sul postmodernismo, che lui evidentemente interpreta come anti-realismo nel senso modesto del termine (o forse no?). Quanto a Vattimo: che cosa intende per verit quando dice che si tratta di un concetto disprezzabile, in quanto cifra del potere? forse la verit pluralista di Crispin Wright, concetto tutto sommato adattabile, che tiene in conto le ragioni degli scettici e dei perplessi? Conoscendo un po i lavori di Vattimo, direi di no, e daltra parte Vattimo, come lui stesso dice,

non ha neppure una specifica antipatia per qualche forma di realismo modesto, o minimale. Questo silenzio dei due contendenti ha due ricadute perlomeno imbarazzanti: 1) che i due autori sembrano postulare un lettore clamorosamente incapace di capire questioni filosofiche sottili ma se sono cos sottili da essere incomprensibili, forse non sono cos rilevanti, e se invece sono rilevanti tacerne significa fare un pessimo servizio a chi legge: il gioco precisamente renderle accessibili; 2) che non si capisce bene di che cosa stiano parlando, visto che la disputa sembra molto facilmente componibile: Vattimo non nega che esista una qualche banale realt su cui a volte diciamo cose banalmente vere, ed ovvio che Ferraris non nega che quel che si spaccia per realt, specie nelle materie pi controverse, spesso il frutto di ricostruzioni e semicostruzioni opportunamente (e ingannevolmente) orientate, per cui il nominalmente vero formidabile menzogna. Ma allora qual il problema? 2. Davvero realt e verit, o non piuttosto qualcosa daltro? Ogni discussione filosofica (anche quando il quid filosofico pallido e incerto) in certo modo importante. Ma ho limpressione che se ci si ferma a una questione di realismo e antirealismo (specie cos genericamente indicata) lintera disputa risulti pretestuosa, oppure tutto sommato chiusa in un problema avvertito solo dai discepoli di Derrida, o di qualche altro autore francese, che dopo un certo numero di anni si sono accorti della inconsistenza di certe posizioni fantasiosamente iperscettiche, nel frattempo passate di moda. In particolare la questione interessante di fondo non mi sembra sia tanto il nuovorealismo di Ferraris, di Searle, e di molti altri, ma piuttosto il ruolo della filosofia rispetto alla sfera pubblica. In altri termini, ci che in gioco non sono i concetti di realt e di verit (o lo sono derivatamente), ma piuttosto il che fare? in filosofia: esattamente la domanda a cui il pensiero debole di Vattimo e Rovatti tentava di dare una risposta. Allora la questione : quale ruolo ha la filosofia rispetto allagire collettivo e individuale, che vuol dire: rispetto alla politica, alleconomia, alla gestione degli affari pubblici e anche, volendo, privati, degli esseri umani? Non si tratta affatto di una domanda interna, una questione, come si dice, solo metafilosofica. Si tratta invece, e molto pi seriamente, di fare i conti con quel rapporto tra teoria e prassi che

per la nostra tradizione stato sviluppato in senso filosofico o quasi dai movimenti politici del secondo Ottocento e del Novecento: il marxismo, il socialismo, ma anche le ideologie totalitarie (che erano notoriamente sintesi di vari socialismi e conservatorismi). Di fronte alle crisi mondiali a cui ci ha condotto la pragmatizzazione della politica, e della vita pubblica in generale, sotto il pretesto della fine delle ideologie, o di altre super-teorie generiche e sociologizzanti, la questione pensiero deboleintesa in questo senso, ossia come sforzo di articolare filosofia e agire pubblico, diventa interessante, e merita capire quale fosse davvero la proposta in gioco. In effetti sono assolutamente daccordo sullimportanza dei concetti di realt e verit su cui Ferraris insiste nei suoi articoli, e condivido il suo disagio nei confronti delle dichiarazioni antimetafisiche che hanno popolato il dibattito europeo nel secondo Novecento. Pi in generale penso che sia bizzarro da parte di una persona che si occupa di filosofia prendersela genericamente contro luno o laltro concetto. Ma non sono affatto daccordo sullinterpretazione della filosofia contemporanea europea (la cosiddetta filosofia continentale), in specie italiana, in termini di sommario e stupido anti-realismo. Certo, una componente kantiana o anzi hegelokantiana presente in tutta la filosofia europea, e ci significa che la base comune una sorta di costruzionismo o semi-costruzionismo. Ma disastrosamente sviante interpretare il costruzionismo (in particolare quello di Kant) in termini di anti-realismo (perlomeno nel senso del realismo modesto). Certamente, le dichiarazioni antirealiste di Nietzsche sono state influenti, e il Nietzsche realista energetico stato a volte dimenticato. Ma tutto ci era in fondo marginale, rispetto al vero motivo per cui la filosofia europea (specie quella francese) ha avuto cos grande successo pubblico, negli anni Settanta e Ottanta. E tale motivo con ogni evidenza era: perch proseguiva, portava avanti (pi o meno bene), la discussione sulla politica connected, ossia la prassi politica collegata a una visione della realt, della conoscenza, che appunto la filosofia dovrebbe elaborare (rinegoziare). Di qui emergono due chiare e inaggirabili questioni. La prima la classica: quale filosofia? opinione comune in effetti che lespressione filosofia non designi affatto alcunch di determinato e specifico, e/o designi (a partire dal secondo Novecento) un campo

almeno diviso in due, tra la cosiddetta filosofia analitica attiva nei paesi di lingua inglese e in Scandinavia, e la filosofia continentale, appunto linsieme delle correnti attive in Europa. La seconda questione : siamo sicuri che questa connessione non sia precisamente il nostro vero problema, visto il fallimento a dir poco disastroso delle politiche connected, culminate nei totalitarismi del Novecento? 3. Analitici e continentali Nei primi anni Ottanta dello scorso secolo i due problemi si presentavano strettamente collegati, perch precisamente la filosofia analitica figurava come una filosofia di professionisti ed esperti, piuttosto scettica riguardo alla politicaconnected, e mirante piuttosto a salvaguardare la qualit del lavoro filosofico, sottraendolo alla vaghezza manipolatrice della comunicazione pubblica. In tale vaghezza, invece, era in qualche modo costretta a immergersi la filosofia continentale, in quanto appunto interessata alluso pubblico della filosofia. Qualit e utilit pubblica funzionavano allora come consistenza e completezza secondo Gdel: inseguendo luna si perde laltra, e viceversa. In effetti Vattimo aveva iniziato allepoca del pensiero debole una ricognizione pi o meno sistematica sulla filosofia analitica, e dichiarava testualmente: non questa lepoca delle contrapposizioni, ma della ricomposizione. Si trattava cio di capire che cosa le due tradizioni potessero insegnarsi a vicenda, secondo la formula del doppio apprendimento suggerita da Habermas, e quindi potessero convergere verso quel programma o quella speranza di emancipazione che in fondo restava nelle intenzioni di Vattimo come di altri filosofi europei della stessa generazione il vero scopo del lavoro filosofico. Ora molto spesso quando si effettuano matrimoni di questo tipo si ottengonomsalliances disastrose, in cui i difetti di un partner si cumulano ai difetti dellaltro, e il risultato uno scadimento generale. In luogo del doppio apprendimento habermasiano si ha allora un doppio disapprendimento: si finisce per dimenticare ci che di buono era stato pensato nelluna e nellaltra parte, e ci si assesta invece ostinatamente sui punti bui, che di solito sono anche i pi facili, e pi facilmente vendibili. Allora abbiamo visto la semplicit delle domande analitiche fondamentali diventare semplicismo, o senzaltro formidabile banalit, per adattarsi allo

schema della comunicazione pubblica. Abbiamo visto il raffinato semi-costruzionismo europeo, a contatto con la pretesa analitica di risolutezza teorica, diventare ottuso antirealismo, palesemente e irrimediabilmente autocontraddittorio, e perci inutilizzabile. Daltra parte, abbiamo visto filosofi di formazione continentale, e perci di vocazione interessati al giornalismo e al ruolo di intellettuali pubblici, fingere sottigliezze formali di nessuno scopo e utilizzo; mentre filosofi formatisi allantipatica tchne analitica tentavano di diventare a ogni costo simpatici, e brillanti, con risultati per lo pi penosi. Naturalmente, laltra questione, proprio in virt di questo confronto o doppio apprendimento fallito, restava in sospeso. 4. Debole? Vattimo e Rovatti, per quel che ne so, erano soprattutto interessati alla seconda questione. Si trattava sostanzialmente di rivedere le basi filosofiche della politica, cercando di procedere oltre il neomarxismo dialettico (la Scuola di Francoforte) e la filosofia francese della differenza (lanciata dai post-strutturalisti Deleuze, Foucault, Derrida, Lyotard). A questo scopo si proponeva lespressione pensiero debole, che era visibilmente unetichetta di natura associativa, un termine-ombrello, destinato ad accogliere diverse esperienze recenti, da Karl Popper a Jacques Derrida, accomunate da una visione indebolita o alleggerita della filosofia, specie rispetto alla prassi. Sul modo di intendere questo indebolimento-alleggerimento le opinioni erano quanto mai divergenti, come testimonia la raccolta del 1983: se la rileggete, vi accorgete che tutti brancolano un po da una parte e dallaltra, e non esiste alcunathorie densemble. Gi, si diceva: questo per lappunto il segno che il debolismo attivo: nessuna convergenza, nessun dogma, nessuna teoria superiore o tribunale della ragione. Per quando qualcuno vi dice: niente teoria soltanto prassi, dovete sempre dubitare, perch questa per lappunto una teoria, e singolarmente antipatica, perch vieta a ogni altra teoria di pronunciarsi. Allo stesso modo, quando qualcuno vi dice: nessuna convergenza, dovete sospettare molto: perch o non c un bel nulla (visto che ci che non converge, perlomeno su se stesso, non c), oppure c un convergere molto forte su un punto: sul fatto che ogni altra convergenza salvo la propria sbagliata.

A parte questo vecchio gioco socratico, lassociazione sotto la cifra del debolismo proposta da Vattimo e Rovatti poteva essere piuttosto ragionevole: tanto la scienza quanto la cultura del secondo Novecento (anche nella filosofia analitica) sembravano indirizzate verso lidea di un uso pi duttile e morbido dei canoni e dei principi, e (per quel che ci riguarda) un uso diverso del rapporto tra teoria filosofica e agire pubblico. Interpretato al meglio, si trattava di un uso pidemocratico, ossia meno servile nei confronti della Religione, e della Scienza, e delle presunte Verit promananti dalluna e dallaltra; un uso anche meno ossequioso nei confronti della Filosofia, come istituzione o apparato di canoni, ortodossie, linguaggi istituiti. Da un certo punto di vista, la sfida era ancora quella antica, che sempre ha portato avanti la filosofia contro la presunzione di sapienza da parte del Potere, e delle sue menzogne. Il Novecento dubit che la parola filosofia potesse ancora svolgere questo compito critico e innovativo. Invece, in ogni epoca, il fatto che nelle societ democratiche esista ancora una filosofia (almeno nominalmente) pu essere la garanzia che questa sfida resti aperta. O almeno, cos credo. In ogni epoca la filosofia ha il compito di rilanciare la posta, con nuovi linguaggi, nuove categorie, nuove analisi dei suoi concetti fondamentali, come realt, verit, bene, giustizia, ecc. che mobilizzano i significati istituiti. Ma certo deve esserci filosofia, non soltanto in senso nominale: non basta citare a casaccio qualche Kant e Hegel. E con ci ritorniamo allinizio. Spacciare per filosofia un sociologismo superficiale, che spara con furbizia etichette di comodo, a mio avviso lerrore di fondo. Credo che Vattimo, e Ferraris, sappiano fare di meglio. O no? (28 agosto 2011)

Debolismo, scetticismo?

nuovo

realismo

di Michele Martelli Nella disputa su questo tema, tra i tre interlocutori principali, Vattimo, Ferraris e Flores DArcais, mi sembra che ci sia un convitato di pietra: lo scetticismo, evocato, se non sbaglio, una sola volta dal direttore di MicroMega. La sintesi del pensiero scettico, per i non addetti ai lavori, si trova in una pagina degli Schizzi pirroniani di Sesto Empirico (II-III secolo d.C.), dove sono elencati e illustrati i cinque tropi di Agrippa (tropoi = modi di ragionare). Il tropo che pi ci riguarda, in questo caso, il terzo, che si esplica quando diciamo che loggetto ci appare cos o cos, in rapporto al giudicante e al resto che insieme con loggetto viene percepito, e ci asteniamo dal giudicare quale esso sia realmente (ed. Laterza, p. 37). il tropo della relativit o relazione tra i soggetti e gli oggetti della conoscenza (il famigerato relativismo additato da Ratzinger come leresia del XXI secolo). Come siano realmente le cose, lin s delle cose, indipendentemente dalla relazione, nessuno sa n, forse, pu sapere. A meno che possegga lOcchio di Dio. Un nuovo realismo, che si illuda di giudicare le cose come esse realmente sono, insostenibile come il vecchio. Ferraris vede le nuvole e la pioggia, ma le vede col suo occhio, col suo apparato percettivo. Se esiste un mondo, sempre il nostro mondo, relativo a noi. Diverso per esempio da quello delle talpe, dei bacilli, dei pesci o degli uccelli. Qual il mondo vero? Tutti e nessuno. Dipende dai soggetti, dagli oggetti e dal tipo e grado di relazione. Il mondo della scienza oggettivo (Flores DArcais)? Certo, ma per noi, ossia umanamente e storicamente oggettivo, ossia universale soggettivo (Gramsci, ma anche Kant). Ovvero: noi non siamo esterni, ma interni al mondo che osserviamo, facciamo parte del quadro che dipingiamo, della scenografia che costruiamo. E ne facciamo parte con tutta la nostra storia, i nostri giudizi e pregiudizi, criteri e paradigmi (Vattimo). E poi quale scienza e quale mondo? Ci sono tanti mondi (fisico, chimico, matematico, biologico, psicologico) quante sono le scienze rispettive. E ogni scienza poggia, in ultima istanza, su postulati

indecidibili (indecidibili cos come i valori ultimi o primi delle nostre scelte morali o pratiche). Lillusione di trovare una scienza delle scienze stata, almeno finora, sempre storicamente confutata. Inoltre, siamo sicuri che il mondo di Newton sia lo stesso di quello di Einstein o della quantistica? Tuttaltro infine il mondo macroscopico della vita quotidiana, del senso comune. Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni (Nietzsche). Laforisma al centro della disputa. Che potrebbe forse ricomporsi facilmente se solo si dicesse: Non ci sono solo fatti, o solo interpretazioni, ma fatti interpretati, o interpretazioni di fatti. Ossia: soggetti e oggetti in relazione reciproca. Il classico uovo di Colombo! La relazione tuttavia non univoca, ma plurivoca, aperta a infinite interpretazioni. Il che non significa che tutte le interpretazioni, o tutti i criteri interpretativi, si equivalgono. La loro maggiore o minore validit (per noi) dipende dal loro grado di accertabilit empirica e di coerenza logica. Certo, Biancaneve non Ruby rubacuori, e il Rubygate non una favola (anche se per B. forse lo stato, sporca magari), ma un fatto, o un insieme di fatti. Ma si tratta sempre di fatti variamente interpretati, o interpretabili (intercettazioni, testimonianze, interrogatori, ecc.), che consentono, oltre ad eliminare le menzogne (la nipote di Mubarak), interpretazioni diverse e opposte (quelle dei difensori di B.). La verit che trionfer, se trionfer, sar inevitabilmente relativa e fallibile. Relativa a chi lha accertata e giudicata (e condivisa). E fallibile perch umana. (1 settembre 2011)

Ebbene s, la Terra rotonda


di Carlo Rovelli Il Zhou Bi Suan Jing (il "Classico dellAritmetica") uno dei pi antichi testi di matematica cinesi, completato intorno al III secolo a. C. Il libro discute, tra laltro, della variazione dellaltezza del sole andando verso sud (a Palermo il sole pi alto nel cielo che a Milano). Basandosi sullidea che la Terra sia piatta, lo Zhou Bi Suan Jing calcola che il Sole sia a circa 10.000 "li" sopra alla nostra testa: poche migliaia di chilometri. Pi o meno nello stesso periodo, in Egitto, il direttore della Biblioteca di Alessandria, Eratostene, utilizza la stessa misura, ma si basa sullidea che la Terra sia una sfera, e conclude che il Sole lontanissimo e il perimetro del nostro pianeta 252.000 "stadi", cio 40.000 chilometri: la dimensione della Terra riportata oggi negli atlanti. Il contesto culturale della Cina della dinastia Han molto diverso da quello del Mediterraneo Ellenistico, e culture diverse danno interpretazioni diverse della stessa osservazione. Loccidente continuer a immaginare la Terra come una sfera (pensate a Dante), e il Sole molto lontano e grande; mentre la Cina continuer a pensare che il Sole sia una pallina, e la Terra sia piatta. Eratostene e lo Zhou Bi Suan Jing hanno egualmente ragione, ciascuno allinterno del proprio contesto culturale? Oppure Eratostene pi vicino alla realt? Per usare la bellissima domanda con cui Gianni Vattimo chiude il suo dialogo con Maurizio Ferraris su Repubblica: dando ragione ad Eratostene, credi davvero di parlare from nowhere?, di accedere alla realt, parlando da un luogo fuori da ogni contesto culturale? Se diciamo che Eratostene ha ragione, non stiamo forse esprimendo nientaltro che assunzioni arbitrarie del nostro contesto culturale? Vattimo e Ferraris ripropongono, in versione un po italiana, una vasta questione che ha interessato la filosofia europea ed americana, la cui eco era giunta al pubblico italiano nel "dibattito fra Analitici e Continentali" lanciato diversi anni fa da Armando Massarenti. difendibile il realismo, messo in discussione da Vattimo e difeso da Ferraris, cio la tesi che cose e propriet esistano indipendentemente dalle convinzioni, dagli schemi concettuali, o dal contesto culturale? Torniamo in Cina. Verso la fine del 1500 arrivano in Cina i gesuiti, guidati da Matteo Ricci, colto astronomo. Quando i gesuiti vengono

a conoscenza delle idee dellIstituto Imperiale di Astronomia, sorridono. Quando i Cinesi ascoltano dai gesuiti le idee astronomiche occidentali, in brevissimo tempo rinunciano al proprio punto di vista, e adottano la prospettiva occidentale. Si badi, erano tempi politicamente non sospetti: lesercito del Celeste Impero avrebbe spazzato via facilmente qualunque armata europea. Non certo stata la forza politica a convincere i Cinesi che l"interpretazione" occidentale fosse migliore. Cos stato? Losservazione che i valori del vero e del falso sono intimamente influenzati dal contesto culturale profonda ed intelligente. Parliamo dallinterno di sistemi di credenze, pi o meno coerenti. Ma da questo non segue che non si possano mettere a confronto idee diverse, confrontarle, scegliere fra queste e imparare qualcosa "sulla realt". Soprattutto non segue che la scelta sia solo questione di rapporti di potere o fattori irrazionali. La scelta pu essere, anzi, il pi delle volte effettivamente determinata da un serio uso della ragione critica, che ci aiuta a vedere quale fra due alternative sia migliore: pi coerente, pi efficace e pi confortata dai fatti. Il motivo che i nostri sistemi di pensiero non sono chiusi in s stessi. Sono strutturalmente rivolti allesterno e in continuo dialogo e scambio. Il nostro pensiero pensiero sulla realt, ed in relazione costante sia con fatti inaspettati, con "la realt, dura e irriducibile, che ci fa cambiare idea", sia con idee diverse. In questo confronto cresce, si modifica, e apprende. Il dialogo, se sereno, pu arrivare a mostrare chi ha ragione e chi ha torto. Lintera storia della scienza, antica e moderna, una lunga dimostrazione dellefficacia della ragione: i dibattiti sono feroci, ma prima o poi si arriva a comprendere chi ha ragione e chi ha torto. La Terra rotonda, non piatta. Ragione e torto dal punto di vista di chi? Dal punto di vista from nowhere? No, dal punto di vista degli stessi dialoganti. Il confronto con opinioni diverse e con i fatti esterni conforta una posizione e ne indebolisce unaltra, per quanto la realt dei fatti sia filtrata dalle interpretazioni. Per quanto si voglia interpretare la Terra come piatta, arriva comunque il giorno in cui fare i conti con la nave di Ferdinando Magellano, partita verso occidente e tornata da oriente. Impariamo qualcosa sulla realt. LItalia, ha una difficolt particolare ad accettare lidea che si possa dialogare serenamente, cambiare idea ascoltando altri, e arrivare a

trovare insieme una convinzione pi fondata o una soluzione migliore. Manchiamo di una tradizione di democrazia, dove questo modo di mettersi a confronto abbia avuto tempo di affinarsi. Siamo abituati a lasciar decidere dominatori stranieri, principi, vescovi, o capi carismatici, invece che cercare soluzioni ragionevoli discutendo. Ci facciamo forti di alleanze e reti di amici, piuttosto che di argomenti convincenti. Siamo lunico paese del mondo in cui nei dibattiti televisivi si toglie la parola allaltro; in ogni altro paese, chi interrompe giudicato poco credibile dal pubblico: vuol dire che non ha buoni argomenti. Condividiamo con lIran il dubbio primato di essere i paesi che si fanno pi influenzare da una potente casta sacerdotale. Io ho simpatia per il ribellismo irriducibile di Gianni Vattimo e la sua voglia di cambiamento. Ma dalla democrazia di Atene alla rivoluzione francese, unarma di cui lumanit dispone per difendersi dalla concentrazione del potere, come dalla dittatura mediatica, la ragione. Credo che lequivoco di fondo sia confondere conoscenza e certezza. Lumanit vorrebbe unncora alla quale aggrappare certezze. Per il pensiero antico poteva essere la fiducia in negli di, un Sacro Testo, gli Ayatollah, o il Santo Padre. Allinizio del mondo moderno i limiti della Tradizione diventano palesi e la certezza cercata nellesperienza o nella ragione astratta. Nel XIX secolo sembra che la Scienza possa fornire risposte certe, prima di scoprire che perfino le efficacissime teorie di Newton sono poi messe in dubbio da Einstein. Abbiamo imparato che non esistono garanzie su cui fondare certezze. Ma questo non toglie che possiamo riconoscere le soluzioni pi ragionevoli e il sapere pi credibile. Possiamo ragionevolmente conoscere la realt indipendente da noi. Lirriducibilit dellesperienza e laccordo a cui arriviamo sono le nostre garanzie, imperfette ma sufficienti, che stiamo parlando di una realt indipendente da noi. Tra chi predica che la Verit Unica, Assoluta (e lui ne depositario), e chi sostiene che non c criterio generale per scegliere fra le opinioni, esiste una terza strada: quella della discussione e della ragione. La Cina di oggi sta lentamente avviandosi a tornare quella che stata per la maggior parte dei cinquanta secoli di civilt umana: la pi grande potenza del pianeta. Non sappiamo se ci riuscir, n che idee porter. Ma certo tra queste non ci sar lidea che il sole sia a 10.000 "li" e la Terra sia piatta. Perch? Semplicemente perch

nonostante le differenze iniziali, grazie al dialogo e al confronto sereno fra interpretazioni diverse, abbiamo trovato ottime ragioni per credere che la Terra sia "realmente" rotonda. (27 settembre 2011)

