Você está na página 1de 46

2a GUERRA PUNICA - ANNIBALE - SAGUNTO - LE ALPI - LA TREBBIA

IMPRESE DI AMILCARE BARCA - ASDRUBALE IN ISPAGNA - ANNIBALE ASSEDIA E DISTRUGGE


SAGUNTO - AMBASCERIA ROMANA A CARTAGINE - ROMA SI PREPARA ALLA GUERRA - LA
MARCIA DI ANNIBALE DA CARTAGENA ALLE ALPI - SCIPIONE E LUCIO MANLIO TORQUATO - IL
PASSAGGIO DELLE ALPI - LA BATTAGLIA DEL TICINO - LA BATTAGLIA DELLA TREBBIA - GNEO
SCIPIONE IN SPAGNA
---------------------------------------------------------------------------
IMPRESE DI AMILCARE BARCA

Dopo la disfatta alle Egadi, non era stata fatta in comune accordo, ma dai Cartaginesi sofferta, e a
condizioni molto pesanti; non perché Cartagine non avesse risorse, ma per le lotte intestine fra democrazie
e aristocrazia che la straziavano, ma che ben presto si resero conto del danno che avevano provocato alla
patria; inoltre ai Cartaginesi mancava un vero condottiero, o meglio, un dittatore. Nel 219 a.C. trovarono
entrambe le due cose: la concordia e il condottiero.

La pace stipulata nel 241 a.C. tra Roma e Cartagine con la disfatta subita alle Egadi, non poteva essere né
fu una pace definitiva.

Quantunque stremata di forze Cartagine rimaneva sempre uno stato potente dalle infinite risorse; e un tale
stato non poteva rassegnarsi a subire le conseguenze della sconfitta.
Tuttavia, essendo il potere in mano della democrazia dedita ai commerci, la quale vedeva nella guerra un
danno incalcolabile per la propria attività, i propositi di riscossa rimasero per qualche tempo circoscritti
nella cerchia dell'aristocrazia guerriera; ma quando Roma usurpò la Sardegna e conquistò la Corsica e
inflisse a Cartagine l'onta e l'onere di nuovi esosi patti il desiderio della riscossa si fece strada anche nel
popolo e fu tale da far prevalere nel governo della città il partito di coloro che volevano far risorgere la
patria dall'avvilimento in cui era caduta.

Anima di questo partito era AMILCARE BARCA, il prode ed avveduto condottiero, che così
accanitamente si era battuto in Sicilia contro i Romani fino all'ultimo, e che poi aveva saputo - nonostante
quella pace così esosa - trarre lo stato dalla rovina in cui stava per precipitare domando la rivolta dei
mercenari, i sudditi della Numidia dai primi aizzati e i forti contrasti interni.

Su Amilcare si erano appuntati tutti gli sguardi dei patrioti cartaginesi perché in lui vedevano il solo uomo
che potesse risollevare le sorti della repubblica; e Amilcare, sostenuto da questo partito forte ed attivo,
riuscì a rivolgere tutta la sua attività ed il suo genio all'opera di resurrezione e di ricostruzione.

Il suo compito in patria fu molto difficile. Cartagine, esausta, aveva bisogno di danari e di eserciti, aveva
bisogno di riacquistare il prestigio perduto e la potenza economica e militare di una volta per potersi
misurare nuovamente con Roma, ma era necessario agire con prudenza per non insospettire i nemici e non
dare a questi occasione di stroncare, l'opera di rinascita, prima che fosse compiuta.
Amilcare seppe agire con la più grande prudenza. Divenuto arbitro dei destini della sua patria, ottenuti
poteri dittatoriali, lascia in Africa il genero ASDRUBALE per tenere a bada le tribù della Numidia,
nuovamente ribellatesi, e le riduca all'obbedienza, poi, con il suo esercito e una lunga marcia, varcate le
Colonne d'Ercole, passa nella penisola Iberica

Suo scopo è di dare a Cartagine nuove terre e nuovi sudditi, perché dalle prime possa ricostituire la sua
ricchezza e dai secondi possa ricavare uomini per i suoi eserciti.

Per nove anni AMILCARE combatte contro i selvaggi popoli iberici, fieri e gelosi della propria
indipendenza, sottomettendo e procurando a Cartagine quasi tutto il mezzogiorno della penisola, creando
sulla costa una piccola base, la colonia CARTAGENA che diventerà in breve tempo il maggior centro
cartaginese nella penisola iberica; ha assunto come suo luogotenente il giovane ANNIBALE, figlio di
Amilcare; ma nel 229 a.C. la sua gigantesca impresa è improvvisamente troncata dalla morte che lo coglie
in battaglia (altri dicono durante questa annegato).

ASDRUBALE IN ISPAGNA

L'opera di Amilcare però non era una di quelle che si possono lasciare incomplete, né affidarle al giovane
luogotenente ANNIBALE, che alla sua morte contava appena 18 anni, quindi per condurla a termine -fu
chiamato il genero ASDRUBALE.

Questi consolida le conquiste del suocero e sulla costa della penisola la piccola colonia di Cartagena la
trasforma nella fortissima capitale della Spagna cartaginese; una piazzaforte militare, un floridissimo centro
commerciale e sentinella delle ricche miniere d'argento della regione; poi, ricevuti rinforzi di truppe dalla
madre patria, estende le conquiste fino al corso dell'Ebro.

Il consolidamento sulla costa e la sua marcia vittoriosa verso il nord della penisola preoccupano alcune città
greche che sorgono oltre l'Ebro, e le più importanti sono Sagunto, Rosas ed Ampuiras. Temono queste di
cadere in potere dei Cartaginesi, che sono già di fama i nemici naturali dell'Ellenismo del Mediterraneo
occidentale, e, non potendo con le loro scarse forze contrastare l'avanzata di Astrubale, con la fama delle
sue imprese che hanno raggiunto anche la penisola iberica, chiedono aiuto a Roma e si mettono sotto la sua
protezione.

Roma, che fino a questo momento ha lasciato fare, sia perché impegnata contro i Galli e le popolazioni
illiriche, sia perché nelle lontane conquiste ispaniche della rivale non ha visto nessun proposito ostile nei
suoi confronti, ora però prende a cuore la sorte delle città che ai Romani si sono rivolte e costringe
Cartagine a impegnarsi a non estendere le sue conquiste oltre l'Ebro e di rispettare le città che già chiamano
amiche; sollecitati anche dai Marsigliesi, preoccupati pure questi dell'espansionismo punico.
Le trattative non furono lunghe (Roma era molto impegnata) e si giunse presto alla pace.
Con questo "Trattato dell'Ebro", concluso tra Roma e Cartagine nel 226 a.C., hanno termine le imprese
militari di Asdrubale.

Sono state delimitate le rispettive zone di influenza, con libertà d'azione ai Cartaginesi nelle regioni
iberiche a S dell'Ebro, tuttavia in questo territorio, Roma stringe alleanza con Sagunto, antica città a nord di
Valencia posta quindi a sud dell'Ebro (e sarà proprio questa città che costituì il "casus belli" per la seconda
guerra punica).

Roma nel 225 è impegnate in Etruria con i Galli (Talamone) e nel 223 - 222 ha deciso di invadere la Gallia
Cisalpina, fino a Milano. Fatta la pace con i Galli, Roma è dunque disimpegnata su terra e sul mare.

A riaccendere la disputa, e a favorire il reciproco scontro (entrambi sembra che lo desiderano) l'anno
successivo, nel 221, muore assassinato da un Gallo, ASDRUBALE. Acclamato dai soldati, gli succede al
comando ANNIBALE, sostenitore di una politica accesamente ed aggressivamente anti-romana.

ANNIBALE ASSEDIA E DISTRUGGE SAGUNTO

Con l'annuncio della morte di Asdrubale giunge improvvisa a Cartagine pure la notizia, che le truppe di
Spagna hanno eletto Annibale, capo supremo dell'esercito.La nomina è illegale, ma il governo cartaginese
la conferma.

Annibale ha ora 26 anni. Dal padre Amilcare, fin da fanciullo, ha imparato ad odiare il nome romano; a 9
anni, esortato dal padre, ha giurato davanti l'altare odio eterno contro i Romani ed ha promesso di spendere
tutte le sue forze in pro della patria contro la detestata rivale.

Quasi 11enne ha seguito l'illustre genitore in Spagna, è vissuto in mezzo alle truppe, ha dormito sotto la
tenda, si è abituato alle marce faticose e al rumore delle armi, ha rinvigorito e sviluppate le sue forze nelle
esercitazioni del campo, ha imparato a cavalcare, a maneggiare le armi a soffrire la fame ed il freddo, ad
ubbidire; cresciuto negli anni ha preso parte alle battaglie contro i popoli iberici, fornendo prove altissime
di coraggio, di resistenza, di valore, primo sempre negli assalti, ultimo a ritirarsi, ammirato ed idolatrato dai
soldati che vedono in lui il figlio non degenere del gran capitano.

Morto il padre, aveva 18 anni, è stato il braccio destro del cognato, comandando la cavalleria, ed è salito in
gran fama presso l'esercito cartaginese e anche presso i nemici. Ha tutte le qualità del grande guerriero e del
condottiero d'eserciti e - secondo gli storici romani - non meno grandi delle sue virtù sono i suoi difetti,
essendo crudele, privo di religione, non degno di fede ed ambiziosissimo.

Ottenuto il comando dell'esercito, Annibale rivolge il pensiero all'impresa da tanto tempo sognata, alla
guerra senza quartiere contro Roma. Egli sa di avere l'appoggio del partito dominante a Cartagine, sa di
avere sotto di sé un esercito numeroso, disciplinato, allenato e desideroso di combattere, con il quale si può
tentare di vincere i nemici; infine ha gran fiducia in se stesso e nella sua buona stella, e muove il gran
passo. Sagunto sarà la sua prima vittima.

Per non mettersi dalla parte del torto, cerca con abili emissari di eccitare alcuni Saguntini ad aprire le
ostilità, ma non riuscendo, con il pretesto di difendere i Turdetani, sudditi di Cartagine, in lotta con Sagunto
dichiara a questa città la guerra.
Sagunto non ha forze sufficienti per resistere ad Annibale, l'unica speranza di salvezza è riposta nei Romani
ed a Roma invia sollecitamente ambasciatori chiedendo soccorso.

Il Senato romano, invece di un esercito, come avrebbe dovuto, inviò ad Annibale un'ambasceria per invitare
il Cartaginese a non arrecare molestia ai Saguntini; ma Annibale rifiuta di ricevere gli ambasciatori, e,
senza perdere tempo, muove contro la misera città.

E' il marzo dell'anno 219 a.C.; uno sterminato esercito cartaginese cinge d'assedio Sagunto e il gran
dramma comincia. Annibale tenta di tutto per ridurre in suo potere la città, l'astuzia e l'assalto, la pazienza e
le macchine guerresche; ma i Saguntini sono decisi a resistere, a vender cara la propria libertà, sorretti da
una speranza che non vuole morire: i soccorsi di Roma. Si battono eroicamente, buttano giù i nemici che
scalano le mura, li respingono davanti alle porte compiendo coraggiose sortite, ne fanno una perfino al
campo degli assediati dove lo stesso Annibale conosce da vicino i fieri e audaci Saguntini e assaggia pure il
loro ferro.

Gli assalti si rinnovano ostinatamente, orde di guerrieri muovono contro le difese con un impeto
travolgente, ma la loro irruenza si spezza di fronte alla tenacia ammirevole degli assediati.

Sotto i colpi poderosi degli arieti e delle catapulte le mura si sbrecciano e le torri rovinano, ma Sagunto non
cede, i suoi eroici abitanti riparano i guasti e continuano l'impari lotta.
Otto mesi dura l'epico assedio. La città è afflitta dalle malattie e dalla fame, il numero dei difensori è ridotto
ad un pugno di uomini stanchi e deboli, ciononostante rifiutano di arrendersi e si battono disperatamente
fino a quando, sopraffatti, non possono più contrastare il passo agli assalitori.
Sagunto cade, i suoi abitanti passati a fil di spada, le sue case prima saccheggiate, poi rase al suolo.

La notizia della distruzione di Sagunto non commuove, ma preoccupa Roma. Ambasciatori sono spediti
subito a Cartagine perché chiedano soddisfazione della guerra saguntina e la consegna di Annibale.
QUINTO FABIO è il capo della legazione. A Cartagine il partito avverso ai Barca, capitanato da Annone
(l'uomo esautorato a suo tempo dal padre), vuole che sia data a Roma soddisfazione, ma la sua proposta è
respinta. La repubblica africana non è più la città vinta ed esausta; molto tempo è passato dalla sconfitta,
molto denaro è affluito nelle sue casse dalla Spagna, molte terre e molte vittorie le hanno procurato
Amilcare, Asdrubale ed Annibale, eserciti poderosi sono a sua disposizione e il popolo, esulta quando a
Cartagine arrivano i bottini e le prede di Sagunto; nell'isteria collettiva è animato da propositi bellicosi.
FABIO non si lascia intimorire e dice poche parole: "Io vi porto la pace e la guerra: scegliete".
Spavaldamente i Cartaginesi rispondono che dica pure quel che vuole. Fabio pronuncia la parola "guerra",
e loro con fierezza, rispondono "accettata".

ROMA SI PREPARA ALLA GUERRA

Secondo il racconto di TITO LIVIO, gli ambasciatori romani, partiti da Cartagine, si recano in Spagna allo
scopo di ingraziarsi quelle popolazioni o distaccarle dall'amicizia di Annibale. I primi tentativi ottengono
un esito felice: i Barguzi ed altri popoli vicini si dichiarano favorevoli a Roma. Ma i Volciani,
rimproverando duramente i Romani di avere abbandonata Sagunto alla sua sorte, impongono agli
ambasciatori di uscire dai loro confini.

Accoglienze migliori non sono fatte dagli altri popoli della penisola Iberica e ancora più duri sono i biasimi
che ricevono dalle popolazioni della Gallia.Roma non può contare che sulle sue forze e su quelle della
penisola italica e, consapevole della gravità della guerra che sta per cominciare, si prepara seriamente.

Sono chiamati alle armi, tra i cittadini romani, ventiquattromila fanti e milleottocento cavalieri; tra gl'Italici
quarantaquattromila fanti e quattromila cavalieri. E' allestita una flotta di duecentoventi quinqueremi. Il
console TITO SEMPRONIO con un esercito di ventiquattromila pedoni e duemilaquattrocento cavalieri ed
una flotta di centosettanta navi è inviato in Sicilia dove dovrà tenersi pronto a passare in Africa.
All'altro console, CORNELIO SCIPIONE, sono affidate date quaranta quinqueremi, due legioni romane,
quattordicimila fanti e duemila circa cavalieri italici e gli si ordina di andare a Pisa e di passare poi in
Spagna andando incontro ad Annibale prima che sbarchi, come molti pensano in Italia.

Questa suddivisione delle forze fu il primo sbaglio di Roma, dovuto principalmente all'ignoranza del
Senato intorno alle intenzioni di Annibale ed al numero di soldati di cui egli disponeva. Altri errori, e tutti
gravi, furono in seguito commessi che riuscirono fatali a Roma; ma il più grave di tutti fu il primo. Se
infatti, i due eserciti consolari, forti di settantamila uomini, fossero stati mandati in Gallia all'inizio delle
ostilità, le popolazioni di questa regione non si sarebbero forse schierate in favore di Annibale e questi non
avrebbe nemmeno raggiunto, e tanto meno a valicare, le Alpi.

LA MARCIA DI ANNIBALE DA CARTAGENA ALLE ALPI

Conquistata Sagunto alla fine del 219, Annibale si recò a Cartagena. Qui, radunati i soldati iberici, diede
loro licenza di tornare alle famiglie e li invitò a radunarsi nella successiva primavera nella capitale per una
nuova guerra dalla quale intendeva ricavare un grandissimo bottino oltre che la vittoria.
A Cartagena, com'era stato stabilito, l'esercito di Annibale si concentrò nella primavera del 218, forte di
novantamila fanti, dodicimila cavalieri e trentasette elefanti.

Prima di muovere verso l'Italia, Annibale, il quale oltre essere audace guerriero era un capitano dotato di
grande prudenza, con astuzia provvede alla difesa della sua patria ed alla sicurezza delle proprie spalle.
Temendo - e non a torto- che durante la sua assenza i Romani sbarcassero in Africa, inviò a Cartagine un
esercito di soldati iberici composto di quattordicimila pedoni e milleduecento cavalieri. Oltre a questi
affiancò un corpo scelto di quattromila giovani spagnoli che in apparenza dovevano servire di guardia a
Cartagine, ma in realtà rappresentavano ostaggi. Mentre da Cartagine si fece raggiungere da circa
dodicimila fanti e trecento cavalieri africani che con un migliaio di soldati iberici e mercenari liguri lasciò
in Spagna, sotto il comando del fratello Asdrubale, affinché con la loro presenza impedissero alla
popolazione indigena di ribellarsi.

Quando tutto fu pronto, furono inviati in Gallia numerosi informatori, emissari e diplomatici, allo scopo di
esplorare la regione che doveva essere attraversata, ingraziarsi i capi dei Galli nei confronti dell'esercito
cartaginese, e dov'era possibile incitare alla rivolta i locali.

A quel punto Annibale passò l'Ebro e, vinti gl'Illergeti, i Barguzi e gli Aquitani che tentarono di chiudergli
la via, giunse ai Pirenei.

Prima di lasciar la Spagna, volendo assicurarsi la ritirata e presidiare le ultime conquiste, lasciò nella
regione tra l'Ebro e i Pirenei, Annone con diecimila fanti e mille cavalli e, siccome tremila Carpentani del
suo esercito avevano disertato, temendo che l'esempio potesse essere contagioso, né voleva tirarsi dietro
truppe indisciplinate e svogliate, congedò circa settemila soldati che lo seguivano di malavoglia. Con il
resto dell'esercito, ridotto a cinquantamila fanti e novemila cavalieri, passò i Pirenei, attraversò la
Linguadoca e giunse nella valle del Rodano.

Nell'Italia settentrionale intanto, forse incoraggiati dagli emissari di Annibale, i Boi e gli Insubri avevano
brandito le armi e cacciato da Piacenza i coloni romani, i quali s'erano rifugiati dentro le mura di Mutina
(Modena) che fu assediata dai ribelli.Si trovava allora - come abbiamo accennato sopra - il console
PUBLIO CORNELIO SCIPIONE a Pisa con la flotta e l'esercito. Appresa la notizia della ribellione dei Boi
e degli Insubri, Scipione aveva fatto marciare le sue legioni, al comando del pretore LUCIO MANLIO
TORQUATO, verso i luoghi della rivolta e, rimasto senza truppe, era ritornato a Roma per arruolare un
nuovo esercito.Trovandosi però Torquato in una difficile situazione presso la riva destra del Po, Scipione
era stato costretto a mandargli in aiuto il pretore CAJO ATTILIO con una legione romana e cinquemila
soldati italici che aveva appena raccolto per sé, perciò chiamare alle armi altre milizie perdendo così del
tempo preziosissimo. Finalmente, formata una nuova legione, SCIPIONE aveva lasciato Roma e attraverso
la Maremma toscana e la costa ligure era giunto a Marsiglia ponendo il campo presso la foce del Rodano, e
aveva inviato all'interno trecento cavalieri per esplorare la regione e sorvegliare le mosse del nemico.

Il nemico - come sappiamo - era sulla destra del Rodano. La sinistra era tenuta dai Volcari, tribù
potentissime decise a non permettere che Annibale passasse il fiume. Il cartaginese, per passarlo, dovette
ricorrere ad uno stratagemma: affidò ad Annone un discreto contingente di cavalleria, di risalire il fiume
per venticinque miglia, di attraversare il Rodano e discendere poi lungo la riva sinistra e impegnare alle
spalle i Volcari per dare tempo al grosso dell'esercito di effettuare il passaggio. La mossa astuta riuscì in
pieno e l'esercito cartaginese raggiunse la sponda opposta mettendo in fuga i Volcari.
Appresa nel frattempo, la notizia dell'arrivo di Scipione alla foce del Rodano, Annibale spedì verso la costa,
in esplorazione, un corpo di cinquecento cavalieri numidi, ma questi scontratisi con un'avanguardia
composta di trecento Romani, dopo un furioso combattimento, lasciarono sul campo oltre duecento morti e
tornarono all'accampamento cartaginese.

Capì allora Annibale che non c'era tempo da perdere. A lui non conveniva muovere contro l'esercito di
Scipione sia perché non ne conosceva le forze, sia perché aveva alle spalle i Volcari nemici, e sia ancora
perché non voleva compromettere l'esito della spedizione con una sconfitta iniziale, la quale, data la
stanchezza delle sue truppe, quel giorno o anche il successivo era probabile che gli potesse toccare.
Decise quindi di evitare il nemico mentre questo lo cercava presso il Rodano e di marciare verso l'Italia; qui
unendosi ai Boi e Insubri, poteva con probabilità di vittoria attaccare i Romani.

ANNIBALE - IL PASSAGGIO DELLE ALPI (218 a.C.)

Rianimato il suo esercito, Annibale risale il Rodano fino all'Isara (Isère) e giunge nel paese degli Allobrogi.
Qui i due fratelli si disputano il trono. Annibale, chiamato a decider la contesa, aiuta il maggiore e in
compenso ne riceve viveri, vestiti e guide, poi per la valle della Durenza giunge ai piedi delle Alpi.
Davanti a lui s'innalzano monti giganteschi che colle cime par che tocchino il cielo, colossi di pietra che
s'accavallano gli uni sugli altri, le falde ricoperte di foreste e le sommità ammantate di perpetue nevi.
Sono davanti alla imponente e massiccia catena di montagne più alta d'Europa.
I soldati, specie quelli d'Africa, non hanno mai visto nulla di simile e restano ammirati e sgomenti al
grandioso spettacolo. Ma la volontà del duce domina ogni altra volontà, il fascino che esercita vince ogni
paura, la fede da cui è animato scaccia ogni dubbio e infonde nell'animo dei gregari una grande fiducia. E si
rendono pure conto che stanno per compiere qualcosa di straordinario e memorabile.

Bisogna salire, passare, affrontare difficoltà e pericoli, giungere alle altissime vette e ridiscendere dalla
parte opposta; lottare contro gli uomini e contro la natura. Di là dalla barriera immensa delle Alpi, dice il
loro duce, c'è l'Italia, pianure immense, messi rigogliose, giardini verdi, città ricchissime e poi, più giù, c'è
Roma, la grande, l'opulenta Roma da conquistare.L'esercito alle parole d'Annibale, si rinfranca. L'impresa
titanica comincia. Cinquantamila uomini con migliaia di cavalli, decine di elefanti e carriaggi
s'incamminano per raggiungere e superare il valico. È il Piccolo San Bernardo? Il Cenisio? Il Monginevro?
Il Gran San Bernardo? Non si sa; forse il penultimo o quest'ultimo; ma non importa. Sono le Alpi!

Ma i primi ostacoli non sono le montagne, ma gli uomini. I selvaggi abitanti contendono e ostacolano il
passo ad Annibale e, occupate le scoscese parete dei monti che circondano le valli, minacciano di
sterminare l'esercito. Vinti dall'astuzia del Cartaginese non cessano però di causargli molestia e, mentre le
schiere procedono lentamente e faticosamente per le aspre salite, le assalgono alla testa, ai fianchi, in coda;
spaventano con terribili suoni e strani rumori i cavalli, mettendo nel disordine e nello scompiglio l'esercito.
I cavalli, specie quelli da soma, alcuni scivolano, e cadendo giù dai ripidi sentieri si trascinano dietro
bagagli e uomini, mentre altri che dalla paura s'impennano si volgono indietro e tentando di fuggire
investono i retrostanti e quelli e questi precipitano nei burroni.

Occorre aprirsi il passo con le armi e sopportare dolorose perdite di uomini, di animali, di armi e di
masserizie; ma si va sempre avanti; espugnano castelli e villaggi, razziano il bestiame dei valligiani e con
questo le truppe si sfamano.

Ed ecco, dopo giorni e notti di aspri combattimenti e di fatiche inenarrabili, venire incontro con offerte di
amicizia gruppi di montanari. Offrono cibi, ostaggi e guide. L'esercito crede che gli ostacoli siano finiti e
segue fiducioso gli ospitali abitatori dei monti per una valle angusta e dirupata. Ma ad un tratto, le cime
circostanti si coronano di turbe minacciose di selvaggi valligiani e dall'alto cominciano a far rotolare giù
massi che causano una strage e lo scompiglio nelle file dei Cartaginesi.

Bisogna ricominciare a combattere, a fermarsi, e a riordinare spesso le schiere. Si lasciano insepolti i morti,
senza cure i feriti. Il cuore di Annibale sanguina al vedere tante perdite di uomini e di cose; ma la sua
volontà è inflessibile. Avanti sempre; si vincono le ultime resistenze, l'esercito deve sostenere soltanto la
guerriglia di qualche banda di predoni che segue ed accompagna la marcia molestando.

Però, se le difficoltà opposte dai montanari, vanno scemando man mano che si sale verso le cime, crescono
gli ostacoli del terreno, Questo si fa di momento in momento più scosceso, i sentieri non si vedono sotto la
neve ed i ghiacciai, quelli che sono ancora visibili, sono impraticabili; le truppe prive di guide s'inoltrano in
gole senza uscita, in passi inaccessibili dove spesso è necessario retrocedere, si smarriscono in burroni
profondi o sciupano le loro forze in fatiche sovrumane. I viveri scarseggiano, gli animali muoiono d'inedia
o di stanchezza, che dispiace, ma diventano utili al pasto dei soldati; il freddo intenso taglia le carni, massi
enormi si staccano dai fianchi delle rupi sfracellando coloro che salgono, valanghe immense di neve
precipitano dalle sommità; riempiendo di boati paurosi le valli e seppellendo manipoli interi.
Finalmente le vette sono raggiunte. È la meta. Annibale con la sua parola riesce ad infondere nuovo
coraggio ai soldati. Non rimane che scendere; poi ci saranno il riposo e il bottino. La discesa è affrontata.
Ma nuovi e più gravi ostacoli si presentano. Nevica, la tormenta infuria, la tormenta che acceca,
intorpidisce le membra e la volontà, obbliga all'inerzia. E dopo la tempesta di neve e di vento, iniziano le
valanghe, che ostruiscono il passaggio e sommergono, trascinano e travolgono i temerari che osano
attraversarle.
Incomincia un titanico lavoro di piccoli uomini contro la potente natura avversa. Si scava nel ghiaccio, si
taglia un sentiero nella roccia e si discende, seminando le insidiose Alpi, di cadaveri e di carogne. Vince
alla fine l'ostinata volontà umana. La discesa si fa più dolce, i sentieri più agevoli, le nevi più rade;
ricomincia la vegetazione; le Alpi bianche gigantesche si sostituiscono a montagne e colline ricoperte di
verde smeraldo, agli orribili burroni si succedono ora incantevoli valli con grandi pascoli, e gli abitanti non
sono ostili. E' la fine dell'impresa sovrumana.

Gli animali trovano i pascoli che li ristorano, i soldati trovano cibi che li sfamano, poi il confortante mite
clima e il riposo diventa dolcissimo.

Annibale ha vinto; ma quante perdite, e quali sacrifici è costata quest'impresa!


È partito dalla Valle del Rodano con cinquantamila fanti e novemila cavalieri ed ora il suo esercito è ridotto
a ventimila pedoni, a seimila cavalli e a sette elefanti. Le Alpi hanno inghiottito 30.000 uomini in quindici
giorni, nove impiegati nella salita, sei nella discesa!

Un'impresa memorabile che un altro audace ripeterà 2018 anni dopo: Napoleone! Siamo nell'ottobre del
218 a.C., cinque mesi da quando Annibale, con un esercito imponente, è partito da Cartagena.
II suo esercito non è più possente come quello della primavera, ma il Cartaginese spera di trovare alleati in
Italia. Intanto la prima parte del suo grandioso sogno è realtà, ANNIBALE calpesta finalmente dopo tante
fatiche il suolo della penisola, sottomessa alla potentissima Roma, all'odiata rivale della sua sfortunata
patria.

LA BATTAGLIA DEL TICINO

Mentre Annibale era quasi alla sorgente del Rodano, CORNELIO SCIPIONE era alla foce, e dopo il
sanguinoso combattimento tra cavalieri romani e cartaginesi si era mosso con tutte le sue truppe alla ricerca
di Annibale, ma quando finalmente giunse sulla riva sinistra del fiume, dove i Cartaginesi avevano posto
l'accampamento, trovò questo abbandonato e seppe che il nemico era partito da tre giorni.
Disperando di poterlo raggiungere, ritornò a Massilia (Marsiglia) e qui giunto, inviò il fratello GNEO
SCIPIONE (di cui parleremo più avanti) con la maggior parte dell'esercito in Spagna a proteggere le
popolazioni amiche di Roma e a infastidire Asdrubale; poi con le poche forze che gli rimanevano, questa
volta via di mare raggiunse Pisa pensando di unirsi agli eserciti di Torquato e di Attilio, che si trovavano
presso il Po, e di attaccare Annibale stanco e stremato dal difficile passaggio delle Alpi.
Giunto a Pisa, il console iniziò la sua marcia attraverso l'Etruria e, valicati gli Appennini, giunse nelle
vicinanze di Piacenza. Riunite le sue truppe con quelle dei pretori, composte la maggior parte di reclute e
provate per giunta dalla guerra che avevano dovuto sfavorevolmente sostenere con i Galli ribelli,
SCIPIONE assunse il comando dell'esercito e, passato il Po, pose il campo tra il Ticino e la Sesia e sul
Ticino fece costruire un ponte.

Annibale intanto, giunto nella pianura aveva provato una delusione. Partendo dalla Spagna, aveva sperato
negli aiuti dei Galli cisalpini ed invece questi, intimoriti forse dalla presenza di Scipione, si mostravano
dubbiosi mentre i Taurini non nascondevano il proposito di sbarrargli il passo. Costretto dal contegno ostile
di questi ultimi, Annibale ingaggiò con loro battaglia, li sconfisse, conquistò la principale città della
regione, poi avanzò avendo sicure le spalle, verso il Ticino ed, approfittando dell'inerzia dell'esercito
consolare, mandò MAARBALE con cinquecento cavalieri della Numidia a saccheggiare i territori abitati
da popolazioni amiche di Roma e a persuadere i capi dei Galli a schierarsi dalla parte dei Cartaginesi.
Avendo però saputo che Scipione era penetrato nell'Insubria (nell'odierno Milanese) e si era accampato
presso gli alloggiamenti cartaginesi, richiamò Maarbale e si preparò a sostenere l'urto dei Romani.

Secondo la narrazione di TITO LIVIO, Annibale, radunato l'esercito, promise a ciascun soldato come
premio della vittoria terre in Italia, in Spagna e in Africa e molti denari, promise agli alleati la cittadinanza
cartaginese, ai servi la libertà, e ai padroni, per ogni servo liberato, due prigionieri. E, per mostrare che
avrebbe mantenuto le promesse sollevò con la sinistra un agnello, impugnò con la destra una grossa selce
indi, pregate le divinità di dargli la morte che stava per dare all'agnello se mancava di parola, schiacciò con
la pietra la testa dell'animale.

Secondo lo stesso Livio, uno dei giorni che precedettero la battaglia, un lupo penetrò nel campo romano e,
feriti alcuni soldati, riuscì a fuggire illeso. Nel medesimo tempo uno sciame di api si posò sopra un albero
che sovrastava la tenda del console. Questi fatti furono interpretati come infausti auguri e si narra che
misero lo sgomento tra le truppe romane.Finalmente il giorno della grande battaglia giunse. Scipione mise
in prima linea i veliti e la cavalleria e, dietro le fanterie; Annibale pose al centro del suo schieramento la
cavalleria iberica e la fanteria, e alle due ali estreme i cavalieri della Numidia (attenzione a questi ultimi!)
Non appena fu iniziato il combattimento i veliti, urtati violentemente dalla cavalleria nemica, si ritirarono
sulla seconda linea e la battaglia continuò fra le due opposte cavallerie per un certo tempo e sempre con
esito incerto e, siccome lo spazio era ristretto, e mano a mano che il combattimento si svolgeva i pedoni
s'interponevano fra i cavalieri, questi erano stati costretti a smontare di sella e a combattere pure loro a
piedi.

Con la stessa energia si combatteva da una parte e dall'altra. Lo scontro era più acceso che mai, ma senza
dominare l'una o l'altra, quando Annibale ordinò ai cavalieri della Numidia, i quali formavano le estremità
delle ali, di sganciarsi da queste, di aggirare quasi inosservati, perché posti alle estremità, dalla destra e
dalla sinistra l'esercito romano al centro, e poi attaccarlo alle spalle.
La mossa fu decisiva e riuscì perfettamente, causando un macello, e mettendo nello scompiglio le legioni
consolari. Pure SCIPIONE fu ferito e sarebbe stato ucciso se un servo o - come altri antichi storici narrano -
il figlio diciassettenne (che in seguito diventerà famoso) non avesse protetto con il proprio corpo il padre.
Attorno al console si strinse la cavalleria romana, la quale, vista la giornata infausta, senza cessare di
combattere, lentamente ripiegò verso il campo, portando in salvo Scipione.

BATTAGLIA DELLA TREBBIA

La cavalleria di Annibale, superiore numericamente alla romana, aveva deciso le sorti della battaglia. Per
non esser costretto a scontrarsi ancora in pianura con i Cartaginesi, Scipione, durante la notte, levò il campo
e, riattraversato il Po, scese a rifugiarsi a Piacenza.

Annibale, accortosi troppo tardi della ritirata nemica, lanciò all'inseguimento la


cavalleria iberica al comando di MAGONE, poi lui stesso si mosse con il grosso dell'esercito e, giunto nella
Gallia Cispadana, si accampò a sei miglia da Piacenza.

Il suo arrivo presso l'accampamento di Scipione provocò la defezione di numerosi Galli che militavano
sotto le insegne consolari: duemila fanti e duecento cavalieri Galli, massacrate le sentinelle, passarono al
nemico, che, accolti con calore, li inviò nei loro rispettivi paesi per portare le buone novelle e così sollevare
gli abitanti contro Roma.Questo fatto preoccupò non poco Scipione. Lasciata di notte Piacenza, passò la
Trebbia e si rafforzò sulle colline che sorgono presso la sinistra del fiume, e dove Annibale lo seguì.

La notizia dell'infelice battaglia del Ticino era giunta a Roma e il Senato aveva scritto al console
SEMPRONIO, che si trovava in Sicilia, di portare aiuto, appena possibile al collega. Sempronio accettò
malvolentieri quest'ordine: le cose, nell'isola, andavano felicemente per i Romani; una piccola flotta
cartaginese era stata sconfitta nelle acque di Lilibeo e Malta si era arresa con i duemila Cartaginesi della
guarnigione. Ma la sua presenza era reclamata altrove e Sempronio, lasciata la difesa della Sicilia alle cure
del pretore EMILIO, attraverso lo Jonio e l'Adriatico, sbarcò a Rimini, poi raggiunse il collega Scipione
sulla Trebbia.
Annibale, approfittando dello stallo delle truppe romane di Scipione che attendeva i rinforzi di Sempronio,
aveva risolto bene il suo problema del vettovagliamento impadronendosi di Clastidio, dove c'erano i
magazzini di viveri dei Romani, ma ora, temendo che i suoi rinforzi gallici intimoriti dall'arrivo di
Sempronio, si schierassero dalla parte dei Romani, inviò duemila fanti e mille cavalieri a fare scorrerie nel
territorio posto tra la Trebbia e il Po allo scopo di intimorire gli abitanti e costringerli a sposare la sua
causa.

Ma ottenne l'effetto contrario. I Galli chiesero protezione ai Romani e Sempronio, contro il parere del
collega, inviò la sua cavalleria con mille pedoni, i quali sorpresi i Cartaginesi sparpagliati e carichi di
bottino, parte ne uccisero, parte inseguirono fin sotto il campo nemico presso il quale si accese una violenta
mischia favorevole ai Romani.

Questa però altro non era che il preludio della grande battaglia che doveva esser combattuta di lì a poco.
L'iniziativa fu presa da Annibale. Mise suo fratello Magone con mille uomini scelti in agguato fra le
macchie in mezzo cui scorreva un piccolissimo affluente di destra della Trebbia, fece accendere nel campo
dei grandi fuochi intorno ai quali ordinò che le sue truppe si scaldassero e mangiassero, comandò inoltre
che i soldati si ungessero il corpo con olio per resistere meglio al freddo e, infine, inviò un corpo di
cavalieri Numidi sulla sinistra della Trebbia con l'ordine di attaccare le truppe dei consoli e, poco dopo,
simulata una fuga, di ripassare il fiume.

Era una giornata rigidissima; durante il giorno era piovuto e la Trebbia si era ingrossata; nella notte cadeva
fitta la neve. I legionari si trovavano dentro il loro campo quando improvvisamente questo fu assalito dai
cavalieri di Annibale.Piuttosto che tenersi sulla difensiva, come avrebbe voluto Scipione, Sempronio,
mandò contro il nemico, tutta la cavalleria di cui disponeva (seimila uomini), poi il resto delle truppe di
fanteria, composta di diciottomila Romani, ventimila Italici e alcune schiere di Cenomani.
I Numidi dopo una piccola schermaglia, volsero le spalle, i Romani li inseguirono e, benché digiuni, si
misero nell'acqua e passarono il fiume.Quando giunsero oltre la sponda opposta erano sfiniti di forze e
intirizziti dall'acqua che si era gelata sui loro corpi.

Annibale intanto aveva disposto a battaglia le sue truppe: in prima linea ottomila tra frombolieri e sagittari
delle Baleari e soldati armati alla leggera, nella seconda tutta la fanteria; alle due ali gli elefanti e circa
diecimila cavalieri. Appena ripassata la Trebbia, i cavalieri Numidi si rivolsero contro i legionari e
cominciarono a tener loro testa, per questo motivo, Sempronio ordinò alla sua cavalleria di raccogliersi
presso le fanterie. Allora Annibale diede ai suoi il segnale della battaglia; primi ad ingaggiarla furono i
Balearici e gli armati alla leggera, ma, resistendo al loro attacco le legioni e cominciando queste ad avere il
sopravvento, quelli si recarono verso le ali, scoprendo la fanteria di Annibale.

Anche se digiuni e intirizziti dal freddo, i fanti romani si battevano coraggiosamente, tenendo a bada la
fanteria avversaria. Con non minore valore combattevano i cavalieri, quantunque si trovassero di fronte ad
un numero quasi doppio di cavalieri nemici; ma presi di fianco dai Balearici cominciarono a cedere.
Annibale lanciò addosso alla cavalleria romana i suoi elefanti ma non ottenne il risultato che si era
ripromesso perché da squadre specialmente addestrate a imbizzarrire i pachidermi, furono ributtati indietro
ed avrebbero riportato il disordine nelle schiere cartaginesi se un tempestivo intervento di Annibale non li
avesse rivolti contro i Cenomani.

Fu allora che entrarono in azione i mille di MAGONE alle spalle dei Romani; questi, circondati dalla
cavalleria avversaria, con il fiume dietro e i fanti di Annibale davanti, dopo energica e lunga resistenza,
benché sfiniti dalla fatica, dalla fame e dal freddo, tentarono di liberarsi dalla stretta. Un corpo di diecimila
Romani, operando più che con il valore con la disperazione contro i Cartaginesi, si aprì un varco causando
una grande strage di nemici, ma, poiché non poteva tornare indietro al campo a causa del fiume alle loro
spalle, né poteva soccorrere gli altri, si diresse alla volta di Piacenza. Quelli che rimasero, cercarono pure
loro di rompere il cerchio che li stringeva e molti riuscirono a raggiungere il campo, altri si dispersero per
le campagne, e altri ancora, tentando di passare a guado la Trebbia, furono travolti dalla corrente, morti
assiderati dall'acqua gelida, o uccisi dai nemici. Il tempo orribile, la fatica e le numerose perdite subite non
permisero all'esercito di Annibale di sfruttare la vittoria, e ritiratosi negli alloggiamenti non osò molestare
durante la notte i resti dell'esercito romano, che condotto da SCIPIONE, dopo aver passato il fiume,
raggiunta Piacenza, si trasferì a Cremona.

GNEO SCIPIONE IN SPAGNA

Alla notizia della sconfitta della Trebbia a Roma - come al solito- furono fatti solenni sacrifici agli dei; ma
non erano le geremiadi, i piagnistei, gli atti di devozione e le immolazioni a far cambiare la situazione;
credendo poco agli dei e di più alla forza, molto più pragmatico il Senato si affrettò a chiamare sotto le armi
quattro legioni e radunò nel porto di Ostia centoventi navi, affinché si tenessero pronte a impedire che dalla
Spagna o dall'Africa giungessero, per mare, rinforzi di truppe ad Annibale.
Né queste navi rimasero a lungo oziose, perché, infatti, una flotta cartaginese comandata da Annone,
raccoltasi nelle acque della Sardegna, tentò dall'isola di avvicinarsi alle coste dell'Etruria, ma fu dalle navi
romane costretta a rinunciare e far ritorno nei porti d'Africa.

Così Annibale non ruscì a ricevere dalla patria per via di mare nessun aiuto, né poteva sperarlo dalla
Spagna dove - come si è detto - si era recato GNEO SCIPIONE. Questi, sbarcato nella costa Iberica, si era
impadronito di Ampurias, poi un po' con la forza, un po' con un accorta politica, aveva rinnovato le antiche
alleanze, ne aveva contratte di nuove ed aveva indotto i rivieraschi e gli abitanti dell'interno a fornirgli
uomini che aveva, in seguito, addestrati alle armi. Marciando poi contro ANNONE - il quale si era
proposto di contrastare con le armi l'azione di Scipione - lo aveva sconfitto e fatto prigioniero, uccidendo
seimila Cartaginesi, catturando duemila prigionieri e impadronendosi del campo con un ricco bottino.

A sbarrare il passo al condottiero romano era però corso dalla Spagna meridionale ASDRUBALE con
ottomila fanti e mille cavalieri. Passato l'Ebro, aveva sorpreso presso Taracona i contingenti sbarcati delle
navi nemiche e li aveva costretti, a rifugiarsi sulle stesse, infliggendo rilevanti perdite; ma, temendo
l'avvicinarsi di Scipione, si era affrettato a ripassare l'Ebro, poi, tornato una seconda volta, era riuscito ad
attirare a sé alcune popolazioni con cui Scipione aveva stretto amicizia. La reazione di GNEO era stata
immediata ed aveva riconquistato tutta la regione tra l'Ebro e i Pirenei; gli Illergeti ribelli erano stati
sconfitti e sottomessi, assediata ed espugnata la città di Atanagia, invaso il territorio degli Ausetani e -dopo
un mese di assedio- costretta alla resa la loro capitale.

Scipione lo abbiamo lasciato a Cremona, mentre Roma sgomenta con la disfatta alla "Trebbia" doveva
decidere in fretta cosa fare; con la fuga dal Po delle legioni ROmane, ora Annibale aveva la porta
spalancata sugli Appennini.
DALLA TREBBIA ALLA DISFATTA DI CANNE

LA BATTAGLIA DEL TRASIMENO - RESISTENZA DI SPOLETO - QUINTO FABIO MASSIMO IL


TEMPOREGGIATORE - MARCO MINUCIO RUFO - VITTORIA DI LARINO - LA BATTAGLIA DI CANNE -
MORTE DEL CONSOLE LUCIO EMILIO PAOLO
------------------------------------------------------------------------------------------------------------
BATTAGLIA DEL TRASIMENO (217 a.C.)

Dopo la sconfitta e la fuga delle legioni nella "battaglia della Trebbia", SCIPIONE, passato il Po, raggiunta
Piacenza, si era poi trasferito a Cremona. Come abbiamo già detto nel precedente capitolo, dopo questa
"sventura", a Roma - come il solito- furono fatti solenni sacrifici agli dei (perfino umani, seppellendo vivi
una coppia di Galli); ma non erano le geremiadi, i piagnistei, gli atti di devozione e le immolazioni a far
cambiare la situazione che era molto critica; ora Annibale aveva le porte aperte verso l'Appennino,
raggiunto il quale, chi poteva fermarlo se decideva di scendere a Roma? Credendo poco agli dei e di più
alla forza, molto più pragmatico il Senato si affrettò a chiamare sotto le armi quattro legioni

Nelle elezioni del 217 a.C., Roma elesse consoli CAJO FLAMINIO II e GNEO SERVILIO GEMINO. Il
secondo fu inviato ad Arimino (Rimini) allo scopo di sbarrare con il suo esercito il passaggio dei nemici
lungo la costa adriatica, il primo fu invece inviato nelle vicinanze di Arezzo per custodire i varchi
dell'Appennino e impedire all'esercito di Annibale di penetrare nell'Etruria. Ma lo scaltro condottiero
cartaginese, che non voleva combattere nei luoghi scelti dal nemico, scese nell'Italia centrale
dall'Appennino ligure attraverso la valle del Serchio. Fu una marcia faticosa e disastrosa, e la traversata
delle maremme del Valdarno inferiore costò ai Cartaginesi perdite non indifferenti di uomini e di animali.
Annibale stesso soffrì molto, e ammalatosi, perse -non si sa come- un occhio.
Solo quando giunse nel fertile, sano e ricco territorio tra Fiesole ed Arezzo, l'esercito barbaro riuscì
finalmente a riposarsi e a rifarsi dalle logoranti fatiche.

Scopo di ANNIBALE era costringere FLAMINIO a muoversi e ad attaccarlo, prima che SERVILIO,
appresa la sua discesa in Etruria, si muovesse da Rimini per congiungersi con il collega. E siccome
conosceva il carattere impaziente dell'ambizioso console e sapeva che questi, malvisto dal Senato,
desiderava procurarsi gloria - ma non aveva la virtù della prudenza, un difetto che fu causa degli insuccessi
avuti anni prima nella guerra contro i Galli- ANNIBALE lo stuzzicava devastando ed incendiando i territori
dove passava.

Nell'agire così, Annibale riuscì a raggiungere lo scopo. Giunto tra il lago Trasimeno e i monti di Cortona, il
Cartaginese si fermò ad aspettare nella trappola che gli stava preparando, il vanaglorioso Romano. Il luogo
era fatto apposta per un agguato: tra i monti e il lago corre uno stretto passaggio, che sbocca a sud in una
pianura circondata da colline. Il gran capitano appostò alle falde di alcuni di questi colli, all'imbocco
settentrionale del passo, la cavalleria, abilmente mascherandola; scaglionò sulle colline cortonesi i soldati
delle Baleari e le truppe armate leggere, mentre lui, con il grosso dell'esercito composto di Africani e
Spagnoli, si accampò bene in vista nella pianura.

Sembra incredibile l'ingenuità del romano, eppure Flaminio, con la sua imprudenza, cadde nel banale
tranello. Non potendo sopportare che il nemico devastasse l'Etruria e poi procedere indisturbato verso
Roma, disdegnando il saggio parere di coloro che consigliavano di aspettare Servilio, ordinò all'esercito di
seguire Annibale, poi dopo averlo visto mettere il campo così bene in vista nella pianura, ordinò di
schierarsi per dargli battaglia. Né si curò di certi segni nefasti avvenuti prima della partenza. Gli si
annunziava che lo stendardo pur con la fatica non si riusciva a conficcarlo al suolo; lui rispose: "Che
adoperino la zappa se per la paura hanno le mani affaticate". Altro segnale - si narra - che mentre lui
balzava a cavallo, questo imbizzarritosi, lo fece capitombolare al suolo. Non importa i presagi e tante simili
sciocchezze; si deve partire lo stesso, e si parte.

L'esercito romano giunge al lago sul far della sera e si ferma. Il giorno dopo, prima ancora che spunti l'alba
e senza mandare in giro gli esploratori (che avrebbero potuto scoprire le forze appostate nei dintorni),
FLAMINIO impartì l'ordine di muoversi. Le legioni marciano attraverso lo stretto passaggio tra il lago e i
monti; quando l'avanguardia è appena sboccata nella pianura e la retroguardia ha appena finito di penetrare
nell'imbocco, questo è sbarrato dalla cavalleria nemica. A quel punto al centro della pianura Annibale dà il
segnale della battaglia e da tre parti si corre ad assalire impetuosamente l'esercito romano.
Quel giorno una nebbia bassa ricopriva il campo e toglieva la vista ai Romani, i quali, colti alla sprovvista e
udendo da ogni parte le grida dei nemici, non sanno neppure da che punto voltarsi per difendersi, se dietro,
davanti, al lato destro o a quello sinistro, né hanno il tempo di schierarsi e tirare fuori le armi.
Ciononostante, nello sbigottimento generale, FLAMINIO mantiene una calma ammirevole e fornisce prove
di grandissimo coraggio. Ordina, nel caos, come meglio e dove può, la calma alle schiere e prega, conforta,
comanda che si stia saldi e si combatta senza angoscia e va affermando che la salvezza è soltanto riposta
nel valore e nelle armi e che è inutile pregare gli dei o fare voti; che occorre aprirsi la via con il ferro, ed è
minore il pericolo dov' è minore la paura.

Ma il tumulto e il rumore impediscono ai soldati di riconoscere perfino le insegne e le proprie schiere, ed è


così fitta la nebbia che usano più gli orecchi che non gli occhi; ed è così grande la confusione che c'è
appena lo spazio di sguainare le spade. Alcuni fuggono, ma sono arrestati dai soldati cartaginesi che hanno
sferrato l'attacco, altri fuggiaschi tornando a combattere sono respinti da altri che fuggono. Infine, visto che
non c' è nessuna speranza di uscire dalla stretta con la fuga, i Romani iniziano veramente a combattere
disperatamente, decisi a vender cara la pelle; ed è così accanita la mischia e così alto il fragore delle armi
che nessuno dei combattenti avverte in quel preciso istante un terremoto che quel giorno danneggiò molte
città d'Italia.