Fatti e interpretazioni
di Francesco Saverio Trincia Vi sono aspetti del recente dibattito pubblico, finora essenzialmente giornalistico, che ha contrapposto i fautori del neo-realismo filosofico ai difensori della riduzione della filosofia ad ermeneutica che non sopportano il peso di una analisi teoreticamente impegnativa e dunque di merito filosofico, come ci si aspetta che sia una discussione appunto filosofica. Si potrebbe infatti osservare in primo luogo che se si difende, come qui intendiamo fare, la priorit dei fatti, del riferimento agli oggetti e alle cose, rispetto alle interpretazioni, e lo si fa evocando il timore di una dissoluzione della trama ontologicamente reale del mondo nella trama ermeneutica delle interpretazioni, si dovr altres diffidare di una apologia dei difensori dellermeneutica come quella che pure capitato di leggere. Nel dichiararsi realisti filosofici, sarebbe augurabile che la fisionomia dellantagonista non realista o antirealista sia capace di valorizzare il senso della scelta che facciamo in contrapposizione alle sue tesi, evitando di impoverirla in un semplice conflitto tra gusti filosofici diversi sostenuto da improbabili preoccupazioni storiche e sociali originate ed alimentate entro langusto orizzonte della contemporaneit. Unobiezione che mettesse in rilievo la portata della libert e della creativit ermeneutica rispetto alla costrizione spirituale e morale attribuita dalla dura fattualit, accusata altres di sostenersi su tesi metafisiche, una libert concepita quale elemento positivo, eticamente e persino politicamente benefico per la sorte di esseri umani sottratti alla prigione ontologica, sposterebbe la discussione dalla trama dei concetti e dellargomentazione scientifica capace di fornire prove di quel che afferma, su di un piano del tutto eterogeneo, come se si dicesse (e questo in effetti si detto) che mondanamente pi vantaggioso decidersi contro il realismo e quindi considerare negativamente la auspicata chiusura della troppo lunga fase dellermeneutica postmoderna. Essendo affermata sulla base di considerazioni di politica culturale collegate alle preoccupazioni circa lazione che le filosofie variamente esercitano nel mondo, questa tesi, come daltra parte quella sostenuta nel dibattito dagli oppositori realisti dellermeneutica, si presenta come

radicalmente extrafilosofica, nel senso che non fa fare un solo passo avanti allapprofondimento teoretico, allanalisi concettuale, e dunque alle pretese rispettive della maggiore coerenza del realismo rispetto allermeneutica o viceversa. Quello che si cerca in una discussione scientifica, come e deve pretendere di essere anche un confronto filosofico, la maggiore o minore coerenza, ossia il maggiore e minore grado di verit provabile di quel che si afferma. Lattenzione alle ricadute storiche, mondane, culturali di una tesi filosofica non pu collocarsi allo stesso livello di importanza della discussione di merito, per quanto possa essere rilevante. La distinzione gerarchica stabilita da Edmund Husserl nel 1911, nel saggio famoso su la Filosofia come scienza rigorosa, tra filosofia scientifica e visioni del mondo (quali sono le filosofie che programmaticamente riducono il proprio contenuto alla analisi e alla valutazione della propria origine storica dal mondo e al proprio riferirsi culturalmente al mondo) continua a valere come un punto di riferimento critico non trascurabile. Il rilievo di metodo che avanziamo, allo scopo di circoscrivere il campo di una discussione di merito sul tema : realismo o ermeneutica?, appare tanto pi significativo a fronte della constatazione che, nella loro lotta contro gli ermeneutici, i realisti che si limitano ad una riflessione culturale rischiano di utilizzare, senza volerlo o senza accorgersene, gli strumenti argomentativi tipici degli ermeneutici, i quali vedono nellincontro e nel conflitto delle interpretazioni, svolti a prescindere dai fatti, la trama stessa di ogni filosofia . La filosofia sarebbe quindi intrinsecamente culturale, ossia si presenterebbe come la riflessione e il commento culturali, ideali o ideologici, su quel che accade nel mondo, esso stesso a sua volta concepito come realt integralmente culturale. La cultura intrinsecamente ermeneutica. Un realista dovrebbe dunque rifuggire dallo stile argomentativo proprio della filosofia come cultura. I problemi etici, le questioni etiche reali che assediano le nostre vite non si affrontano scegliendo il realismo contro lermeneutica o viceversa, o accusando luno o laltra prospettiva di responsabilit etiche, sociali e storiche che in linea di principio non le appartengono. Per quanto possa suonare desueto alle orecchie tanto dei nuovi realisti quanto degli ermeneutici, esiste un codice epistemologico che ha a che fare con la ricerca della verit, per esempio e in primo luogo quella verit che deriva della verificata concordanza tra le interpretazioni dei fatti

e i fatti stessi, non considerabili quali un orpello o un appendice di un filosofare destinato ad essere dissolto dalle interpretazioni. Lorizzonte tematico muta se ci volgiamo al tema fatti e interpretazioni e lo affrontiamo per quel che esso , un tema per molti aspetti classico, su cui il pensiero filosofico tornato molte volte non corso della sua storia, da ultimo con la tesi nietzschiana della dissoluzione dei fatti nelle interpretazioni. Accanto alle certezze realistiche di fondo, secondo cui non si darebbe un qualsiasi riferimento interpretativo ai fatti e nessun conflitto delle interpretazioni, se non vi fossero dei fatti che non essendo interpretazioni attendono ed anzi esigono di essere interpretati, si presentano qui alcuni interessanti elementi che agiscono nel senso della complicazione di ogni prospettiva rigidamente dicotomica, anche se concepita nella forma tollerante della convivenza pacifica tra i due poli del problema, fatti e interpretazioni appunto. Due soli riferimenti, e anche molto diversi tra loro, mostrano bene come i fatti siano tali per sottoporsi allinterpretazione che se ne d, sebbene, e si tratta di un punto rilevante anzi cruciale, non si risolvano affatto nellatto ermeneutico vario e intrinsecamente variabile che li riguarda. Penso da un lato a Kant e dallaltro a Freud. Una teoria dellinterpretazione non certo in quanto tale la stessa cosa di una teoria della conoscenza, ed interpretare non vuol dire la stessa cosa che conoscere, sebbene linterpretazione resti un modo dellatteggiamento conoscitivo, un modo del pensare giudicativo e conoscitivo. Tale modo sembra caratterizzato dalla convinzione che un senso possa e debba essere assegnato, e indeterminatamente, infinitamente riassegnato, ad un oggetto di conoscenza (in genere un oggetto culturale) che risulta in questo modo sottratto alla sua irrilevanza conoscitiva. Ogni teoria dellinterpretazione e della filosofia come interpretazione, anche quella che giunge fino a fare dellatto dellinterpretare un infinito riferimento a se stesso, mentre loggetto, la cosa, il fatto da interpretare scivolano sempre pi sullo sfondo, si inscrive nelle conseguenze teoriche del criticismo kantiano. Se pure si intenda definire lermeneutica come una versione dellidealismo postkantiano, lo si far con la massima discrezione, perch il presupposto metafisico della filosofia come interpretazione non lhegeliana identit di razionale e reale, ma, come si detto, linfinito riferimento dellinterpretare stesso ad un fatto o a un

oggetto, i quali non possono venir meno anche nel grado estremo dellestenuazione del riferimento originario ad una qualche fattualit, ad un qualche dato. Ora, ben noto che il presupposto generale e fondativo del criticismo kantiano, e ci che lo distanzia dalle sue successive trasformazioni idealistiche, la circostanza che un dato, un oggetto del mondo, devono originariamente colpire le forme apriori della sensibilit. La conoscenza non si riduce ad esperienza, come voleva David Hume, ma non pu prescindere da un contatto originario con un dato dellesperienza. La conoscenza scientifica il frutto dellelaborazione dellesperienza condotta con gli strumenti dellelaborazione, dalla messa in forma dellesperienza che non provengono dallesperienza stessa. Nella misura in cui ogni interpretazione un atto di conoscenza, il pensiero delle cose in cui essa consiste ricava la sua fisionomia essenziale dalla tradizione kantiana, nel cui ambito il pensiero funziona come conoscenza dellesperienza, ed una esperienza conosciuta, solo perch un fatto, un oggetto, un dato del mondo indipendente dallapparato conoscitivo funge da puntello, da base necessaria, da fonte dellintera costruzione della teoria della conoscenza. Non un caso che precondizione essenziale di una ermeneutica che pretenda di dissolvere la fattualit che la alimenta nel vortice costantemente autofondato, e quindi infondato, dellinterpretare, sia quella di fare riferimento a Nietzsche, il cui pensiero pretende di rappresentare la fine della tradizione metafisica, e una rottura radicale rispetto tanto al kantismo quanto allhegelismo, ai suoi occhi filosofie entrambe preda dellillusione della verit. Che lo ammetta o no, linterpretare ha comunque a che fare con dei fatti e con una verit su di essi, per quanto radicale si voglia che sia lestenuazione di queste due nozioni, rispettivamente base e telos dellinterpretare stesso. Ancora pi netto il pensiero di Sigmund Freud nella prospettiva del rifiuto della sua riducibilit al circolo dellinterpretare infinito virtualmente privo di oggetto. Lo studioso di Freud che con maggiore coerenza e radicalit ha connesso il pensiero di Freud alla funzione dellinterpretazione, Paul Ricoeur, non ha mai compiuto un solo passo in questa direzione. Se il lavoro psicoanalitico non pu neanche essere concepito senza il riferimento allinterpretazione degli eventi psichici inconsci, ogni ipotesi che vada nella direzione della dissoluzione delloggetto, del fatto da

interpretare non pu che essere respinta. Linterpretazione che, come noto, sfocia nella sempre rivedibile assegnazione di un senso a ci che si presenta come assurdo, si tratti di sogni o di sintomi o di vicende vitali, resta comunque uno strumento conoscitivo, un mezzo del pensare che si nutre letteralmente di fatti. Fin dalle riflessioni giovanili sul metodo della ricerca scientifica e poi soprattutto in pagine ben note della Metapsicologia, Freud ha sostenuto che la ricerca stessa deve procedere attraverso lintervento di strumenti conoscitivi ed ordinatori dellesperienza su quella trama di fatti oggetto di osservazione, che attendono di essere ordinati, compresi, giudicati, ossia appunto interpretati, sebbene sempre molto forte, e giustificata, sia lenfasi con cui Freud sottolinea la costante apertura alla revisione, al nuovo e pi profondo pensare che muta le interpretazioni acquisite. Il suo istintivo kantismo trova in questo progressismo del ricercare scientifico una importante correzione. Nelle pagine mature e consapevolmente conclusive della nuova serie di lezioni diIntroduzione alla psiconalisi, il modello del pensiero scientifico che osserva ed ordina i fatti sentito come talmente paradigmatico, che Freud lo contrappone a quel filosofare in base a visioni del mondo (tipici, tra gli altri, il pensiero religioso e quello ideologico) che si potrebbe definire del tutto legittimamente come un interpretare prescindendo dai fatti, i quali vengono occultati, stravolti e deformati dalla cappa asfissiante di interpretazioni precostituite e finalizzate, per Freud come per chiunque vi rifletta oggi, a fornire una falsa sicurezza piuttosto che una sempre rivedibile conoscenza. Altro che effetto di liberazione dellermeneutica postmoderna, come sostengono, anche nel corso del dibattito recente, i suoi difensori! Se ci si esprime in termini sportivi, ci che in filosofia dovrebbe essere evitato, si potrebbe dire che nel confronto tra realismo ed ermeneutica, almeno nel modo in cui stato impostato nel recente dibattito, la partita da considerarsi vinta dal primo contendente, e ci per motivi di merito concettuale, piuttosto che in ragione dei presunti vantaggi mondani, etici e persino politici, connessi al mutamento delle mode filosofiche e al loro virare verso il realismo. Il discorso a questo punto dovrebbe proseguire, mentre pu limitarsi soltanto allaccenno della direzione che il pensiero critico dovrebbe seguire, una volta messo in salvo il proprio schieramento

dalla parte del realismo. La questione con cui proseguire concerne la definizione di ci che chiamiamo fatto. E subito chiaro che la risposta alla domanda su che cosa sia un fatto al tempo stesso molto semplice ma anche molto complessa. Se diciamo infatti, e del tutto legittimamente, che un fatto tutto ci che cade sotto la nostra sensibilit esterna ma anche ci che noi rileviamo, registriamo come presente nella nostra percezione interna nella forma di uno degli eventi che accadono lungo il divenire della vita della nostra anima, non potremo esimerci dal notare che una delle componenti, forse la principale, del nostro essere dei realisti consiste nella circostanza che quando nominiamo il riferimento ai fatti di cui esso si nutre, implichiamo anche la tesi che tali fatti sono diversi gli uni dagli altri, ed anzi, pi radicalmente, che solo dei fatti diversi tra loro sono propriamente dei fatti. Si immagini infatti quale possa essere il risultato della scomparsa della diversit tra le cose. Non difficile comprendere che se ci accadesse, se la diversit che distingue i fatti venisse meno, la nostra opzione realistica ne verrebbe travolta. Avremmo infatti il concetto metafisico di fatto, non i fatti reali. Dovremmo allora riconoscere che, per tener ferma la nostra opzione realistica, dobbiamo riferirci tanto alla realt fattuale dei fatti, quanto alla diversit tra di essi, grazie alla quale i fatti sono veramente tali. Ma la diversit tra i fatti, pur essendo essa stessa un fatto (un fatto logico, si direbbe) non lo nel senso in cui un fatto, ad esempio, il mare con i suoi scogli, nel quale ci immergiamo. Ora, fino a che punto il realismo resta tale, se del realismo stesso e del suo riferimento ai fatti si deve fornire una teoria innervata dal concetto di diversit, e da tutti i concetti senza i quali una teoria non tale? E gradevole, ma anche molto problematico ed illusorio, immaginare che i fatti si presentino da soli e che il realismo possa riassumersi nella tesi: fatti senza teoria. Il realismo stesso una teoria della fattualit, e non pu rinunciare ad essere tale, proprio allo scopo di salvare i fatti. Uno dei compiti urgenti del pensiero pu essere quello di tornare ancora una volta a definire il modo in cui la fattualit e la diversit dei fatti vengono non solo salvaguardate, ma garantite dallinevitabile innesto della dimensione logica, non ermeneutica, nella trama dei fatti reali, affinch essi non si dissolvano nel gesto attribuito da Platone a Cratilo, che considerava lindicazione con un dito della mano come lunico modo di riferirsi alle cose. (5 settembre 2011)

I postmodernisti si sono pentiti, ma non sanno dove andare


di Giuliano Ferrara, il Foglio 22 agosto Il problema chi comanda. Nella politica, nelleconomia e anche nella Repubblica delle idee. I filosofi postmodernisti, che si vorrebbero eredi di una cultura importante e ormai secolare, si sono accorti che qualcosa non va. Ma non sanno bene dove andare. Se elimini quel che oggettivo, quel che comporta un certo adeguamento dellintelletto alle cose, come in san Tommaso, poi ti ritrovi in un campo libero aperto alla manipolazione universale e ai suoi incubi. Ne hanno discusso con una venatura politicista Maurizio Ferraris e Gianni Vattimo nelle pagine culturali di Repubblica. Vattimo difende comunque il diritto di pensare il mondo senza riferimento alla verit, che autoritaria. Ferraris, che organizza un convegno sul nuovo realismo ed invoca un pensiero meno debole di quello corrente, gli replica con una forzatura ideologica, un colpo basso: guarda, gli dice, che alla fine il postmodernista sommo dei nostri anni, quello che ha messo tutto tra virgolette e ha relativizzato ogni cosa imponendo la dittatura delle opinioni e delle interpretazioni sulla realt, Berlusconi. Ma quanti omaggi sinceri rivolgono al Cav. i suoi nemici letterati, quanto grande e sontuosa fanno la sua esperienza, che certo rilevante, per alcuni versi titanica, ma fino ad ora non aveva la statura di una rivoluzione filosofica e antropologica di tale spessore. E vero che Berlusconi ha una relazione per cos dire sfaccettata con la verit, e in quanto industriale televisivo e politico, nella fusione dei ruoli, ha distrutto ogni dogmatismo scolastico nel linguaggio e nel pensiero politico, ha fatto della debolezza una forza, dellopinione un idolo. Ma il Cav. stato anche un principe del senso comune, uno della folla che grida la nudit del re e si fa re con la spinta dellovvio, del palese, del trasparente. La contraddizione piuttosto nei suoi nemici ideologici, quelli che la sera leggono Kant mentre lui folleggia: sono insofferenti della verit e dellautorit di codici e istituzioni che la garantiscono, ma poi sentono il bisogno di

costruire un muro contro quelle volatilit del mondo berlusconiano che per loro sono manipolazione pura. Non la prima volta che a sinistra nasce un dubbio radicale e si installa allincrocio tra il deposito culturale delle vecchie ideologie e le follie dellItalia di questi ultimi ventanni. Con notevole eleganza, e senza mai citare Berlusconi per nome, Franco Cassano, sociologo e storico delle idee, aveva tirato fuori il concetto di umilt del male e lo aveva collegato al narcisismo etico delle lite incapaci di fronteggiare, ci in cui invece il regime berlusconiano stato maestro, le conseguenze dellumanit degli uomini, delle loro paure, dei desideri diffusi di tutela. Non poco accusare la propria parte di non aver capito com fatto luomo. Infatti la discussione innescata da Cassano stata insabbiata, masticata con amarezza e restituita come accademismo, dibattito generico e senza sbocco. Succeder lo stesso con il nuovo realismo. Se volessero essere consequenziali, dovrebbero diventare un po ratzingeriani. Perch intestata al Papa la tendenza antirelativista e la sfida culturale alla postmodernit intesa come degenerazione manipolatoria del necessario riferimento al giudizio e al reale. I cristiani sono l a presidiare leventuale ritorno al pensiero forte, perch sono relativisti anche loro, basti pensare al todo modo dei gesuiti, ma para buscar la voluntad de Dios, per afferrare verit e autorit. Non per vincere un concorso a cattedra o la prossima tornata elettorale. (1 settembre 2011)