Tre ore di dura e aspra battaglia, più accanita che altrove è quella che infuria attorno al console che fa
prodigi di valore. Però, ad un tratto, un Gallo d'Insubria, chiamato DUCARIO, che milita sotto le insegne di
Annibale, lo riconosce e, spronato il cavallo, dà addosso al console; ucciso prima un soldato che tentava di
proteggere il capitano, trapassa con l'asta da parte a parte FLAMINIO che si abbatte morto al suolo. Non
contento di averlo ammazzato, il Gallo tenta di spogliarlo, ma i triari, ricoprendo il cadavere del console
con gli scudi, lo difendono. La morte del console segnò il principio della disfatta e della fuga. Molti
cercarono scampo per la via dei monti e caddero uccisi dai nemici, molti altri perirono miseramente nelle
acque del lago, i più caddero con le armi disperatamente strette in pugno.

I Cartaginesi subirono solo 1500 morti; i Romani 15.000 vittime e altri 15.000 fatti prigionieri: soltanto
diecimila riuscirono, approfittando della nebbia e della confusione, a fuggire e tornare alla spicciolata a
Roma a raccontare la disfatta.

Nella battaglia, all'inizio, quando vi era la nebbia, seimila Romani della prima schiera, combattendo
ordinatamente, erano riusciti a sfondare le file nemiche dalla parte della pianura; fermatisi sopra un colle, lì
rimasero indecisi non sapendo come andavano le cose, ma a metà giornata dissipatasi la nebbia videro con i
loro stessi occhi, che l'esercito era stato sconfitto e per non cader prigionieri si erano allontanati. Raggiunti
però dalla cavalleria di Maarbale e ricevuta da questo la promessa che se deponevano le armi sarebbero
stati messi in libertà e in più in regalo una veste a ciascuno di loro, quelli prestarono fede alle parole del
Cartaginese, ma poi giunti al campo di Annibale, questi li trattenne come prigionieri.

Un corpo di quattromila cavalieri, comandati dal vicepretore CAJO CETRONIO spediti pochi giorni prima
dal console Servilio, giunse al Trasimeno quando l'esercito di Flaminio era stato distrutto; ripiegarono
nell'Umbria, ma, inseguiti e circondati dalla cavalleria cartaginese, superiore di numero, buona parte furono
uccisi, il resto catturati o fuggiti. Con la vittoria del Trasimeno, ora la via di Roma era aperta all'esercito di
Annibale. Si era nell'aprile dell'anno 217.

RESISTENZA DI SPOLETO

Dopo la vittoria conseguita alle rive del lago Trasimeno, Annibale trattenne solo i prigionieri Romani
mentre lasciò liberi senza riscatto i prigionieri italici, dicendo loro che lui era sceso nella penisola per
combattere solo contro Roma e per rendere la libertà a tutte le popolazioni d'Italia.
Così facendo, Annibale sperava di ingraziarsi l'animo dei popoli della penisola e di riceverne aiuti con i
quali potesse poi con maggiore probabilità di successo assalire Roma. Fu appunto per questo motivo che,
dopo la giornata del Trasimeno, anziché puntare su Roma - e lo poteva fare perché in quel momento nessun
esercito nemico gli contrastava il passo - si rivolse e marciò verso l'Umbria ed assalì la città di Spoleto, una
forte colonia Romana.

Ma gli Spoletini non si lasciarono sgomentare dalla preceduta fama del generale nemico né dalla turba
innumerevole del suo esercito. Vollero rimanere fedeli a Roma e difendere la propria libertà; né valsero gli
assalti impetuosi delle orde iberiche, galliche e cartaginesi, le quali furono coraggiosamente respinte dai
cittadini con abbondante lancio di frecce e di sassi dall'alto delle mura, con olio bollente versato dalle cime
delle torri e con audaci sortite. A ricordare lo scacco subito dai Cartaginesi, Spoleto denominò una delle sue
porte, quella della fuga di Annibale, e perpetuò il glorioso fatto su una lapide, la cui epigrafe dice:
"Annibale dopo avere sconfitto i Romani al Trasimeno, respinto da Spoleto con grande strage dei suoi
mentre ostilmente marciava verso Roma, con la memorabile fuga assegnò il nome alla porta".
Fallita l'impresa di Spoleto, Annibale, sperando di trovar minori difficoltà nell'Italia meridionale e contando
sui Sanniti e sui Greci, attraversò l'Appennino, poi, costeggiando l'Adriatico, per le regioni dei Marsi, dei
Peligni, dei Marrucini e dei Frencani, giunse nell'Apulia e si accampò tra Arpi e Luceria, aspettando che le
popolazioni innalzassero il vessillo della rivolta.

QUINTO FABIO MASSIMO, IL "TEMPOREGGIATORE"

A Roma, giunta la notizia della disfatta del Trasimeno, si pensò di affidare le sorti della repubblica ad un
dittatore; ma secondo le leggi poiché il console che doveva crearlo, era assente, né si poteva aspettare che
tornasse, fu, dietro proposta del Senato, creato dai comizi centuriati un prodittatore nella persona del
patrizio QUINTO FABIO MASSIMO al quale fu dato, come maestro della cavalleria, il plebeo MARCO
MINUCIO RUFO. Fatti voti solenni alle divinità, il prodittatore ordinò che si rafforzassero le mura e le
torri di Roma e vi si ponessero grosse guardie d'armati e dispose che fossero tagliati i ponti; comandò
inoltre che si abbandonassero i paesi e i castelli privi di buone fortificazioni e gli abitanti si ritirassero solo
nelle città fornite di opere salde di difesa e che le case e le campagne poste sul cammino di Annibale
incendiate affinché al nemico mancassero le vettovaglie. Arruolò poi due legioni, e con queste andò
incontro al console, attraverso la via Flaminia, per ricevere i resti dell'esercito.
Preso, nelle vicinanze di Otricolo, il comando di tutte le truppe, Quinto Fabio Massimo ordinò a
SERVILIO di recarsi ad Ostia, di armare quante più navi possibile, e con una parte guardare le coste,
un'altra di inseguire la flotta cartaginese che aveva catturate alcune navi romane che portavano viveri in
Spagna.
Date queste disposizioni, il prodittatore, attraverso Tivoli e Preneste, marciò con grande circospezione
verso l'Apulia. Proposito di Fabio era quello di non affidare le sorti della guerra ad una battaglia campale,
perché sapeva che una terza sconfitta sarebbe stata fatale per Roma, potendo scuotere la fedeltà degli
Italici; a lui premeva che da Cartagine non giungessero rinforzi ad Annibale, che l'esercito romano si
tenesse in serbo per l'ultimo inevitabile scontro, che il nemico si logorasse da solo a poco a poco, ed infine
che si portasse nell'estremità della penisola dove qui poi poteva essere bloccato.
Occorreva pertanto seguirlo da vicino, tenendosi costantemente sulle alture per non essere assalito dalla
cavalleria nemica numericamente superiore, sorvegliarlo attentamente e stancarlo con continue
schermaglie.
Questa tattica guerresca, che secondo alcuni storici salvò Roma e l'Italia dalla rovina, valse a Quinto Fabio
Massimo il nome di "cunctator", il "temporeggiatore".

Ben presto Annibale si accorse di quanta prudenza fosse dotato il nuovo generale romano e come fosse più
facile avere ragione della sconsiderata aggressività di un Sempronio e di un Flaminio che della saggia
calma di un Fabio. Per questa ragione cercò di attirarlo a battaglia, sfidandolo e molestandolo e devastando
e saccheggiando paesi e campagne per provocar l'ira del nemico. QUINTO FABIO non si lasciava vincere
dall'astuzia del Cartaginese, lo seguiva sempre, ma rifiutava ostinatamente di battersi. Teneva le truppe nel
campo e le lasciava uscire solo quando vi era costretto dal bisogno e sempre con le precauzioni che il caso
richiedeva. Così facendo non rischiava di perdere l'esercito in una battaglia sfortunata, restringeva con la
quotidiana minaccia della sua presenza il campo d'azione del nemico e con scaramucce ben preparate e ben
condotte abituava i soldati a non temere i Cartaginesi.

Annibale poiché l'Apulia non si ribellava a Roma, varcati gli Appennini, passò nel Sannio seguito sempre
dal prodittatore, e saccheggiò orribilmente il territorio di Benevento e conquistò la città di Telesia. Dal
Sannio, su consiglio di tre capuani fatti prigionieri al Trasimeno, Annibale marciò verso la Campania e,
poiché dalle persone pratiche dei luoghi fu consigliato di andare attraverso il contado casinate, si affidò ad
una guida, la quale avendo capito che i Cartaginesi volevano essere condotti a Casilino anziché a Casino,
per il contado allifano, calatino e caleno, guidò Annibale nel piano stellatino.

La guida scontò poi con la crocifissione l'errore non suo.Accampatosi nel piano stellatino, ANNIBALE
inviò MAARBALE con parte della cavalleria a predare nel territorio falerno. Maarbale si spinse fino a
Sinuessa, bruciando senza pietà le meravigliose campagne della Campania e distruggendo, al suo
passaggio, tutti i paesi e le ville non riuscendo però a muovere le popolazioni dalla fede di Roma né ad
attirare nella pianura Fabio, il quale dal monte Massico sorvegliava le mosse ed assisteva alla devastazione
del nemico. Intanto era trascorsa l'estate dello stesso anno 217 a.C., ed Annibale, vedendo fallita la
speranza di sollevare la Campania e desiderando di trovare un luogo dove mettere al sicuro le prede fatte e
anche per svernare, decise di dirigersi verso il mezzogiorno. Attraverso delle spie queste intenzioni
giunsero a conoscenza di QUINTO FABIO MASSIMO e volle approfittare del luogo svantaggioso in cui
Annibale si trovava per chiudere l'esercito cartaginese. Inviò pertanto quattromila uomini sulla strada, che
dal Volturno porta ad Allife e chiuse il passo di Casilino, mettendo sulla sinistra del Volturno la
guarnigione della città ed occupando con il grosso dell'esercito il monte Callicula sulla destra del fiume.
Annibale si accorse e intuì il piano di Fabio e cercò di farlo fallire con uno stratagemma che gli riuscì a
meraviglia. Portatosi di nascosto nelle vicinanze del passo, ordinò, che, durante la notte, ASDRUBALE con
alcune schiere armate alla leggera spingessero verso le alture che dominavano la strada, duemila buoi con
legati alle corna singolari aggeggi che bruciavano, per far credere ai Romani che il suo esercito, al lume
delle fiaccole, marciava in quella direzione.

Giunta la notte e messi in movimento i buoi per le colline, le guardie romane che custodivano i passi,
vedendo tante fiaccole sulle alture, lasciarono i posti dove erano stati messi, e per paura di essere
circondati, si ritirarono sulle cime più alte, dando così tempo all'esercito cartaginese di raggiungere il
territorio allifano.

Qui lo seguì poi Fabio. Annibale giocò ancora d'astuzia: finse di dirigersi per il Sannio alla volta di Roma
poi, giunto nel territorio dei Peligni, cambiò strada, puntò verso l'Apulia ed occupò la città di Geronio.

MARCO MINUCIO RUFO

La tattica di Fabio era senza dubbio eccellente e l'unica che si potesse allora usare contro un generale astuto
e geniale qual'era Annibale; ma non era da tutti approvata. Nonostante avesse dato fino allora ottimi frutti,
l'esercito romano non riusciva ad assistere inoperoso ed indifferente alle devastazioni consumate dalle
truppe di Annibale e dentro nelle file delle legioni si era venuta formando una corrente ostile ai metodi del
prodittatore, composta di giovani focosi ed impazienti che desideravano di misurarsi in battaglia con il
nemico e decidere con le armi, anziché con il temporeggiare, le sorti della lunga guerra.

Alla testa dei malcontenti vi era il maestro della cavalleria, MARCO MINUCIO RUFO, che non si lasciava
sfuggire nessuna occasione per criticare la condotta di Fabio. Accadde che Fabio dovette lasciare l'esercito
per recarsi a Roma a causa di alcuni riti religiosi che dovevano essere compiuti e il comando delle legioni
rimase a Minucio, che si trovava accampato nel territorio di Larino (Campobasso) a poca distanza da
Geronio.

Quantunque avesse ricevuto ordine dal prodittatore di seguire la tattica temporeggiatrice e di non assalire il
nemico, Minucio Rufo non seppe resistere al proprio desiderio e a quello dell'esercito di misurarsi con i
Cartaginesi e, presentatasi l'occasione, assalì improvvisamente un reparto nemico uscito in cerca di
frumento, e violentemente lo sbaragliò, poi scrisse a Roma annunciando questo successo come una grande
vittoria.

Il partito popolare esaltò la condotta del plebeo Minucio, condannando così la tattica di Fabio, la quale
anche presso i nobili aveva trovato oppositori, e il tribuno della plebe MARCO METELLO propose che
MINUCIO RUFO fosse innalzato alla dignità di Fabio e che si dividesse fra i due la dittatura e reclamò
inoltre che il "Temporeggiatore", prima di tornare al campo, eleggesse il successore del morto console
Flaminio.

La proposta di Metello caldamente appoggiata dal console CAJO TERENZIO VARRONE, demagogo
plebeo che, figlio di un macellaio, aveva saputo acquistarsi il favore del popolo e ricoperto la carica di
questore, di edile e di pretore, ottenne l'approvazione dei comizi e il maestro della cavalleria fu innalzato al
grado di prodittatore. QUINTO FABIO, creato console MARCO ATTILIO REGOLO, se ne tornò a
Larino; e, avendo Minucio proposto che i due prodittatori tenessero un giorno ciascuno il comando
supremo, Fabio si oppose e preferì che l'esercito si dividesse in due parti.
Annibale volle trarre profitto dalla nuova situazione dei Romani, fattasi debole per l'improvvisa mancanza
dell'unità di comando; collocò cinquemila fanti in una valle per organizzare un agguato, poi inviò una
piccolo contingente ad occupare un colle posto tra Geronio e il campo di Minucio allo scopo di provocare a
battaglia all'impaziente capitano.

MINUCIO abboccò e inviò un corpo di armati alla leggera affinché cacciassero dalla collina occupata dal
nemico. La battaglia, che si era accesa all'inizio fra poche truppe, ben presto assunse in breve vaste
proporzioni, quando Minucio fu costretto a impiegare sempre più forze e alla fine tutte; ed è quello che
voleva Annibale, che a quel punto ordinò ai cinquemila Cartaginesi posti in agguato di assalire alle spalle i
Romani.

Questi sgomenti, iniziarono a ritirarsi dandosi alla fuga, e sarebbero finiti ugualmente in mano al nemico
subendo una sanguinosa sconfitta se Quinto Fabio con le sue legioni non fosse intervenuto e costretto il
nemico alla ritirata. Solo allora Minucio si rese conto della bontà del metodo del collega e, Commosso e
pentito, rinunziò alla sua nuova carica sostenendo che, non avendo saputo obbedire, non era nemmeno
capace di comandare.
Si narra che Annibale, durante il combattimento, vedendo scendere Fabio dall'altura in soccorso di
Minucio, disse: "la nuvola che soleva stare sui gioghi dei monti si è finalmente sciolta in tempestosa
pioggia"

LA BATTAGLIA DI CANNE

Dopo sei mesi di prodittatura, QUINTO FABIO MASSIMO si dimise dalla carica e consegnò l'esercito ai
consoli GNEO SERVILIO GEMINO e MARCO ATTILIO REGOLO. Questi condussero la guerra
secondo la tattica di Fabio, e - se dobbiamo credere a TITO LIVIO - Annibale si ridusse a tanta penuria di
viveri che se la sua partenza non fosse sembrata una fuga egli se ne sarebbe ritornato volentieri in Gallia.

La prova migliore delle tristi condizioni in cui versava l'esercito cartaginese noi la troviamo nel contegno di
Roma. La repubblica ormai è sicura della fedeltà delle popolazioni italiche, sa che Annibale è
completamente isolato e non ha speranza di soccorsi da Cartagine; sa ancora che il nemico non è capace di
costringere alla resa le città fortificate. La sua presenza non desta nemmeno le preoccupazioni di un tempo.
Roma agisce come se in Italia i Cartaginesi nemmeno ci fossero; a Penne re d'Illiria chiede il tributo o gli
ostaggi; a Filippo il Macedone chiede che consegni Demetrio di Faro; rifiuta da Neapoli offerte di oro e di
uomini; e vorrebbe perfino rifiutare gli aiuti del vecchio e fedele Cerone di Siracusa che gli offre una statua
d'oro della Vittoria di trecentoventi libbre, trecentomila moggi di grano e duecento d'orzo, mille arcieri e
mille frombolieri e venticinque quinqueremi; si lagna con i Liguri perché hanno aiutato Annibale con
uomini e denari; manda al Po il pretore Lucio Postumio con una legione per sorvegliare i Galli; e dà facoltà
a Marco Ottacilio vicepretore della Sicilia di portare la guerra in Africa.

Roma però pensa anche di finirla una buona volta con Annibale e, pur conoscendo la bontà della tattica
temporeggiatrice, è d'avviso che si può sconfiggere il generale cartaginese opponendogli un esercito
superiore di forze. Pertanto alle cinque vecchie legioni ne sono aggiunte altre quattro e i soldati di ciascuna
che prima ammontavano a quattromila fanti e a duecento cavalli, accresciute di mille pedoni e cento
cavalieri; un numero uguale di fanti e un numero doppio di cavalli forniscono gli Italici. In definitiva fu
allestito un poderoso esercito di novantamila soldati e di circa seimila a cavallo.
In un primo tempo è creato dittatore LUCIO VETURIO FILONE e maestro dei cavalieri MARCO
POMPONIO MATONE, che durano però in carica soli quattordici giorni; succede un interregno alla fine
del quale sono eletti consoli il patrizio LUCIO EMILIO PAOLO II, il vincitore delle seconda guerra
illirica, e CAIO TERENZIO VARRONE, plebeo. Gli uscenti SERVILIO e REGOLO sono mantenuti in
carica con il titolo di proconsoli.

Nel luglio del 216, i due nuovi consoli - dei quali il patrizio era prudente e seguace del metodo di Fabio, il
plebeo impetuoso ma incapace di guidare un esercito in battaglia - a Geronio assunsero il comando delle
truppe e stabilirono di tenere un giorno l'uno, un giorno l'altro, il supremo comando. Fin dai primi giorni
cominciarono i dissensi tra i due capi ed Annibale, che si accorse subito della diversa indole dei due
generali romani, cercò di trarne profitto provocando i nemici e tendendo loro insidie che, per la prudenza di
Emilio Paolo, andarono a vuoto.

Trovandosi a corto di viveri, il Cartaginese pensò di trasferirsi nei piani dell'Apulia e levato il campo da
Geronio per la via di Luceria condusse l'esercito a Canne, castello che sorgeva sulla riva destra dell'Ofanto
tra Canusio (Canosa) e Barduli (Barletta).

Qui lo seguì l'esercito romano e qui il 2 agosto del 216, essendo quel giorno il comando supremo nelle
mani del console Terenzio Varrone, avvenne la grande battaglia.Lo schieramento delle truppe romane fu il
seguente: alla destra, la cavalleria romana e le fanterie comandata da EMILIO PAOLO; alla sinistra, la
cavalleria italica ed altre fanterie comandata da TERENZIO VARRONE; al centro, sotto il comando del
proconsole Servilio, gli arcieri e lanciatori, congiunti con le legioni romane; in prima linea gli armati alla
leggiera. Annibale dispose il suo esercito a cuneo: nel centro le fanterie galliche ed iberiche; alle ali quelle
cartaginesi; i cavalieri galli e spagnoli all'estrema sinistra; i Numidi alla destra.
Della sinistra era comandante ASDRUBALE, della destra MAARBALE; al centro stavano ANNIBALE e
il fratello MAGONE. Il comando di tutta la cavalleria che raggiungeva il numero di diecimila la prese
CARTALONE.

La superiorità numerica era dei Romani, i quali nonostante inferiori per numero di cavalieri, aveva il
doppio di fanti; ma la disposizione era del tutto favorevole ai Cartaginesi. I Romani infatti, avevano davanti
il sole e un vento che, soffiando da mezzodì, sollevava una densa polvere che accecava.
L'azione cominciò con scontri di avanguardie leggere, poi seguì il cozzo tra la cavalleria romana e quella
dei Galli e degli Iberi. Il combattimento dei cavalieri fu breve ma accanito, ma in un ristretto spazio,
limitato da un lato dal fiume e quindi non consentiva ai combattenti di distendersi e manovrare liberamente,
di modo che i Romani cedettero al numero.Ben presto, la battaglia infuriò al centro e all'impeto delle
fanterie romane i Galli e gli Spagnoli non vollero né riuscirono a resistere, e spinti dai legionari, che
assalivano furiosamente il centro nemico indietreggiò considerevolmente trascinandosi dietro i Romani,
mentre i Cartaginesi delle due ali, con slancio, guadagnarono terreno alle due estremità.

I Romani, per l'imperizia di TERENZIO, non si accorsero che cadevano nell'insidia tesa da Annibale, il
quale, quando vide che il nemico, quasi tutto in avanti e si accaniva al centro, a quel punto fece distendere
in avanti le ali ed avvolse l'intero esercito avversario. Da quel momento per le truppe della repubblica la
battaglia era persa. Quando compresero di essere accerchiate era ormai troppo tardi, tuttavia cercarono di
rompere l'accerchiamento e la battaglia continuò con un disperato accanimento, che meritava forse una
migliore sorte. Il console EMILIO PAOLO cercò di risollevare le sorti dei suoi uomini e, sebbene ferito,
con un drappello di cavalieri ridiede vigore alla battaglia, poi, sceso da cavallo, imitato dai suoi, oppose ai
soldati di Annibale una fiera resistenza. Nobili, ma vani sforzi! Presi anche alle spalle da un corpo
appiedato di cinquecento cavalieri numidi, i Romani si lasciarono prendere dalla sfiducia e dal terrore e
cercarono scampo nella fuga, che a pochi però riuscì. Narra TITO LIVIO che il tribuno militare GNEO
LENTULO, cercando con la fuga di salvarsi, vide il console EMILIO tutto imbrattato di sangue seduto
sopra un sasso e gli disse "O Paolo Emilio, tu che non sei il solo responsabile di questa sconfitta, eccoti il
mio cavallo; salvati mentre ancora puoi e non rendere con la tua morte più grave la nostra disfatta!"
Ma il console rifiutò di allontanarsi, rispondendo: "Grazie, Lentulo, ma, pensando a me, non perdere
invano il tuo tempo. Va' e di' al Senato che fortifichi Roma e la munisca di difensori prima che arrivi il
nemico. E di' a Fabio Massimo che io sempre, in vita e in punto di morire, mi sono ricordato dei suoi
precetti. E tu sii lieto che io muoia in mezzo alla strage dei miei soldati, affinché, vivendo, non accusi il
mio collega per difendere la mia innocenza con la colpa altrui".

La turba dei Romani in fuga e dei nemici lanciati al loro inseguimento travolse l'infelice ed eroico console e
Lentulo ebbe appena il tempo di mettersi in salvo sopra un vicino colle vicino.

Le perdite di Annibale furono lievi: ottomila morti; ma molto gravi quelle dei Romani. Settantamila soldati
caddero, diecimila furono fatti prigionieri e solo settemila riuscirono a rifugiarsi a Canusio e a Venusia.
Fra i caduti furono Lucio Paolo Emilio, Gneo Servilio e Attillo Regolo proconsoli, due questori, Lucio
Attilio e Lucio Bibaculo, ventuno tribuni militari e ottanta senatori che si erano volontariamente arruolati.
II console Varrone con cinquanta cavalieri riuscì a salvarsi fuggendo a Canusio.
La battaglia era finita con una delle più grandi disfatte. A Roma tacquero gli odi di parte, e fu chiuso nel
cuore il dolore per la perdita di così tanti uomini. Con la tristezza c'era però anche l'angoscia di un attacco
alla capitale. Come reagire davanti ad un'ora così drammatica, che minacciava seriamente l'esistenza stessa
della repubblica?
DA CANNE ALLA PUGLIA E SICILIA
ROMA DOPO LA SCONFITTA DI CANNE - ANNIBALE A CAPUA - ANNIBALE SCONFITTO A
NOLA - BATTAGLIA DELLA SELVA LITANA - ROMA ALLA RISCOSSA - BATTAGLIA DI
BENEVENTO - ASSEDIO DI SIRACUSA - ARCHIMEDE - PRESA DI SIRACUSA E MORTE DI
ARCHIMEDE - CADUTA DI AGRIGENTO - ANNIBALE A TARANTO - PRESA DI CAPUA -
ANNIBALE ALLE PORTE DI ROMA - CADUTA DI TARANTO - MORTE DI CLAUDIO
MARCELLO
-----------------------------------------------------------------------------------------

ROMA DOPO LA BATTAGLIA DI CANNE

Roma, dopo la grande sconfitta di Canne, riuscì a trovare nelle virtù del suo popolo la forza per resistere ai
durissimi colpi del destino; che non si accaniva su questo o quel cittadino, o su questa, o quell'altra città;
ora c'era in gioco l'esistenza della repubblica, era minacciata l'intera penisola, che da pochissimo tempo era
stata unificata, e già il nome "ITALIA" correva dalla Sicilia alle Alpi.