Il fallimento del progetto postmoderno


di Emilio Carnevali Il postmoderno morto? ChissForse prima di abbozzare una risposta potrebbe essere utile fare un po di ordine fra i termini del problema, distinguendo in primo luogo fra il postmoderno come tesi e il postmoderno come progetto, ossia come possibile esito di emancipazione legato a quella tesi. Questultima pur fra le mille ambiguit delle quali la parola postmoderno si ammantata stata illustrata da Jean-Franois Lyotard nel 1979: nella societ e nella cultura contemporanee il problema della legittimazione del sapere si pone diversamente. La grande narrazione ha perso credibilit, indipendentemente dalle modalit di unificazione che le vengono attribuite: sia che si tratti di racconto speculativo, sia di racconto emancipativo. Per grande narrazione moderna Lyotard intende essenzialmente quella idealista e quella illuminista (con i relativi disegni emancipativi ad esse connessi, incluso quello marxista). Da un punto di vista epistemologico la corrosione degli universali che caratterizza il postmoderno il venir meno della convinzione nellesistenza di una verit unica e accessibile a tutti con un corretto uso della ragione affonda le sue radici molto pi indietro, in unaltra temperie culturale ben rappresentata dalla Genealogia della morale di Nietzsche, l dove il filosofo contesta lesistenza di un puro, senza volont, senza dolore, atemporale, soggetto della conoscenza. Secondo Nietzsche esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un conoscere prospettico. Questa concezione al netto delle possibili degenerazioni cui pu andare incontro lavvertimento metodologico se assolutizzato a sua volta in pregiudizio antiscientifico ha senza dubbio contribuito a mettere in discussione il legame fra autorit e verit che da sempre funzionale ad ogni sistema di potere. Non a caso una delle pi accese critiche al postmoderno contenuta in una enciclica papale, la Fides et ratio, nella quale si prende di mira una certa filosofia contemporanea che invece di far leva sulla capacit che luomo ha di conoscere la verit, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica

a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. quel relativismo, quello scetticismo, cui il dogmatismo religioso attribuisce la responsabilit della crisi di civilt nella quale siamo immersi. Al dogmatismo religioso si potrebbe far notare, con le parole di Gianni Vattimo, che non veniamo da unera [quella moderna, ndr] in cui, siccome si pensava ai fondamenti ultimi, tutti andavano daccordo. vero che la metafisica ha sempre creduto di raggiungere i fondanti ultimi; di fatto, la nostra cultura del passato, con tutte queste convinzioni, ha prodotto spesso degli scontri fra assolutismi di diverso orientamento. La scommessa del postmoderno e qui la tesi diventa progetto che lungi dal portare il mondo verso il caos e il trionfo del pi forte (lunico che pu permettersi di non cercare legittimazione al proprio potere) la corrosione degli universali possa dischiudere infinite e in massima parte inesplorate possibilit di realizzazione, di autoemancipazione, in un contesto di maggiore tolleranza. Se per un progetto non sostenuto dal determinismo proprio delle narrazioni moderne idealistiche o illuministiche che siano per definizioni aperto ad esiti differenti. Laltra possibilit quella descritta da Edward Docx nel suo interventosulla Repubblica (3 settembre): Un post-modernismo aggressivo diventa indistinguibile da una specie di inerte conservatorismo. Se non esistono criteri oggettivi di verit e di giustizia come posso individuare lin-giustizia? E perch dovrei agire perch il mondo vada diversamente da come va? innegabile il fatto che uno sguardo retrospettivo sul mondo seguito al crollo delle metafisiche novecentesche ci consegna un panorama sociale, politico e culturale pi simile a quello evocato dalla seconda opzione del progetto postmoderno. Insomma, il mondo delle veline non davvero migliore rispetto al monocanale in bianco e nero della Rai Questo il fallimento del postmoderno, la sconfitta della sua scommessa di emancipazione grazie alla decostruzione di una realt troppo monolitica, compatta, perentoria (Ferraris). Un fallimento che forse riposa sullincapacit di percorrere una terza via antichissima eppure straordinariamente attuale , ovvero di rinunciare allassolutismo del principio del logo senza ripudiare le implicazioni morali e politiche derivati da

quellimplicito omaggio al principio del dialogo, dellavolont di dialogo, in cui tutti noi, partecipando a questa discussione, mostriamo di riconoscerci. In fondo ci che emerge dal dialogo Vattimo-Ferraris come ha sottolineato Adriano Ardovino che le loro posizioni divergenti dal punto di vista filosofico non impediscono ad entrambi di schierarsi, da un punto di vista eticopolitico, contro il populismo mediatico berlusconiano. del resto la stessa questione che lo spirito critico Filalete poneva allo spirito scettico Sofizomeno e nellapertura della Filosofia del Dialogo di Guido Calogero: Tu, Sofizomeno, pur essendo timoroso di farne una teoria (ogni volta che aprite bocca, voi scettici, subito vi danno addosso), senti che, in fondo, questo dovere di capire gli altri sta alla base di tutto il tuo atteggiamento mentale. Ora, non sar proprio questa la comune assoluta verit di cui Eudemo [lo spirito dogmatico, ndr] va in cerca, come fondamento della volont morale? (5 settembre 2011)

Laddio al pensiero debole che divide i filosofi


dialogo tra Maurizio Ferraris e Gianni Repubblica, 19 agosto 2011 Vattimo, da

Siamo ancora postmoderni o stiamo per diventare "neo realisti", ritornando al pensiero forte? Il dibattito filosofico aperto. Grazie anche al convegno che si terr a Bonn il prossimo anno sul "New Realism" a cui parteciperanno, fra gli altri, Umberto Eco e John Searle. FERRARIS Gli ultimi anni hanno insegnato, mi pare, una amara verit. E cio che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettivit, non ha avuto gli esiti di emancipazione che si immaginavano illustri filosofi postmoderni come Richard Rorty o tu stesso. Non successo, cio, quello che annunciavi trentacinque anni fa nelle tue bellissime lezioni su Nietzsche e il "divenir favola" del "mondo vero": la liberazione dai vincoli di una realt troppo monolitica, compatta, perentoria, una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (credevamo allora) dei canali televisivi. Il mondo vero certo diventato una favola, anzi diventato un reality, ma il risultato il populismo mediatico, dove (purch se ne abbia il potere) si pu pretendere di far credere qualsiasi cosa. Questo, purtroppo, un fatto, anche se entrambi vorremmo che fosse una interpretazione. O sbaglio? VATTIMO Che cos la "realt" che smentisce le illusioni postmoderniste? Undici anni fa il mio aureo libretto su La societ trasparente ha avuto una seconda edizione con un capitolo aggiuntivo scritto dopo la vittoria di Berlusconi alle elezioni. Prendevo gi atto della "delusione" di cui tu parli; e riconoscevo che se non si verificava quel venir meno della perentoriet del reale che era promessa dal mondo della comunicazione e dei mass media contro la rigidit della societ tradizionale, era per lappunto a causa di una permanente resistenza della "realt", per appunto nella forma del dominio di poteri forti economici, mediatici, ecc. Dunque, tutta la faccenda della "smentita" delle illusioni post-

moderniste solo un affare di potere. La trasformazione postmoderna realisticamente attesa da chi guardava alle nuove possibilit tecniche non riuscita. Da questo "fatto", pare a me, non devo imparare che il post-modernismo una balla; ma che siamo in balia di poteri che non vogliono la trasformazione possibile. Come sperare nella trasformazione, per, se i poteri che vi si oppongono sono cos forti? FERRARIS Per come la metti tu il potere, anzi la prepotenza, la sola cosa reale al mondo, e tutto il resto illusione. Ti proporrei una visione meno disperata: se il potere menzogna e sortilegio ("un milione di posti di lavoro", "mai le mani nelle tasche degli italiani" ecc.), il realismo contropotere: "il milione di posti di lavoro non si visto", "le mani nelle tasche degli italiani sono state messe eccome". per questo che, ventanni fa, quando il postmoderno celebrava i suoi fasti, e il populismo si scaldava i muscoli ai bordi del campo, ho maturato la mia svolta verso il realismo (quello che adesso chiamo "New Realism"), posizione allepoca totalmente minoritaria. Ti ricorderai che mi hai detto: "Chi te lo fa fare?". Bene, semplicemente la presa datto di un fatto vero. VATTIMO Se si pu parlare di un nuovo realismo questo, almeno nella mia esperienza di (pseudo)filosofo e (pseudo)politico, consiste nel prender atto che la cosiddetta verit un affare di potere. Per questo ho osato dire che chi parla della verit oggettiva un servo del capitale. Devo sempre domandare "chi lo dice", e non fidarmi della "informazione" sia essa giornalistico-televisiva o anche "clandestina", sia essa "scientifica" (non c mai La scienza, ci sono Le scienze, e gli scienziati, che alle volte hanno interessi in gioco). Ma allora, di chi mi fider? Per poter vivere decentemente al mondo devo cercare di costruire una rete di "compagni" s, lo dico senza pudore con cui condivido progetti e ideali. Cercandoli dove? L dove c resistenza: i no-Tav, la flottiglia per Gaza, i sindacati antiMarchionne. So che non un verosimile programma politico, e nemmeno una posizione filosofica "presentabile" in congressi e convegni. Ma ormai sono "emerito". FERRARIS Per essere un resistente, sia pure emerito, la tua tesi secondo cui "la verit una questione di potere", mi sembra una affermazione molto rassegnata: "la ragione del pi forte sempre la migliore". Personalmente sono convinto che proprio la realt, per esempio il fatto che vero che il lupo sta a monte e lagnello sta a

valle, dunque non pu intorbidargli lacqua, sia la base per ristabilire la giustizia. VATTIMO Io direi piuttosto: prendiamo atto del fallimento, pratico, delle speranze post-moderniste. Ma certo non nel senso di tornare "realisti" pensando che la verit accertata (da chi? mai che un realista se lo domandi) ci salver, dopo la sbornia idealermeneutica-nichilista. FERRARIS Non si tratta di tornare realisti, ma di diventarlo una buona volta. In Italia il mainstream filosofico sempre stato idealista, come sai bene. Quanto allaccertamento della verit, oggi c un sole leggermente velato dalle nuvole, e questo lo accerto con i miei occhi. il 15 agosto 2011, e questo me lo dice il calendario del computer. E il 15 agosto del 1977 Herbert Kappler, responsabile della strage delle fosse Ardeatine, fuggito dal Celio, questo me lo dice Wikipedia. Ora, poniamo che incominciassi a chiedermi "sar poi vero? chi me lo prova?". Darei avvio a un processo che dalla negazione della fuga arriverebbe alla negazione della strage, e poi di tutto quanto, sino alla Shoah. Milioni di esseri umani uccisi, e io garrulamente a chiedermi "chi lo accerta?". VATTIMO ovvio (vero? Bah) che per smentire una bugia devo avere un riferimento altro. Ma tu ti sei mai domandato dove stia questo riferimento? In ci che "vedi con i tuoi occhi"? S, andr bene per capire se piove; ma per dire in che direzione vogliamo guidare la nostra esistenza individuale o sociale? FERRARIS Ovviamente no. Ma nemmeno dire che "la cosiddetta verit un affare di potere" mi dice niente in questa direzione, al massimo mi suggerisce di non aprire pi un libro. Ci vuole un doppio movimento. Il primo, appunto, lo smascheramento, "il re nudo"; ed vero che il re nudo, altrimenti sono parole al vento. Il secondo luscita delluomo dallinfanzia, lemancipazione attraverso la critica e il sapere (caratteristicamente il populismo a dir poco insofferente nei confronti delluniversit). VATTIMO Chi dice che "c" la verit deve sempre indicare una autorit che la sancisce. Non credo che tu ti accontenti ormai del tribunale della Ragione, con cui i potenti di tutti i tempi ci hanno abbindolato. E che talvolta, lo ammetto, servito anche ai deboli per ribellarsi, solo in attesa, per, di instaurare un nuovo ordine dove la Ragione ridiventata strumento di oppressione. Insomma, se "c" qualcosa come ci che tu chiami verit solo o decisione di

una auctoritas, o, nei casi migliori, risultato di un negoziato. Io non pretendo di avere la verit vera; so che devo render conto delle mie interpretazioni a coloro che stanno "dalla mia parte" (che non sono un gruppo necessariamente chiuso e fanatico; solo non sono mai il "noi" del fantasma metafisico). Sul piovere o non piovere, e anche sul funzionamento del motore dellaereo su cui viaggio, posso anche essere daccordo con Bush; sul verso dove cercare di dirigere le trasformazioni che la post-modernit rende possibili non saremo daccordo, e nessuna constatazione dei "fatti" ci dar una risposta esauriente. FERRARIS Se lideologia del postmoderno e del populismo la confusione tra fatti e interpretazioni, non c dubbio che nel confronto tra un postmoderno e un populista sar ben difficile constatare dei fatti. Ma c da sperare, molti segni lo lasciano presagire, che questa stagione volga al termine. Anche lesperienza delle guerre perse, e poi di questa crisi economica, credo che possa costituire una severa lezione. E con quella che affermo apertamente essere una interpretazione, mi auguro che lumanit abbia sempre meno bisogno di sottomettersi alle "autorit", appunto perch uscita dallinfanzia. Se non in base a questa speranza, che cosa stiamo a fare qui? Se diciamo che "la cosiddetta verit un affare di potere" perch abbiamo fatto i filosofi invece che i maghi? VATTIMO Dici assai poco su dove cavare le norme dellagire, essendo il modello della verit sempre quello del dato obiettivo. Non hai nessun dubbio su "chi lo dice", sempre lidea che magicamente i fatti si presentino da s. La questione della auctoritas che sancisce la veritas dovresti prenderla pi sul serio; forse io ho torto a parlare di compagni, ma tu credi davvero di parlare from nowhere? (26 agosto 2011)

Lossessione del potere


di Carlo Augusto Viano Quando, tanti anni fa, intervenni nella discussione sul pensiero debole, Enrico Filippini scrisse su la Repubblica che dovevo essere un frequentatore dei palazzi Fiat e dei circoli Agnelli. Era una misera circostanza di fatto e laffermazione di Filippini era falsa, ma falsa soltanto di fatto. A Torino, iscritto dufficio nel neoilluminismo, anche se non vi avevo mai contribuito attivamente, autore di un libro che non piaceva a Bobbio, sempre osteggiato dagli spiritualisti locali, che cosa potevo essere se non un intellettuale funzionale (come si diceva allora) alla Fiat, oggettivamente (unaltra parola sempre di moda) al suo servizio? Se le cose di fatto non stavano cos era colpa mia, ch non capivo che cosa mi accadeva n sapevo trarre partito da ci che facevo. Ricordo spesso questa piccola cosa, quando mi capita di scrivere o di parlare della filosofia italiana di quegli anni, non perch essa sia importante, ma perch un piccolo indizio di unatmosfera e di una mentalit: si respirava lossessione del potere. Il potere era ovunque e, se non lo si vedeva, era solo perch la sua presenza era diventata cos diffusa che non lo si distingueva pi dal corso ordinario delle cose: non un ingrediente della realt, ma una sostanza magmatica e plastica, capace di mescolarsi con qualsiasi cosa. Ci si aspettava che filtrasse sotto le porte e il sospetto sistematico era considerato latteggiamento pi accorto. Cerano anche degli antidoti specifici: per esempio le noiose e interminabili elucubrazioni di Husserl, che certamente avrebbero ucciso qualsiasi funzionario del potere, se si fosse riusciti a fargliele leggere, o le sommarie filippiche di Foucault e le strampalate e innocue decostruzioni di Derrida. Lossessione del potere non era una cosa nuova nella cultura italiana, almeno nella cultura filosofica. Il Risorgimento? Quellidea di fare gli italiani dopo che era stata fatta lItalia? Frutto della febbre nazionalistica che aveva preso ad ardere nei paesi diventati nazioni nel corso dellOttocento? La filosofia militante non era di casa anche in Germania, un paese con una vicenda nazionale simile alla nostra? E in entrambi i paesi la patria e i partiti totalizzanti arruolavano intellettuali e condannavano quelli sordi alle lusinghe. Da noi i grandi intellettuali, come Croce, Gramsci o Gobetti, sono sempre stati molto militanti, con pi impegno che ricchezza o

finezza dei mezzi concettuali impiegati. Flores dArcais cita tra i buoni, precursori della riscoperta del realismo, Abbagnano, Geymonat, Bobbio, con il loro neoilluminismo, e Della Volpe, con la sua eresia marxista. Il neoilluminismo fin presto con la filosofia popolare di Abbagnano, le mescolanze avventate di logica, dialettica e razionalismo di Geymonat e labbandono della teoria generale del diritto da parte di Bobbio, tornato presto alla predicazione politica; quanto alle avventure del marxismo pi o meno eretico, le ricordiamo tutti. A smascherare il potere arriv anche in Italia la rivincita degli sconfitti. Heidegger era stato servo abietto del potere pi macabro ed era uscito male dalla sconfitta del suo paese, ma riapparve e divent la bandiera dellantipotere, in Italia subito issata anche dagli allievi degli spiritualisti, che avevano messo insieme fascismo gentiliano e filosofia cattolica. Le riforme e la rivoluzione pacifica e democratica, strade lungo le quali si erano messe in cammino schiere di intellettuali pi o meno organici, erano prospettive finite. Il grande progresso scientifico e tecnico, che aveva cambiato la vita nella prima met del Novecento era illusorio, un mostruoso progetto di dominazione, con dominatori anonimi, che non poteva essere contrastato in modo selettivo, ma andava rifiutato in blocco o usato in modo ludico. A giocare con il potere si perde sempre. Se vuoi indirizzarlo, correggerlo, prenderlo sul serio e farne una cosa accettabile ne diventi servo; se lo neghi del tutto, ti contagia, ti infetta, facendoti partecipe. Questo accaduto ai negatori radicali del potere: sono andati al potere, sono diventati deputati nazionali o europei, sindaci, sono comparsi ovunque, ospiti incombenti di chiacchiere televisive, un po giullari degli invidiati signori del potere, divertiti dalle loro sfide verbali. La crisi delle ideologie novecentesche ha aiutato: a corto di compiacenti filosofie della storia, quando le finte teorie scientifiche dei politici sono state sostituite dalle narrazioni, i sospettosi del potere hanno pagato il loro debito con chi li aveva contagiati di potere. Di narrazioni ne hanno fornite a iosa, apparentemente originali, in realt tutte uguali e tutte noiosissime. Soprattutto hanno assicurato che tutto narrazione e dunque tutto si pu manipolare, raccontare in tanti modi e in definitiva come si vuole.

Qualche mese fa ho potuto assistere a Reggio Emilia, durante il festival della laicit, a un interessante dibattito tra Vattimo e Flores dArcais. Questultimo sosteneva che le scienze ci hanno fatto sapere molte cose e giustamente invitava a guardare al loro contenuto, unindicazione che va approfondita, in contrasto con la tendenza dei filosofi a guardare alla struttura del sapere scientifico, ai suoi fondamenti, ai suoi metodi, in sostanza da fuori. I filosofi hanno sempre preso le cose da questo lato, un po perch sapevano poco o nulla dei contenuti delle scienze, un po perch potevano cos trasformare le nozioni scientifiche in qualcosa di soggettivo e spirituale, facendo delle cose le ombre delle idee; ma spesso perfino queste erano ritenute troppo forti e venivano sostituite con le parole: le cose ombre delle parole. Polemizzando con il pensiero debole ho sempre evitato di far leva sulle posizioni estremistiche dei suoi esponenti, sfruttando i ridicoli incidenti nei quali sono caduti alcuni di loro. Ma le risposte di Vattimo a Flores dArcais sono state imbarazzanti. La ripetibilit degli esperimenti? Propaganda, argomento da commesso viaggiatore, che non smette di tirarla in lungo sui pregi dei suoi prodotti. Il gentilissimo e leale Flores dArcais tentava di dire che s, la soggettivit va bene: chi oserebbe mancare di rispetto a Kant e mettere in piazza i suoi trucchi? Ma c differenza tra la soggettivit di una teoria scientifica e quella di una narrazione alla Foucault o una decostruzione alla Derrida. Niente da fare: Vattimo ha tenuto duro, non ricorso a Gadamer, ma ha invocato il soccorso di Apel. Poi, a tavola, un Vattimo sempre spumeggiante e spiritoso si innervosito un po quando gli si ricordato che altro risolvere un problema di Hilbert altro inventare una teoria filosofica portatile alla Umberto Eco, che i teoremi non li si approva per far piacere al Pentagono n per alzata di mano. Nellintervento sul dibattito tra Vattimo e Ferraris, Flores dArcais assume un atteggiamento prudente e un po sospettoso nei confronti della marcia di Ferraris alla conquista della realt. Con durezza Flores dArcais dice che, al di l di tutte le heideggerate, il rifiuto della realt e della verit da parte dei debolisti era soprattutto il rifiuto della validit della conoscenza scientifica. Il realismo di Ferraris riconoscimento di ci che il suo maestro proprio non sopporta? Leggo le cose di Ferraris, anche se non posso dire di conoscerle a fondo. Ci che fa sorgere qualche dubbio anche in me

lidea di raggiungere la realt per via filosofica. Chi mai chiederebbe a un filosofo se una cosa reale o se unaffermazione vera? I filosofi attribuiscono o negano la realt di blocchi interi: le idee, i numeri, lanima, la materia ecc. oppure parlano della realt del reale o della verit delle affermazioni vere. Quando provano a entrare nei particolari hanno incidenti indimenticabili: dopo che Eudosso e Callippo avevano provato a contare le sfere nelle quali si muovono i corpi del sistema solare, Aristotele volle correggerli, introducendo un numero spropositato di sfere, e non fece bella figura. Di solito i filosofi si tengono sulle generali e si limitano a discutere se esista una realt indipendentemente dalle idee che se ne ha o se ci sia una verit indipendentemente dai mezzi con i quali la si accerta. Sono cose che intrattengono i filosofi, un po meno gli altri, anche se diventano pericolose quando servono a offrire pretesti per cancellare sezioni intere di faccende scomode. La filosofia occidentale, cio la filosofia, era allorigine un sistema di credenze sul mondo, e la sua versione platonica e aristotelica fu il tentativo di conservare questa impostazione quando le conoscenze sul mondo stavano cambiando. Quando il geocentrismo croll per i filosofi fu una vera tragedia, che dovettero fronteggiare ricuperando dottrine stoiche ed epicuree, nate dal rifiuto delle immagini cosmologiche, fondamentali per Platone e Aristotele. In questa prospettiva si prese a dire che ci che si veniva a sapere sulle cose e sul mondo era il prodotto di un sistema di segni e che qui stava la chiave per accedere alla realt: cerano i segni, ma cera qualcosa oltre i segni? E che cosa di ci che pareva stare oltre i segni era reale? Le combinazioni di segni potevano essere vere o false, ma cera qualcosa che costituisse la verit delle combinazioni? Di alcune combinazioni di segni era pi facile capire subito se si riferissero a qualcosa o se fossero vere o false, di altre meno, e in certi casi il sistema di segni usato poteva creare difficolt proprie e generare inganni, ma erano casi estremi, che di solito gli utilizzatori dei segni sapevano risolvere per conto loro. Invece i filosofi pretendono di intervenire loro per dire se c qualcosa oltre i segni o non c nulla, anche quando i sistemi di segni e le teorie possono stabilire il proprio grado di attendibilit o di isomorfismo tra i segni e i loro oggetti. Anche quando riconoscono lattendibilit delle conoscenze positive i filosofi si arrogano il compito di spiegare perch esse siano