A questo punto, tacquero gli odi di parte, fu chiuso nel cuore il dolore per la perdita di tanti uomini, né si
pensò a criticare l'operato dei capi dell'esercito. La mente e le opere di tutti i cittadini, ottimati e plebei,
uomini e donne, furono rivolte a salvare la patria.

Dietro consiglio di FABIO MASSIMO si stabilì che il lutto per i morti in guerra avesse la durata di soli
trenta giorni, si misero numerose sentinelle alle porte affinché nessuno uscisse dalla città e si mandarono
uomini a cavallo lungo le vie Appia e Salaria per raccogliere notizie dei superstiti di Canne e sui propositi e
movimenti di Annibale. Poi si pensò a radunare un nuovo esercito e a procurar denaro. Furono chiamati
sotto le armi i giovani di diciassette anni, arruolati ottomila schiavi e seimila carcerati ai quali fu promesso
il condono dopo la guerra. I creditori rinunziarono alle somme prestate. Fu proibito di tener denari e gioielli
oltre un determinato limite. In seguito ad una legge sul lusso delle donne, proposta dal tribuno OPPIO, le
matrone diedero alla repubblica una parte delle loro gioie. Si vietò al cartaginese CARTALONE sceso nella
capitale per trattare del riscatto dei prigionieri di metter piede nel territorio di Roma e il riscatto fu rifiutato
per non arricchire Annibale e per ammonire i soldati a non sperare di ricomprare con l'oro la libertà perduta
per viltà. Più tardi creò non poco conforto la notizia che alcune migliaia di soldati, scampati alla strage, si
erano rifugiate a Canusio e quando VARRONE, richiamato, arrivò nelle vicinanze di Roma, il Senato,
anziché rimproverarlo come responsabile della sconfitta, gli andò incontro e, confortandolo, lo ringraziò
d'avere raccolto i superstiti.Ritornato Varrone, fu incaricato M. FABIO BUTEONE di colmare i vuoti che
la battaglia di Canne aveva fatto tra i senatori (80) e ne furono nominati centosettantasette scelti in gran
parte fra i plebei e fra coloro che erano stati tribuni, edili e questori.
Contemporaneamente fu creato dittatore M. GIUNIO PERA e maestro della cavalleria TIBERIO
SEMPRONIO GRACCO.

ANNIBALE A CAPUA

Dopo la vittoria di Canne, l'esercito cartaginese avrebbe voluto marciare su Roma, ma ANNIBALE, il
quale sapeva che non era cosa facile espugnare una città così forte con truppe che non avevano potuto far
cadere Piacenza ed erano state respinte da Spoleto, non volle. Con la sua profonda visione strategica,
riconobbe la futilità di una vuota dimostrazione davanti alle mura di Roma, che non avrebbe fatto altro che
sminuire le conseguenze morali della vittoria e avrebbe fatto sfuggire all'opportunità di fare più importanti
progressi.
In un momento in cui si agitava fortemente la confederazione romana, lui preferì fare un comodo viaggio -
trionfale- attraverso il Sannio fino in Campania per raccogliere gli alleati in rivolta.
Infatti, le stirpi più rudi, con forti sentimenti d'indipendenza, che si erano sempre opposti alla dominazione
Romana (Hirpini, Pentri, Caudini, Lucania, Bruttium, ecc) la sollevazione fu quasi generale. E una di quelle
che rappresentò un vero pericolo di disgregazione fu poi la rivolta di Capua, che allora era la seconda città
d'Italia dopo Roma, e per essere un importante centro industriale e commerciale, molto più ricca della
stessa Roma.

ANNIBALE partito dall'Apulia, passò nel Sannio e, lasciati Cossa (che spontaneamente gli si era data), i
bagagli e il bottino, comandò a MAGONE di procedere con una parte delle truppe a prendere possesso
delle città che si davano e di combattere quelle che facevano resistenza. Lui con il grosso dell'esercito andò
nella Campania con il proposito d'impadronirsi di Neapoli (Napoli), ma, giunto sotto le mura della città, le
forti opere di difesa gli fecero mutar parere e si diresse nella non lontana Capua.
Qui ebbe miglior fortuna che a Napoli. Dopo la battaglia del Trasimeno, il potere della città era venuto in
mano al partito popolare, nemico della nobiltà locale; molti di questi, avevano rafforzato il loro potere con
le più importanti famiglie di Roma con una serie di matrimoni. Ma non erano certo dei grandi patrioti; nel
periodo di queste lunghe guerre, le coscrizioni imposte da Roma, a questa gente amante del lusso, erano
particolarmente moleste.Ma se a loro erano sgradevoli, più spiacevoli e perfino ostili erano al popolo, pur
avendo il senso patrio che a Roma (con le guerre diventata più democratica) avevano favorito e coltivato;
ma non in Campania che era fortemente limitata dalla giurisdizione di un "praefectus" romano, alla cui
elezione, il popolo campano non partecipava, doveva solo e sempre ubbidire.

Fu per quest'ultimo motivo che il popolo aprì le porte ad Annibale, che entrato in trattative, accettò in pieno
le condizioni avanzate dai cittadini (popolo) di Capua: nessun arruolamento nell'esercito, completa
autonomia, dono di 300 prigionieri romani da scambiare con i cavalieri capuani che erano al servizio di
Roma in Sicilia.L'esempio di Capua fu seguito da altre città minori della Campania, Atella, Calatia,
Nuceria, Acerrae. Comunque poca cosa, il nucleo della forza di Roma, Lazio, Umbria ed Etruria, rimaneva
ben saldo; e così in Sicilia, Gerone si affrettò a dimostrarsi ancora una volta un fedele alleato.

Quindi la dedizione di Capua e pochi altri centri non erano fatti che avessero gran peso nella guerra. L'Italia
si manteneva fedele a Roma e la repubblica rimaneva perciò forte e temibile. Fallita la speranza di sollevare
i popoli italici e di procurarsi soldati per il suo esercito, denari e vettovaglie, Annibale comprese che due
sole vie gli rimanevano: o abbandonare il pensiero di sottomettere Roma e tornarsene in Spagna, oppure
cercare aiuti in patria e alleanze fuori.

Non volendo lasciare incompiuta un'impresa così felicemente iniziata, Annibale inviò il fratello MAGONE
in Africa a chiedere aiuti per l'esercito che guerreggiava in Italia. Magone magnificò al Senato Cartaginese
le vittorie del fratello e fornendo la prova di ciò che asseriva mostrò una montagna di anelli sottratti ai
cavalieri romani nella battaglia di Canne, che -si narra - misuravano tre moggi e mezzo.

Invano il partito contrario, capeggiato da ANNONE, si oppose; ma la fazione dei Barca vinse e il Senato
deliberò che si mandassero ad Annibale quaranta elefanti e si assoldassero nella Spagna ventimila fanti e
quattromila cavalli per la guerra d'Italia e della penisola Iberica.

ANNIBALE SCONFITTO A NOLA

Intanto i Romani non perdono tempo. Il dittatore GIUNIO PERA alla testa di venticinquemila uomini passa
nella Campania e si accampa a Teano per sbarrare al nemico la strada del Lazio; il prefetto MARCO
GIUNIO SILVANO si reca invece a Neapoli e assume il comando della difesa di questa città fedele a
Roma; il pretore CLAUDIO MARCELLO, da Canusio, si porta rapidamente a Nola per tenere a freno la
plebe che vorrebbe darsi ai nemici e per opporsi ad Annibale, che per la seconda volta, con Marcello già
dentro con le sue schiere, tenta d'impadronirsi della città.

L'esercito di Annibale si schiera davanti a Nola e aspetta che Claudio esca ed accetti battaglia; ma nessuno
esce dalle porte; il Cartaginese crede che il nemico abbia paura, manda una parte dei soldati agli
alloggiamenti, e ordina loro di portare le macchine da guerra, sperando che, bombardando la città, la plebe
si sollevi a faccia aprire le porte. CLAUDIO MARCELLO però non ha paura; ha schierato di nascosto
dietro le mura le sue truppe, suddividendole in tre gruppi e mettendone uno dietro ognuna delle tre porte
che guardano il campo nemico: alla porta centrale le legioni e i cavalieri romani, alle due laterali le fanterie
e la cavalleria italica e gli armati alla leggiera. Quando vede che i nemici sono intenti a lavorare intorno
alle macchine, Marcello fa aprire la porta di mezzo fa irrompere le legioni e i cavalieri, poi, aperte le altre,
fa assalire le ali avversarie. Preso alla sprovveduta, l'esercito cartaginese è sbaragliato, duemila e trecento
uomini rimangono sul campo ed Annibale è costretto ad abbandonare la piazza (anno 215 a.C.).

Non è trascorso nemmeno un anno da Canne e la fortuna del generale cartaginese comincia a declinare. Si
vuole attribuire il declinare della fortuna di Annibale agli ozi di Capua, alla vita molle che strapazzò e
indebolì l'esercito cartaginese. C'è in quest'asserzione un po' di verità , ma non riposa soltanto in questi
famosi ozi la causa del tramonto della potenza militare di Annibale. Ma si deve cercare nel patriottismo di
Roma, nelle inesauribili energie e virtù del popolo romano, nella politica saggia ed avveduta della
repubblica che aveva saputo farsi amare dalle popolazioni italiche che nei momenti della sventura non la
tradirono e si opposero con tutte le loro forze agli invasori. Di quest'attaccamento a Roma delle città
italiane fa fede il contegno di Neapoli e di Acerria e specialmente di Casilino, che tenne in scacco per lungo
tempo Annibale nel 216, e di Petelia che l'anno seguente, assediata, resistette eroicamente per circa undici
mesi.
BATTAGLIA DELLA SELVA LITANA

Nell'anno 215 l'attività dei Romani aumenta mentre decresce quella di Annibale. Roma trova la forza di
fronteggiare non solo il nemico nell'Italia meridionale ma di inviare truppe nella settentrionale contro i
Galli. Qui però la fortuna non è favorevole alla repubblica.

LUCIO POSTUMIO, designato console, ma non ancora entrato in carica, guida un esercito di
venticinquemila uomini nel paese dei Boi, ma un'insidia lo attende. Lungo la via che deve percorrere
attraverso la vastissima Selva Litana gli alberi giganteschi sono stati dai Galli tagliati in modo da rimanere
ritti, ma ad essere abbattuti al suolo dalla più piccola spinta, e con la selva piena di nemici in agguato.
Quando l'esercito consolare è dentro nella foresta, cadono con immenso fragore le piante uccidendo uomini
ed animali. I superstiti, con la strada sbarrata per la fuga, assaliti dal nemico, sono fatti a pezzi e fra questi è
Lucio Postumio.

Grande sbigottimento a Roma all'annunzio di questo nuovo disastro, ma il Senato ordina che dalla città sia
tolto ogni segno di mestizia e di lutto. Come con fiero animo sono stati sopportati i disastri della Trebbia,
del Trasimeno e di Canne si deve con altrettanta fermezza sopportare quello della Selva Litana. Anziché
piangere i morti è necessario intensificare la lotta contro Annibale, il quale ormai non ha più speranza di
sostenersi da solo in Italia e cerca alleanze fuori della penisola. Ma sono tutti tentativi inutili!
Riesce a tirare dalla sua parte l'imbelle giovinetto GERONIMO, succeduto nel trono di Siracusa al vecchio
e saggio Gerone, con il promettergli il possesso dell'intera Sicilia; ma Geronimo cade ucciso per mano di
congiurati e muoiono con lui le speranze di aiuti che Annibale si attendeva.

Né più fortunata e proficua è l'alleanza che stringe con FILIPPO di Macedonia perché gli ambasciatori
macedoni e cartaginesi cadono nelle mani dei Romani e il pretore M. VALERIO LEVINO fa buona guardia
con la sua flotta nelle acque di Apollonia.(Questo tentativo di alleanza col re di Macedonia, cui Annibale ha
promesso la cessione dell'Illiria romana dopo la sconfitta di Roma -fra breve come vedremo- sarà
l'occasione per dare inizio alla prima guerra macedonia).

Intanto in Italia le condizioni di Annibale si fanno più precarie e difficili. Tre eserciti romani gli stanno
sempre alle costole e lo sorvegliano: il console FABIO MASSIMO a Teano, il console TIBERIO
SEMPRONIO GRACCO a Cuma e a Neapoli e il proconsole CLAUDIO MARCELLO tra Capua e Nola.
Annibale cerca di impadronirsi di Cuma e si serve dei capuani, ma questi sono sconfitti da SEMPRONIO,
prontamente accorso con le sue truppe, le quali, rimaste a Cuma, la difendono valorosamente dagli assalti
dell'esercito cartaginese appena giunto ad assediare la città e subito respinto con gravissime perdite è
costretto a ritirarsi sulle montagne di Tifate.

A quest'insuccesso altri e più gravi se n'aggiungono poco tempo dopo: presso a Grumento, in Lucania, il
cartaginese ANNONE è sconfitto e perde duemila uomini; tre castelli ribellatisi ai Romani sono
riconquistati dal pretore MARCO VALERIO; QUINTO FABIO riprende Compulteria, Trebula e Saticula e
Annibale, sotto le mura di Nola, è nuovamente sconfitto da MARCELLO e lascia sul campo cinquemila
uomini e nelle mani del proconsole cinquecento prigionieri. Sconfitto a Nola, Annibale va a svernare in
Apulia e mette il campo ad Arpi, incalzato da SEMPRONIOGRACCO che va ad accamparsi a Luceria.
Anche ANNONE lascia la Campania e con l'aiuto dei Bruzi cerca di ridurre in suo potere le città greche
sottomesse a Roma. Locri si arrende e si arrende anche Crotone, ma Reggio resiste valorosamente ai
ripetuti assalti.

Così finisce l'anno 215 a.C. Nell'Italia Annibale ha fatto il massimo sforzo per attirare a sé i popoli e
conquistare città, ma soltanto una piccola parte del Sannio e della regione dei Bruzi è riuscito a far passare
dalla sua parte, e delle città che ha potuto amicarsi o sottomettere una sola è importante: Capua.

Ora il gran generale aspetta che le intese da lui promosse fuori della penisola diano buoni risultati. Spera
molto dalla Macedonia e dalla Sicilia, e qualcosa ancora da Cartagine. Ma la sua patria, nonostante
governata dalla fazione dei Barca, si preoccupa più della Spagna che non dell'Italia, né sa sostenere con
aiuti la rivolta della Sardegna che il pretore TITO MANLIO ha soffocato nel sangue.
E intanto Roma è più che mai decisa a fare sforzi giganteschi per condurre a termine vittoriosamente la
guerra.

BATTAGLIA DI BENEVENTO

La riscossa, iniziata l'anno precedente, continua nel 214. Al consolato sono chiamati i due più famosi
generali che ha Roma: QUINTO FABIO MASSIMO VERRUCOSO IV e CLAUDIO MARCELLO III, e il
numero delle legioni da dodici è portato a diciotto. Anche il numero delle navi è accresciuto e portato a
centocinquanta e per la prima volta si stabilisce che la flotta sia fornita di ciurma a spese di privati cittadini.
Il vicepretore QUINTO MUCIO è lasciato in Sardegna, MARCO VALERIO a Brindisi per sorvegliare le
mosse di Filippo il Macedone, il governo della Sicilia è assegnato al pretore PUBLIO CORNELIO
LENTULO, e TITO OTACILIO rimane in carica come comandante della flotta.
Le forze di terra sono divise in cinque corpi: uno, comandato da CAJO TERENZIO VARRONE, ha il
compito di campeggiare nel Piceno, il secondo, di volontari, assegnato a Luceria è messo sotto il comando
del proconsole SEMPRONIO GRACCO ed il terzo, capitanato da MARCO POMPONIO, è posto alla
difesa della Gallia Cisalpina, il quarto, comandato dal pretore QUINTO FABIO, figlio del
"Temporeggiatore", è destinato nell'Apulia, gli altri sono affidati ai consoli FABIO MASSIMO e
CLAUDIO MARCELLO.

Questi ultimi due Minacciando Capua, Annibale leva il campo da Arpi, passa nella Campania e si ferma nei
vecchi alloggiamenti di Tifate; qui lasciata una guardia di Numidi e Iberi, con il resto dell'esercito marcia
su Puteoli (Pozzuoli).

Queste mosse di Annibale provocano un parziale dislocamento delle forze romane; il pretore FABIO è
mandato a presidiare Luceria e SEMPRONIO GRACCO dovrà marciare su Benevento per tagliare le
comunicazioni del nemico tra l'Apulia e la Campania e sorvegliare i Bruzi e Annone che si aggira da quelle
parti.
Annibale intanto, danneggiato il territorio di Cuma fino al promontorio Miseno, marcia su Puteoli e la pone
in assedio. Puteoli è fortissima per la natura del luogo oltre che per le opere militari ed ha un'agguerrita
guarnigione di seimila Romani; assalita per tre giorni consecutivi, si difende splendidamente, spalleggiata
dalla vicina Neapoli, e costringe Annibale ad abbandonar l'idea d'impadronirsene. Fallita l'impresa di
Puteoli, Annibale saccheggia il contado di Neapoli e stabilisce di marciare ancora su Nola, mentre Annone
dalla Lucania risale verso il Sannio per rompere il cerchio nemico che si sta stringendo minaccioso intorno
al generale cartaginese, ma l'uno e l'altro sono preceduti con mosse fulminee da Claudio Marcello,
SEMPRONIO GRACCO e Fabio Massimo. Il primo da Suessola invia a Nola seimila fanti e trecento
cavalli; il terzo si avvicina a Casilino; il secondo, corre -come già detto sopra- ad occupare Benevento.
SEMPRONIO, poiché Annone, che si è accampato a tre miglia dalla città, sul Calore, va saccheggiando il
territorio, esce da Benevento e pone il campo ad un miglio circa dai Cartaginesi e il giorno dopo, allo
spuntar del sole, attacca energicamente il nemico, che dispone di diciassettemila fanti, la maggior parte
Bruzi e Lucani, e milleduecento cavalieri Numidi e Mauritani.

La battaglia dura quasi cinque ore ed è di un accanimento straordinario; alla fine i soldati di Annone,
decimati, sono messi in fuga e cercano scampo nel campo trincerato; ma i Romani lo prendono d'assalto e
ne fanno una strage.Solo due mila con il generale riescono a fuggire, tutti gli altri, in numero di
diciassettemila, sono catturati o uccisi. Trentotto insegne cadono in mano dei Romani e un bottino
ricchissimo.

A questa importante vittoria altri successi dei Romani sono da aggiungersi. Annibale, saccheggiato il
territorio di Neapoli, muove nuovamente su Nola, ma CLAUDIO MARCELLO gli dà battaglia e lo
sconfigge, causandogli la perdita di duemila uomini e costringendolo a ritirarsi. Dopo il combattimento di
Nola, i due consoli, riunite le forze, assaltano e costringono alla resa Casilino; FABIO MASSIMO, passato
nel Sannio, riprende a viva forza Telesia, Cossa, Mela, Fulfula ed Orbitania, poi espugna Blanda nella
Lucania ed Anca nell'Apulia, infliggendo ai nemici, tra morti e prigionieri, la perdita di venticinquemila
uomini; mentre il pretore QUINTO FABIO conquista Acua e si accampa ad Ardonea.
ANNIBALE, dopo tanti insuccessi, rivolge tutte le sue speranze sugli aiuti della Macedonia e della Sicilia;
ma a Taranto, dove si avvia allo scopo d'impadronirsene per farne poi la base delle truppe macedoni, è
preceduto da un luogotenente di MARCO VALERIO ed alla Sicilia ci ha già pensato il Senato romano
deliberando di mandarvi il console MARCELLO con un esercito.

ASSEDIO DI SIRACUSA - ARCHIMEDE

Siracusa, dopo l'uccisione di GERONIMO, era caduta in mano dei nobili, ma questi avevano ben presto
dovuto cedere il potere al partito popolare, capeggiato da IPPOCRATE ed EPICIDE, i quali (per rivalsa sui
nobili) parteggiando per Cartagine, avendo assalito e tagliato a pezzi il presidio romano di Leontini, furono
poi la causa della guerra tra Siracusa e Roma.

Il console MARCELLO, giunto in Sicilia, assali prima Leontini e costretta alla resa, la saccheggiò, poi
marciò su Siracusa, la grande e superba città dai tre porti e dai cinque quartieri: Ortigia, Acradina, Tiche,
Neapoli ed Epipoli, tutti recintati da consistenti mura.L'esercito, comandato dal luogotenente APPIO
CLAUDIO, si accampò presso l'Anapo, a poca distanza dalla città, la flotta, alle dirette dipendenze del
console, si recò nelle acque che bagnavano le mura del quartiere di Acradina e qui iniziarono l'attacco
contro Siracusa.Sessanta erano le navi, numerosi i frombolieri e potentissime le macchine d'assedio e
Siracusa non avrebbe potuto resistere a lungo se non fosse stata difesa dal genio di un suo illustre figlio,
ARCHIMEDE, celebrato come il più grande matematico del tempo.Molto gli antichi scrissero di lui e
dell'opera da lui prestata in favore della sua patria, ma sono moltissime nelle leggende le cose che si
attribuiscono ad Archimede.Secondo la tradizione egli inventò e costruì gigantesche balestre, che,
scagliando grosse pietre sulle navi romane, causarono alla flotta gravissime perdite; costruì degli ordigni
meravigliosi che dall'alto delle mura afferravano con uncini le navi, e sollevate in aria per mezzo di
contrappesi, le lasciavano poi cadere facendole colare a picco; poi fra le molte altre macchine, mise in
azione degli strumenti forniti di specchi concavi, ustori, che riflettevano i raggi del sole concentrati, per
mezzo dei quali a grande distanza incendiava le navi romane. Riuscito vano ogni sforzo di far capitolare la
città, Marcello pensò di prenderla per fame e la cinse d'assedio dal mare e dalla terra.Ma non era un'impresa
facile costringere Siracusa alla capitolazione. Cartagine era finalmente intervenuta nella guerra e il teatro
delle operazioni si era in breve esteso in tutta la Sicilia.I Romani assediavano Siracusa quando
BOMILCARE con centotrenta navi cartaginesi entrò nel più grande dei tre porti della città e IMILCONE
sbarcò con un esercito di venticinquemila fanti e tremila cavalli ad Eraclea Minoa e marciò su Agrigento.
Per andare a difendere questa città si affrettò Marcello, ma, quando giunse, Agrigento era già caduta nelle
mani dei Cartaginesi e molte città della Sicilia si erano ribellate a Roma e fra queste Enna contro la cui
popolazione il presidio romano esercitò una sanguinosa rappresaglia.Il console fece ritorno a Siracusa;
lungo la via si scontrò con diecimila Siracusani comandati da Ippocrate, li sbaragliò, poi intensificò le
operazioni di assedio.Ma Siracusa resisteva magnificamente: i viveri non le mancavano, alle milizie
cittadine si erano aggiunti l'esercito di Imilcone e la flotta di Bomilcare; Archimede, infine, dava gran
fastidio agli assedianti con le sue poderose e geniali macchine guerresche.Il console richiese rinforzi a
Roma e contemporaneamente cercò d'impadronirsi della città, mettendosi in segreto rapporto con alcuni
nobili siracusani amici della repubblica: ma, scoperta da EPICIDE la congiura, ottanta cittadini furono
giustiziati.

PRESA DI SIRACUSA E MORTE DI ARCHIMEDE (211 a.C.)

Quantunque le legioni e le navi romane fossero cresciute di numero, Siracusa continuò a difendersi
valorosamente, ma era destino che l'illustre città cadesse in mano di Roma. Si celebravano in Siracusa le
feste in onore di Diana e i Siracusani, dopo le abbondanti bevute e lauti pasti, erano immersi nel sonno.