attendibili e di chiarirle, andando oltre la chiarezza intrinseca alle conoscenze valide. I filosofi cercano anche di mettere insieme i sistemi di conoscenza organizzati e indipendenti dalle credenze, tra le quali si aggira la filosofia, e le conoscenze pi dirette e circostanziali, quelle con le quali si trova la via di casa (per dirla con Platone), distinte dalle conoscenze degli astri e dei numeri. Per i sospettosi radicali nulla si salvato e limpostura scientifica ha corrotto anche lesperienza ordinaria, nella quale luomo ha dimenticato lessere. Per i realisti bisogna tenere insieme i due sistemi ed eventualmente fare della conoscenza scientifica una continuazione dellesperienza ordinaria. Non facile, perch le conoscenze scientifiche possono anche nascere dai dati dellesperienza ordinaria, come insegnava lempirismo classico, ma poi quelle conoscenze tendono a distruggere le certezze correnti. E tra queste ci sono le credenze che pesano, quelle con le quali le persone costruiscono i propri progetti, le proprie illusioni, le giustificazioni delle proprie delusioni, le condanne degli altri e le assoluzioni di se stessi. Hume era un abile analista, che sapeva dar fondo alle risorse della scolastica per offrire, con laiuto della psicologia filosofica aristotelica, unidea semplificata dellesperienza da cui nascono le spiegazioni scientifiche. Cos lasciava da parte giudizi e credenze e sanciva la separazione dellessere dal dover essere. Ma Hume sapeva che lindipendenza del dover essere dallessere aveva un prezzo anche per il dover essere; ed questo che il richiamo ottimistico alla sua formula respinge. Ritorna allora la contrapposizione tra fatti e valori e a questi ultimi si d la piena sovranit che al sapere scientifico si riconosce sui fatti. Il regno dei valori sar anche anarchico e conflittuale, ma sembra dominato da contrapposizioni dettate da scelte sovrane. Ai teorici del primato dellinterpretazione sui fatti si rimprovera di giustificare le posizioni di Berlusconi o di Bush, dando credito alla pretesa di fabbricare la realt con le parole. Lidea di fabbricare la realt con i valori, unidea cresciuta nella Germania di Marburgo, Heidelberg e Friburgo, patria dei grandi impostori del Novecento, non molto diversa. Le cose che dice Flores dArcais sulla scienza economica fanno pensare agli slogan che proclamavano tutto possibile. Sulleconomia scientifica pesa una facile propaganda, ma la battuta sugli economisti e la borsa fa il verso a quelle sugli statistici che, avendo incontrato un vedente e un

cieco, concludono che met della popolazione cieca. Una cosa almeno leconomia scientifica pu fare: insegnare che non sempre lentendance suivra. (6 settembre 2011)

La cultura della transizione


di Gianni Mula Ho scritto recentemente[1], concordando solo in parte con Paolo Flores dArcais, che la polemica Ferraris-Vattimo sul New Realism non coglie laspetto essenziale della crisi mondiale che stiamo attraversando. Solo con la filosofia ermeneutica di Paul Ricoeur si pu cercare di salvare dal disastro incombente quanto c di salvabile nella societ occidentale contemporanea. Ma c davvero qualcosa da salvare in questa societ? A prima vista la domanda parrebbe inutilmente provocatoria. evidente che dalla crisi nella quale siamo immersi almeno il generale grande miglioramento nelle condizioni igienico-sanitarie sia qualcosa che merita di essere salvato, giusto per dire la prima cosa che viene alla mente. E potremmo anche aggiungerci le istituzioni democratiche, la pubblica istruzione e il sistema previdenziale, tutte realizzazioni alle quali potremmo estendere il famoso aforisma di Churchill: "la democrazia la peggior forma di governo possibile, eccezion fatta per tutte le altre". Allora, poich pacifico che stata la societ moderna a realizzare sistematicamente tutti questi presidii delle nostre libert di fatto, dovremmo dare per scontato che difendere la societ che li ha generati equivale a difendere questi presidii? In realt le cose non sono cos semplici. Perch potrebbe anche essere che la visione illuministica alla quale dobbiamo le nostre libert stia semplicemente mostrando i suoi limiti. Al cuore di questa visione stava il metodo scientifico, cio lidea che la realt nella quale siamo immersi possa essere sistematicamente, e con costante successo, analizzata come un insieme di parti indipendenti. Oggi questidea, a quel tempo straordinariamente innovativa, mostra tutti i limiti di una prima approssimazione. Ad esempio la separazione dei poteri, concetto che sta alla base del nostro concetto di democrazia, non sembra pi funzionare. Non solo nel nostro paese, nel quale il conflitto di interessi da vizio sembra diventato virt, ma anche nel resto del mondo occidentale. Dovunque nel mondo sviluppato, infatti, il dominio del sistema economicofinanziario su tutti gli altri settori della societ ormai diventato pressoch assoluto, e, di conseguenza, la separazione dei poteri diventata un vuoto simulacro. Se la libert economica individuale portasse necessariamente a questo tipo di conseguenze allora

saremmo davvero nei guai, considerato anche che i sistemi di economia collettiva hanno fin qui dato pessima prova di s. Ma c perfino di peggio, perch ormai evidente che perfino il diritto fondamentale a uninformazione non adulterata sistematicamente violato. In questo contesto mi limito a riportare un brano, ancora da uneditoriale[2] di Giovanni Sarubbi, che sintetizza efficacemente la situazione: I giornali e le TV italiane nei giorni scorsi hanno raccontato, a modo loro, il discorso del presidente dellIran Ahmadinejad allassemblea dellONU che ancora in corso. Durante quel discorso le delegazioni degli USA, di Israele e di tutti i paesi occidentali, compresa lItalia, hanno abbandonato platealmente laula. La giustificazione data dalle TV e dai giornali stata quella che nel suo discorso il presidente dellIran avrebbe attaccato Israele e sostenuto le tesi negazioniste sulla shoah. Abbiamo cercato il testo del discorso di Ahmadinejad su internet e lo abbiamo trovato tradotto in Italiano sul sito di Radio Irib, la radio dellIran in lingua italiana. Pensavamo di trovare i riferimenti ad Israele e al negazionismo della shoah ma non le abbiamo trovate. Leggere per credere. Come possibile che i mass media nostrani abbiano mentito in modo cos spudorato? Come possibile inventare di sana pianta una falsit cos grande e cos facilmente smentibile? E, soprattutto, perch dare luogo ad una tale falsificazione? Da questinsieme di contraddizioni emerge una societ ormai diventata infedele ai principi sui quali sorta, che pratica una neolingua nella quale le parole che contano hanno un significato stabilito dal potere, e dove lunica alternativa reale consentita ai dissenzienti quella di emigrare. Certo lattuale governo italiano non durer a lungo, ma il quadro sopra delineato rimarr sostanzialmente invariato, perch siamo allagonia di un sistema e non basta cercare di salvarne i pezzi buoni lasciando morire gli altri. Non ci sono pezzi buoni in un sistema che muore. lintero sistema di equilibri e contrappesi che abbiamo ereditato dallilluminismo che non pi adeguato alla nostra situazione concreta. Dobbiamo inventarne uno nuovo che sappia coniugare la forma e la sostanza del rispetto delle libert individuali con le nuove esigenze e possibilit continuamente create dalla scienza, dalla tecnologia e dallevoluzione della societ. ***

Naturalmente un nuovo sistema non si pu creare dal nulla e lesperienza insegna abbondantemente che non si pu avere alcuna fiducia nella buona riuscita di progetti complessivi di rinnovamento elaborati nello studio di qualche profeta o filosofo illuminato, per quanto ragionevoli e attraenti questi progetti possano sembrare sulla carta, soprattutto se la realizzazione del progetto pensata come esecuzione meccanica di un insieme di istruzioni. E allora? Allora lunica soluzione possibile una non soluzione, vale a dire che bisogna sin dallinizio rinunciare a cercare ununica soluzione accettabile da tutti, e aprirsi a un pluralismo di punti di vista e di soluzioni parziali possibili, accettando anche di dover imparare a gestire il conseguente, ineliminabile, conflitto di interpretazioni. Questa non soluzione la via lunga[3] proposta dalla filosofia ermeneutica di Ricoeur, ed probabilmente la sola prospettiva che possa davvero guidarci al nuovo sistema. Ma una guida che non contempla istruzioni pratiche, n di massima, n tanto meno dettagliate. Al contrario poco pi di un invito a pensare di pi, e non di meno, ogni volta che si incontrano problemi di cui non si capisce appieno lorigine e nemmeno si intravede la soluzione. per questa ragione che la sua pratica richiede uno sforzo condiviso per far nascere e crescere, a partire dai temi specifici oggetto del contendere, una cultura della transizione. Si tratta cio di sviluppare la consapevolezza che la gran parte dei problemi del nostro tempo ha origine nel nostro desiderio di trovare soluzioni valide per leternit, in un presente immoto ed eterno che ovviamente non esiste se non come astrazione, ma non nel tempo reale che sperimentiamo appunto come una lunga transizione. *** Ma come possiamo definire una cultura della transizione? Sempre nello spirito della filosofia di Ricoeur proporrei di definirla identificando anzitutto due approcci alternativi (apparentemente) antitetici. Il primo quello della cosiddetta cultura dellemergenza. In questa societ infatti la prassi per le emergenze proprie (terremoti, inondazioni ecc.) abitualmente estesa a situazioni che non riguardano emergenze naturali ma che per la loro rilevanza richiedono comportamenti il pi possibile unitari (ad es. gravi crisi economiche o di politica estera). In questi casi la dichiarazione dello stato di emergenza non implica pi lattivazione di una serie di trasferimenti di competenza e di sospensioni di efficacia di leggi ma

significa semplicemente la richiesta di sospensione di ogni critica alle autorit e lappello a mantenere la rotta stabilita. Di conseguenza il ricorso allemergenza uno strumento molto comodo per evitare che le lites al potere possano mai essere messe in discussione e quindi si tende ad abusarne, tanto che si pu definire il ricorso abituale a questo strumento una vera e propria cultura dellemergenza. Ciononostante questa cultura non d sempre risultati negativi, e anzi si potrebbe sostenere con buone ragioni che in condizioni difficili la regola di mantenere al meglio la rotta stabilita pu spesso essere la sola ragionevole. Laltro approccio quello del diritto alla libert di dissenso, che evidentemente un diritto fondamentale ma pu anche degenerare in un relativismo senza limiti, cio in una sorta di anarchia permanente. Quando non si accetta lappello allunit tipico della cultura dellemergenza non ci si identifica, neanche parzialmente, con gli obiettivi di chi guida, e quindi non ci sono rotte da mantenere e tanto meno autorit da rispettare. Anche in questo caso, tuttavia, ci possono essere tante situazioni nelle quali una ragionevole anarchia chiaramente meglio di una dittatura, anche dal volto umano, o di una guerra. Prendiamo ad es. il caso del Belgio, nel quale lassenza di un governo nella pienezza dei suoi poteri apparentemente permette al paese di affrontare al meglio lattuale crisi economica. Ma soprattutto, se la parola libert usata in senso proprio, il concetto di libert individuale ad essere inseparabile da quello di anarchia. Si pensi al concetto di libero mercato: un mercato veramente libero per definizione imprevedibile, cio anarchico, ed per questo che si parla di anarchia dei mercati come di una loro caratteristica costitutiva e non di un difetto eliminabile. Nel nostro caso questapproccio significherebbe procedere alle riforme via via necessarie salvando le libert individuali ereditate dallilluminismo senza per il vincolo della conservazione delle forme nelle quali si sono incarnate storicamente. In questa maniera si incoraggerebbe quindi il pensare nuovi quadri concettuali che meglio soddisfino le esigenze originarie. Entrambi gli approcci hanno aspetti positivi importanti che non si possono lasciar cadere senza mettere in crisi lintera prospettiva. Se la condizione umana, come dice Heidegger, determinata completamente dalle differenti possibilit concrete a disposizione di

ciascuno, allora chi sente maggiormente la necessit della difesa delleredit illuministica cercher la chiarezza data da uno spartiacque tra proposizioni descrittive e proposizioni prescrittive (cio dalla difesa a tutti i costi della distinzione tra fatti e opinioni), e finir quindi per adottare il programma del New Realism sostenuto da Ferraris o qualche altra piattaforma nella stessa direzione. Dallaltro lato chi si sar scontrato, nella propria ricerca, con le oramai manifeste inadeguatezze del pensiero illuminista, si sentir spinto a dare per scontata linutilit del concetto di Verit assoluta, comunque giustificato, e finir con labbracciare qualcuna delle varie posizioni oggettivamente relativiste che vanno sotto il nome di postmoderne, ad esempio la posizione di Vattimo. Entrambe le scelte corrispondono quindi alla via corta di Heidegger[4]. Porsi invece nella prospettiva della via lunga di Ricoeur significa rifiutarsi di scegliere una volta per tutte tra cercare di limitare al minimo i cambiamenti necessari oppure cercare di rifare tutto daccapo. In questa prospettiva non c alcuna ragione perch queste due scelte debbano per forza scontrarsi. Lerrore di chi si sente spinto allo scontro sta nella troppa fretta di arrivare a conclusioni definitive, errore implicito nello scegliere la via corta. Invece, nello spirito della via lunga, e quindi nella preoccupazione costante di capire le ragioni dellaltro, naturale ricordarsi che siamo sempre immersi in una fase di passaggio, di transizione, e niente nel tempo mai dato in via definitiva. Perch se ogni tipo di conoscenza in linea di principio sempre perfettibile, tale anche ogni valutazione di supposti fatti. certamente vero, come ricorda Emilio Carnevali[5]che il progetto postmoderno se non sostenuto dal determinismo proprio delle narrazioni moderne idealistiche o illuministiche che siano per definizione aperto ad esiti differenti. Ma proprio la possibilit di esiti genuinamente differenti che permette di superare, almeno in linea di principio, la contrapposizione statica tra le due scelte alternative che abbiamo analizzato. Non rimanere legati alla necessit di una regola data a priori che si decide essere buona per tutte le occasioni, rinunciare a polemizzare sulle scelte da fare per concentrarci invece sul pensare pi a fondo alle possibilit che si possono aprire, la via per superare la contrapposizione senza ricorrere a mediazioni basate sul soddisfare reciproche effimere convenienze. Rimane vero,

naturalmente, che anche nel caso della via lunga non c alcuna garanzia a priori di successo, ma solo lesplicitazione consapevole del rifiuto di rassegnarsi allinsuccesso. *** Vale la pena a questo punto di riprendere la citazione fatta in precedenza di Carnevali e rispondere esplicitamente alla domanda che pone: Laltra possibilit quella descritta da Edward Docx nel suo intervento sulla Repubblica (3 settembre): Un postmodernismo aggressivo diventa indistinguibile da una specie di inerte conservatorismo. Se non esistono criteri oggettivi di verit e di giustizia come posso individuare lin-giustizia? E perch dovrei agire perch il mondo vada diversamente da come va? Se si segue la via corta queste domande non hanno risposte soddisfacenti. Se si segue invece la via proposta da Ricoeur, la via lunga, allora non si rimane pi soffocati dallalternativa tra ideologia e utopia, tra unideologia che manifestamente non funziona pi e unutopia inevitabilmente fumosa, ma si avvia un processo che Ricoeur ha chiamato di innovazione semantica, cio di creazione di nuovo significato. questo processo che permette di lavorare alla costruzione di nuovi criteri generali di verit e giustizia a partire dalle situazioni particolari ma concrete di in-giustizia che verifichiamo direttamente. Questi nuovi criteri saranno ovviamente relativi alle situazioni particolari da cui nascono, e quindi inevitabilmente provvisori, ma pur nella loro provvisoriet permetteranno di lavorare in termini costruttivi alla creazione di una nuova societ. *** Tutto questo pu sembrare vago, inutilmente complicato, e in definitiva inutile. Ma situazioni di questo genere si sono gi verificate pi volte nella scienza moderna e, anche se non lo dice quasi nessuno, sono state risolte, naturalmenteante litteram, in maniera coerente con la filosofia ermeneutica di Ricoeur. Quando si scoprirono le geometrie non euclidee croll la convinzione sino ad allora universalmente accettata che la matematica descrivesse verit a priori sul nostro mondo. Ma i matematici continuarono a fare il loro mestiere di creare nuove teorie pur accettando, come disse Einstein nel 1921, che le proposizioni della matematica in quanto descrizioni della realt sono incerte, mentre se non descrivono la realt sono certe. Tutto era partito dalla scoperta che il quinto

postulato di Euclide, quello che dice che per un punto esterno a una data retta passa una, ed una sola, retta parallela alla retta data, non solo non era immediatamente evidente, come gli altri postulati, ma poteva benissimo essere sostituito da postulati diversi, ad es. che passano infinite rette parallele a quella data, oppure che non ne passa nessuna. Questa ambiguit pose ai matematici un mare di problemi, che furono risolti seguendo la prescrizione della via lunga, secondo cui vale sempre la pena di lavorare a cercare di capire (cio a pensare), anche senza aver a priori alcuna garanzia (in questo caso quella dellapplicabilit dei risultati alla realt naturale). Quando Gdel nel 1931 pubblic il suo rivoluzionario lavoro che stabiliva che una teoria matematica sufficientemente estesa da contenere laritmetica dei numeri interi non era in grado di dimostrare la propria coerenza, fece crollare la fiducia dei matematici nella verit della propria disciplina, indipendentemente dalle sue possibilit applicative. Addirittura un grande matematico come Hermann Weil disse al riguardo che quel risultato era la prova dellesistenza di Dio, perch la matematica era certamente coerente. Ma era anche la prova dellesistenza del diavolo, perch era impossibile dimostrare la coerenza della matematica. Un corollario di quel risultato poneva in linea di principio ancora maggiori problemi alla prosecuzione normale dellattivit matematica. Questo corollario, noto come teorema di incompletezza di Gdel, stabilisce che, per ogni sistema di assiomi sufficientemente potente da contenere laritmetica dei numeri interi, vale lalternativa: o coerente, e allora incompleto (cio esistono al suo interno affermazioni di cui non si pu dire se sono vere o false), o completo, e allora incoerente (cio esistono al suo interno affermazioni tra loro contraddittorie). Anche in queste condizioni i matematici continuarono a seguire (ovviamente sempre senza saperlo, perch la svolta ermeneutica di Ricoeur non cominci a divenire nota internazionalmente se non verso la fine degli anni sessanta) le prescrizioni della sua via lunga, rinunciando a cercar di ricostruire una garanzia a priori della coerenza delle loro teorie. E furono premiati perch non solo la loro attivit continu a essere portatrice di nuova conoscenza, ma ottennero anche un risultato particolarmente importante dal punto di vista di quel processo di creazione di nuovo significato che Ricoeur ha chiamato innovazione semantica. Per lungo tempo, infatti, dopo i teoremi di Gdel,

lincompletezza dei sistemi assiomatici fu considerata dai matematici un inconveniente rilevante. Ma allinizio degli anni sessanta Abraham Robinson riusc a utilizzare lincompletezza costitutiva dei sistemi di assiomi per costruire una nuova analisi infinitesimale, chiamata analisi non standard, in grado di riprodurre tutti i risultati dellanalisi standard e, in pi, di semplificare grandemente i ragionamenti matematici in una serie di casi sino ad allora notevolmente complessi. Quella di Robinson fu certamente unintuizione geniale, ma anche un esempio estremamente significativo di come, nello spirito della via lunga, sia possibile trasformare un inconveniente grave in una risorsa importante. Sin qui abbiamo considerato, per semplicit di esposizione, esempi tratti dalla matematica, ma ce ne sono almeno altrettanti nel campo della fisica. Quello forse pi interessante il pi recente, la scoperta del meccanismo delle transizioni di fase. Questa scoperta ha dimostrato in maniera conclusiva che ci sono limiti essenziali alle possibilit della scienza di prevedere rigorosamente comportamenti macroscopici sulla base di informazioni microscopiche. In altri termini ha dimostrato che anche nelle scienze fisiche dobbiamo rassegnarci ad accettare il fatto che sempre possibile trovarsi in un ineliminabile conflitto di interpretazioni. In compenso ha anche dimostrato che un conflitto di interpretazioni non necessariamente un limite allavanzamento della conoscenza ma che anzi la sua esistenza porta alla scoperta di nuove leggi generali sui fenomeni critici (ad es. luniversalit degli esponenti critici) che esprimono il comportamento di intere classi di sistemi fortemente interagenti. Va da s che, a causa dellirriducibilit a una descrizione pi semplice delle interazioni tra le parti che compongono questi sistemi (e alla conseguente estrema complessit di una teoria microscopica dei fenomeni critici), non avremmo avuto altra maniera (al di fuori cio del conflitto di interpretazioni) di scoprire queste nuove leggi. *** A questo punto ci si potrebbe ancora chiedere: va bene, abbiamo capito che nelle scienze sono avvenuti (e continuano ad avvenire) progressi straordinari, ma per quale ragione i problemi metodologici delle scienze dovrebbero illuminarci nellanalisi di problemi etici e filosofici che, per loro natura, sono irriducibili a

misurazioni quantitative di qualunque tipo? E soprattutto perch una difficile ricerca di certezze filosofiche dovrebbe venire impedita da una, magari discutibile, interpretazione di risultati scientifici che riguardano certamente altro? certo che analisi quantitative di problemi filosofici ed etici non hanno (e non avranno mai) alcun senso. Lamore, lodio, la felicit, il dolore non sono esprimibili in termini numerici. Ma lunica ragione del nostro cercare certezze assolute nei ragionamenti filosofici la convinzione di vivere in unepoca nella quale, nei campi che le competono, la scienza fornisce certezze assolute. Ma questepoca ormai finita, non perch la filosofia abbia perso la bussola e ceduto a tentazioni irrazionalistiche, ma perch la scienza ad essere cambiata. Nel suo avanzare la scienza ha infatti imparato ad affrontare problemi meno semplici di quelli affrontati sinora e ha scoperto che se vero che non ci sono limiti insuperabili alla nostra conoscenza, dobbiamo per pagare questo risultato di principio con limpossibilit, altrettanto di principio, di scoprire leggi che valgano per tutti, in tutte le situazioni, e, soprattutto, per leternit. Oggi la scienza, sempre utilizzando le tecniche e la visione dei limiti e delle possibilit dellindagine scientifica che le hanno permesso di spiegare i fenomeni critici, si occupa non solo del funzionamento biologico del corpo umano ma anche di comportamenti psicologici (vedi le ricerche sullautismo) e sociali. Per esemplificare in termini estremamente concreti oggi possibile, con lo stesso approccio usato per i fenomeni critici, condurre ricerche in campo socioeconomico e porsi il problema di capire come sono variati, diciamo negli ultimi trenta o quarantanni, i principali indicatori economici riguardanti i paesi occidentali. Una ricerca di questo tipo potrebbe includere le variazioni quantitative nei vari prodotti interni lordi, nella consistenza della forza lavoro, nei flussi migratori, nel numero e nella tipologia delle imprese, nella vita media e nella tipologia delle cause di morte ecc. Ma le nuove tecniche potrebbero consentire anche di scoprire lesistenza di una vera e propria transizione di fase nelle condizioni generali di vita, ad es. della classe media, in questi paesi e nellintervallo di tempo considerato. Quindi un risultato qualitativo. Sarebbe questo un risultato scientifico oggettivo? Certamente, ma nello stesso senso nel quale un fatto oggettivo che applicando unopportuna pressione un vapore si condensa e diventa liquido. Se questevento

si verifica il fluido esaminato un vapore, cio un gas al di sotto della sua temperatura critica, se non si verifica allora il fluido esaminato un gas (al di sopra della sua temperatura critica). Ritornando al nostro abbozzo di analisi economica diremmo allora che la scoperta di una transizione di fase nelle condizioni generali di vita della classe media in un dato periodo di tempo un risultato il cui significato dipende dalla validit del modello usato (cio, per rimanere nellanalogia, dalla validit dellipotesi che la classe media sia paragonabile a un vapore). Validit non immediatamente evidente sulla base della sola lettura dei dati statistici anno per anno. Sarebbe certo scienza nel senso proprio della ricerca scientifica come normalmente praticata in tutti i campi, ma, trattandosi di fenomeni sociali, richiederebbe un discernimento e anche scelte di campo solitamente non associati alla scienza. Perch uno scienziato non solo non istituzionalmente preparato in discipline come la sociologia, ma al contrario addestrato ad evitare come la peste argomentazioni di tipo ideologico. Questesempio dimostra la sottigliezza dei meccanismi mediante i quali la scienza moderna pu svolgere di fatto un ruolo di legittimazione ideologica. Nonostante, paradossalmente, per Marx e molti filosofi illuministi sia la scienza a permettere il superamento dellideologia, la pretesa che la scienza costituisca una forma di razionalit non ideologica , come pi volte ha detto Ricoeur, essa stessa una nuova forma di ideologia. Unideologia che spesso giustifica di fatto lordine sociale esistente, coprendo, sulla base di principi di pretesa oggettivit disinteressata, un sistema di manipolazione tecnologica delle coscienze. La conclusione che non c modo di abolire completamente lideologia e la miglior cosa da fare non negarla ma sviluppare unimmaginazione ermeneutica capace di discriminazione critica. Questa la via lunga ed per questo che serve che cresca e si sviluppi unadeguata cultura della transizione. *** Ci si potrebbe infine chiedere perch ci sia tanta resistenza, da parte di molti filosofi e di molti scienziati, ad accettare il fatto di dover lavorare nel loro campo senza alcuna garanzia a priori di certezza dellapplicabilit e della validit dei risultati. Anche a fronte della dichiarata ammissione che da tempo gli scienziati lavorano in queste condizioni. Per una (non) risposta pu forse essere utile

questa citazione letterale di Ricoeur: lumilt della conoscenza si muta in desiderio di potere, per la forza stessa delle idee e della conoscenza oggettiva. nasce il sospetto che un sottile desiderio di potere si nasconda anche dietro lumilt pi sincera di quello che chiamiamo desiderio di verit. Lidea che vorrei qui suggerire che la conoscenza profana non sia la sola implicata, ma che forse lo sia ancor di pi la conoscenza religiosa. Se la cristianit ha ostinatamente cercato di costruire prove vincolanti dellesistenza di Dio, non forse perch cerchiamo in lui la garanzia suprema sulla quale fondare la pretesa di assicurarci il controllo tramite il sapere, e questo per mezzo di prove che lo garantiscano? Il colmo del controllo da parte del sapere potrebbe appunto essere la volont di coinvolgere Dio nella nostra impresa di dominio intellettuale chiedendogli di farsi garante della nostra ostinata ricerca di garanzia.[6]
[1] [2]

Lettera aperta a Paolo Flores dArcais http://www.ildialogo.org/ [3] Lermeneutica di Ricoeur parte dalla visione della condizione umana presentata da Heidegger in Essere e Tempo. Per Heidegger la condizione umana quella di un essere che cerca di comprendere il mondo in cui si trova gettato senza averlo n voluto n scelto. Ogni vivere corrisponde quindi a un interpretare, e la condizione umana risultante determinata completamente dalle possibilit concrete a disposizione di ciascuno. Ricoeur accetta limpostazione heideggeriana e concorda col principio che vivere interpretare. Tuttavia non accetta la conclusione che la condizione umana possa comprendersi direttamente attraverso lanalisi delle proprie possibilit. Se non altro perch solo nel linguaggio la condizione umana pu scoprirsi come modo di essere. E il linguaggio per definizione qualcosa che non appartiene al soggetto interrogante. Per Ricoeur, quindi, la condizione umana scopre il proprio significato solo con un lungo viaggio ermeneutico attraverso le mediazioni linguistiche dei segni e dei simboli, dei racconti e delle ideologie, delle metafore e dei miti che la determinano e in un certo senso la costituiscono, per trovarsi alla fine arricchita dalle deviazioni attraverso il linguaggio di altri. [4] La sostanziale ambivalenza di queste due scelte da un lato mostra come la situazione meriti uninterpretazione pi approfondita (ad

es. come quella che Flores ha adombrato, senza per entrare nel merito), dallaltro conduce al cuore del ragionamento che ha portato Ricoeur a proporre la via lunga. Infatti lambivalenza la caratteristica del linguaggio simbolico che ci permette di pensare, secondo la famosa frase di Ricoeur Il simbolo d da pensare. [5] Emilio Carnevali - Il fallimento del progetto postmoderno [6] Paul Ricoeur, La logica di Ges, a cura di Enzo Bianchi, Qiqajon 2009, pp. 58-9. (4 ottobre 2011)

La debolezza della convergenza


di Adriano Ardovino A Platone non sarebbe risultato difficile (s)drammatizzare le posizioni, dal canto loro limpide e frutto di anni di riflessione, di Vattimo, Ferraris e Flores dArcais, mettendole in scena in forma di dialogo filosofico sulla verit. Non da ultimo perch, come accade da parecchio tempo ogniqualvolta si ripropone la domanda sulla verit (e come del resto sanno meglio di chiunque altro i loro attuali estensori), non siamo di fronte a ragionamenti propriamente nuovi. Che si riformuli la verit come rapporto di forze (cio, alternativamente, come decisione di unautorit cogente o come convenzione derivante da un negoziato), che si critichino le conseguenze di tale riduzione della conoscenza al potere (per cui, seguendo lesempio citato, la ragione del pi forte diventa automaticamente la migliore), o che infine si voglia distinguere in modo manicheo (come si scritto) tra il piano empirico dei fatti e il piano ideale delle norme e dei valori etici, non si pu dire che ci si allontani troppo dai paraggi di Platone e in verit gi di Parmenide, che quanto dire dal dilemma tra verit e opinione, tra la ricerca di un fondamento stabile e il disagio di unincessante mutevolezza che non offre appigli. Quello che nuovo beninteso: nel raffronto tra posizioni autorevoli, come anche in una discussione qualsiasi, tra studenti qualsiasi, su una spiaggia qualsiasi la reazione chimica che si genera quando un pensiero filosofico (cio, come si continua a dire con ottime ragioni, platonico) viene a contatto con eventi e circostanze proprie di una realt storica, questa s molto diversa, presumibilmente, da quella in cui vissero Platone e gli antichi in genere. Diciamo presumibilmente, dato che la violenza e la menzogna continuano a sussistere oggi come allora, almeno quanto il conflitto tra libert e necessit messo in scena dai tragici, e che in molte gesta di antichi imperatori si coglie qualcosa di molto attuale, cos come, in certe pagine di Cicerone, emerge in modo nitido e persino impressionante la fisionomia di certi avvocati contemporanei. Da questo punto di vista, notevole, senza voler minimamente alludere alla metafora gi evocata di un puro gioco di specchi, che

tutte e tre le posizioni, pur in netto o parziale disaccordo tra loro, siano invece pienamente concordi nel voler fare da sostegno o da cornice alla medesima opzione politica, rivolta cio contro il medesimo obiettivo polemico (lo si chiami poi autoritarismo, populismo o inganno mediatico). Ora, pu darsi che lenfasi sullinterpretazione a totale detrimento dei fatti sia decisamente iperbolica. E pu darsi che ci siano modi socialmente pi efficaci o psicologicamente pi motivanti, rispetto alla (ri)fondazione del realismo filosofico, di fronteggiare la drammatica congiuntura eticopolitica in cui ci dibattiamo. Pu darsi infine che la riconduzione integrale dei valori allorizzonte di opzioni esistenziali individuali, anzich collettive, non sia larma pi indicata per contrastare gli stili di vita di un dilagante nichilismo di massa. Ma la domanda che resta, aldil di tutto, pare questa: come accade che tre posizioni limpidamente divergenti convergano poi in modo altrettanto limpido? Pu darsi, allora, che ci siano ottime ragioni per (ri)affermare che il piano su cui principalmente si decidono le nostre esistenze legato piuttosto al gioco linguistico delle interpretazioni (siano esse segnate dallilluminismo o dallheideggerismo), che non allaccertamento della validit oggettiva del mondo esterno. E tuttavia, appare manifestamente impossibile rivendicare il primato dellinterpretazione senza contemporaneamente assicurare il suo buon diritto a ci che interpretazione non , pena il decadimento della stessa preziosa distinzione tra interpretazioni e fatti da interpretare. Ancora una volta, allora, resta il fatto che se tre concezioni cos diverse della verit sono accomunate dalla medesima urgenza e dal medesimo impegno civile, gli studenti di cui sopra (e non solo loro) potrebbero disperare non poco. Che tutti gli autori in conflitto siano in errore o che tutti abbiano ragione, tutti, nondimeno, sembrano daccordo nel compiere una scelta affine e condivisa. E pu darsi che questa non sia di per s unottima notizia per la cogenza della filosofia, nei termini in cui un disaccordo di ordine filosofico sembra incidere ben poco sul piano delle scelte etiche e politiche: come dire che non sul piano dellargomentazione o del conflitto intellettuale che si decide della propria condotta. Pu darsi, allora, che il patrimonio cognitivo della filosofia vada rimesso pi pazientemente in questione (decostruendolo senza

distruggerlo); che si possa sobriamente dubitare, oggi, della sua diretta incidenza sulla realt, senza per condannarsi allinsensatezza; e che in effetti sia eccessivo imputare a un pensiero (debole o forte) e a nozioni puramente filosofiche (postmodernismo o realismo) la responsabilit o anche solo la corresponsabilit di una congiuntura come quella attuale; cos come, al contrario, di poter esse rappresentare, prese di per s e per cos dire senza un veicolo collettivo, un contropotere e una chance di resistenza. Si potrebbe insomma prestare maggiore attenzione alla distinzione tra il piano in cui, argomentando e polemizzando, riteniamo di descrivere la realt, e quello in cui scivoliamo tutte le volte che sostanzializziamo una posizione culturale e facciamo di essa il motore degli eventi o il soggetto che influisce sulle circostanze. Nel frattempo potremmo continuare a cercare, collettivamente, di riportare il pensiero al quotidiano (ce n di pi, di pensiero, nel piccolo gesto della raccolta differenziata che in molti libri di filosofia, il che non significa che di essi si possa fare a meno). ben vero che se non ci fosse stato Platone, penseremmo altrimenti (e secondo alcuni non penseremmo affatto). Ed ben vero che pi di un secolo alle nostre spalle si sarebbe svolto diversamente, senza il pensiero di un singolo di nome Karl Marx. Ma oggi, in un tempo in cui intellettuali e docenti universitari (specialmente di ambito umanistico) sanno bene di contribuire sempre meno alla costruzione del discorso pubblico e di catturare tuttal pi lattenzione (oltre che dei loro studenti e dei loro sostenitori) di qualche lettore di quotidiani o acquirente librario, un pensiero che si limiti a voler (ri)fondare valori, anzich scaturire da essi, non ha pi, probabilmente, le stesse chance del passato. Non pi di un pensiero che sia soltanto il pensiero di un singolo, anzich di una collettivit cio di una forma di vita che lo precede e lo sostiene, il cui problema, forse, meno quello dellemancipazione da un orizzonte non scientifico (ad esempio religioso), che quello, appunto, dei cosiddetti valori, la cui evidenza intuitiva (il che non significa percettiva) non solo precede lesercizio del pensiero, ma lo mette in movimento. Rispetto allattuale classe dirigente, del resto, sarebbero in molti, anche e soprattutto tra gli illuministi, a trovare di gran lunga preferibile affidare le proprie sorti a un Ges di Nazareth o a un Mohandas Gandhi; ovvero, pi prosaicamente, acquistare unauto usata da personalit non avulse da visioni

religiose come Rosy Bindi e Nichi Vendola, piuttosto che da talune attrici (magari agnostiche) e da taluni imprenditori (magari atei) che nobilitano gli scranni del Parlamento italiano. A Martin Heidegger, nonostante tutto, si pu concedere qualche ragione quando, chiedendosi che cosa dobbiamo aspettarci e in che luogo dobbiamo aspettare visto che a molti di noi, di tanto in tanto, sembra di non sapere pi molto bene chi siamo e dove siamo , rispondeva che nessuno di noi lo sa pi, non appena smettiamo di ingannare noi stessi. Sebbene i media tradizionali (in cui appaiono e su cui scrivono quasi sempre le stesse voci, preferibilmente non giovanissime) non siano stati certamente meri induttori di irrealt e idiotismo, le speranze di emancipazione legate al loro utilizzo sono senzaltro fallite. Resta per la speranza (e ce n qualche segnale) che un uso non mediatico dei cosiddetti nuovi media ossia di uninterazione partecipativa e di una mobilitazione tecnicamente assistita attorno a valori comuni possa contribuire, anzich allinebetimento e al controllo delle menti che hanno sfregiato i decenni alle nostre spalle, a qualcosa come unautentica vita comune nel duplice senso di quotidiana e condivisa , meno sprovvista, magari, di una qualche forma o di un qualche libero spazio di pensiero. (28 agosto 2011)

La filosofia non abita pi qui


di Mauro Barberis Trasecolo, allibisco e non mi capacito che la discussione fra Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris, iniziata per propagandare un convegno organizzato dal secondo, sia diventata poco meno che il tormentone dellestate. Le ragioni dellexploit credo siano tre. La prima ragione che la discussione sembra occuparsi di qualcosa come lopposizione fra ermeneutica e new realism; a tutti gli spettatori, dunque, e pure a qualcuno dei partecipanti, sembra che cos ci si occupi di filosofia, o addirittura che si faccia filosofia: sicch qualsiasi studente di liceo, che non abbia mai conosciuto in vita sua, se gli andata bene, altro che la storia della filosofia, riesce a orientarsi perfettamente nel dibattito, a prendere partito per luna o per laltra posizione e magari, nei casi migliori, a rendersi conto che entrambe, per come sono articolate in questa discussione di mezza estate, finiscono per risultare troppo generiche per poter anche solo cominciare a discuterle. La seconda ragione che la discussione sembra richiedere di schierarsi: Coppi o Bartali, Madonna o Lady Gaga, ermeneutica o new realism, il menu sempre questo. Solo gli addetti ai lavori come Franca DAgostini, con cui concordo su tutto, e Pierfranco Pellizzetti, con cui concordo su questo si accorgono che la discussione, cui si vorrebbe dare aura di internazionalit e di aggiornamento ricorrendo ai soliti trucchi, ha respiro poco pi che torinese, arriva s e no al Piemonte orientale e allomonima (rispettabilissima) universit. Voglio dire: solo nellambiente ermeneutico o post-ermeneutico dellex scuola di Vattimo la proclamazione di Ferraris che la realt dopotutto esiste pu ancora suonare come unintollerabile provocazione; in qualsiasi altro ambiente, temo, si tende a discutere di cose serie. La terza ragione, lunica per cui valga la pena infilarsi nel frullatore della discussione, la sensazione che la questione sia maledettamente importante non solo filosoficamente, qualsiasi cosa ci significhi, ma persino politicamente: che ne dipendano, cio, cose come il nostro atteggiamento nei confronti della realt, sempre ammesso che esista, il nostro impegno politico, e soprattutto

perch stringi stringi, alla faccia delluniversalit, sempre l si va a parare la nostra resistenza al berlusconismo. Ebbene, posso permettermi di dire dopotutto, intervengo solo per questo che la discussione fra ermeneutica e new realism, o fra postmoderno e ultramoderno, non ha niente a che fare, ma proprio niente, con tutto questo? Che non cambia assolutamente nulla, per i nostri annosi problemi politici, se vincono il vattimismo o il postvattimismo? A questo punto, per, mi rendo conto che non posso cavarmela cos: non posso togliermi dimpaccio riducendo questo ampio ed elevato dibattito alla stregua di frescacce agostane, insultando implicitamente decine di stimati colleghi. Resto in debito con loro, e anche con i visitors del sito, di chiarire almeno cosa diamine intendo, per fare filosofia, in cosa farla differisce radicalmente da questa discussione, e persino cosa questa attivit filosofica possa avere da spartire, ammesso che ce labbia, con limpegno pratico e politico. In due parole, credo che fare filosofia non equivalga a occuparsi dei massimi sistemi o dei problemi eterni, e meno che mai a fare storia della filosofia, neppure con la scusa di apprendere il proprio tempo con il pensiero. Piuttosto, consiste nel chiarificare i problemi che si pongono ai cultori delle diverse scienze, arti, tecniche e discipline: dai biologi ai giuristi, dagli psicologi ai massmediologi. Se ci si abitua a fare questo a confrontarsi umilmente con problemi semi-tecnici allora, posti improvvisamente di fronte ai Problemi del Paese, credo si tender a reagire come quella mia amica analitica argentina la prima volta che ascolt il Cavaliere in televisione: appunto trasecolando, allibendo, e non capacitandosi. (30 agosto 2011)