I Romani approfittarono di questa circostanza e scalate, nei punti più bassi, le mura presso il porto di
Tragilo, s'impadronirono del quartiere dell'Epipoli. Più tardi anche i quartieri di Tiche e di Neapoli caddero
in mano di Marcello e la fortissima rocca di Eurialo, che dominava la città, fu a tradimento dal greco
Filodemo consegnata ai Romani. Solo Ortigia ed Acradina resistevano ancora, ma le condizioni dei
difensori erano disperate. Una terribile pestilenza era scoppiata decimando Siracusani e Cartaginesi;
Imilcone ed Ippocrate erano morti e gli avanzi delle milizie di Cartagine si erano allontanati; Bomilcare, di
ritorno dall'Africa, mentre stava per doppiare il capo Pachino, saputo che le navi romane avanzavano per
dargli battaglia, era fuggito con la flotta a Taranto, ed Epicide, disperando di poter difendere Siracusa,
aveva lasciato di nascosto la città e si era rifugiato ad Agrigento.Tuttavia, Ortigia ed Acradina
ostinatamente si difendevano ed avrebbero resistito per molto tempo ancora se un traditore non avesse
consegnato i due quartieri a Marcello. Si chiamava costui, MERICO, era di origine iberica ed aveva un
fratello che militava nell'esercito romano. Persuaso da questo, Merico aprì le porte di Acradina ai legionari
e l'eroica Siracusa si ritrovò con i loro nemici all'interno. I soldati romani, inferociti dalla resistenza, che
secondo alcuni storici era durata otto mesi, secondo altri due anni, si riversarono come una fiumana
impetuosa nelle vie, penetrarono nelle case, le saccheggiarono, uccisero gli abitanti. Soltanto le case degli
amici di Roma furono rispettate. I tesori ingenti della reggia d'Ortigia, le meravigliose statue greche, i
quadri, i preziosi ornamenti dei templi che da cinque secoli risplendevano in città, e perfino i simulacri
delle divinità furono presi e inviati a Roma.

Archimede, l'illustre scienziato, l'insigne patriota siracusano, trovò la morte durante uno dei tanti saccheggi.
Secondo la tradizione, prima di dar licenza alle truppe di metter a sacco la città, il console Marcello aveva
ordinato ai soldati di rispettar la persona del grande cittadino.Si trovava Archimede nella sua casa, intento a
un disegno geometrico, quando un legionario, entrato improvvisamente, gli chiese ripetutamente chi fosse
e, non avendo il vegliardo, assorto com'era nelle sue profonde meditazioni, subito risposto, lo uccise.
Narra la storia che Marcello fu molto addolorato nell'apprendere la notizia della fine dell'illustre uomo e
volle non solo che avesse degna sepoltura, ma ordinò anche che si cercassero i parenti e, in memoria del
loro grande congiunto, giustamente onorati. Correva l'anno 211 a.C.
CADUTA DI AGRIGENTO - ANNIBALE A TARANTO

Caduta Siracusa, la guerra in Sicilia durò ancora due anni né il console CLAUDIO MARCELLO riuscì
vederne la fine. Tornato a Roma il Senato gli negò il trionfo. Chi invece continuò la guerra nell'isola fu un
ufficiale di Annibale, MUTINE, accorto e valoroso guerriero, riuscì a tenere sveglia la rivolta anti-romana
in molte città e a difendere Agrigento dagli assalti dei Romani.Ma, avendo Cartagine inviato Annone con
un esercito, ben presto tra Annone e Mutine nacquero gravi dissidi che alla fine causarono ai Cartaginesi la
perdita della Sicilia. Annone sottrasse il comando della cavalleria a Mutine e questi, per vendicarsi, si
accordò segretamente con il console MARCO VALERIO LEVINO e gli aprì le porte di Agrigento,
ricevendo, in premio del tradimento, la cittadinanza romana. Agrigento subì sorte peggiore di Siracusa; la
guarnigione cartaginese fu fatta a pezzi; la popolazione fu tratta in schiavitù e la città, saccheggiata, e
ricevette poi una colonia romana. Con la caduta di Agrigento la guerra si avviò al suo termine; nello stesso
anno, le altre città ribelli si arresero o furono prese con la forza, la Sicilia fu interamente riconquistata.

Nella penisola intanto la guerra proseguiva, e Roma continuava a fare grandi sforzi, portando il numero
delle legioni da diciotto a ventitré.Arpi, nell'Apulia, assalita dal console FABIO, figlio del
"Temporeggiatore", scaccia il presidio cartaginese e si consegna ai Romani; Cliterno è espugnata dal
pretore SEMPRONIO TUDITANO e Cosenza e Turio si sottomettono a Roma; molti territori della Lucania
sono riconquistate dal console SEMPRONIO GRACCO. Ma cadde però in potere dei Cartaginesi, Taranto.

Da due anni Annibale cercava di impadronirsene ma non gli riuscì che nel 209 ma non con le armi ma con
due traditori-vendicatori. Aveva Roma condannato a morte e fatto precipitare dalla Rupe Tarpeja alcuni
ostaggi tarantini che avevano tentato di fuggire. Questo fatto, aveva provocato lo sdegno degli abitanti di
Taranto, che decisero di dare la città ad Annibale per vendicare i concittadini uccisi.
Due tarantini, FILOMENE e NICONE, fingendo di andare a caccia, riuscirono a raggiungere il campo
cartaginese, posto a non molta distanza dalla città, e si accordarono con Annibale, poi fecero ritorno a
Taranto portandosi dietro del bestiame dato dal capitano africano e dissero ai propri concittadini di averlo
razziato e che, visto il buon esito dell'impresa, volevano ritentarla. Da allora, ogni notte, uscivano e
tornavano con delle prede e quando giungevano, al ritorno, ad una delle porte della città, il guardiano,
avvertito da un fischio, apriva. Una notte però ritornarono dalla finta scorreria alla testa dell'esercito
cartaginese e, ucciso il guardiano che come il solito era andato ad aprire, fecero entrare il nemico nella
città, che così cadde in potere di Annibale, ma non la fortissima rocca, dove la guarnigione romana era
riuscita a rifugiarsi.

PRESA DI CAPUA

A parte Taranto, lo sforzo di Roma si concentrò tutto su Capua difesa da un forte presidio cartaginese
comandato da BOSTARE e ANNONE. Tre eserciti sotto il comando dei consoli GNEO FULVIO
FLACCO e APPIO CLAUDIO PULERO e del pretore CAJO CLAUDIO NERONE, marciano verso la
Campania. All'inizio le cose non vanno molto bene per i Romani. SEMPRONIO GRACCO, chiamato
dall'Apulia per sbarrare il passo ad un esercito cartaginese guidato da Magone, cade in un'imboscata
preparatagli da un traditore lucano. Credendo alle parole di costui che lo invitava ad un colloquio con i capi
Lucani ribelli per trattare la resa, con un drappello di cavalieri si avviò nel luogo stabilito, ma qui fu
circondato ed assalito da un gran numero di nemici e, dopo un'eroica resistenza, furono tutti uccisi.

Un rovescio subisce in Apulia un esercito romano, una sconfitta tocca alle truppe consolari presso Capua e
sedicimila Romani e Italici sbaragliati in Lucania. Sono perdite gravissime, ma queste sconfitte non
intralciano le operazioni intorno a Capua; spronano anzi maggiormente Roma a farla finita una buona volta
con la città ribelle, la quale, stretta da tutti i lati, tormentata dai continui assalti dei legionari e dalla penuria
di vettovaglie, chiede disperatamente aiuto al capo Cartaginese. ANNIBALE risponde subito all'appello.
Lasciata Taranto, nella cui rocca il presidio romano resiste disperatamente, marcia a grandi giornate verso
Capua; passando per Calazia, sorprende la guarnigione romana e la distrugge, poi si accampa sulle
montagne di Tifate, nelle vicinanze di Capua sperando di provocare a battaglia i consoli, ma non osa
assalire gli eserciti nei campi fortemente trincerati. La sua presenza non reca alcun giovamento alla città
assediata. Allora Annibale mette in opera un audacissimo disegno nella speranza che i consoli tolgano
l'assedio da Capua. Rimosso il campo, marcia verso il Lazio. Attraversa il Sannio, i territori dei Peligni, dei
Marrucini e dei Marsi e, passato l'Aniene, giunge minacciosamente a due miglia da Roma.

L'improvvisa comparsa del temuto capitano suscita lo sgomento nella città, dove si crede che gli eserciti
consolari siano stati distrutti; ma, ritornata la calma negli animi, si prepara la difesa. Meraviglioso è il
contegno di Roma di fronte al pericolo: per mostrare ad Annibale che non teme nulla, pone in vendita il
terreno dove i Cartaginesi si sono accampati e spedisce delle truppe in Spagna.
Ma Annibale non ha alcuna voglia di assalire la città. Fallito il tentativo di distrarre i Romani da Capua,
leva il campo pure da Roma e si avvia verso il mezzogiorno d'Italia, seguito da una schiera di legionari, i
quali, però, affrontati dai Cartaginesi, con imboscate o attacchi se ne liberano

Ma questo lieve successo del nemico non influisce sull'assedio di Capua. La sorte di questa città è ormai
segnata. È inutile ogni resistenza contro un nemico (i romani) deciso a vincere, e contro la fame; meglio
arrendersi. Ambasciatori sono inviati al campo romano, nonostante l'opposizione di VIBIO VINIO che
vorrebbe che si continuasse a resistere. La resa però è stabilita. Vibio, per non cadere in mano al nemico, si
riunisce a banchetto nella propria casa con alcuni amici e, dopo un lauto pranzo, i convitati brindano con un
veleno dandosi la morte.

Il giorno dopo Capua apre le porte e subisce la sorte di Agrigento; le case sono abbandonate al saccheggio
delle soldatesche, ai cittadini sono sottratte le armi, mentre i ricchissimi tesori e le opere d'arte sono inviati
a Roma; cinquantatre senatori sono sommariamente processati e subito giustiziati sulle piazze di Cales e di
Teano; parte degli abitanti è ridotta in schiavitù, parte è stipata nelle prigioni, parte è confinata a Vejo,
Nepete e Sutrio, parte oltre il Volturno e il Liri. Soltanto gli operai e i liberti sono lasciati in città; le case
dei ricchi sono messe tutte a disposizione di quei Romani che vogliono stabilirsi a Capua. L'anno dopo,
Capua è cancellata dal numero delle città e il territorio e le case sono dichiarate patrimonio della
repubblica.
La presa di Capua rianima i Romani e scoraggia le città ribelli, che a poco a poco abbandonano Annibale
per il contegno delle truppe cartaginesi. Salapia, nell'Apulia, massacra cinquecento cavalieri Numidi, che
costituiscono il presidio, e si dà a Claudio Marcello. Nel 209 a.C. Roma affida il comando di tre eserciti ai
consoli QUINTO FABIO MASSIMO e QUINTO FULVIO FLACCO e al proconsole MARCELLO. Il
primo, console per la quinta volta, ha il compito di riconquistare Taranto. Perché l'impresa riesca Marcello
con le sue truppe costringe Annibale ad allontanarsi da Canusio e a lasciar libero il passo all'esercito di
Fabio, mentre dal presidio di Reggio si muovono alcuni reparti su Caulonia per attirarvi il nemico e
distrarlo da Taranto. Così FABIO MASSIMO può avere la via libera e giungere indisturbato a Taranto; se
ne impadronisce con lo stesso sistema dei Cartaginesi: con il tradimento di un ufficiale bruzio dei
Cartaginesi. Taranto è spogliata e saccheggiata, un gran numero di abitanti e soldati uccisi e parte del
territorio dichiarato dominio della repubblica.

Annibale corre, si precipita in difesa di Taranto, ma quando vi arriva la città è già in potere dei Romani ed
il generale Cartaginese si rifugia a Metaponto.

La stella della sua fortuna, va sempre più declinando; ma di tanto in tanto ha qualche improvviso bagliore.
Nel 208 Annibale si accampa tra Venusia e Bantia al confine dell'Apulia con la Lucania; gli eserciti dei
consoli CLAUDIO MARCELLO e TITO QUINZIO CRISPINO lo tallonano e pongono il campo vicino a
lui, ma non di fronte a lui, perché solo un colle boscoso divide gli accampamenti dei Cartaginesi da quelli
dei Romani e tra le piante in agguato vi sono alcuni reparti di cavalieri di Numidia.
I due consoli, desiderosi di occupare il colle, vanno ad esplorarlo con un piccolo reparto di cavalleria, ma
sono improvvisamente assaliti dai nemici. Si accende la lotta, ma il numero dei Numidi ha il sopravvento;
Marcello, dopo una strenua difesa, soccombe e Crispino, ferito, riesce a salvarsi e a riparare con l'esercito
in Campania dove muore per le ferite riportate.

Da undici anni dura la guerra in Italia contro Annibale e Roma è quasi esausta dagli immani sforzi; ma il
patriottismo dei Romani è grande e i ricchi non esitano a dare alla repubblica tutto l'oro e gli oggetti
preziosi posseduti. Le città italiche alleate che fino ad ora hanno sopportato con Roma il peso e i disagi
della guerra sono anch'esse stanche ed esauste; dodici dichiarano di non voler più continuar a mandar aiuti
d'uomini e di denari e invano la repubblica cerca di farle desistere dai loro propositi. Alla defezione delle
città alleate si aggiunge ora il contegno minaccioso dell'Etruria, e Roma quasi da sola è costretta a nuove
spese e a nuove leve per mandarvi un esercito. Così stavano le cose quando una gravissima notizia giunse a
Roma: ASDRUBALE, fratello d'Annibale, proveniente dalla Spagna, sta per valicare le Alpi per scendere
in Italia in aiuto del grande generale cartaginese.

Come l'ormai celebre fratello, anche lui è un uomo astuto, che in Spagna (come leggeremo nel prossimo
capitolo) ha dato del filo da torcere alle legioni che Roma ha continuato a inviare per recuperare i territori
dopo la disfatta a Sagunto, ma anche per tenere impegnato l'esercito cartaginese, evitandogli di portare
aiuto in Italia al fratello. Ora, è anche sta discendendo dalle Alpi, e se il suo valore è pari a quello di
Annibale, per Roma ci sono davanti altri undici anni di guerre?
SCIPIONE IN SPAGNA -ASDRUBALE IN ITALIA
IMPRESE DEI FRATELLI SCIPIONI IN ISPAGNA - LORO MORTE - PUBLIO CORNELIO SCIPIONE -
PRESA DI CARTAGENA - ASDRUBALE IN ITALIA - BATTAGLIA DEL METAURO - GESTA DI SCIPIONE
IN SPAGNA - BATTAGLIA DI BECULA - MAGONE IN ITALIA - SCIPIONE CONSOLE
-------------------------------------------------------------------------------------------------
IMPRESE DEI FRATELLI SCIPIONI IN ISPAGNA

Prima di proseguire con gli ultimi avvenimenti della seconda guerra punica in Italia - dove ora sta
scendendo dalle Alpi, ASDRUBALE, fratello di ANNIBALE- è necessario raccontare brevemente quelli
che si svolsero nello stesso periodo (218-217 a.C.) in Spagna.Qui GNEO SCIPIONE con il suo esercito
inviato per contrastare i Cartaginesi sulla penisola iberica, ma anche per impedirgli di portare soccorso ad
Annibale, vinto ANNONE, aveva riconquistato con la forza delle armi e con una saggia politica tutto il
territorio tra l'Ebro e i Pirenei; ma il Senato romano, prima della sconfitta di Canne - consapevole
dell'enorme importanza della Spagna, dalla quale Cartagine traeva uomini e denaro vi mandò con il titolo di
proconsole il fratello PUBLIO SICIPIONE al comando di ottomila legionari.

Giunto in Spagna, Publio congiunse le sue truppe con quelle del fratello e insieme i due capitani passarono
l'Ebro e marciarono su Sagunto, nella cui rocca sapevano essere custoditi dai Cartaginesi gli ostaggi che
alcune popolazioni iberiche avevano consegnato.

Scopo dei due fratelli era d'impadronirsi non tanto della rocca quanto degli ostaggi, conoscendo che
solamente questi preziosi pegni mantenevano fedeli al nemico gli Spagnoli. A raggiungere questo scopo li
aiutò un nobile spagnolo, di nome ABELUCE. Questi, vedendo che le cose volgevano non bene per i
Cartaginesi e volendo propiziarsi i Romani, consigliò astutamente BOSTARE, che comandava il presidio di
Sagunto, di rimandare alle proprie famiglie gli ostaggi per ingraziarsi con quest'atto di generosità gli
Spagnoli; ed egli stesso si offerse di accompagnarli alle loro case. Bostare abboccò all'amo ed Abeluce,
ricevuti gli ostaggi, fingendo di cadere in un'imboscata di truppe romane, li consegnò a queste.
Impadronitosi in tal modo degli ostaggi, i due Scipioni li rimandarono liberi guadagnandosi di colpo la
riconoscenza e la simpatia delle popolazioni iberiche.

L'anno che seguì alla battaglia di Canne, ASDRUBALE, ricevuto da Cartagine un esercito di dodicimila
fanti e cinquecento cavalli, condotto da MAGONE, riprese l'offensiva, deciso a ridurre sotto il dominio
della sua patria le popolazioni ribellatesi e a passare poi nella penisola in soccorso di Annibale; ma presso
l'Ebro, scontratosi con gli Scipioni, subì una sanguinosa sconfitta che non solo gli tolse la speranza di
andare in Italia ma gli rese anche difficile reggersi in Spagna.

A questa vittoria romana altre, importantissime, seguirono: a Illiturgo, a Incibile, a Castulone, a Munda, ad
Auringen e infine a Sagunto che cadde in potere degli Scipioni. I quali, per creare problemi a Cartagine,
riuscirono ad attirare dalla loro parte SIFACE, re della Numidia occidentale.
Minacciata dai Numidi, Cartagine si alleò a sua volta con GAIA, re della Numidia orientale, e richiamò in
Africa ASDRUBALE, che sconfisse Siface, poi con GAIA e il giovane figlio di costui, MASSINISSA,
tornò in Spagna a continuare la guerra contro i fratelli Scipione.

Questi intanto avevano assoldato trentamila Celtiberi, ma vedendo che per l'aiuto di Gala la guerra iberica
si prolungava, cercarono di finirla una buona volta. I cartaginesi erano accampati in due punti diversi del
bacino del Beti: (a Guadalquivir, ASDRUBALE BARCA, fratello di Annibale, ad Antorgi, ASDRUBALE
GISGONE, ad Ursona MAGONE. I due capitani romani stabilirono di assalire contemporaneamente i due
eserciti nemici: GNEO con un terzo delle legioni e i trentamila Celtiberi marciò su Antorgi, PUBLIO con il
rimanente delle truppe romane si mosse verso Ursona. Però i Celtiberi, quando si trovarono di fronte il
nemico, corrotti dal denaro dei Cartaginesi, abbandonarono i Romani, e Gneo, stimando che era una follia
scontrarsi con ASDRUBALE, con le poche fedeli truppe rimaste, cercò di salvare il suo esercito operando
una precipitosa ritirata.

Ad Ursona PUBLIO SCIPIONE non ebbe migliore fortuna. Costretto dalla cavalleria di MASSINISSA a
trincerarsi nel proprio campo e appreso che lo spagnolo INDIBILE sopraggiungeva con settemila uomini in
soccorso dei Cartaginesi, Publio fece una scelta disperatamente audace. Lasciò nell'accampamento parte
delle truppe sotto il comando del luogotenente TITO FONTEIO e con il resto uscì di notte incontro a
INDIBILE, deciso a sbaragliarlo prima che potesse congiungersi con Asdrubale e Magone. Il suo ardito
disegno sarebbe riuscito se i Cartaginesi, accortisi della sua partenza, non lo avessero poco dopo seguito.
Volgeva favorevole ai Romani la lotta ingaggiata contro Indibile quando sopraggiunsero prima la cavalleria
di Massinissa poi le fanterie di Magone e Asdrubale che capovolsero le sorti della battaglia. SCIPIONE,
trapassato da una lancia, cadde morto; dei legionari molti rimasero uccisi sul campo, molti nella fuga,
pochissimi riuscirono a salvarsi.

Sconfitto l'esercito di Publio, Asdrubale Gisgone e Magone, senza perdere tempo, riunirono le loro forze
con quelle di ASDRUBALE BARCA e si misero sulle tracce di GNEO. Difficilissima divenne pertanto la
ritirata di questo. Molestato prima senza tregua dalla cavalleria numida, poi raggiunto dal grosso, fu
costretto a fermarsi sopra un colle e, non avendo tempo di costruire steccati e scavare fossati, vi si trincerò
con i bagagli. Ma questa difesa era molto debole rispetto al numero enorme di nemici, e dopo un'accanita
resistenza i legionari furono sconfitti, massacrati, e pure Gneo Scipione rimase ucciso.
Solo una parte dei Romani, guidati da L. MARCIO, riuscirono a salvarsi e a congiungersi ai compagni
rimasti con TITO FONTEJO.

PUBLIO CORNELIO SCIPIONE

Con la morte dei due valorosi fratelli Scipioni e la sconfitta dei loro eserciti la Spagna fino all'Ebro cadde
sotto il dominio dei Cartaginesi e sarebbe stata perduta per Roma anche la parte che dall'Ebro va ai Pirenei,
se con i rimasugli delle legioni non l'avesse eroicamente difesa LUCIO MARCIO, il quale non solo seppe
resistere agli assalti del nemico, ma, passato audacemente all'offensiva, in un giorno e una notte conquistò
due accampamenti cartaginesi e uccise parecchie migliaia di nemici.

Nel mentre, in Italia, riconquistata Capua, relegato Annibale a fare solo scaramucce con il resto dei suoi
uomini e piuttosto in difficoltà, Roma inviò in Spagna un esercito di quindicimila uomini comandato dal
proconsole CAJO CLAUDIO NERONE e questi in breve tempo riuscì a riconquistare il territorio perduto e
si spinse fino alla valle del Beti, dove poco mancò che ASDRUBALE con il suo esercito non cadesse
prigioniero dei Romani; e molti eventi successivi sarebbero stati diversi.

Nonostante il suo indiscusso valore però NERONE non era l'uomo che ci voleva in una guerra contro
l'astuto Asdrubale. Il suo carattere inoltre non gli aveva accattivate le simpatie dei legionari ed aveva pure
allontanate dal governo di Roma quelle delle popolazioni iberiche, e per questo motivo il Senato giunse a
deliberare di inviare in Spagna un capitano che con il valore accoppiasse saggezza e accorgimento politico

La scelta cadde su PUBLIO CORNELIO SCIPIONE, figlio del proconsole caduto ad Antorgi. Aveva
appena ventiquattro anni, ma era notissimo a Roma per la sua generosità, per la sua religiosità, per le
leggende che correvano sulla sua nascita - si affermava che la madre sua fosse stata per volere degli dei
fecondata da un serpente - per l'animo risoluto e per il valore che aveva fornito in innumerevoli occasioni.
Appena diciottenne, nella famosa battaglia del Ticino -come abbiamo già narrato- aveva messo a
repentaglio la sua vita per salvare quella del padre; l'anno seguente, dopo la rotta memorabile di Canne
nella quale si era trovato con il grado di tribuno militare, aveva a Canusio impedito ad alcuni patrizi di
mandare a conclusione la trama di fuggire dall'Italia e li aveva costretti a giurare sulla sua spada che
avrebbero continuato a combattere per la difesa di Roma.

Sollecitando lui stesso, per vendicare la morte del padre e dello zio, l'onore di recarsi in Ispana, fu creato
proconsole e nell'autunno del 210 a.C., con un esercito di diecimila fanti e mille cavalli e una flotta di trenta
quinqueremi comandata da CAJO LELIO, parti da Ostia. Era con lui il propretore MARCO GIUNIO
SILVANO. Sbarcato ad Ampurias, pose i suoi quartieri d'inverno a Tarracona, dove richiamò le truppe di
CLAUDIO NERONE, e preparò i suoi piani per la primavera del 209 a. C. (lo stesso anno che i Romani
sconfiggono Annibale e riconquistano Taranto).

PRESA DI CARTAGENA

Si trovavano in quel momento in Spagna quattro capitani cartaginesi; ma nate fra loro delle discordie, divisi
gli eserciti, avevano posto i loro campi in quattro punti diversi: ASDRUBALE BARCA nella regione dei
Carpentani, MAGONE alla foce del Tago, ASDRUBALE di Gisgone nelle terre di Conii, nel mezzogiorno
della Lusitania. Comandava la cavalleria Numida il valoroso MASSINISSA. La dislocazione delle forze
nemiche suggerì a Scipione il piano della futura azione: affrontare uno alla volta gli eserciti avversari,
portare la guerra più lontano che fosse possibile dall'Ebro, togliere al nemico la più importante base,
Cartagena, la città fondata nel 228 dal cognato di Annibale. PUBLIO CORNELIO SCIPIONE cominciò a
mettere in attuazione il suo disegno assalendo Cartagena, che non era difficile espugnare perché difesa da
una guarnigione di soli mille uomini comandati da un certo Magone ed anche perché gli eserciti cartaginesi,
distando da questa base molte giornate di cammino, non potevano recarle soccorso.