La visione che ci restituisce il mondo


di Paolo Legrenzi, da Repubblica, 26 agosto 2011 Nella psicologia circolata per molto tempo lidea che quel che conta sono le interpretazioni, e non i fatti. Anzi, sono le interpretazioni stesse a creare i fatti. In una variante di psichiatria sociale, il matto era, semplificando (ma non tanto), il risultato di chi lo classificava come tale. Cambiata la societ, eliminata letichetta, trattati i matti da persone normali, il problema si sarebbe ridotto, se non dissolto. In forme meno grossolane, questa stessa idea permeava altre scienze umane. Oggi il vento cambiato. Due grandi tradizioni di ricerca, levoluzionismo e lo studio del cervello, anche grazie a nuove tecniche di osservazione, stanno occupando la scena. Luomo un pezzo della natura biologica, e non poi cos speciale. Lidea che sia lui a costruire il mondo, con le sue categorie di osservazione e dinterpretazione, al tramonto. Si celebra cos la fine del presunto primato dellinterpretazione sui fatti. Non ci si era mai spinti ad affermare che leggi scientifiche come, poniamo, la legge dei gas , fossero interpretazioni del comportamento dei gas. E tuttavia per le scelte individuali e le societ era cos. Circola poi, ancor oggi, una variante politica, nel senso che chi detiene il potere politico e i media pu "costruire" la realt. Era questo cui alludeva Donald Rumsfeld, il segretario alla difesa del secondo Bush, quando affermava, dopo la caduta del comunismo: Ora il mondo lo facciamo noi. Questa versione "forte" del credo "interpretativo" fallita miseramente. I fatti si vendicano nella politica estera americana. I fatti presentano il conto. Il potere politico pu, anche per molto tempo, far s che lopinione pubblica riconosca un fenomeno "da un certo punto di vista", ma non pu fare di pi. Quando sinsegna psicologia, al primo anno di studi, si deve contrastare lo spontaneo "realismo ingenuo" degli studenti. Esso consiste nel pensare che noi vediamo il mondo cos com, semplicemente perch fatto cos. In realt il nostro sistema percettivo un intreccio di meccanismi inconsapevoli che ci "restituisce" il mondo in seguito a una complessa elaborazione di ipotesi su quello che c l fuori. E anche il pensiero umano funziona cos. Questo per non implica sposare la tesi che la mente crea il

mondo. Al contrario, la mente delluomo e degli altri animali fa ipotesi su come funziona il mondo e le aggiorna continuamente perch lazione umana cambia il mondo. Questa la tensione che sbrigativamente si etichetta con il binomio natura/cultura. Agli psicologi cognitivi piace che in filosofia stia emergendo una posizione chiamata "nuovo realismo". Non possono concordare n con il realismo ingenuo, n con la rozza idea che siamo noi a creare i fatti con le nostre interpretazioni. Per quanto concerne la versione politica, questa tesi si sconfitta da sola. (26 agosto 2011)

Le insidie nascoste nel New Realism


di Guido Traversa, il manifesto, 22 settembre 2011 Nel 2009 esce per Meltemi lultimo libro di Gianni Vattimo, Addio alla verit. Nelnumero dello scorso luglio Micromega pubblica unintervista a Vattimo nella quale il filosofo italiano rinnova il suo addio; Maurizio Ferraris difende la verit e il realismo, temendo che il testo del suo una volta maestro possa cadere nelle mani di Niccol Ghedini e rendere possibile una epistemologia ad personam; e Flores dArcais ci richiama politicamente a non rinunciare alle modeste verit di fatto (v minuscola) per smascherare chi si appella abusivamente alla Verit. L8 Agosto 2011 su la Repubblica Ferraris pubblica un articolo che apre con un atto preso dalle scene di met Ottocento: uno spettro si aggira per lEuropa. lo spettro di ci che propone di chiamare New Realism e che dar tema e titolo ad un convegno che si terr a Bonn nel 2012. La stessa democrazia verr salvata dalle tre parole chiave del New Realism: Ontologia, Critica e Illuminismo. Il 19 Agosto la questione, non solo lo "spettro" evocato undici giorni prima, prosegue con la discussione (prevedibile?) tra Vattimo e Ferraris; larticolo ha scenograficamente come sfondo una enorme quercia che, un po come un albero di Natale, ha appesi tanti riquadri delle facce dei filosofi direttamente o indirettamente chiamati in causa con nome e cognome, titoli dei libri principali, tutti divisi tra amici e nemici, fondatori, antagonisti e precursori del postmoderno. E lintera tematica non si sviluppa solo sul piano teoretico ma anche e in molti punti su quello della maggiore o minore compatibilit dellermeneutica, che abbandonerebbe verit e fatti, con il realismo new che salverebbe entrambi, con letica e la politica della democrazia. Certo chi ha preso parte in prima persona al dibattito filosofico e politico degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso (il riferimento alliniziativa editoriale I Libri di Montag apparsi tra il 1997 e il 2005 prima con Fahrenheit 451 e poi con Manifesto Libri) sa di quale ermeneutica si sta parlando; si tratta di quella strana ma coerente in s linea che parte da due scuole inizialmente incompossibili: diciamo per comodit il Circolo di Vienna, con i suoi fatti e non cose, con il suo criterio di significato come

verificazione, e lermeneutica heideggeriana ancora legata negli anni Venti allEssere. Queste due posizioni gi negli anni 50 risultano profondamente unite nel ruolo primario dato al linguaggio (il secondo Wittgenstein e Quine da una parte, Gadamer dallaltra), tanto che Rihard Rorty e Jacques Derrida potevano sostenere tesi tra loro molto simili anche se con costruzioni linguistiche diverse: i continentali e gli analitici erano con lingue diverse entrambi relativisti. Una medaglia bifronte Meno certo sapere a quale realismo si richiama il New Realism. Gi dalla fine degli anni Novanta un fenomeno di pentitismo attraversava le fila della svolta linguistica comune allolismo, al decostruzionismo, allermeneutica; quindi lesigenza di realismo non sembra poi tanto nuova. Pentitismo che si veniva maturando ed esprimendo non in un realismo in quanto tale - forse solo Umberto Eco in Kant e lornitorinco parlava dello zoccolo duro dellessere (peraltro proprio lui disse, in una delle sue pochissime apparizioni in televisione, che era necessario bacchettare le mani dei suoi allievi eccessivi che riducevano tutto alle infinite interpretazioni, bacchettatura gi iniziata con i Limiti dellinterpretazione) - ma in quel realismo di tipo riduzionista delle cognitive sciences e della philosophy of mind. Erano gli anni in cui, sempre in chiave antiermeneutica, si parlava spesso della ontologia applicata e delletica applicata; anche qui il realismo emergeva di contro al solo interpretare, ma era un realismo diverso da quello delle scienze cognitive o del mind-body problem: la realt era costituita dalle nuove realt costruite dal e nel sociale. Reale e sempre antipostmoderno era il realismo della comunicazione critica, dellagire comunicativo (Jrgen Habermas) dove lunit della ragione si esprimeva nella molteplicit delle sue voci. E forse lelenco delle forme di realismo apparse sulla scena del dibattito filosofico potrebbe continuare. Insomma, sarebbe opportuno sapere qualcosa di pi sul tipo di realismo pensato nel New Realism. Inoltre ci sarebbe da sapere se esso intende contrapporsi allermeneutica come suo semplice opposto, al ch verrebbe il dubbio che si tratti delle due facce della medesima medaglia, e soprattutto (e la cosa importante come la prima) se ben chiara ai suoi sostenitori la causa storica della genesi dellermeneutica, di quella che personalmente definisco

una illusione trascendentale da cui ci si pu liberare solo dando una risposta adeguata alle giuste esigenze che la hanno fatta sorgere. Lermeneutica nata come ben motivata critica ad una metafisica essenzialista che cancellava la molteplicit varia dellesistente in una essenza univoca, ma a questa esigenza si poteva e ancora oggi si pu rispondere con una posizione non linguisticorelativistica. Per far ci non basta appellarsi al realismo in quanto tale, ma bisogna dire anche a quale forma. Un giro di vite Realismo si dice in tanti modi e letica e la politica, cos tante volte chiamate in causa dallo scorso luglio, non possono non farsi abili nel dirne le differenze e scegliere di conseguenza la via realistica da seguire. La questione si fa interessante. Varr la pena di andare a Bonn. Nel frattempo, la discussione continua sulle pagine della cultura di la Repubblica: si tratta di un turn of screw, il titolo dellarticolo che raccoglie quattro interventi : a che punto il pensiero, debole, forte o esistenziale? Legrenzi, neuro psicologo, ci dice che il vento cambiato rispetto ai tempi della psichiatria sociale, levoluzione e lo studio del cervello riportano luomo nella realt biologica; Bojanic, allievo di Derrida, accetta il confrontarsi sulle cose senza chiedersi solo da dove parli?; Rovatti ricorda tutta la complessit filosofica e politica del pensiero debole, e ne difende la ancora forte capacit di porre la questione del potere; da ultimo Flores dArcais, proseguendo il suo dire su Micromega chiama in causa contro il debolismo Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio e Ludovico Geymonat. La comunicazione imposta Questi ulteriori interventi incominciano a dare una voce alla genesi dellermeneutica, il che potrebbe metterci nella condizione di non perderne ci che c di vivo e necessario per il nostro presente, e si vede qualche tassello in pi sulla fisionomia del realismo da proporre. La realt andrebbe sottratta tanto al realismo riduzionista, quanto allermeneutica autoreferenziale. La realt, soprattutto quella umana, etica, sociale, politica e storica ha cos tante e varie componenti che impone a chi la voglia capire larte del cogliere le somiglianze e le dissomiglianze. Questo pensiero analogico salva la verit e la realt sia dallessere dittatorialmente dissolte in ci che

qualcuno vuole che siano (il potere della comunicazione imposta), sia dallessere ridotte in uno solo dei loro reali elementi (il potere di ridurre la complessit sociale, per esempio, alla sola biologia e/o al solo cervello). (23 settembre 2011)

N deboli n positivisti
Non si pu dire addio alla verit. Ma nemmeno rinunciare allinterpretazione. Nella querelle fra New Realism e Postmoderno che ha animato lestate interviene il filosofo Salvatore Veca indicando una terza strada possibile. di Simona Maggiorelli, da Left-Avvenimenti, 22 settembre 2011 Non si pu dire addio alla verit. Non si pu abdicare allimpegno nella ricerca della verit in filosofia. Pur sapendo che questa ricerca non ha sempre un happy end. Si procede per prove e errori. Esattamente come nella scienza. Da sempre critico verso il cosiddetto Postmoderno il filosofo Salvatore Veca interviene cos, con una forte presa di posizione a favore dellirriducibilit dei fatti e del valore irrinunciabile della conoscenza nella querelle fra Pensiero debole e Nuovo realismo che, dopo aver animato per settimane i giornali, nel fine settimana andato in piazza al Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo dove Maurizio Ferraris ha tenuto il 17 settembre una lectio magistralis sul New Realism (vedi left n.35), ma anche nel Castello dei conti Guidi a Poppi (AR) dove, nellambito di una tre giorni di seminari, domenica 18 settembre Veca ha tenuto una conferenza su un tema cruciale come la giustizia. Che qualsiasi addio alla verit renderebbe impraticabile. Professor Veca, nel libro Lidea di incompletezza di recente uscito per Feltrinelli lei dedica ampio spazio al tema dellinterpretazione. Come noto i pensatori deboli eleggono a slogan la frase di Nietzsche: Non ci sono fatti ma solo interpretazioni. Qual la sua posizione? Dagli anni Settanta, Vattimo in Italia, Lyotard in Francia e Rorty negli Usa, a partire da quel motto di Nietzsche, hanno detto che non possiamo ancorare i nostri discorsi, privati e pubblici, alla ricerca scientifica. Sostenendo che il pensiero non pu mai trovare un fondamento saldo e roccioso ma solo un vortice di possibilit. Il contesto era quello del collasso delle ideologie e della crisi delle grandi narrazioni degli ultimi ventanni del Novecento in Occidente. E loro pensavano che abbandonare lidea di una oggettivit dei fatti avesse un effetto emancipatorio. Ma di fronte a un acquazzone, dire

che piove unaffermazione vera; un fatto inemendabile come direbbe il mio amico Ferraris. Nel libro che lei ricorda cerco di connettere la posizione di Nietzsche alla tesi scettica: come fai a sapere che cos? Come fai a dimostrare la veridicit delle tue asserzioni? La mia idea di prendere sul serio le ragioni degli ermeneutici, degli interpretazionisti, ma con una obiezione. Daccordo dire che qualsiasi fatto pu essere interpretato. Ma non tutti i fatti congiuntamente possono essere sottoposti a interpretazione. Qualcosa deve star fermo perch altro si possa muovere. Qualcosa deve essere tenuto fuori dal dubbio perch si possa dubitare di qualcosa. Qualunque credenza pu essere messa in discussione, una vecchia idea illuministica. Per non posso criticare tutto allo stesso tempo. Dunque, diversamente dai debolisti io penso che una verit sia tale fino a prova contraria, Questo non elide lo spazio dinterpretazione. Un esempio: pensiamo al 14 luglio del 1789, che chiamiamo presa della Bastiglia. In realt solo il 2 agosto si arriv a allinterpretazione chiara che si era trattato di un gesto per la libert contro il dispotismo. Ogni volta che noi ci rivolgiamo alla reinterpretazione del passato non facciamo altro che rendere insaturi i fatti, riapriamo il gioco delle interpretazioni. Estremizzando il pensiero di Nietzsche si arriva al nichilismo. Daltro canto il New Realism rischia il neopositivismo, Lessere umano non fatto solo di razionalit. Cosa ne pensa? Senza dubbio. Sono pi che daccordo. Tanto che negli anni ho cercato di riflettere su una terza strada diversa dalle due menzionate. Faccio un esempio concreto. Non possiamo trascurare che mentre per noi possibile studiare e classificare le proteine, quando cerchiamo di capire qualcosa di pi delle rivolte arabe, abbiamo a che fare con strani tipi di oggetti che tendono a autodefinirsi. Lo stesso vale per i riots a Londra. In questo caso cosa vuol dire interpretare? Possiamo attribuire volont collettive? In Medioriente prevalgono i jihaidisti? O i giovani twitters?. Non nego i fatti, ma resta aperto lonere intellettuale dellinterpretazione. E se si irrigidisce, se si ipostatizza la si pu sempre fluidificare. Ecco il punto.

In una conferenza al Festival della mente ha parlato di immaginazione filosofica. Un concetto quasi ossimorico vista la nascita del Logos come pensiero razionale Limmaginazione, per me, un cardine. Non so neanche pensare che si possa fare ricerca filosofica senza che il primo passo non coincida con la capacit di vedere le cose, di immaginare un mondo, una questione, un problema. Il nostro lavoro fatto da una continua tensione fra la ricerca di nessi, connessioni, fra idee e quella che io chiamo coltivazione di memorie: cio lasciare che riemerga leco della tradizione, cos pasticciata e meticcia e veramente creola quale quella alle nostre spalle. Poi certo esistono metodi con cui si cerca di acchiappare ci che si intravisto. Mi sembra di vedere in una certa area qualcosa che mi attrae e cerco di andarci. Naturalmente per andarci servono dei metodi che siano giustificabili e non dipendenti dalle mie idiosincrasie. Per dirlo in una battuta, la visione filosofica cieca se non c lanalisi, ma lanalisi vuota se non viene messa in moto dallimmaginazione filosofica. Un altro filone della sua ricerca riguarda leros, criticando la trattazione platonica, ma anche quella cristiana. Ho ripreso questo tema di ricerca per il festival di Sarzana, ma il lavoro pi completo che gli ho dedicato in un libro di qualche anno fa, Lofferta filosofica. Mi interessava provare a mettere alla prova il motore della ricerca, provare a vedere sotto il profilo filosofico la passione, come accade che ci innamoriamo di qualcuno. Intanto continuo un corpo a corpo va con il Discorso sul metodo di Cartesio, con quel suo tentativo di dire: metto sotto pressione tutte le credenze e arriver a una credenza che non posso mettere in questione. Cartesio lo risolve con il problema di Dio. Ma io dico che anche quella credenza l questionabile. Infine anche nellintervento che ho preparato per Poppi continuo su un filone a cui mi dedico da trentanni: il problema della giustizia sociale. Ce la facciamo a estendere concetti di giustizia a tutta lumanit presente sul globo? Qui uso il pensiero politico di Rawls come punto di partenza. Lei ha affrontato il tema della giustizia ora anche in forma di epos moderno, molto intensa in Sarabanda?

Nasce, in realt, come reading per il teatro sociale fondato da Teresa Pomodoro a Milano Sui miei libri filosofici posso rispondere lucidamente, ma riguardo a questo esordio mi sento un po come ragazzino. L c il precipitato dei miei ricordi, di ci che ho provato di fronte allingiustizia. Una cosa per la posso dire: sono molto legato al fatto che il primo atto cominci con voce di donna. (29 settembre 2011)

Neo-realismo e pensiero debole: il punto di vista di un economista


di Nicola Acocella Il dibattito giornalistico nelle settimane di fine estate si occupato e verosimilmente nei prossimi mesi continuer ad occuparsi - delle ragioni che tendono a far prevalere il ritorno ad una presa datto dellesistenza di una realt oggettiva, troppo a lungo negata dai sostenitori del pensiero debole, teorizzatori di un relativismo secondo il quale non esisterebbe alcunch di oggettivo, al di l di ci che appare alla nostra mente. Sia consentito di chiarire il punto di vista di uno studioso della societ, in particolare della realt economica. Quando si parla di punti di vista, una premessa necessaria per chi indaghi nel campo delle scienze sociali chiarire se questi sono riferiti ai soggetti sociali, ossia agli agenti economici e sociali i cui comportamenti sono oggetto dellindagine, o allanalista sociale stesso. Infatti, di relativismo si pu parlare in entrambi i casi. Occupiamoci anzitutto del relativismo con riferimento agli operatori sociali. I possibili modi con i quali i componenti di una societ entrano in contatto fra loro sono molteplici, tendenzialmente infiniti. Essi vanno sotto il nome di istituzioni e sono il prodotto sia della storia sia dellazione corrente degli individui. Oltre alle istituzioni, e quindi al retaggio del passato, una ulteriore ragione che tende a implicare una pluralit di risultati deriva dalle aspettative degli individui rispetto al futuro: ci riferiamo, ad esempio, alle aspettative dei consumatori e delle imprese, quelle che Keynes chiamava le tendenze dellanimo (animal spirits), mutevoli in modo imprevedibile, e alla possibilit che esse tendano, pi che a prevedere evoluzioni pi o meno oggettive, ad anticipare le previsioni altrui sullandamento futuro dei mercati (i concorsi di bellezza nel senso di Keynes, sempre pi rilevanti in particolare per lanalisi della speculazione sui mercati finanziari). I risultati scaturenti dallinterazione del passato, come rappresentato dalle istituzioni, e delle aspettative riguardanti il futuro sono potenzialmente infiniti. Sono dunque concepibili infinite realt sociali. Ed soltanto lastrazione dellanalista e qui comincia ad

intervenire il secondo dei relativismi, ossia dei punti di vista che porta a privilegiarne alcune, ritenute pi rappresentative o tipiche o anche, semplicemente, pi facili da analizzare. La tendenza alla semplificazione dellanalista pu anche implicare che si assuma, o perfino che si tenda a dimostrare, lunicit delle motivazioni umane, delle modalit di interazione sociale e degli equilibri economici. La premessa metodologica comunemente adottata dagli economisti quella del riferimento ad un soggetto sociale preoccupato dei soli risvolti economici della sua attivit (lhomo oeconomics). Essa particolarmente forte nella scuola economica dominante, ma in sostanza gi contenuta nella scelta di Adam Smith di ritagliare nellambito dellanalisi dei comportamenti umani un campo specifico di indagine per la natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Questa premessa, pur fruttuosa per gli approfondimenti analitici che ne sono derivati, ha portato ad una sorta di ingabbiamento della realt sociale, limitativa della complessit dei legami sociali. Nonostante ci, differenti ipotesi (in particolare quelle relative ai regimi di mercato) e differenti metodologie analitiche (utilizzabili anche da chi accetti la scelta smithiana di limitarsi a considerare i comportamenti umani nellambito economico) possono implicare diversit delle possibili conseguenze delle interazioni sociali. Pi in particolare, se ci riferiamo al punto di vista di chi analizzi la societ, credo da lungo tempo che sia difficile sfuggire alle penetranti osservazioni di Gunnar Myrdal, premio Nobel per leconomia e scienziato sociale morto nel 1987, secondo il quale i giudizi di valore sono inscindibili dalla realt. Per chiarire questa posizione si pu aggiungere che sul piano normativo pu apparire auspicabile che lo scienziato sociale si astenga dallinquinare la sua analisi con frammenti pi o meno ampi del suo personale sistema di valori, la sua Weltanschaung. Tuttavia, si deve ammettere che un simile proposito pu essere vanificato in almeno tre fasi dellanalisi. Nella fase iniziale il ricercatore accetta certamente i canoni della procedura scientifica, ma, scegliendo loggetto della sua indagine, privilegia luno piuttosto che laltro dei problemi sociali e, pertanto, sceglie una specifica prospettiva dalla quale si propone di guardare alla societ (giudizi di valore pre-scientifici). Privilegiando un certo campo, egli cos portato ad enfatizzarne limportanza.

Una seconda categoria di giudizi di valore si insinua nella fase analitica vera e propria, manifestandosi nelluso di una terminologia persuasiva e di concetti carichi di valore, nellinfluenza di posizioni ed elementi ideologici preconcetti. La verifica empirica, alla quale si appellerebbero i sostenitori della oggettivit, pu soltanto con fatica rimuovere i casi pi eclatanti del ricorso ai giudizi di valore che si infiltrano nella fase centrale della ricerca scientifica, per i limiti nella disponibilit di dati, nelle metodologie statistiche ed econometriche, nei riferimenti spaziali e temporali di ogni indagine e, infine, a ragione della stessa molteplicit dei risultati delle interazioni sociali di cui si detto in precedenza. Una terza categoria di punti di vista personali viene introdotta nellanalisi quando si passi a discutere di problemi di politica economica e sociale: in questa fase riemergono in modo anche inesplicito i giudizi pre-scientifici. E questi sono tanto pi rilevanti e numerosi quanto pi brusco sia il passaggio dalle conclusioni analitiche dellindagine, necessariamente astratte, alle prescrizioni pratiche, in assenza o con scarsit delle necessarie mediazioni storiche ed istituzionali. Se a ci si aggiunge la considerazione che sono proprio i preconcetti individuali che spesso inducono lo scienziato sociale ad indagare e lo accompagnano nel corso dellanalisi, se ne deduce che la stessa auspicabilit e non soltanto la possibilit che egli non inquini lanalisi con i suoi giudizi di valore pu perdere qualche fondamento. Questo non implica che non possa esistere una realt economica e sociale oggettiva in un dato momento e in determinate condizioni, o che non esistano vincoli allazione umana, che tutto sia possibile o auspicabile, ma semplicemente che i meccanismi dellagire sociale e le conseguenze che ne derivano sono molteplici e non facili da dipanare. comunque certamente un invito alla modestia del ricercatore, alla consapevolezza dei limiti della conoscenza e ai suggerimenti di azione pratica nel campo delle scienze sociali. (11 ottobre 2011)

Per farla finita con il postmoderno


Questo testo non ha potuto essere pubblicato da Repubblica per la sua lunghezza (ne stato pubblicato uno pi breve che riportiamo come appendice). Con esso vorremmo aprire sul sito una discussione filosofica su un tema che del resto ha costituito il cuore dellAlmanacco di filosofia ancora in edicola fino a luned (poi lo si trover solo nelle librerie: in edicola marted esce lAlmanacco del cinema). Diamo anche la conversazione Vattimo/Ferraris che qui Flores dArcais critica. di Paolo Flores dArcais La querelle di venerd 19 agosto su la Repubblica tra lermeneutica nichilista di Gianni Vattimo (non ci sono fatti, solo interpretazioni) e il suo pi brillante allievo, Maurizio Ferraris, marrano del post moderno convertito ormai al New Realism, potrebbe rivelarsi un gioco di specchi, dove ciascuno dei contendenti ha ragione nel criticare laltro ma entrambi hanno torto proprio nel nucleo filosofico che continuano a condividere. Situazione del resto frequente nei conflitti intellettuali. Ma andiamo con ordine. Vattimo ammette che sul piovere o non piovere, e anche sul funzionamento del motore dellaereo su cui viaggio potrebbe perfino convenire con Bush, accettare cio che i fatti sono sovrani e perci cogenti per entrambi, ma sulla direzione in cui battersi per cambiare il mondo i fatti non forniranno mai una guida oggettiva, vera: sar sempre questione di lotta e di potere. Ineccepibile (un esistenzialista-scientista come me sottoscriverebbe senza problemi), ma ragioniamo i due assunti fino in fondo. Se levidenza empirica in grado di dirci che qui e ora sta piovendo (oppure no), e se il funzionamento di un aereo materia neutrale e non opinabile, lintera scienza della natura galileiana, lintera impresa scientifica moderna ad essere sottratta al nichilismo interpretativo e ad essere riconosciuta universalmente come intersoggettivamente cogente (se la parola vera disturba, bench funzionalmente equivalente). Infatti, nessuna autorit impone a Vattimo (e a tutti noi) di credere alle infinite leggi della natura imbozzolate nel funzionamento del motore con cui stiamo

realizzando il sogno di Icaro, ma le procedure con cui ciascuna di esse stata messa alla prova (tentando di smentirla in esperimenti ripetibili e ripetuti, da parte di ricercatori di ogni latitudine e di ogni fede o miscredenza) e la corrispondenza tra i fatti che esse ipotizzano (la capacit di levarsi in volo per un ciclope di miriadi di tonnellate) e quanto quotidianamente qualsiasi membro di homo sapiens pu constatare, costituiscono lunica fonte del nostro riconoscimento, lunica maest di una oggettivit assolutamente critica e strutturalmente esposta al dubbio. La auctoritas del chi lo dice? qui non ha alcuno spazio. Non si capisce perci perch Vattimo, contraddicendosi con le sue stesse ammissioni (neutralit ideologica e cogenza di verit per piove e motore), rifiuti alle scienze della natura il loro status di oggettivit e ne faccia una questione di fiducia personale, interessi, lotta di classe. Curiosamente, il sospetto verso le scienze della natura condiviso da Ferraris, malgrado labiura del post-moderno e la via di Damasco del New Realism (su Repubblica non lo sottolinea, ma lo ha fatto nei suoi pi importanti lavori, anche recenti). Questa idiosincrasia per loggettivit della scienza (della natura) non cosa nuova, domina purtroppo il pensiero progressista gi dal sessantotto (a mio parere una delle concause del fallimento di quel grande moto libertario) e anzi prima. Temo abbia molto a che fare con una sinistra impotente a rovesciare o squilibrare gli assetti di potere e che si consola (tramite i suoi intellettuali pi eretici) lanciando strali contro linerme violenza dellilluminismo anzich contro lagguerrita oppressione di classe degli establishment. Comunque sia, evidente che Vattimo vuole mettere in discussione ogni verit di fatto per timore di riconoscere status scientifico anche alle cosiddette scienze dello spirito, o scienze umane. Che scienze per non sono affatto, sature come sono, esse s, di interpretazione, di ideologia, di valori, dunque di preferenze soggettive e di interessi conflittuali, anche se utilizzano (dovrebbero, almeno) in alcuni settori delle relative discipline strumenti e criteri di accertamento scientifico. Prendiamo il sapere storico: qui laccertamento dei fatti segue (almeno dovrebbe) il rigore che caratterizza ad esempio una scienza come la biologia evoluzionista nella datazione, descrizione e classificazione dei suoi reperti. Che un giorno di novembre dellanno 1956 i carri armati sovietici abbiano invaso lUngheria per

schiacciare il governo Nagy che si appoggiava sui consigli operai, una realt accertabile e anzi accertata, dunque oggettiva (perfino che Ges non si proclam mai messia un fatto accertabile e accertato). Che la rivoluzione ungherese nella sua ultima fase finisse per fare suo malgrado il gioco dellimperialismo linterpretazione (a mio parere aberrante) con cui Jean-Paul Sartre fin per giustificare il secondo intervento sovietico. Ma uninterpretazione, anche aberrante, non sar mai liquidabile nei termini di vero/falso. Si pu sostenere Stalin contro Trockij (e ambedue contro gli insorti di Kronstandt), perch purtroppo i gusti morali di homo sapiens hanno santificato di tutto (se ne lamentava il cristianissimo Pascal, riconoscendo come la morale naturale fosse una fola), mentre verit incontrovertibile che in una foto famosa della rivoluzione dottobre, appoggiato al palco da cui Lenin sta parlando, c Lev Trockij, numero due dei bolscevichi, anche se nei decenni staliniani la sua figura in quella foto verr miracolosamente riassorbita nelle assi di legno dello sfondo (con un procedimento chimico in s neutrale: solo il suo uso sar stalinista). In questo senso aveva perfettamente ragione Hannah Arendt a ricordare che le modeste verit di fatto sono i nemici pi intrattabili di ogni dispotismo, e a vedere nellequiparazione tra verit di fatto e opinione il prodromo della vocazione totalitaria. Quello che vale per la storia vale in modo esponenziale per leconomia, dove lideologia la fa da padrona. Se davvero i comportamenti economici fossero prevedibili, gli economisti sarebbero tutti dei Creso poich in borsa non sbaglierebbero un colpo. Ma soprattutto: qualsiasi ricetta per affrontare una crisi (e la nozione stessa di crisi) dipende dalle variabili che vengono privilegiate come valori: che sia il Pil, o il tasso di disoccupazione, o le tutele sindacali, o la forbice massima dei redditi, o la redistribuzione tramite tassazione e pensioni, o lorario di lavoro (dodici o quattordici ore anche per i minori, cos decollato il capitalismo in Inghilterra, cos di nuovo in aree crescenti di Gaia, compreso il suo civilissimo Occidente), o leguaglianza di fronte a casa, salute, istruzione (il welfare, insomma), tutto ci non riguarda lincontrovertibile mondo dei fatti, ma la libera scelta dei valori che si vogliono affermare, quasi sempre a danno (almeno parziale) di altri valori. E degli interessi che spesso vi si accompagnano.

E paradossale, per, che Vattimo, per tenere aperta la prospettiva dellemancipazione e delleguaglianza (pi che legittima, a mio modo di vedere anzi sacrosanta e cui aderisco toto corde), anzich scegliere la via maestra e diretta della separazione quasi manichea tra fatti e valori, dunque tra scienze della natura e ideologie dello spirito (le componenti scientifiche delle discipline socio-storiche rientrano nel primo ambito), o per dirla col venerabile Hume tra essere e dover-essere, compia un doppio salto mortale: dapprima unifica verit di fatto (in effetti accertabili) e verit di valore (introvabili in natura e sempre soggettive) nellunico spauracchio della scienza, della ragione, attribuendo cos alleredit dei lumi le pretese dispotiche di Wall Street (o dei gerarchi cinesi che le sostituiranno): elevate a verit oggettiva come lequazione di Einstein o la scoperta di Darwin. Di fronte allinsopportabile cogenza di verit che i poteri degli establishment ricevono cos in dono per i loro soggettivissimi (e iniqui) interessi, Vattimo allora costretto ad attribuire larroganza del potere a tutti i saperi, non solo ai Bush e Murdoch (Berlusconi e Marchionne) ma ai figli legittimi di Galileo che continuano ad accertare la verit del comportamento della natura. In tal modo per, Vattimo resta disarmato di fronte ad ogni menzogna del potere, che non potr pi essere tacciata neppure di manipolazione, visto che non ci sono fatti ma solo interpretazioni. Il valore verit viene regalato allarroganza del potere, con buona pace di Gramsci che aveva intuito come essa fosse invecestrutturalmente rivoluzionaria. Bastava attenersi alla classica distinzione di Hume, riconoscere alle scienze della natura lindagine sullessere e allesistenza individuale e collettiva la sovranit sul dover-essere. Ma con un esistenzialismo cos sobrio, naturalistascientista, sarebbero state liquidati tutti i barocchismi ipermetafisici intorno allinvio dellessere e i culti esoterici sulla differenza ontologica tra essere ed ente. Perci resta assai problematico che un New Realism possa davvero affrontare le antinomie filosofiche (e politiche) di un nichilismo ermeneutico che si rivela ahim realizzato da Berlusconi e dalla dismisura del trend internazionale di menzogna di ogni potere (lesatto opposto, non a caso, della democrazia come trasparenza), senza andare a fondo nella critica alle giustificazioni che di quellondata filosofica (effettivamente egemone per

lunghissimi anni, e non solo sul continente) ancor oggi Ferraris ripropone. E storicamente falso, infatti, che agli inizi degli anni sessanta in Italia fosse ancora dominante in ambito filosofico la tradizione idealista. Nellimmediato dopoguerra Abbagnano, Bobbio e Geymonat, tre maestri molto lontani sotto importanti aspetti, e che coprivano il versante positivista come quello esistenzialista, avevano lanciato insieme (e con crescente successo) lappello antiidealista per un nuovo illuminismo. Aggiungiamo che il marxismo eretico di Della Volpe e della sua scuola aveva valorizzato la critica antihegeliana del giovane Marx. Insomma, esattamente mezzo secolo fa circolavano nella filosofia italiana tutti gli elementi per dar luogo a quel New Realism capace di andare oltre la povert etico-politica del positivismo logico egemone nel mondo anglosassone che ha ora conquistato Ferraris. Se si perso mezzo secolo solo perch, anzich lavorare sulle tradizioni che ho richiamato, per superarne limiti e contraddizioni, in Italia negli anni sessanta ha preso piede uninaspettata rivincita di spiritualismo, cattolico e non, che ha declinato Heidegger in tutti i modi possibili, ma sempre contro quelle promettenti istanze neoilluministe. Pareyson e Severino hanno cresciuto le punte di diamante di questa screziata vague heideggeriana, Vattimo e Cacciari, che ha vinto e dilagato nella sinistra, esattamente come in Francia altri irrazionalismi trionfavano con Foucault e Derrida (quando erano a disposizione, per il New Realism ora tardivamente invocato, i mattoni filosofici predisposti da due grandi pensatori con Camus e Monod, trascurati invece come dilettanti, oltretutto politicamente sostenitori, ad anni di distanza, dellunico vero riformatore di sinistra che lEuropa del dopoguerra abbia avuto, Pierre Mendes-France). Naturalmente, meglio tardi che mai. Purch il New Realism non rimuova una volta di pi le due pietre dinciampo che troppa filosofia emancipatoria ha paura di affrontare: il radicale addio ad ogni metafisica o post-metafisica (in realt lheideggerismo costituisce una iper-metafisica), riconoscendo che essere pu valere esclusivamente come stenogramma per la totalit degli enti, per il resto solo una cattiva ipostasi, la personificazione (animismo!) del predicato generico (e dunque insignificante) dei reali oggetti discreti. E che si tratta di tener ferma senza titubanza alcuna la barra della separazione gnoseologica tra fatti e valori,

oggetto di accertamento intersoggetivamente cogente i primi, di libera decisione (dunque di lotta) i secondi. ***

La terza via di Camus

di Paolo Flores dArcais, da Repubblica, 26 agosto 2011 Se lesoterismo iper-metafisico di Heidegger e la traduzione pi casareccia fornita da Gadamer degli inconcludenti e compiaciuti labirinti iniziatici del "mago di Messkirch" avesse nutrito la cultura di destra, non vi sarebbe stato alcun problema. Ma quel forsennato vaticinare ha invece colonizzato la cultura democratica in Italia fin dallinizio degli anni Sessanta, sia in versione neo-teologica, sia ermeneutica (fratelli coltelli, ma entrambi heideggeriani antiilluministi perinde ac cadaver), ristabilendo una egemonia spiritualistico-idealistica sulla filosofia che invece era stata finalmente mandata in frantumi dalla consapevolmente variegata "vague" neo-illuminista cui avevano dato impulso Abbagnano, Bobbio e Geymonat. Se si aggiunge il marxismo eretico di Della Volpe e della sua scuola, cerano gi allora tutti gli elementi per costruire quella filosofia di "New Realism" che Maurizio Ferraris, ora caldeggia contro il suo maestro e gli esiti prevedibilissimi dellermeneutica nichilista e del post-moderno. Mezzo secolo buttato. Comunque, meglio tardi che mai. Il fenomeno come noto stato europeo, e ha riempito anche gli scaffali di oltreatlantico. In Francia avevano a disposizione i lavori di Camus e Monod, sontuosi di grande pensiero sobrio, per dar vita a quella sintesi di esistenzialismo e naturalismo empirico che costituisce la speranza di una "filosofia dellavvenire", ma la moda irrazionalistica ha imposto genealogie e microfisiche di Foucault e torrenziali elucubrazioni autoreferenziali di Derrida, mentre negli Usa Rorty, in nome di Dewey, faceva piazza pulita del razionalismo di quel grande pensatore riformatore. Il tutto giustificato dalla necessit di liberarsi dalla oppressione di un "essere" inteso staticamente, troppo "autoritario", si detto. Eppure, bastava farne proprio a meno, dellEssere, comunque declinato e sbarrato, questa personificazione del predicato pi generico e dunque pi vuoto, questa Ipostasi che costituisce il tributo della filosofia allanimismo. E invece, tutti a "indebolire" lessere per meglio salvaguardarlo rispetto a neo-illuminismi e "scientismi". Per evitare il punto

cruciale dello scoglio su cui la tradizione di Hume e del giovane Marx antihegeliano e di Freud (e della riflessione filosofica su Darwin) aveva gi portato a far naufragare ogni spiritualismo e antimaterialismo: riconoscere alle scienze della natura lindagine sullessere e allesistenza individuale e collettiva la sovranit sul dover-essere. Ma con un esistenzialismo cos sobrio, naturalistascientista, sarebbero stati liquidati i barocchismi sull"invio dellessere", questi s ad alto potenziale autoritario (totalitario, anzi), visto che qualsiasi aspirante Fhrer potr arrogarsi il ruolo di "Unto" dellessere. paradossale, perci, che Vattimo, per tenere aperta la prospettiva dellemancipazione e delleguaglianza (pi che legittima), anzich scegliere la via maestra e diretta della separazione quasi manichea tra fatti e valori, dunque tra scienze della natura e ideologie dello spirito (solo le componenti scientifiche delle discipline socio-storiche rientrano nel primo ambito), continui ad insistere sulla linea "non ci sono fatti, solo interpretazioni". Perch ogni menzogna viene cos santificata. (26 agosto 2011)

Perch il pensiero debole sempre pi debole


Intervista di Mario Baudino a Alain Stampa, 11 settembre 2011 Finkielkraut, La

Il punto darrivo di un Cuore intelligente (Adelphi), ultimo libro di Alain Finkielkraut che la letteratura va vista come qualcosa che custodisce la pluralit umana, contro tutte le ideologizzazioni e contro quelle che Lyotard chiamava le grandi narrazioni della filosofia. Oggi il termine un po logoro e abusato; non si fa altro che proclamare la fine, appunto, delle grandi narrazioni. Ma il filosofo francese non affatto sicuro che sia davvero cos. Oggi al Festival di Mantova, nella giornata conclusiva della manifestazione, legger Milan Kundera e parler proprio di quel sapere imperfetto rappresentato dalla letteratura, e di quanto ci sia necessario. Soprattutto nel momento attuale. Per certi versi, soprattutto in Europa. Ma perch proprio i romanzieri, per uno studioso che partito da Martin Heidegger? La filosofia non ha pi risposte? Non vedo in competizione letteratura e filosofia, n dico che la prima sia la via daccesso alla realt, e la seconda no. C per un momento nella storia del pensiero in cui la filosofia ha preso quella che chiamerei una direzione romanzesca, facendosi filosofia della storia. Con Hegel e Marx la storia diventata il luogo dove si consuma il dramma della ragione, lo spazio della sua realizzazione. E sono cominciate appunto le grandi narrazioni. In Marx, poi, con una piega melodrammatica: quando la storia diventata storia della lotta di classe. In questo senso la letteratura una forma di contestazione critica di una certa filosofizzazione della realt. Quando la filosofia diventa una grande narrazione, la narrazione letteraria diventa critica della filosofia. Il tema della realt al centro di un dibattito che si sta sviluppando in Italia, tra filosofi. Si parlato di un autunno del pensiero debole, la teoria basata sullidea che non ci siano in sostanza fatti, ma solo

interpretazioni. C chi, come Maurizio Ferraris, oppone ad essa la necessit di riscoprire la realt. Non ho seguito la discussione. Per i termini le sono ben noti. Certamente. Come Gianni Vattimo, anchio sono partito da Heidegger, anche se ne ho tratto conclusioni molto diverse. Una che ci sono dei fatti irriducibili allo sviluppo delle ragioni storiche. Lidea che esistano solo interpretazioni vede la mia ferma opposizione da molto tempo. Quanto tempo? Ho capito la debolezza del pensiero debole se mi consente un gioco di parole allinizio degli Anni 80. Da subito quindi. S. E accaduto quando ho dovuto confrontarmi col negazionismo. Che dovrebbe essere mille miglia lontano da una teoria filosofica nata anche con lintento di una maggiore democratizzazione del sapere e della societ. Fu a Parigi. Un gruppuscolo di sinistra distribuiva volantini in cui si spiegava che le camere a gas non erano mai esistite. Sinistra, badi. Largomento faceva parte di una revisione paranoica della storia del mondo, dove il solo male rappresentato dal capitalismo. Un sillogismo: niente camere a gas, niente mostruosit hitleriana. Quindi il vero mostro il capitalismo. Se ne discusse parecchio, fece scandalo. Ma i partigiani di queste tesi si appellarono alla libert despressione, e la cosa cre un certo turbamento nel mondo intellettuale. Del resto, se non ci sono fatti ma solo interpretazioni, perch non ammettere anche quel che diceva il volantino negazionista?. Le camere a gas sono ovviamente un fatto al di l di ogni interpretazione. Mi sempre parsa convincente lidea di Hannah Arendt, secondo cui solo le realt fattuali rendono linterpretazione possibile. Se

invece ogni punto di vista legittimo, spariscono proprio le possibilit di comunicazione, di dialogo, discussione. La letteratura una di queste verit fattuali? Siamo su un altro registro. Il romanzo si sviluppa nello spazio della finzione, ma come ad esempio mostra bene Kundera; ha senso solo come scoperta, esplorazione, investigazione. La teoria letteraria in cui sono cresciuto, fra strutturalismo e post-strutturalismo, riduceva lestetica alla linguistica, separava drasticamente letteratura e realt, mettendo quindi molto tra parentesi la questione del valore. Ma la letteratura senza valori appunto senza valore. Come faremmo infatti a distinguere un buon libro da uno cattivo, se non partendo da un criterio di conoscenza? Un buon libro mostra la nostra conoscenza del mondo e del cuore umano. Kundera potrebbe essere considerato il prototipo dello scrittore europeo? Direi che che porta unidea dEuropa ormai dimenticata allEuropa stessa. I suoi testi degli Anni Novanta, per esempi i saggi sullEuropa centrale, prendono in contropiede una cultura, come la nostra, che ha identificato lOccidente con loppressione. Kundera spiega che non sempre cos, ma non sono affatto sicuro che questo messaggio sia stato inteso. LEuropa rimane preda del senso di colpa, ed questa lidea che prevale. Affermare la nostra identit in quanto europei visto come un processo di esclusione o discriminazione. Non ha senso il dogma di dare sempre pi spazio allidentit degli altri. Il problema complesso, ma se vogliamo veramente sostenere un principio anti-razzista, dobbiamo evitare esattamente questo, e cio chiudere ciascuno nella propria identit Ma qual lidentit europea? Una moltitudine di identit, ma non tutte. Per esempio assurdo dire che lEuropa sempre stata meticcia. O, come ha proclamato Chirac una volta, che lIslam ne fa parte. Lidentit deve restare un concetto aperto. Noi abbiamo una storia, che si pu imparare, e di cui altri possono diventare parte. Ogni patria deve poter essere una patria adottiva. In questo la letteratura pu esserci pi utile della filosofia?