Messo a parte del suo piano l'amico CAJO LELIO, lo mandò con la flotta verso la città che aveva
intenzione di conquistare, poi lui marciò su Cartagena alla testa dell'esercito e, seguendo la costa, vi giunse
in sette giorni dopo aver percorso più di trecento miglia. Magone all'arrivo improvviso della flotta e delle
legioni di Roma non si perdette d'animo; chiamati alle armi i cittadini osò anzi uscire dalle mura ed assalire
le truppe di Scipione ma, respinto, fu costretto a rientrare nella città.
Allora il proconsole diede l'assalto alla piazzaforte. Sorgeva questa sopra un promontorio unito al
continente da un istmo difeso da solide mura. Non era il caso di assediare la città; urgeva prenderla presto
per non dar tempo agli eserciti di accorrere in sua difesa. Scipione inviò un corpo di legionari nel lato
occidentale di Cartagena che, dando sul mare, era munito di mura più basse; con il resto delle sue truppe
assalì dagli altri lati la città per distrarre i difensori dal punto più vulnerabile. Il piano del giovane capitano
riuscì a meraviglia. Essendo, per la bassa marea, rimasto asciutto parte del porto, il corpo dei legionari
riuscì facilmente a scalare le mura ed occupare Cartagena. Magone, quando vide i nemici nella città, si
barricò con la guarnigione nella rocca, ma poco dopo si arrese. Seicento talenti furono trovati nella casa del
presidio e nelle mani dei vincitori caddero armi, navi e vettovaglie e numerosi ostaggi.

Mostrandosi dotato di grande saggezza politica, il giovane SCIPIONE mandò liberi alle proprie famiglie gli
ostaggi, non ridusse in schiavitù i cittadini e lasciò il possesso dei loro beni, infine impiegò gli operai come
rematori, promettendogli la libertà alla fine della guerra. I frutti dell'accorta politica del proconsole non
tardarono a manifestarsi; le popolazioni spagnole capirono che Roma non era Cartagine, che i Romani non
erano venuti a fare la guerra agli indigeni per sottometterli, ma ai Cartaginesi, e molte tribù si ribellarono
alla repubblica africana. Due capi molto influenti INDIBILE e MARDONIO si unirono con i loro armati a
Scipione e questi, per nulla preoccupato dagli eserciti nemici impegnati a domare la rivolta, riuscì
indisturbato a riordinare le cose di Cartagena, quindi passò a Tarracona dove pose i suoi quartieri d'inverno.
Di SCIPIONE si disse che conquistò la Spagna non con le armi, ma con la bontà, e della sua bontà si
raccontano molti esempi fra i quali ci piace riportare il seguente: Presa Cartagena, fu al proconsole dai suoi
legionari condotta come prigioniera una bellissima fanciulla di nobile famiglia ispanica, fidanzata ad
ALLUCIO, giovane capo di una importante tribù celtibera. Scipione, per diritto di guerra, avrebbe potuto
tenere presso di sé la donna, ma, saputa la sua condizione, fece venire i parenti e il fidanzato della giovane
e consegnò loro la fanciulla. Ammirati dalla generosità del capitano romano, gli amici e parenti volevano
pagare il riscatto e insistendo, poiché lui lo rifiutava, che accettasse la somma come regalo, Scipione prese
il denaro e l'offrì ad Allucio come dono di nozze. Allucio, riconoscente, passò con mille e quattrocento
cavalieri al campo romano. Tutto questo avveniva nell'anno 209 a.C. In Italia contemporaneamente
Annibale era stato costretto da Claudio Marcello a lasciare Capua, dopo aver occupato Taranto lo stesso
Marcello la poneva sotto assedio riconquistando la città.

Nella primavera del 208, SCIPIONE entrò nella Betica, dove era accampato il più forte degli eserciti
cartaginesi, comandato da ASDRUBALE BARCA. Sul fiume Beti a Becula o, come scrive POLIBIO,
presso Castula, si scontrarono i due eserciti e quello cartaginese subì una sconfitta.
Con l'esercito ridotto alla metà ma con la speranza d'ingrossarlo lungo la via, ASDRUBALE BARCA,
insistentemente chiamato da Annibale e consigliato anche da Cartagine, si mosse verso i Pirenei occidentali
per recar soccorso al fratello in Italia. In Spagna rimasero Asdrubale di GISGONE, MAGONE e
MASSINISSA. Ma nessuno dei tre osò scontrarsi con Scipione; anzi il primo si ritirò nella Lusitania, il
secondo andò nelle isole Baleari per procurarsi nuovi mercenari e solo il terzo ebbe l'incarico di infastidire
con delle schermaglie l'esercito romano. La guerra così ebbe un po' di tregua nella penisola iberica e si
riaccese in Italia. Ma erano gli ultimi bagliori di un incendio che durava da oltre un decennio.

ASDRUBALE IN ITALIA - BATTAGLIA DEL METAURO

Nella primavera del 207 Asdrubale, dopo avere arruolati numerosi Galli nella Transalpina, valicò le Alpi e
scese in Italia dove riuscì ad aggiungere alle sue truppe ottomila mercenari Liguri. A circa sessantamila
uomini assommava il suo esercito, il quale, assalita inutilmente Piacenza, puntò, per le vie Emilia e
Flaminia, verso l'Adriatico. Il nuovo nemico, che giungeva a portare nuove e poderose forze ad Annibale,
non lasciò Roma indifferente. Furono fatti sacrifici alle divinità, si reclutarono milizie con le quali si
formarono ventitre legioni, e si nominarono nuovi consoli. Riuscirono eletti CAJO CLAUDIO NERONE e
MARCO LIVIO SALINATORE. Il primo era un veterano delle guerre d'Italia e di Spagna e se non era
fornito di tutte quelle virtù che abbisognano ad un capo di eserciti, era però uomo valoroso, risoluto ed
audace. Il secondo, detto "Salinatore" per avere messo l'imposta sul sale al tempo della sua censura, al
contrario di Nerone, era di famiglia plebea; valoroso ed accorto capitano, si era di-
stinto con Lucio Emilio Paolo nell'anno nella guerra illirica; accusato di peculato nella ripartizione del
bottino e ingiustamente condannato, si era ritirato a vita privata. Assunti al consolato, i due generali si
divisero il compito delle operazioni: LIVIO, non volendo dare battaglia ad Asdrubale nell'Italia
settentrionale per non trovarsi in una regione i cui abitanti parteggiavano apertamente per i Cartaginesi,
decise di andare ad incontrarlo nel centro della penisola e impedirgli di congiungersi con il fratello;
NERONE invece, fu inviato nel mezzogiorno della penisola a fronteggiare Annibale.
Quest'ultimo era in cammino verso l'Apulia quando a Grumento fu fermato dall'esercito di Claudio Nerone
che si scontrò battaglia. Il cartaginese ebbe la peggio e, poiché, non voleva impegnarsi a fondo contro i
Romani, si ritirò e, fatta una diversione, andò prima a Venusio poi a Canusio dove pose l'accampamento e
rimase ad aspettare notizie del fratello. Il console Claudio Nerone seguì Annibale fino a Canusio e pose il
campo a poca distanza dal nemico. Asdrubale intanto aveva spedito al fratello messaggeri con lettere nelle
quali avvisava Annibale del suo arrivo e lo sollecitava di venirgli incontro nell'Umbria.

Fortuna volle che le lettere cadessero in mano di NERONE, il quale, senza perdere tempo, scrisse al Senato
di inviare immediatamente a Narnia, nell'Umbria, le due legioni che si trovavano di riserva a Roma
richiamando a sostituirle quella che era di presidio a Capua; poi, sicuro che Annibale sarebbe rimasto a
Canusio in attesa di notizie del fratello, scelse nel suo esercito settemila uomini e, lasciato il grosso presso
il campo cartaginese, alla testa di quelle poche migliaia di armati si diresse a marce forzate verso il Piceno
e raggiunse il console LIVIO che si trovava accampato a Sena (Senigaglia). ASDRUBALE, varcato il
Metauro, si era accampato presso la foce di questo fiume, quando gli giunse la notizia dell'arrivo a Sena di
CLAUDIO NERONE. E, poiché sapeva che l'esercito di questo console aveva avuto il compito di
fronteggiare le truppe del fratello nell'Italia meridionale, credeva che Annibale fosse stato assalito e
sconfitto. Veniva a crollare così il suo disegno di congiungersi al fratello e dare l'assalto a Roma. Il
Cartaginese ritenne opportuno di non proseguire il suo cammino e, non volendo compromettere le sorti
della campagna affrontando i due consoli romani, pensò di ritirarsi nella Gallia Cisalpina e, levato il campo,
verso questa si diresse La ritiratá gli riuscì fatale. Le guide lo abbandonarono ed Asdrubale, smarrito il
cammino ed avendo i Romani alle calcagna, si vide costretto ad accettar quella battaglia che avrebbe voluto
evitare.

Il Cartaginese fece occupare un'altura dalle truppe galliche, le quali costituirono l'ala sinistra dello
schieramento ed ebbero il compito di resistere ad ogni costo e tenere fortemente impegnata l'ala destra
romana, comandata dal console Nerone. Al centro pose le milizie africane, alla destra gl'Ispani e gli
elefanti. Tutto lo sforzo della battaglia doveva esser fatto dall'ala destra, alla quale era affidato il compito di
attaccare risolutamente la sinistra romana capitanata da MARCO LIVIO SALINATORE e, sbaragliatala,
cincondare il centro e la destra dell'esercito nemico. Alla sapienza Al piano del sapiente Asdrubale non
arrise però la fortuna. Da ambo le parti la battaglia fu iniziata con inaudito accanimento e per molto tempo
l'esito rimase sempre incerto; poi sotto la furia degli assalti delle schiere ispaniche le truppe di LIVIO
cominciarono a cedere, ma CLAUDIO NERONE con la sua audacia salvò l'esercito romano e decise le
sorti della battaglia.

Avendo visto a mal partito le truppe del collega, aggirò non visto con parte delle sue milizie la collina su
cui stavano i Galli e piombò improvvisamente alle spalle della destra cartaginese portandovi la babele.
Circondato e premuto da tutte le parti, il nemico tentò un'inutile resistenza, ma le sorti erano oramai decise
e se n'accorse bene ASDRUBALE, il quale, vistoche la disfatta era irreparabile, si slanciò con il suo cavallo
nella mischia della battaglia e vi trovò una gloriosa fine. Non un solo soldato dell'esercito nemico - dicono -
riuscì a ripassare le Alpi e a portare in Spagna la notizia della sconfitta.

Secondo POLIBIO diecimila furono i morti nel campo di Asdrubale; secondo APPIANO, il Cartaginese
condusse alla battaglia quattromila ed ottocento fanti, ottomila cavalli e quattordici elefanti; secondo TITO
LIVIO, che forse esagera un po', perirono dei nemici cinquantaseimila uomini e ne furono catturati
cinquemila e quattrocento.La strage di Canne era stata vendicata e a Roma, all'annuncio della strepitosa
vittoria, che, a ragione, fu considerata come decisiva per le sorti della guerra. annibalica, gli spiriti si
rinfrancarono e furono rese grazie agli dèi con una festa durata tre giorni. Subito dopo la battaglia del
Metauro, il console CLAUDIO NERONE tornò al campo presso Canusio dove aveva lasciato il suo
esercito a fronteggiare Annibale. Portava con sé un macabro oggetto preso al campo di battaglia: la testa
del valoroso ed infelice Asdrubale, che, lanciata nel campo nemico, dicesi che facesse esclamare ad
Annibale: "Riconosco ora la fortuna della mia patria!".

Tuttavia il grande generale cartaginese, in cui la tenacia era pari al valore, non volle abbandonare il suolo
d'Italia e, benché comprendesse che nulla poteva più fare per abbattere la potenza di Roma, rimase ancora
per quattro anni nella penisola, sui boscosi monti del Bruzio resistendo ai colpi inesorabili degli eserciti
romani.

FINE DELLA GUERRA IN ISPAGNA

Dopo Metauro, la fortuna di Cartagine tramonta non solo in Italia, ma anche in Spagna. Qui, dopo la
partenza di Asdrubale, SCIPIONE riconduce sotto il dominio di Roma tutta la parte orientale della
penisola. Davanti ai successi del nemico, Magone ed Asdrubale di Gisgone restano inattivi, aspettando aiuti
da Cartagine. Questi giungono nella primavera del 206 e li conduce ANNONE, cui si unisce, con le truppe
reclutate nelle Baleari, Magone. Scipione, per impedire che tutte le forze nemiche si congiungano, manda
contro Annone il pretore MARCO SILANO, e lui rimane a fronteggiare Asdrubale. Silano, appreso che
l'esercito di Annone è diviso in due campi, muove con tutta la celerità possibile contro uno di loro, per non
dar tempo all'altro corpo di giungere in soccorso, e, dopo averlo assalito con impeto, lo sbaraglia catturando
Annone. Magone, giunto alla fine della battaglia, riesce con parte dei suoi a porsi in salvo con la fuga e a
congiungersi con Asdrubale di Gisgone.

Nonostante le sconfitte patite, il nemico è ancora temibile. Asdrubale dispone di settantamila fanti e
quattromila cavalli, mentre SCIPIONE ha solo quarantacinquemila uomini, tra fanti e cavalieri. Ma questi
confida nel suo valore e nella fortuna che sempre gli è stata benigna e marcia contro il nemico con il quale
prende contatto a Becula. Qui hanno luogo alcune azioni di cavalleria favorevoli ai Romani, poi avviene la
grande battaglia che deve rendere Roma padrona di tutta la Spagna.

Da alcuni giorni i due eserciti escono dal campo la mattina e si schierano a battaglia e la sera rientrano
senza, aver combattuto. Scipione ha potuto osservare che ogni giorno nello schieramento di Asdrubale gli
Africani sono al centro e i mercenari iberici, la maggior parte reclute, alle ali. Concepito il suo piano, il
generale romano ordina una sera che l'esercito, dopo aver mangiato abbondantemente, inizi a prepararsi per
le prime ore del giorno seguente, e prima ancora che spunti l'alba, invia la cavalleria ad assalire il campo
nemico, poi avanza con le fanterie spagnole al centro e le romane alle ali. Scopo di Scipione è di attaccare
con le sue truppe migliori le reclute di Asdrubale, sbaragliarle e avere poi più opportunità di sopraffare le
milizie cartaginesi.

Il suo disegno è coronato dal più grande successo. Il nemico, sorpreso a quell'ora, non ha nemmeno tempo
di mangiare (questa era la prassi prima della battaglie) e precipitosamente esce dal campo schierandosi
seguendo l'ordine dei giorni precedenti. L'esercito romano è disposto a ferro di cavallo e le sue ali sono le
prime ad ingaggiar battaglia. Questa si svolge con gli Africani del centro, che pur vedendo in difficoltà le
ali, non osano correre in loro aiuto e aspettano l'urto del centro romano il quale però tarda ad attaccare per
far logorare nell'attesa il nemico e dar tempo alla sinistra e alla destra di sconfiggerne le ali.
Quando il centro dell'esercito di Scipione attacca, i Cartaginesi sono già spossati dal lungo digiuno e i
mercenari iberici cominciano a cedere. L'esercito di Asdrubale, premuto alle ali, non può mantenere le
posizioni e indietreggia, ma il ripiegamento, all'inizio ordinato, ben presto si muta in fuga e la fuga segna
l'inizio della strage e della sconfitta. La quale sarebbe stata di proporzioni maggiori se una pioggia violenta
di un temporale non avesse fatto cessare il combattimento.

Ritiratosi nell'accampamento, Asdrubale pensò di riorganizzarsi, ma essendo alcune schiere di mercenari


tudertani passate dalla parte dei Romani e temendo altre diserzioni, nel cuor della notte abbandonò il
campo. Fu una ritirata disastrosa. Inseguito dalla cavalleria romana prima e raggiunto poi dalle fanterie,
l'esercito nemico fu quasi completamente distrutto; soltanto settemila uomini con Asdrubale riuscirono a
salvarsi sulla sommità di un monte, ma da dove i due capitani, uno dopo l'altro, se ne fuggirono a Gades
(Cadice) e delle truppe gli Ispani se ne tornarono alle loro case, mentre i Cartaginesi parte raggiunsero i
loro capi, parte si rifugiarono a Castula.

La Spagna era oramai quasi tutta in potere di Roma; soltanto Gades rimaneva ai Cartaginesi e Castula e
Illiturgo ai ribelli Spagnoli. Ma prima o dopo queste città sarebbero cadute in mano ai Romani.
Scipione ora vagheggia un'impresa più ardita, vasta e più difficile; egli sa che il possesso della Spagna non
sarà sicuro, se prima non sarà fiaccata la potenza di Cartagine in Africa.
In Africa è necessario che Roma porti la guerra: è questo il sogno di SCIPIONE.

Grande uomo politico oltre che geniale guerriero, Scipione pensa che occorre, prima di fare una spedizione
militare sulle coste africane, ingraziarsi le popolazioni della Numidia e cercare l'alleanza di qualcuno dei
sovrani di quella regione.

Inviato pertanto a Roma il fratello LUCIO con i più nobili prigionieri, in compagnia del suo luogotenente
CAJO LELIO su due quinqueremi PUBLIO CORNELIO SCIPIONE parte da Cartagena e si reca nella città
di Siface, incontrandosi con il re numida che otto anni prima aveva concluso un trattato d'alleanza con i due
fratelli Scipioni. Rinnovata l'alleanza, il proconsole torna a Cartagena dove marcia prima su Illiturgo che gli
oppone una fiera resistenza, ma, presa d'assalto, è saccheggiata ed arsa, poi su Castula, i cui abitanti si
arrendono consegnando Imilcone e il presidio cartaginese.

In quei giorni (fine 206 a.C.) è fondata sulle rive del Beti (a Cadice) una colonia romana cui è posto il nome
di Italica. Poco dopo a Sucrone il presidio romano si ammutina per non avere ricevuto le paghe ed una
malattia coglie Scipione. Questi fatti, insieme con la ribellione di MANDONIO e INDIBILE, potentissimi
capi spagnoli, rianimano un po' i Cartaginesi che sperano di potere riconquistare la Spagna; ma Publio
Cornelio Scipione ben presto guarisce, smorza accortamente la sedizione dei legionari facendo decapitare
solo i promotori, e con la generosità si guadagna l'amicizia e l'obbedienza di Mandonio e Indibile e con la
fama delle sue gloriose gesta l'ammirazione di MASSINISSA, il quale, abboccatosi segretamente con il
proconsole, gli promette di servire fedelissimamente la grande repubblica romana.

Poiché ogni speranza di riconquistare la penisola iberica è tramontata, Cartagine ordina a MAGONE di
passare in Italia, reclutare il maggior numero di mercenari nella Gallia Cisalpina e prestare aiuto ad
Annibale.
Magone lascia Gades; comparso improvvisamente davanti a Cartagena, tenta d'impadronirsi della
piazzaforte, ma, respinto duramente dai legionari, va prima a Cimbo, poi all'isola Pitiusa e infine cerca di
sbarcare a Majorca. Respinto dagli isolani, approda a Minorca e di qui con una flotta di trenta navi e un
esercito di dodicimila fanti e duemila cavalli nell'autunno del 548 parte per l'Italia e, approdato in Liguria,
prende d'assalto Genova.

PUBLIO CORNELIO SCIPIONE CONSOLE

Siamo nell'anno 205 a.C. - Partito Magone, Gades apre le porte ai Romani. Con la presa di questa città,
dopo quattro anni dall'arrivo in Spagna del giovane Scipione, la Spagna è tutta sotto il dominio di Roma.
Compiuta felicemente la grande impresa, Scipione consegna la nuova provincia a LUCIO MANLIO
ACIDINO e ritorna a Roma portando con sé quattordicimila e trecentoquarantatre libbre d'argento. Il
grande generale non ottiene il trionfo, ma è tanto l'entusiasmo suscitato nel popolo dalle sue vittorie che è
nominato console con PUBLIO LICINIO CRASSO. Lo stesso anno è nominato dittatore Q. CECILIO
METELLO.

Primo pensiero di SCIPIONE, appena entrato in carica, è di tradurre in realtà il suo sogno portando in
Africa la guerra. Ma la sua proposta trova ostilità non lievi nel Senato specialmente per opera del vecchio
QUINTO FABIO MASSIMO, il quale sostiene doversi prima di tutto pensare di cacciare Annibale
dall'Italia. Scipione però non si lascia convincere e, sicuro che il popolo è dalla sua, minaccia di appellarsi
alle tribù e ottiene di marciare in Sicilia e il permesso di passare, quando lo riterrà opportuno, in Africa. Gli
vengono però rifiutati navi, armi e denari, né è possibile compiere un'impresa di tanta importanza con le
sole due legioni della Sicilia e le trenta navi adibite alla custodia di quelle coste.
Nonostante menomazione Scipione non rinuncia ai suoi propositi e si rivolge alle popolazioni italiche
affinché gli forniscano i mezzi per la spedizione. Il suo appello non è lanciato invano; gli abitanti di Cere
offrono le ciurme per la flotta, quelli di Populonia il ferro, quelli di Tarquinia la tela per le vele, quelli di
Volterra frumento e gli armamenti per le navi, gli Aretini trentamila scudi ed altrettante frecce e celate una
gran quantità di falci, scuri, lance e centoventimila moggi di grano, i Chiusini, i Perugini, e i Russellani
legname e frumento, gli Umbri, i Sabini, i Marsi, i Peligni e i Marrucini pure questi forniscono soldati.

In soli quarantacinque giorni, Scipione accresce la sua flotta di altre trenta navi, alle due legioni unisce
settemila volontari italici, e nell'estate del 205 parte per la Sicilia, sperando di poter passare presto in
Africa.
Invece per circa un anno è trattenuto nell'isola. Giunto in Sicilia, una legazione di Locresi lo invita a tentare
un colpo di mano su Locri. Scipione acconsente e s'impadronisce della città, dove lascia il suo luogotenente
QUINTO PLEMINIO. Questi però commette ogni sorta di violenze contro i Locresi, i quali chiedono
giustizia a Scipione. Il console accorre, ma, credendo infondati i reclami dei cittadini, riconferma il potere a
Pleminio. I Locresi allora si rivolgono al Senato e delle lagnanze approfittano i molti nemici che il console
ha a Roma. L'aristocrazia, come abbiamo visto già in passato, fin dalla conquista della Sicilia, non vuole le
guerre esterne; i loro monopolistici commerci ne risentirebbero enormemente; le molte terre conquistate
fanno diluire anche qui enormemente quelle che possiedono; ed infine perché le guerre promuovono la
democrazia nel popolo, fanno emergere dall'ambiente militare sempre nuove figure al senato, spesso di
nascita plebea.

Questi oppositori accusano Scipione di complicità nel malgoverno di Pleminio, sostengono che l'esercito di
Sicilia è caduto nell'anarchia e che il console, invece di prepararsi alla guerra contro Cartagine, vive
nell'ozio e nelle mollezze in Siracusa. Lo stesso Fabio (e ci meravigliamo di lui! per non avere la stessa
visione politica di Scipione, né riconoscerlo come valore suo pari) credendo vere queste accuse, domanda
che Scipione sia richiamato in Roma.

Il Senato invece, guidato da lodevole prudenza, vuole esser sicuro della veridicità delle accuse prima di
prendere severi provvedimenti e invia dieci commissari affinché compiano una rigorosa inchiesta. I
commissari si recano prima a Locri, costatano che nelle malversazioni di Pleminio, Scipione non ha alcuna
parte e fanno tradurre a Roma il luogotenente, risarcendo i Locresi dei danni subiti; poi vanno a Siracusa e
trovano nell'esercito grande entusiasmo e la più grande disciplina e si accertano pure -con compiacimento-
che i preparativi di Scipione per la spedizione africana sono fatti con molta saggezza, perfino nei minimi
particolari e che non vi è nulla di avventato.

Ritornati a Roma, i Commissari elogiano l'opera di Scipione e affermano che "se con quel generale e con
quell'esercito non si vince a Cartagine con nessun altro esercito lo si potrebbe fare".

La valutazione era esatta e le aspettative non delusero,


e "quel generale" ora lo seguiamo in Africa....
SCIPIONE IN AFRICA --BATT. DI ZAMA
SCIPIONE IN SICILIA E IN AFRICA - MASSINISSA - BATTAGLIA DEI CAMPI MAGNI - BATTAGLIA DI
CIRTA - MORTE DI SOFONISBA - RITORNO DI ANNIBALE IN AFRICA - MORTE DI QUINTO FABIO
MASSIMO - BATTAGLIA DI ZAMA - FINE DELLA SECONDA GUERRA PUNICA
-------------------------------------------------------------------
SCIPIONE IN SICILIA E IN AFRICA

Siamo nell'anno 204 a.C. - Fervono in Sicilia i preparativi e non si trascura di tener d'occhio Cartagine dove
non sono ignorati i propositi di Scipione. CAJO LELLO con parte della flotta fa la sua comparsa davanti le
coste della Numidia occidentale e saccheggia il territorio di Rippo. Cartagine crede invece che sia giunto
Scipione, e si prepara alla difesa: assolda mercenari, raccoglie vettovaglie, fortifica città, manda
ambasciatori a Siface e a Filippo il Macedone, pregando quest'ultimo di passare in Italia e in Sicilia; invia a
MAGONE venticinque navi, seimila fanti, ottocento cavalli, sette elefanti e ingenti somme perché assoldi
milizie e si congiunga con Annibale.