Ci che chiedo per la letteratura una considerazione uguale a quella della filosofia e della scienza. Diceva Charles Peguy che il vero della scienza non il solo vero del reale. Ci sono forme diverse di verit. Sembra quasi una concessione al pensiero debole. Badi, non sono certo per la restaurazione del pensiero metafisico. Non quello il problema, oggi. E poi, almeno sul piano politico, ci pu essere una certa ferocia dogmatica che viene proprio dal pensiero debole: penso a molte posizioni sul Medio Oriente. Non sempre un pensiero dolce. E io sono per la dolcezza. (13 settembre 2011)

Perch serve una prospettiva diversa


di Petar Bojanic, da Repubblica, 26 agosto 2011 Nel gennaio scorso Ferraris e io eravamo a Parigi, e al termine di una sua conferenza sul futuro della decostruzione qualcuno gli ha chiesto: Ma perch senti tutta questa necessit di richiamarti al realismo e ai fatti? In fondo, le interpretazioni possono dare libert. Ferraris ha risposto: vero. Ma possono anche negare tutto, comprese le peggiori tragedie della storia. Ripensandoci, l che nata lidea di un convegno sul "New Realism". Il realismo la grande novit filosofica dopo trentanni di postmoderno, ed un punto a cui sono arrivato, per parte mia, lavorando su una "fenomenologia dellistituzionale" che, rispetto a Ferraris, pi aperta alle proposte di Foucault. Sullessenziale per siamo daccordo. Derrida, il nostro comune maestro, ci ha resi attenti alla necessit di decostruire, di smontare, di non fermarsi alle apparenze (perch ovviamente non tutto quello che appare reale, ci sono anche le allucinazioni, lo sappiamo bene). Ma di farlo con una prospettiva di speranza, la speranza, appunto, che la decostruzione potesse portare emancipazione e verit. Se trascuriamo questa circostanza, si finisce nel nichilismo, una posizione che costituisce un problema non solo dal punto di vista teorico (perch una negazione del sapere) ma anche, e soprattutto, dal punto di vista morale, perch se si sostiene che tutto fluido e tutto interpretabile anche il passato pu essere riscritto. C un altro segnale importante che, secondo me, viene dal "Nuovo Realismo", e che particolarmente significativo per chi, come me, si trovato a vivere e a lavorare in situazioni culturali molto diverse e a volte contrapposte (dallInghilterra alla Francia alla Serbia). Il postmodernismo, malgrado la sua pretesa di cosmopolitismo filosofico, era in effetti una teoria che si limitava alla cosiddetta "filosofia continentale". Con la svolta realistica si sta facendo esperienza di un dialogo tra scompartimenti un tempo non comunicanti, per esempio fra temi che vengono da filosofi analitici, come Searle, e temi che vengono da filosofi continentali, come Derrida. Questo aspetto non mi sembra puramente formale, e tocca la sostanza del lavoro filosofico. Perch "Nuovo Realismo" significa confrontarsi sulle cose, senza limitarsi a chiedersi lun laltro "da

dove parli?", il gioco postmoderno che spesso riduceva i confronti filosofici alla deferenza nei confronti dei rituali della propria trib di appartenenza. (Lautore direttore dellInstitute of Philosophy and Social Theory di Belgrado. Tra le sue pubblicazioni recenti: World Governance uscito nel 2010 per "Cambridge"). (26 agosto 2011)

Tra postmoderno e metafisica


di Giovanni Perazzoli Il dibattito tra Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris parte dalla domanda se la verit sia un antidoto al potere populistico e autoritario o se, al contrario, essa stessa, la verit, sia una forma del potere populistico e autoritario. Nella tesi di Vattimo la verit un prodotto del potere. Questo significa per dire che la verit, che un prodotto del potere, non la verit. Il potere fabbrica una verit, che dunque non ha le caratteristiche della verit. La premessa di Vattimo (o la conseguenza, fa lo stesso) che la verit stessa, per, non esiste. Ora, lasciando a Vattimo largomentazione (il quid iuris) della tesi che sostiene che la verit non esiste, resta che, proprio seguendo la sua tesi, lidentificazione di potere e verit non pu darsi, per la semplice ragione che manca uno dei termini del rapporto, ossia la verit. Dunque il potere non d forma alla verit. Lo stesso argomento di Vattimo, mentre riduce la verit al potere, sottrae la verit dal rapporto con il potere. Questa tesi (per come essa si presenta nel dibattito) non dimostra che la verit debba necessariamente essere un prodotto del potere. In realt, nella prospettiva di Vattimo mi pare che si trovi lidea che il potere dia forma alla metafisica, come ad esempio accade nella religione o in certe ideologie politiche. Mi pare che sia questo il concetto di verit a cui Vattimo dichiara di dare addio: la verit della metafisica. Il potere fabbrica una verit metafisica, oppure, pi semplicemente, una metafisica (e la relativa ideologia). Bisognerebbe decidere poi se la verit sia la stessa cosa della metafisica, ma questa unaltra questione, che la tesi di Vattimo n nega n afferma. Si capisce comunque perch Vattimo concluda che, se si pensa criticamente, la scelta politica si debba riconoscere come infondata. Quanto invece al discorso sulla verit empirica (quella che, in modo grossolano, si dice a volte verit empirica), questa sembra che, per Vattimo, sia fuori discussione: essa non cade in dubbio. La verit dei fatti qualcosa che si trova al di fuori della competizione sul senso. Sul fatto che piove Vattimo concede di poter essere daccordo con Bush, mentre con Bush evidentemente

non daccordo sul senso delle cose, ovvero sulle scelte eticopolitiche. In breve, Vattimo sembra rivolgere la sua critica allidea della verit che offre la metafisica, dando per assunto che verit e metafisica siano lo stesso. Il postmoderno si caratterizza, da questo punto di vista, come una particolare declinazione del congedo dalla metafisica. Maurizio Ferraris assume invece che la verit sono proprio i fatti. Che questa sia essenzialmente una tesi metafisica non lo spaventa n lo fa arretrare di un passo. La metafisica, detto in breve, guarda allessenza del mondo, alloggettivit come coincidenza con lessere: per la metafisica la realt coincide con la verit. Dunque, mentre per Vattimo la verit coincide con la metafisica, e i fatti sono realt empiriche e contingenti, per Ferraris, al contrario, la verit coincide con i fatti. Per Vattimo la metafisica deve ridursi a ideologia (potere, autorit); mentre, nei termini posti da Ferraris, la metafisica resta ferma come coincidenza di verit e realt oggettiva. Sulla realt dei fatti (piove) daccordo anche Vattimo, mentre la divergenza (e il tratto metafisico della posizione di Maurizio Ferraris) si trova sullassegnazione ai fatti del senso dellepisteme (perch questo, in definitiva, il realismo). Detto questo, la funzione antipopulistica non un tratto essenziale e specifico del realismo: infatti, il criterio confutativo che oppone un fatto (realt) a una menzogna (che non piove quando piove) non scaturisce esclusivamente dalla metafisica del realismo (la realt fondata = vera) e non messo in questione dallermeneutica (che non nega il fatto, ma il senso universale e fondato di verit della realt). Detto in altri termini, non c bisogno di una metafisica per essere persuasi che piove. Allo stesso modo non necessaria una metafisica per decidere che un determinato evento politico censurabile. Ma appunto, questo non toglie n aggiunge nulla, sul piano teoretico, al realismo. Dal postmoderno non si passa dunque necessariamente al populismo, a meno che non si voglia sostenere che, per combattere il populismo, occorra la metafisica. Certamente, per, sostenere che una tesi filosofica accettabile solo se non avvantaggia il populismo (o in generale una determinata politica), o, viceversa, che una teoria della verit forte da negare e da respingere perch cos si toglie unarma dalle mani del potere, significa seguire un argomento

retorico e appunto polemico. Che cade da solo, se non altro perch, se lo si adottasse, si ragionerebbe in modo populistico e/o fideistico, con evidente contraddizione. Alla filosofia, come in generale alla ricerca scientifica, non interessa lesito etico-politico di una scoperta o di una tesi; non appena si pone un tale problema si esce dalla filosofia e si entra nellideologia. Lattribuzione (su quale base poi?) di un certa conseguenza disastrosa a partire da una tesi teorica una variazione di quella fallacia che Leo Strauss defin con ironia la reductio ad Hitlerum. Oppure, se si preferisce, una forma tipica della predica: Bada che se accetti questa tesi, seguir questa catastrofe. Sempre e comunque siamo nel populismo. La discussione su verit e potere (o populismo) era per funzionale, nel dibattito, ad una domanda di fondo: ovvero se lagire eticopolitico progressista non dipenda da una visione forte della verit e se non risulti invece impedito da una filosofia debole. Non forse, ci si chiede, la filosofia postmoderna, con la sua riduzione dei grandi progetti etico-politici della modernit a meta-racconti, responsabile dellafflosciarsi della tensione progressista? Il problema sembrerebbe empirico o culturale. Ma posta sul piano empirico o culturale questa tesi pu tranquillamente essere rovesciata: si potrebbe infatti sostenere, a torto o a ragione, che stata la crisi delle ideologie a determinare linsorgere del postmodernismo, almeno in una sua declinazione. Qui per interessa la questione filosofica e non quella storico-culturale ed empirica. In termini filosofici, per, bisogna rilevare che esiste una fortissima tradizione moderna (non postmoderna) che scopre il valore dellagire etico-politico esattamente a partire dallabbandono della Verit, ovvero dalla critica della metafisica dellagire eteronomo. Lautonomia morale kantiana, pur con le sue difficolt, ha affermato una volta per tutte che la scelta etico-politica tale solo se una scelta autonoma: la scelta morale tale in quanto libera, ovvero non deducibile meccanicamente da una metafisica e dal suo legalismo. Sono le religioni che assumono un sistema di leggi che trasformano lagire morale in un processo meccanico, da cui la scelta morale di fatto esclusa. In ultima analisi, leteronomia porta alla conseguenza di annullare lagire etico-politico. Lessere/verit, assunto come fondamento della prassi, toglie la libert, che, come insegnava Kant, per la ratio essendi della vita

morale. Non per niente evidente, dunque, che la crisi dei fondamenti comporti una crisi della forza dellagire etico-politico, perch caso mai sembra si possa dire il contrario. Un aspetto essenziale del dibattito riguarda poi il senso da assegnare alla scienza rispetto allagire etico-politico. La questione riguarda loggettivit della scienza. Flores dArcais osserva, a ragione, che la tesi di Vattimo non dovrebbe inficiare la validit della scienza (e si chiede perch Vattimo non lo riconosca). Egli parla di unoggettivit critica, e laggettivo importante. Loggettivit della scienza non loggettivit della metafisica (anche se il senso comune tende a confondere i due concetti). Giustamente, Severino nel suo intervento ricorda la tesi hegeliana sulla certezza. Loggettivit del certo non il vero. La scienza non deve essere confusa con la metafisica, anche se spesso accade il contrario. Hume sapeva benissimo che la scienza legata a un fondo di scetticismo. Ma non perch egli credesse che lesperienza ci inganni, bens, al contrario, proprio perch considerava lesperienza lunica fonte di conoscenza. Infatti, se lesperienza offre solo fatti singolari, individuali, e se essa lunica forma di conoscenza, se ne ricava che non possiamo ricavare leggi universali e necessarie che riguardino lesperienza. Labitudine, dice Hume, ci porta a supporre una qualche costanza nei fenomeni; ma labitudine non lesperienza: , appunto, labitudine. Noi vediamo una palla che ne colpisce unaltra e i due movimenti, ma non vediamo il principio di causalit. Questo lo aggiungiamo per abitudine. Lo scetticismo di Hume relativo a un concetto di verit che non quello del senso comune; la verit che Kant intende ricostruire e che assume come universale e necessaria (pour cause riferibile ai fenomeni e non alle cose in s). Per cui non ha molto senso opporre che bene o male ci possiamo fidare dellesperienza, perch il punto non questo. Che dellesperienza ci si possa fidare bene o male era uninformazione che era arrivata anche a Hume. E questo per non considerare il fatto che lattivit sperimentale mette, non a caso, continuamente in discussione anche le modalit dellesperimento e i suoi presupposti (non parliamo poi degli sconvolgimenti che portano nellontologia quotidiana la fisica quantistica e la teoria della relativit).

Ora, anche senza considerare Hume, il carattere empirico della scienza non dovrebbe scandalizzarci. Ciononostante, non raro incontrare dei sostenitori della scienza empirica che si dichiarano nemici della metafisica, e che per concepiscono la scienza empirica esattamente nei termini della metafisica. La rappresentazione epistemologica della scienza oscilla (spesso anche tra gli scienziati, che non necessariamente sono anche filosofi) tra la posizione di Galileo Galilei, che pensava (anche) che il libro del mondo fosse stato scritto da Dio in caratteri matematici (e appunto si parlato in questo caso di pitagorismo o di platonismo), e le concezioni di Hume o di Ernst Mach o di Karl Popper Karl Popper prendeva ad esempio la teoria di Newton come un caso del mito metafisico delloggettivit della scienza. La meccanica razionale di Newton infatti un caso di teoria che non descrive (pi) il mondo: una teoria falsa, che la teoria della relativit di Einstein distrugge nei fondamenti. O non presupponeva forse, Newton, un tempo assoluto, che la fisica di Einstein dissolve e manda in soffitta? Rispetto al dibattito, allora, si deve sottolineare che non la negazione dei fatti e delloggettivit dei fatti a mettere in crisi loggettivit della scienza, perch sono i fatti stessi che, per loro natura, non possono dar luogo a teorie assolute. Lirrazionalismo si trova nellassumere, invece, che lesperienza possa rivelarci lessenza del mondo. Lesperienza trova in se stessa il suo criterio di verifica e loggettivit non un fatto tra gli altri. Da questo punto di vista, una questione che si potrebbe sviluppare se il realismo possa attingere dalla realt il suo essere realismo, visto che la realt non contiene il realismo. E giustamente Severino rileva nel realismo un presupposto filosofico che non riconducibile alla fonte del realismo. Ma il carattere di falsificabilit della scienza non significa, come si potrebbe temere, che lesclusione della verit implichi limpossibilit di escludere che una sciocchezza una sciocchezza, che un mito un mito, che un errore un errore. Esattamente il contrario: altrimenti neanche la scienza sarebbe falsificabile. Anzi, secondo il celebre adagio di Popper, la scienza tale se falsificabile. A differenza dei dogmi religiosi, e del populismo, il metodo scientifico (e per la verit anche lanalisi logica) prevede la critica e lautocritica.

In conclusione, non ho molta simpatia per il postmoderno, ma certo non sarebbe una grande conquista se, con luscita dal postmoderno, si intendesse un ritorno alla metafisica. (20 settembre 2011)

Veritatem facere
di Edoardo Ferrario Ringrazio la rivista MicroMega per avermi invitato a prendere la parola nella querelle avviata da Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris e portata avanti da Paolo Flores dArcais e altri. Il mio contributo si limiter a valorizzare il confronto di questi primi tre interventi. Nella convinzione per che la corruzione criminale che caratterizza il nostro paese sia un campo di prova per accertamenti che riguardano assai poco la verit filosofica, sperando di non cedere alle lusinghe diaboliche dello Zeitgeist, prover ad accennare ad altri fenomeni, anchessi comunque molto attuali. Credo che il punto zero del confronto di posizioni filosofiche tra Vattimo e Ferraris non consista tanto nel contrasto tra fatti e interpretazioni ( addirittura banale dire che ci vogliono molte e complesse interpretazioni per accertare il pi elementare dei fatti, e un numero rilevante di fatti per costruire la pi semplice delle interpretazioni), quanto piuttosto lo statuto delle cosiddette verit di fatto, vale a dire di ci che, come diceva Leibniz, cos, ma avrebbe potuto essere altrimenti ed proprio a partire da questa possibilit condizionale che operano le bugie del potere. Come affermava Hannah Arendt, il contrassegno di una verit di fatto prendiamo provvisoriamente per buona questa nozione, che in verit contiene gi tutte le insidie del dibattito in corso che il suo contrario non uninterpretazione o unopinione ma una falsit deliberata, insomma una menzogna. Se questo un aspetto valorizzato dallintervento di Paolo Flores (che seguir anchio), tuttavia proprio il richiamo di Vattimo alla questione del chi? (chi lo dice? Qual lautorit che afferma che un fatto un fatto, e che cos e non altrimenti?) a permettere di evidenziare subito un aspetto significativo delle verit di fatto (anche se non soltanto di queste ma debbo trascurare questo punto). Il fatto cio che tali verit hanno bisogno di testimoni (e il negazionismo, richiamato da Ferraris, non uninvenzione tardiva di storici in malafede ma gi una strategia dello sterminio, attuata mediante lannientamento dei possibili testimoni). Ora, se posso permettermelo, a me pare che anche Vattimo presenti se stesso in tale veste, quando evoca le sue iniziative di opposizione alle

menzogne del potere (l dove c resistenza). Qui la debolezza addirittura impotenza (la verit lo sempre agli occhi del potere, ed per questo che viene immancabilmente bollata come antipolitica per tacere del ritornello ipocritamente autoassolutorio e scopertamente auto-accusatorio della mancanza di proposte e di progetti!); ma, proprio perci, una forma e di resistenza al potere (Vattimo), alla potenza della menzogna e dei negazionismi (Ferraris parla a questo proposito di contropotere e addirittura di giustizia) e alla menzogna del potere (Flores). Nessuno pu speculare in anticipo sui risultati di queste azioni di resistenza (lazione incomprensibile per definizione); ma questa impossibilit proprio il segno, scoraggiante ma al tempo stesso miracoloso, della realt. Infatti, a quale altra parola o categoria modale si potrebbe ricorrere per spiegare linspiegabile: vale a dire ci che , non perch poteva esserlo, ma semplicemente perch (lo scriveva Pareyson nel suo elogio della realt)? E cio, ad esempio, il fatto che mentre molti politici, politologi, giornalisti, intellettuali si attardavano a interpretare o a controinterpretare la realt del nostro tempo in termini di conflitti tra lIslam e lOccidente, uninaspettata primavera mediterranea stava per sconvolgere laltra sponda del mare nostrum dilagando dallAlgeria allEgitto, alla Siria ecc., per ritrovarsi in fenomeni di indignazione che si accendevano o riaccendevano anche da queste parti? Eppure la realt pi vecchia della pi vecchia nutrice, e insieme nuova come ogni nuova generazione e ogni neonato come dimenticare le manifestazioni spagnole del 2004 contro le menzogne di Aznar sugli attentati alla stazione Atocha, o le proteste rivoluzionarie dei giovani iraniani contro i brogli elettorali durante la primavera del 2009? In tutti i casi si tratta di azioni di resistenza contro le falsit deliberate e le ingiustizie intollerabili che hanno retto per decenni equilibri mondiali: richiami a una verit agita perch il testimone, come diceva Agostino e prima di lui Giovanni, fa la verit. Azioni che ci insegnano che c un limite (ricordato da Arendt) che nessuna menzogna mediatica o totalitaria pu mai superare. Dato che nessuno pu mentire agli altri senza mentire a se stesso, nessun mentitore pu far scomparire completamente dal mondo la verit, perch essa ha trovato proprio in lui il suo archivio pi sicuro (Berlusconi in questo senso, almeno per noi, un monumento vivente alla verit, come per gli egiziani, i libici e i siriani lo sono i

falli semoventi di Mubarak, di Gheddafi, di Bashar Al-Assad). difficile ma questo discorso andrebbe ripreso non enfatizzare la capacit di creare comunit attraverso luso di nuovi social media come Twitter, Facebook, YouTube, ecc., ma anche se istruttivo notare come, proprio mentre si andava affermando il dominio planetario e monopolistico dei media controllati dal potere o allineati alle sue menzogne, si siano schiuse dal suo stesso interno impreviste possibilit di libera informazione anche in questo caso il nuovo ha reso infinitamente pi efficace ci che un tempo veniva affidato ai segnali di fumo, ai samizdat, ai Fax, alle e-mail. Concludo richiamando unespressione che ho imparato da Paolo Flores al tempo dei Girotondi e che ha a che fare con il tema della verit: lespressione autoconvocati. Questa parola illustra a me pare con efficacia anche alcuni aspetti caratteristici dei movimenti di indignados (non ultimo il trasecolare di molti giovani quando i giornalisti chiedevano loro chi fossero i loro leader). Coniugando pluralit e singolarit (la condizione umana), questa parola ci dice come ciascuno di loro sia stato convocato da se stesso; anche se la forma medio-passiva di questo verbo fa tremare la frontiera tra se stesso e laltro: e proprio questo il punto. Sono stato chiamato ( questa la frase che fa di un testimone un testimone e che invita a mettere in atto forme di resistenza). Chiamato da chi? Quanti nomi o uno o nessuno? ha questo chi? La giustizia qualche compagno la mia coscienza laltro me stesso o me stesso come altro Chi altro? (7 settembre 2011)

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