MAGONE però in Liguria trova gran difficoltà a procurarsi uomini ed i Galli, da lui sollecitati, rispondono
che sono costretti a difendere il loro paese dagli eserciti di LUCREZIO e di MARCO LIVIO, che piantano
le tende in Etruria e nel territorio di Arimino. Ma se Magone ed Annibale non possono recare nessun
giovamento alla patria, questa si è procurato l'aiuto di uno dei suoi più potenti vicini: Siface. ASDRUBALE
di GISGONE è stato l'artefice dell'alleanza. Sapendo che il re numida era unito da un trattato di amicizia
con Scipione, Asdrubale aveva fatto conoscere a Siface, la propria figlia SOFONISBA, una fanciulla di
straordinaria bellezza, la quale aveva suscitato nel cuore del re africano una violenta passione ed era
riuscita a farsi sposare da lui. Alle nozze era seguita l'alleanza con Cartagine e Siface si era affrettato a
mandar messi a Scipione, diffidandolo di passare in Africa, poi aveva radunato un esercito di cinquantamila
fanti e diecimila cavalli e si era tenuto pronto a soccorrere Cartagine minacciata dai Romani.

Nemmeno la defezione di Siface scoraggiò Scipione. Nell'estate del 204 la flotta e l'esercito sono a Lilibeo:
trentacinquemila soldati, quaranta navigli da guerra rostrati e quattrocento navi da carico. Il giorno della
partenza è giunto e la riva è gremita di gente convenuta da tutte le parti dell'isola.
Ritto sul ponte della nave ammiraglia, Scipione prega solennemente le divinità del mare e della terra di
essere favorevoli all'impresa e facciano tornare le milizie di Roma vittoriose e cariche di bottino, poi
sacrifica la vittima, getta nelle onde le interiora e con la tromba fa dare il segno della partenza.
SCIPIONE e il fratello LUCIO sono all'ala destra con venti navi rostrate, alla sinistra con altrettanti legni
da guerra LELIO e MARCO PORCIO CATONE. La flotta naviga in direzione di Emporia, ma una fitta
nebbia la fa deviare verso occidente e l'alba del nuovo giorno le mostra in vicinanza il promontorio di
Mercurio.
Qui approdò l'armata e presero terra le truppe, che si accamparono su alcuni colli vicini.
Nello stesso tempo giunsero a Cartagine la notizia dello sbarco dei nemici e i profughi del territorio al
quale erano approdati i Romani. Immenso fu lo spavento, anche perché i Cartaginesi, credendo che il
nemico sbarcasse ad Emporia, avevano là mandato tutte le loro forze. Fu raccolto in fretta un corpo di
cinquecento cavalieri e al comando di ANNONE, nobile cartaginese; ma spedito al promontorio di
Mercurio, è assalito dalla cavalleria di Scipione, fu sbaragliato, messa in fuga e in gran parte tagliato a
pezzi; e fra i morti il medesimo Annone.

Dopo questo primo successo, Scipione mise sottosopra i dintorni del paese, portando ovunque lo sgomento,
e assalita una città ricca catturò ottomila uomini che si affrettò a inviare in Sicilia come primi trofei della
spedizione.

MASSINISSA

Fu in quei primi giorni della campagna d'Africa che Massinissa si unì all'esercito di Scipione. Non è che
recava grandi aiuti, forse duecento cavalli, come vogliono alcuni, forse duemila come affermano altri; ma
la fama di grande guerriero, l'ascendente che aveva presso le popolazioni africane e l'odio implacabile che
nutriva contro Siface e Cartagine lo rendevano molto gradito ai Romani.
MASSINISSA era caduto in bassa fortuna. Mentre lui era guerra in Spagna al seguito dell'esercito
cartaginese, suo padre Gaia era morto e al trono era succeduto DESALCE, fratello del re. Morto poco dopo
anche questi, gli era succeduto CAPUSA, il maggiore dei suoi due figli; ma aveva regnato poco, perché un
suo parente, MEZETULLO, marito di una sorella di Annibale, uccisolo in battaglia, si era impadronito del
potere proclamandosi tutore di Lacumace, il secondo figliuolo di Capusa, e stringendo alleanza con Siface.
Udita la morte dello zio e l'uccisione del cugino, Massinissa aveva lasciato la Spagna ed era passato in
Mauritania, e, protetto da BOCCARE, re dei Mauri, aveva potuto raggiungere i confini della Numidia.
Radunati intorno a sé cinquecento cavalieri amici di suo padre, aveva assalito e costretto alla resa la città di
Tapso ed, essendo cresciuto il numero dei suoi aderenti, aveva vinto in battaglia l'usurpatore Mezetullo e
riconquistato il regno paterno.

Ma poco era durata la fortuna di Massinissa. Sconfitto dalle forze molto più numerose di Siface, si era
ridotto con pochi fedeli sul monte Balbo, e da qui aveva cominciato a molestare con continue scorrerie il
territorio di Cartagine. Assalito nel suo covo da un esercito cartaginese, dopo eroica resistenza, era riuscito
a mettersi in salvo con cinquanta cavalieri; raggiunto e circondato dai nemici presso Clupea, sebbene ferito,
anche questa volta si salva con due compagni passando a guado un fiume in piena e nascondersi in una
caverna. Guarito, era tornato entro i confini del suo regno riuscendo a radunare intorno a sé un piccolo
esercito di seimila fanti e quattromila cavalli, alla testa del quale, tra Cirta e Hippo, aveva sostenuto una
durissima battaglia contro SIFACE e il di lui figlio VERMINA. Il suo valore però era stato sopraffatto dalla
moltitudine dei nemici e Massinissa con pochi uomini era a stento sfuggito alla stretta dell'esercito
avversario rifugiandosi nel paese dei Garamanti.

Con lo scarso numero dei suoi seguaci lo sfortunato ed eroico guerriero si presentava al grande Scipione
offrendogli due cose che nessun generale accorto poteva rifiutare: un'inestinguibile sete di vendetta ed un
cuore di leone.

PRIME VITTORIE DI SCIPIONE IN AFRICA

Volendo conquistarsi una base per le future operazioni, Scipione pose l'assedio ad Utica. Molestato da
Annone, figlio di Amilcare, che comandava un corpo di quattromila cavalli, seppe trarlo, con l'aiuto di
Massinissa, fuori della città, di Balera, in un agguato e distruggerlo quasi interamente, poi, saputo
dell'avvicinarsi dell'esercito di Siface al quale si era congiunto Asdrubale di Gisgone con trentamila fanti e
tremila cavalieri, e non riuscendogli a espugnare Utica, Scipione levò l'assedio e pose gli accampamenti su
un promontorio vicino.

L'inverno trascorse senza che alcun fatto d'arme di notevole importanza avvenisse. A sette miglia circa
dagli alloggiamenti romani sorgevano, in luoghi diversi, il campo di Asdrubale e quello di Siface, fabbricati
con canne e stuoie, e riparati intorno da steccati.

I nemici di Scipione erano quasi centomila erano, e non osando assalirli per l'inferiorità numerica del suo
esercito, che contava meno di quarantamila uomini, ricorse all'astuzia. Finse cioè di volere intavolare
trattative con il re Siface e, dando tregua alle armi, inviò messi al campo nemico, i quali avevano il compito
di osservare la disposizione degli accampamenti africani e le abitudini del nemico.
Anziché la pace, il re africano e il generale cartaginese, ebbero la distruzione dei loro campi. Infatti,
Scipione, rotte bruscamente le trattative, fece occupare da alcune schiere un colle nelle vicinanze di Utica,
per sorvegliare il presidio di questa città e, scesa la sera, divise l'esercito in due; una parte l'affidò a LELIO
e a Massinissa, ai quali ordinò di marciare contro il campo di Siface, l'altra la trattenne con sé per condurla
a quello di Asdrubale. Favoriti dalle tenebre, i Romani giunsero verso la mezzanotte agli accampamenti
nemici e li circondarono, poi appiccarono il fuoco in più punti degli alloggiamenti.
Cartaginesi e Numidi, svegliati dal crepitio dell'incendio, furono prima presi da grande spavento, poi si
diedero a correr di qua e di là per spegnere il fuoco; ma, caduti senz'arme in mezzo alle schiere nemiche,
moltissimi vi trovarono la morte. Quella notte la strage fu enorme. Circa quarantamila uomini perirono;
seimila furono catturati e fra questi undici senatori e molti nobili cartaginesi; furono presi centosettantotto
insegne militari, duemilasettecento cavalli, sei elefanti e una grandissima quantità di armi. Asdrubale e
Sifaee con ventimila fanti e cinquecento cavalieri riuscirono a salvarsi. La notizia della strage portò a
Cartagine lo spavento. Riunitosi il Senato, alcuni proposero di mandare ambasciatori a Scipione per trattare
la pace, altri di richiamare Annibale dall'Italia, altri ancora di rifare gli eserciti e continuare la guerra.
Prevalse il parere di questi ultimi. Siface, vinto dalle preghiere della moglie Sofonisba, decise anch'egli di
rinnovare gli sforzi e di resistere fino a che i Romani non fossero stati cacciati dall'Africa.

Tra Cartaginesi e Numidi furono radunati circa trentamila uomini che marciarono contro Scipione. La
battaglia avvenne in una pianura detta dei Campi Magni e fu accanitamente combattuta dall'una e dall'altra
parte.
SCIPIONE schierò il suo esercito con i principi in testa, seguiti dagli astati e dai triarii e pose all'ala destra
la cavalleria romana e alla sinistra i Numidi di Massinissa. ASDRUBALE e SIFACE piazzarono al centro
un forte contingente di mercenari celtiberi, alla sinistra i Numidi e alla destra i Cartaginesi.
Al primo scontro i corni dell'esercito africano furono respinti. Il combattimento però continuò energico
contro le schiere dei Celtiberi che si difesero a lungo, disperatamente e caddero quasi tutti uccisi sul campo.
Siface ed Asdrubale, grazie all'eroica resistenza dei mercenari spagnoli, riuscirono a salvarsi fuggendo con
parte delle loro truppe.
BATTAGLIA DI CIRTA

La sconfitta dei Campi Magni fu un gravissimo colpo per Cartagine. Le città del suo dominio costiero -
eccettuate alcune, fra le quali Utica che continuava a resistere - aprivano impaurite le porte al vincitore o
erano espugnate. Già l'esercito romano si era spinto a quindici miglia da Cartagine occupando Tunisi e di là
minacciava la capitale. La situazione in cui la repubblica africana si trovava, era una delle più critiche.
Molti dei più influenti cittadini consigliarono di venire a patti con il nemico, ma la maggioranza degli
uomini che erano al potere si opposero. Non tutto era perduto; Siface disponeva ancora di molte truppe e
non avrebbe posto termine alla guerra; Annibale poteva essere richiamato e rialzare le sorti della sua patria
insieme con il fratello Magone; infine la flotta cartaginese era numerosa e poteva distruggere le navi di
Scipione ed isolarlo da Roma.

Nella flotta e in Siface furono riposte le maggiori speranze di Cartagine, ma le navi africane, sebbene
numerosissime, riuscirono a catturare solo una quindicina di navigli romani.
SIFACE intanto, fuggendo, si era rifugiato entro i confini del suo regno e forse avrebbe tentato di avviare
trattative di pace con Scipione se non lo avessero distolto Asdrubale e Sofonisba. Quest'ultima,
specialmente, mettendo in opera tutte le sue arti femminili, convinse il marito che era pericoloso
abbandonare la guerra, perché i Romani non potevano aver dimenticato che lui aveva rotto l'alleanza e
Massinissa non avrebbe permesso che l'odiato rivale rimanesse sul trono. Facilmente persuaso di ritentar le
sorti delle armi, Siface, chiamati tutti gli uomini validi del suo regno, radunò ben presto un numeroso
esercito e mosse contro Lello e Massinissa i quali erano penetrati nel suo territorio.
Anche questa volta però la fortuna fu contraria al re di Numidia; motivo: sebbene pur più numerose, le sue
truppe non erano agguerrite come le romane ed erano adatte più alla guerriglia ed alle scorrerie che ad una
battaglia campale.

A poche miglia da Cirta, capitale del regno numidico, l'esercito di Siface si scontrò con le schiere guidate
da Massinissa e da Lelio. Il combattimento fu breve e non riuscì difficile ai Romani di mettere in rotta gli
Africani, che, abbandonate le armi, si diedero alla fuga. Siface, mentre si sforzava di far tornare i suoi alla
battaglia, ebbe ferito il cavallo e, caduto al suolo, fu fatto prigioniero.Cinquemila furono i morti
dell'esercito di Numidia e meno di tremila i prigionieri. I superstiti, sbigottiti per la cattura del re, si
rifugiarono a Cirta.

LA BELLA SOFONISBA

La città, chiuse le porte e organizzate delle guardie alle mura, si preparava alla difesa quando giunse
Massinissa con parte dell'esercito vittorioso.Chiamati i principali cittadini a parlamento fuori le mura,
Massinissa li esortò a cedere la terra, ma poiché si rifiutavano non sapendo che il loro re fosse caduto in
mano del nemico, né volevano crederci, fu davanti a loro condotto SIFACE avvinto da pesanti catene. Alla
vista del loro sovrano legato, ogni proposito di resistenza fu abbandonato e le porte furono aperte.
Massinissa, fatte occupare dai suoi uomini le porte e le mura di Cirta, penetrò a cavallo nella città e corse al
palazzo reale. Era appena smontato di sella e stava per metter piede sulla soglia della reggia quando gli
apparve una donna, bellissima di viso e di forme, cestita con abiti regali: SOFONISBA. La regina, veduto
Massinissa e dal portamento e dalle vesti riconosciuto in lui il capo dell'esercito vincitore, gli s'inginocchiò
davanti e piangendo gli disse "Gli dèi immortali ti hanno concesso la sorte d'essere arbitro della nostra
vita e dei nostri beni; ma se è permesso ad una prigioniera di rivolgere la supplica al vincitore, se le è
lecito abbracciargli le ginocchia ed umilmente toccargli la destra, io ti chiedo e scongiuro, in nome della
terra nella quale io e tu abbiamo avuto i natali, che non mi consegni nelle mani dei crudeli Romani.
Preferisco esser la schiava di un uomo della mia medesima nazione che la serva di uno dei nemici odiati
della mia patria. E se tu non puoi salvarmi da tanta vergogna, sii almeno pietoso verso di me, togli pure la
vita alla figlia di Asdrubale".

Vinto dalla bellezza più che dalle lacrime della regina, MASSINISSA le promise di non consegnarla ai
Romani, ma ben presto si accorse di aver fatto una promessa che non avrebbe facilmente potuto mantenere.
Sofonisba, per diritto di guerra, apparteneva ai Romani. Sofonisba però era giovane e bella; la sua voce era
dolce ed armoniosa e il suo sguardo pieno di fascino. Massinissa fin dal primo momento che l'aveva vista e
sentita parlare, si era perdutamente innamorato.

Accecato dall'ardente passione e deciso di salvarla ad ogni costo dalla prigionia, giunse nella
determinazione di sposarla. Scipione non avrebbe fatto un affronto all'amico trascinando a Roma come
schiava sua moglie. Il giorno medesimo della resa di Cirta si celebrarono le nozze.

Giunto poco dopo, a stento Massinissa ottenne che Sofonisba non fosse mandata a Scipione con il marito
Siface prigioniero. Questi, giunto al campo romano, fu condotto da Scipione e al generale che gli
rimproverava la fede rotta, sostenne che responsabile di tutte le sue disgrazie era stata la moglie, quella
perfidia figlia di Asdrubale, la quale, dopo averlo stregato con la sua fatale bellezza, lo aveva spinto a
tradire l'amicizia con Roma, e a prendere le armi in favore di Cartagine. E disse inoltre che Sofonisba come
aveva rovinato lui così sarebbe stata cagione della rovina di Massinissa. Le parole di Siface preoccuparono
Scipione, il quale, chiamato Massinissa, dolcemente lo rimproverò dell'inconsulto matrimonio e gli ordinò
di consegnargli la donna.

Combattuto dalla voce imperiosa del dovere e dalla promessa che aveva fatta alla regina, Massinissa inviò
alla moglie, per mezzo di un fedele servitore, un potente veleno affinché con questo potesse sottrarsi alla
schiavitù.
Al servo che le porgeva la coppa è fama che Sofonisba dicesse: "Poiché il marito nessuna cosa migliore ha
potuto inviare alla moglie, volentieri ricevo questo dono nuziale. E tu riferisci al tuo padrone che non della
morte mi dolgo, ma di esser venuta meno, sposandolo, al giuramento fatto di odiare per sempre i Romani".
Pronunciate queste fiere parole, la coraggiosa figlia di Asdrubale bevve fino all'ultimo goccia il veleno.

MORTE DI MAGONE - ANNIBALE LASCIA L'ITALIA

202 a.C., Sconfitto Asdrubale e preso prigioniero Siface - che, inviato prima a Roma era stato poi confinato
ad Alba, nella regione degli Equi - a Cartagine non rimaneva che una speranza di salvezza: il ritorno di
MAGONE ed ANNIBALE. Era necessario però impedire ad ogni costo che Scipione si impadronisse della
città prima che i due cartaginesi giungessero in patria. Sapendo di non aver forze sufficienti per resistere ad
un assalto dell'esercito romano, il Senato inviò a Scipione trenta ambasciatori, che chiesero la pace.
Il generale romano impose le seguenti condizioni: consegna dei prigionieri, ritiro degli eserciti cartaginesi
dalla Gallia e dall'Italia, rinuncia alla Spagna ed alle isole poste tra l'Italia e l'Africa, consegna di tutta la
flotta eccettuate venti navi, pagamento di cinquemila talenti, cinquecentomila moggi di grano e
trecentomila d'orzo. Cartagine finse d'accettare le condizioni dettate da Scipione e, firmata una tregua,
mandò ambasciatori a Roma per concludere la pace. Nello stesso tempo però spedì messi ad Annibale e a
Magone, scongiurandoli di tornare in patria con i loro eserciti. Quando gli ambasciatori approdarono in
Liguria, Magone, gravemente ferito, tornava dall'Insubria dove le sue truppe erano state duramente
sconfitte dalle legioni del proconsole MARCO CORNELIO e del pretore PUBLIO QUINTILIO VARO.
A MAGONE, date le sue condizioni di salute, non dispiaceva lasciare l'Italia; imbarcatosi con i resti del suo
esercito, fece prontamente vela per l'Africa, ma non riuscì a rivedere la sua patria perché, presso le coste
della Sardegna, morì; molte delle sue navi, sorprese dalla flotta romana che incrociava in quelle acque,
furono catturate.

Annibale si trovava a Cotrone quando giunsero a lui gli ambasciatori di Cartagine pregandolo che ritornare
in Africa. Non senza dolore il grande generale aderì all'invito della patria. Da sedici anni egli era in Italia;
aveva vinto parecchie volte gli eserciti nemici, aveva espugnato molte città, aveva corsa in tutti i sensi la
penisola, e si era spinto quasi fin sotto le mura di Roma. Ora gli toccava di rinunziare, e certo per sempre,
al suo sogno, alla conquista d'Italia, alla presa dell'odiata Roma e partire come un fuggiasco,
precipitosamente, per difendere la patria minacciata.

La notizia della partenza di Annibale recò un giubilo immenso a Roma. Furono rese pubbliche grazie per
più giorni agli dèi e al novantenne QUINTO FABIO MASSIMO fu solennemente data la corona d'alloro. Il
venerando capitano, che con la sua saggezza aveva salvato la repubblica, non ebbe però la gioia di vedere
Cartagine prostrata; infatti, morì in quello stesso anno prima della decisiva battaglia sui campi di Zama.

Annibale lasciò l'Italia nell'autunno del 202 a.C..Il suo esercito si era ridotto a poche migliaia di uomini e
poche erano le navi di cui egli disponeva. Fu scritto che il Cartaginese, non sapendo come condurli in
Africa per mancanza di mezzi di trasporto, fu costretto ad uccidere quattromila cavalli.
Dopo aver navigato senza incidenti, Annibale approdò a Lepti, città posta a sud-est del golfo di Cartagine,
poi si recò a Adrumeto.

Qui ricevette da Asdrubale di Gisgone alcune schiere di mercenari e gli avanzi dell'esercito del fratello
Magone, poi andò in Numidia. Scopo di Annibale era di rifornirsi di cavalli e di accrescere il numero delle
sue soldatesche prima di cimentarsi con Scipione. Penetrato nel territorio numidico, Annibale ricevette gli
scarsi aiuti di cui il figlio dello spodestato Siface, Vermina, poteva disporre, e con lui riconquistò parte
della Numidia.

Il Cartaginese avrebbe forse esteso maggiormente le sue conquiste e reclutato un numero più considerevole
di soldatesche se PUBLIO CORNELIO SCIPIONE gliene avesse lasciato il tempo; ma il generale romano,
rotta la tregua con Cartagine, si affrettò a marciare contro il nemico e lo raggiunse a Zama presso la città di
Noraggara sul fiume Bagrada, dove doveva essere combattuta la battaglia decisiva della seconda guerra
punica.

BATTAGLIA DI ZAMA

Narrano gli storici che, prima di affrontare le sorti delle armi, Annibale tentò di giungere ad un accordo con
Scipione.
Se il colloquio tra i due famosi generali non è un'invenzione si deve credere che esso fu chiesto da Annibale
per dimostrare a quella corrente cartaginese sostenitrice della pace che si era cercato di concludere
pacificamente la lunga guerra.

Secondo la tradizione Annibale si dichiarò pronto ad accettare le condizioni che Scipione aveva imposte a
Cartagine, ma, avendo questi chiesto la restituzione di alcune navi cadute in potere dei cartaginesi durante
la tregua, ed un'indennità per offese recate ad alcuni ambasciatori romani, quegli oppose un rifiuto e si
lasciò che le sorti della guerra fossero decise dalle armi.

La battaglia fu combattuta il 19 ottobre del 202 a.C. Pari erano le forze, disponendo ciascuno dei sue
eserciti di circa cinquantamila uomini. SCIPIONE aveva il vantaggio di possedere una cavalleria più
numerosa e truppe di una medesima nazione che avevano le stesse armi e gli stessi metodi di
combattimento ed erano imbaldanzite dalle recenti vittorie. ANNIBALE era superiore per il numero delle
sue fanterie; ma era questa una superiorità che non poteva avere gran peso nella battaglia essendo le sue
truppe di varie lingue e nazionalità, Cartaginesi, Numidi, Balearici, Bruzi, Liguri, Galli e perfino Macedoni,
che Filippo gli aveva inviati, mercenari la più parte, non animati da nessun amor di patria e non cementati
da un'unica e salda disciplina. Molto inferiore per numero era la sua cavalleria, quella cavalleria che gli
aveva fatto vincere tutte le battaglie. Egli contava sull'arrivo dei cavalieri di Vermina, ma quando questi
giunsero la battaglia era finita e l'esercito del figlio di Siface, circondato, lasciò sul campo quindicimila
fanti e millecinquecento cavalli. In compenso Annibale aveva ottanta elefanti e su questi egli faceva grande
assegnamento, ma furono proprio gli elefanti quelli che diedero principio alla sua disfatta.

SCIPIONE quel giorno schierò il suo esercito su tre linee; nella prima pose gli astati, nella secondo i
principi e nella terza i triari, ma volle che tra un manipolo e l'altro corresse una certa distanza affinché gli
elefanti del nemico riuscissero a passare tra gli spazi vuoti senza disordinare le schiere.
La cavalleria italica comandata da LELIO fu posta all'ala sinistra e la numidica al comando di Massinissa
alla destra. Davanti alle insegne furono schierati i veliti con l'ordine di aprirsi all'irrompere degli elefanti e
di attaccarli ai fianchi. ANNIBALE mise in testa del suo schieramento gli elefanti che dovevano costituire
la massa di sfondamento, poi, come prima linea di armati, i mercenari della Gallia e della Liguria mescolati
con i Mauri e con i Balearici. In seconda linea pose il gruppo delle sue truppe composto di milizie
cartaginesi e della legione macedone, e nella terza i soldati d'Italia della cui fedeltà poco si fidava. La
cavalleria cartaginese fu posta alla destra, la numidica alla sinistra. I Romani iniziarono la battaglia al
suono delle trombe e levando altissime grida, che spaventarono, -come ci racconta TITO LIVIO- gli
elefanti, i quali, voltate le spalle, misero lo scompiglio nell'ala sinistra di Annibale. Di questo fatto
approfittò Massinissa che, con una decisa carica vigorosa dei suoi cavalieri, finì di sbaragliare la cavalleria
numidica.
Pochi elefanti, non impauriti, penetrarono tra i veliti, ma assaliti di fronte dalle fanterie romane e di fianco
dagli armati alla leggiera, furono costretti a dardi volta, scompigliando, nella fuga, la cavalleria cartaginese
dell'ala destra, che, al pari della sinistra, fu caricata da Lelio e sbaragliata.

Era stato sguarnito ai due lati della cavalleria l'esercito cartaginese, quando le fanterie di Annibale
entrarono nella battaglia; ma i mercenari della prima linea non sostennero a lungo l'urto degli astati romani
e, ripiegando, cercarono riparo tra le schiere della seconda. I Cartaginesi e i Macedoni però li sospinsero
avanti e ai lati ed entrarono nel combattimento dando grande affanno agli astati già stanchi, che Scipione
subito sostituì con i principi e i triari.Era in grande attività la mischia delle opposte fanterie quando la
cavalleria di Lelio e di Massinissa, tornando dall'inseguimento, assalì alle spalle i fanti di Annibale e decise
le sorti della battaglia in favore dell'esercito di Scipione. Delle truppe di Cartagine più di ventimila uomini
furono uccisi ed altrettanti fatti prigionieri. Centotrentatre insegne furono conquistate ed undici elefanti
catturati dai Romani perirono diecimila soldati. Annibale con un manipolo di cavalieri, vista perduta la
battaglia, fuggì a Adrumeto, si recò poi a Cartagine e consigliò il Senato a concludere la pace.

FINE DELLA SECONDA GUERRA PUNICA E TRIONFO DI SCIPIONE

Le condizioni imposte da PUBLIO CORNELIO SCIPIONE furono le seguenti: Cartagine doveva restituire
tutti i prigionieri e i disertori, doveva consegnare tutti gli elefanti ed obbligarsi a non domarne altri, cedere
tutte le navi eccettuate le triremi, rendere a Massinissa tutti i dominii appartenenti a suo padre, pagare
ratealmente entro cinquant'anni diecimila talenti d'argento, dar le paghe e fornire le vettovaglie per tre mesi
all'esercito romano, impegnarsi a non muover guerra ad alcuno né in Africa né fuori senza il consenso di
Roma, restituire le navi romane catturate durante la tregua e sborsare in compenso del carico asportato
venticinquemila libbre d'argento;infine dare cento ostaggi scelti da Scipione come pegno di fede.
Dicono alcuni che il vincitore mise fra le condizioni la consegna di Annibale, ma questi, per non cadere
nelle mani dei Romani, con una nave era già fuggito in Asia presso il re Antioco. Più avanti vedremo quali
furono le vicende di Annibale.

Le condizioni erano dure, ma Cartagine era alla mercé di Scipione e dovette accettarle.
Invece a Roma per opera del console CORNELIO CETEGO, che allora era stato assunto in carica, e che
desiderava di porre fine lui alla guerra con una facile vittoria sulla ormai sconfitta Cartagine, affinché la
pace fosse ratificata, si dovette ricorrere al giudizio delle tribù. Queste pronunciarono un plebiscito (che dai
proponenti ACILIO GLABRIONE e MINUCIO TERMO tribuni prese il nome di "lex Acilia Minucia"; era
stabilito che soltanto Scipione dovesse firmare la pace con il nemico e ricondurre in Italia l'esercito
vittorioso.
All'inizio dell anno 201, dieci senatori romani furono inviati in Africa e da loro ratificata la pace, poi
furono incendiate circa cinquecento navi cartaginesi ed esemplarmente puniti i disertori italici e romani, i
primi con la decapitazione, con la crocifissione gli altri. Così, dopo quarant'anni dalla prima, ebbe fine la
seconda guerra punica, la quale, iniziatasi sotto il consolato di Publio Cornelio Scipione e di Tito
Sempronio, concludendosi dopo diciassette anni, dava a Roma l'imperio assoluto dell'Occidente e le apriva
le porte del dominio del mondo. Ma a qual prezzo era stata ottenuta la vittoria!
Quattrocento tra paesi e città, distrutti, le campagne della penisola saccheggiate, incendiate e per tre lustri
in gran parte rimaste incolto; le popolazioni dissanguate dalle rapine degli eserciti nemici e dai contributi di
guerra e di vittime; oltre trecentomila uomini, tra Romani ed Italici, perirono nei campi di battaglia.

Conclusa la pace vittoriosa, Publio Cornelio Scipione lasciò l'Africa, e passò in Sicilia. Giunto a Lilibeo
(Marsala) fece proseguire via mare gran parte dell'esercito con destinazione Ostia, mentre lui via terra
raggiunse Roma con il rimanente delle truppe via terra, prima attraverso la Sicilia poi dell'Itala meridionale.
Il suo viaggio, da Lilibeo a Roma, fu una marcia trionfale; gli abitanti dei borghi e delle città accorrevano
sulle vie ad applaudire il vincitore di Zama e l'entusiasmo suscitato dal suo passaggio faceva dimenticare
tutti i sacrifici fatti e i danni sofferti. Il trionfo che Roma gli tributò fu degno dell'uomo che aveva
conquistato la Spagna, fiaccata la potenza di Cartagine e vinto in battaglia il più grande generale
dell'antichità.
Il Senato ordinò che in Campidoglio fosse posta la statua del vincitore di Annibale e in memoria delle sue
imprese gloriose fu a lui dato il soprannome di "Africano".

Nel 201 terminava la seconda guerra punica con una vittoria netta;
ma nel frattempo cosa era accaduto nella Gallia Cisalpina?
Che era stata quasi tutta persa, e di guerra -fuori dall'Italia- ne iniziava un'altra: quella Macedonica.
SOTTOMISSIONE DEI GALLI - GUERRA MACEDONIA -GRECIA LIBERA
RIVOLTE DEI GALLI - PIACENZA E CREMONA MINACCIATE - C. AURELIO COTTA SCONFIGGE I
GALLI - GLI INSUBRI SCONFITTI DA CORNELIO CETEGO - OCCUPAZIONE DI FELSINA - GUERRE
CONTRO I LIGURI - DISFATTA DEI BOI - COLONIE DI MUTINA, PARMA ED AQUILEIA - ROMA E IL
MEDITERRANEO ORIENTALE - SIRIA, EGITTO E MACEDONIA - FILIPPO IL "MACEDONE E I ROMANI
- LA PRIMA GUERRA MACEDONICA - TITO QUINZIO FLAMININO - BATTAGLIA DI AOO - RITIRATA
DI FILIPPO - BATTAGLIA DEI CINOCEFALI - FINE DELLA PRIMA GUERRA MACEDONE - LA PACE
TRA FILIPPO E ROMA - IL CONSOLE FLAMININO PROCLAMA LA LIBERTÀ DELLA GRECIA
--------------------------------------------------------------------------------------------------
RIVOLTE DEI GALLI

Quando nell'anno 202, ebbe termine la seconda guerra punica, l'Italia settentrionale era ormai perduta per i
Romani già da un pezzo.Sobillate prima da Annibale, da Asdrubale e da Magone, incoraggiate poi dai
disastri degli eserciti di Roma (li abbiamo letti nei precedenti capitoli, prima e durante la seconda guerra
punica) le popolazioni della Gallia Cisalpina si erano apertamente schierate contro la Repubblica e avevano
proclamato la loro indipendenza.Perfino i Cenomani (tribù celtica- tribù degli ailerici- che intorno al 400
a.C. si stabilì nell'odierno territorio della Francia centrale, mentre in Italia si era stanziata nei dintorni a sud
del lago di Garda - odierno bresciano-veronese) che erano stati sempre fedeli amici di Roma e sovente le
erano stati d'aiuto contro gli altri popoli della loro medesima stirpe, avevano rotto l'antica amicizia e si
erano uniti agli altri Galli.Anima della rivolta gallica era un prode ufficiale cartaginese di nome
AMILCARE, giunto in Italia secondo alcuni con Asdrubale, secondo altri con Magone, poi rimasto nella
Cisalpina.
Ribellati i Boi, i Sali, gl'Ilveti, i Cenomani, gl'Insubri e alcuni popoli liguri, con un esercito di quarantamila
uomini marciò contro Piacenza che costrinse alla resa, poi la saccheggiò e la incendiò.
Dei coloni piacentini solo duemila riuscirono a salvarsi rifugiandosi a Cremona, la quale sarebbe andata
incontro alla medesima sorte della consorella se, avvertita dai profughi del pericolo che correva, non avesse
chiuso le porte, organizzata la difesa e inviati messaggi al pretore LUCIO FURIO PORPURIONE che
campeggiava con scarse milizie intorno ad Arimino (Rimini). Questi, ricevuto un esercito dal console C.
Aurelio Cotta che era in Etruria, si portò rapidamente in aiuto di Cremona che resisteva validamente agli
assedianti e, affrontati i Galli inflisse loro una sanguinosissima sconfitta.Seimila nemici soltanto riuscirono
a salvarsi fuggendo; tutti gli altri rimasero uccisi o prigionieri: Amilcare perdette la vita combattendo.
Furono presi duecento carri armati, settanta insegne militari e ricchissime prede e liberati duemila
prigionieri piacentini; a Roma la vittoria fu celebrata con tre giorni di festa e al pretore Lucio Furio
Purpurione concesso il trionfo. Correva l'anno 200 a.C. -altri 198 a.C.)

Quantunque vinti, i ribelli non disarmarono, anzi, l'anno dopo, radunate nuove forze, riuscirono a trarre in
un agguato l'esercito del pretore GNEO BEBIO TANFILO e a causargli la perdita di seimila e seicento
soldati.

Accorse in suo aiuto il proconsole LUCIO CORNELIO LENTULO, ma dopo avere destituito il pretore,
non intraprese contro i nemici nessuna azione. Né la sconfitta di Bebio fu vendicata da ELIO PETO, (era
console nell'anno 198, e dal pretore CAJO ELVIO, ai quali si deve la riedificazione di Piacenza.
Solo nel 196 il Senato stabilì che la guerra contro i Galli bisognava intensificarla.
Erano consoli GNEO CORNELIO CETEGO e QUINTO MINUCIO RUFO che partirono da Roma con due
eserciti. Il secondo, costeggiando la marina tirrenica, giunse in Liguria, conquistò Clastidio e Litubio e il
territorio dei Celelati e dei Cerdiciaci, poi marciò verso il paese dei Boi; mentre il primo con un altro
esercito, passato il Po, si accampò nelle vicinanze del Mincio.Avendo saputo che il console MINUCIO
RUFO con le legioni dava il sacco al loro territorio, i Boi che si trovavano nella Transpadana con gl'Insubri
e i Cenomani pregarono i loro alleati di passare il Po e correre in difesa della regione invasa, ma questi
ultimi che erano minacciati da vicino dalle truppe del secondo console rifiutarono di allontanarsi dal loro
paese. Ne conseguì che i Boi si staccarono dai loro confederati e ritornarono nel proprio territorio dove
però non osarono affrontare l'esercito di Rufo.

Insubri e Cenomani, dopo la defezione dei Boi, posero il campo sul Mincio alla distanza di cinque miglia
dall'accampamento del console CORNELIO CETEGO. Questi, avuti dei segreti colloqui con i capi dei
Cenomani ed essendosi lagnato, che avevano rotto l'amicizia che da qualche tempo li legava al popolo
romano, riuscì a farsi promettere che nulla avrebbero fatto contro le armi della Repubblica.
I Cenomani mantennero la promessa anzi fecero di più e di meglio. Trovandosi alla retroguardia il giorno
in cui gl'Insubri ingaggiarono il combattimento contro i Romani, assalirono improvvisamente i loro
connazionali, i quali non riuscirono a resistere al duplice attacco e furono disfatti, lasciando sul campo
trentacinquemila morti e in mano delle truppe consolari cinquemilasettecento prigionieri, centotrenta
insegne e duemila carri armati. Conseguenza di questa vittoria fu la resa di molte città galliche e liguri della
Gallia Cispadana e Traspadana, non la sottomissione completa dei ribelli, contro i quali alcuni mesi dopo
dovettero marciare i consoli (lo erano nel 196) MARCO CLAUDIO MARCELLO, figlio del vincitore di
Siracusa, e LUCIO FURIO PURPURIONE. Il primo, essendo con l'esercito stanco dal lungo cammino in
procinto di accamparsi sopra un'altura nel territorio dei Boi, fu improvvisamente assalito da una gran
moltitudine di Galli capeggiata da COROLAMO e perdette nel primo scontro quasi tremila soldati e molti
ufficiali fra cui Tito Sempronio Gracco, Marco Giunio Sillano, Aulo Ogulnio e Publio Claudio.
A dispetto degli ostinati ritorni offensivi dei nemici, il campo fu difeso valorosamente. Poco tempo dopo,
Marcello rimosso il campo, passò il Po e invase il territorio di Como e qui incontrato un numeroso esercito
di Insubri, iniziò la battaglia, riportando una strepitosa vittoria. Como e ventiotto castelli furono costretti
alla resa e - secondo quel che scrive VALERIO ANZIATE - in quella battaglia i nemici persero circa
quarantamila uomini, cinquecentosette insegne militari, quattrocentotrentadue carri armati e moltissime
collane d'oro con le quali fu fabbricata una pesante catena che fu poi appesa in Campidoglio nel tempio di
Giove.

L'altro console, fatta una scorreria nel territorio dei Boi, unì le sue forze a quelle del collega e insieme
marciarono su Felsina (Bologna) che fu da loro occupata, poi, incontrato un esercito di Galli ai confini della
Liguria, lo annientarono. Narra TITO LIVIO che quel giorno i "Romani combatterono con tanto
accanimento e desiderio di strage che dei nemici a stento si salvò chi doveva portare ai suoi concittadini
l'annuncio della disfatta". Tutte queste sconfitte non valsero a domare i Galli, che per diversi anni difesero
strenuamente la loro indipendenza, obbligando la Repubblica a mantenere nella Cisalpina forti eserciti.

Nell'anno 195, ripresero le operazioni di guerra in Gallia il console L. VALERIO FLACCO, il quale,
venuto a battaglia con i Boi presso la Selva Litana, uccise ottomila nemici e costrinse il resto a rifugiarsi
nei loro villaggi; nel 194, lo stesso Valerio, con il titolo di proconsole, essendo i Boi sotto il comando di
Dorulaco passati nella Transpadana per sollevarvi gl'Insubri, li assalì presso Mediolano (od. Milano) e li
sconfisse causando loro la perdita di diecimila uomini; nel medesimo anno e nel tempo in cui Valerio
batteva gl'Insubri, il console TIBERIO SEMPRONIO LONGO doveva sostenere un sanguinosissimo
combattimento con un poderoso esercito di Boi, capitanati da Bojorige. Cinquemila Romani caddero in
questa battaglia e il loro campo corse rischio di essere espugnato dai barbari; questi infine, perduti
undicimila uomini, furono respinti e ricacciati nei loro alloggiamenti.

Più accanita fu la guerra nell'anno seguente (193). Tutta la Liguria si era sollevata in armi; quarantamila
Liguri, dopo aver saccheggiato il territorio di Piacenza e di Luni (Lunigiana) avevano posto l'assedio a Pisa,
mentre i Galli Boi minacciavano le terre della Valpadana sottomesse ai Romani.
Contro i primi da Arezzo corse il console MINUCIO, ma disponendo di poche truppe e per giunta
impreparate si mantenne sulla difensiva; contro i Boi andò il suo collega, il console LUCIO CORNELIO
MERULA, il quale presso Mutina (Modena) costrinse i nemici a battaglia e dopo un lungo ed accanito
combattimento, in cui i Romani perdettero cinquemila uomini, ventitre centurioni, quattro prefetti e un
tribuno militare, inflisse ai barbari una memorabile sconfitta che costò loro quattordicimila morti.

Nella Cisalpina la guerra durò altri due anni ancora. Mentre il proconsole MINUCIO, liberata Pisa, con
discreto successo marciava contro i Liguri, e l'anno dopo nel 191 il console PUBLIO CORNELIO
SCIPIONE NASICA affrontava i Boi e li sconfiggeva definitivamente. Secondo Valerio Anziate i Galli
uccisi in quella battaglia furono ventottomila, i prigionieri tremila e quattrocento, le insegne conquistate
centoventiquattro, i cavalli milleduecentotrenta. Vantandosi di questa vittoria, il console ebbe a dire che
"dei Boi non sono rimasti che i vecchi e i fanciulli".

A Scipione il Senato decretò il trionfo, nel quale il vincitore, secondo la narrazione di Livio, "portò sui
carri nemici armi, insegne, statue e spoglie d'ogni sorta e vasi di rame alla foggia gallica e molti nobili
prigionieri e moltissimi cavalli; portò inoltre millequattrocentosettanta catene e collane d'oro,
duecentoquarantacinque libbre d'oro, duemilatrecentoquaranta libbre d'argento".
Dopo quella sconfitta i Boi si sottomisero, ma dovettero cedere alla Repubblica metà del loro territorio, di
cui Roma si servì per le nuove colonie. La prima colonia fondata nella Gallia Cispadana fu BONONIA
(189 a.C.) con tremila famiglie; i fanti ebbero cinquanta jugeri di terra ciascuno, i cavalieri settanta.

Nel 187 furono fondate le colonie di Mutina e Parma e quella d'Aquileia. Nel medesimo tempo per rendere
più facili e rapide le comunicazioni tra le colonie e la madre patria furono costruite nuove strade e
migliorate o prolungate le vecchie. E così nel 567 Piacenza era completamente congiunta a Rimini da una
comodissima strada che dal console MARCO EMILIO LEPIDO prese il nome di "via Emilia" e Bononia
era congiunta ad Arezzo per opera del console Cajo Flaminio con una prolungamento della via Cassia.
Il nuovo confine del territorio italico fu portato al Po ed alle popolazioni galliche residenti di là dal fiume,
Roma lasciò la loro autonomia, volendo, prima di assoggettarle, guadagnarsi la simpatia e l'amicizia e non
stimando opportuno iniziare altre conquiste che avrebbero richiesto non pochi sforzi mentre le sue legioni
erano impegnate in Oriente in una guerra lunga e difficile.

ROMA E IL MEDITERRANEO ORIENTALE

Fra gli Stati del bacino orientale del Mediterraneo tre erano quelli che nella prima metà del sesto secolo di
Roma si contendevano il primato: la Macedonia della quale era re FILIPPO V, la Siria sulla quale regnava
ANTIOCO III e l'Egitto il cui sovrano era il fanciullo TOLOMEO V Epifane.
Avidi di dominio, questi sovrani, anziché dedicarsi a consolidare e far prosperare i loro regni, pensavano
solo ad ingrandire i confini dei loro Stati a spese delle nazioni vicine, mentre l'Egitto e la Siria si
contendevano il possesso della Fenicia, che nel 216 a.C., in seguito alla battaglia di Raffia, cadde in mano
del primo, la Macedonia aspirava ad assoggettare le città della Grecia, la Tracia e l'Illiria.
Pur fra questi pensieri, ad Antioco e a Filippo non era sfuggito al pericolo di una minaccia dalla parte di
Roma. Filippo sapeva che Roma, conquistando l'Illiria e procurandosi la simpatia delle città greche, mirava
ad assicurarsi l'egemonia sulla penisola balcanica; dal canto suo Antioco conosceva che i Romani erano in
buoni rapporti con l'Egitto, con Pergamo e Rodi e quest'amicizia dei tre Stati vicini con la potente Roma lo
preoccupava.
Su Pergamo, che si era reso indipendente nel 281 a.C., regnava fin dal 241 ATTALO I, famoso per avere
sconfitto i Galati e amato dal suo popolo per la giustizia con cui governava e per il culto delle arti
organizzando un importante centro culturale. Oltre a questo farà del regno una notevole forza politica e
militare.
Rodi era una minuscola repubblica, fiera della propria libertà e florida per i commerci, sulla quale si
appuntavano le brame della vicina Siria.Da qualche tempo non correvano buoni rapporti tra Roma e
FILIPPO il Macedone.Quest'ultimo, uomo ambizioso, guerriero valoroso ed esperto, ma privo di saggezza
politica, geloso delle fortune di Roma, si era con ogni mezzo reso odiato alla potente repubblica
occidentale. Aveva dato rifugio nella sua corte a Demetrio di Faro, avevi guerreggiato contro gli Etoli,
alleati di Roma, suscitando l'intervento di questa, avevi assalite le città dell'Epiro tributarie dei Romani,
aveva stretto alleanza con Annibale fin dal secondo anno che questi si trovava in Italia e da ultimo,
malgrado la pace conclusa con Roma, aveva inviato in Africa in aiuto dei Cartaginesi, SOPATRO con
quattromila Macedoni. Se a tutto questo, aggiungano gli atti ostili commessi da Filippo contro il regno di
Pergamo, Rodi ed Atene e il tentativo in Egitto, di spodestare, con Antioco, Tolomeo, si comprenderà
facilmente come Roma rivolgendo il pensiero ad una guerra contro il Macedone non fosse mossa solo dal
desiderio di espansione territoriale, ma dalla necessità di colpire la tracotanza di un nemico pericoloso e di
non menomare il suo prestigio di grande potenza lasciando alla mercé di Filippo i propri amici e rimanendo
sorda alle loro richieste d'aiuti.

Correva l'anno 201 a.C., e Scipione a Roma aveva celebrato il suo trionfo in Africa; i fasti furono grandiosi,
ma il popolo romano era stanco della lunga guerra che aveva dovuto sostenere contro Cartagine e non
voleva intraprenderne altre, per questo motivo, quando si propose di muover guerra a Filippo, i comizi si
opposero.
Però il console GALBA seppe così ben convincere il popolo della necessità di quella guerra, mostrando i
pericoli che avrebbe corso Roma se non si fosse prontamente fronteggiato il Macedone, che la guerra fu
decisa ed al medesimo PUBLIO SULPICIO GALBA si affidò il comando delle operazioni.

LA PRIMA GUERRA MACEDONICA

Nell'autunno del 200 il console SULPICIO GALBA con una numerosa flotta, due legioni, mille cavalieri di
Numidia inviati da Massinissa e gli elefanti presi a Cartagine, approdò ad Apollonia nell'Epiro.
FILIPPO il Macedone proprio in quel tempo aveva espugnato Abido sull'Ellesponto, città alleata di Rodi e
del re Attalo di Pergamo, aveva stretto alleanza con Antioco re di Siria e cercava di tirare dalla sua parte gli
Etoli riluttanti, quando gli giunse la notizia che i Romani erano sbarcati nelle coste. epirote. Senza perder
tempo Filippo si portò in Tessaglia. Avvicinandosi l'inverno 200-199, Sulpicio rimase inoperoso, ma,
sopravvenuta la primavera, riconfermato in carica in qualità di proconsole, cominciò a molestare Filippo;
corse in aiuto di Atene minacciata dalle navi del Macedone, poi con un colpo audace s'impadronì di Calcide
nell'Eubea, passò per le armi il presidio macedone e saccheggiò la città.

Saputo questo, Filippo si recò velocemente in Calcide, ma non trovò più i Romani che, compiuta l'impresa,
si erano già allontanati. Per vendicarsi marciò su Atene, ma fu respinto dalle milizie cittadine aiutate da
alcune schiere romane e di Pergamo. Tentò allora di ingraziarsi gli Achei, ma non essendo riuscito nel suo
intento si ridusse a fare varie scorrerie nel paese. Nel 198 fu mandato in sostituzione di Galba il console
TITO QUINZIO FLAMININO, giovane di trent'anni, animoso ed accorto, saggio capitano e furbo
diplomatico, amante delle lettere e conoscitore perfetto dei costumi, della civiltà e della lingua dei Greci.
Sbarcato con ottomila veterani delle guerre di Spagna e d'Africa, Flaminino marciò verso i luoghi dove il re
di Macedonia si teneva accampato. Stava Filippo nella stretta valle dove scorre il fiume Aoo (Vojussa),
posizione da cui era difficile per un esercito sloggiare i difensori e davanti i quali Flaminino rimase
quaranta giorni non riuscendogli a scacciarne il nemico. Ma quel che con il valore delle sue milizie gli era
stato impossibile di fare, fece con l'astuzia. Avendogli un pastore epirota di nome CAROPO indicato certi
sentieri nascosti per i quali si poteva giungere sulle cime dei monti che sovrastavano il campo macedone,
Flaminino vi inviò quattromila fanti e quattrocento cavalieri e, quando fu avvertito da certe fumate ch'erano
giunti, con il resto del suo esercito assalì il campo nemico. Le truppe di Filippo si difesero valorosamente
per un po' di tempo, favorite dalle posizioni occupate, ma ecco improvvisamente scendere dalle alture i
Romani che presero i nemici alle spalle. Temendo di essere circondato nella valle, il re Macedone cercò
scampo nella fuga e, lasciati sul terreno duemila morti, si ritirò velocemente nella valle di Tempe in
Tessaglia, distruggendo ville e paesi al suo passaggio.Con questa vittoria Flaminino si impadronì dell'Epiro
e, da politico accorto qual'era, anziché trattare le popolazioni di queste regioni come nemiche, usò con loro
grande clemenza e, con modi cortesi acquistatasi la loro fiducia e la loro simpatia, li convinse a staccarsi da
Filippo e a favorire la causa di Roma.

BATTAGLIA DEI CINOCEFALI (197 a.C.)

Resi amici le popolazioni dell'Epiro, il console Flaminino passò in Tessaglia, prese con la forza Faloria,
difesa da duemila Macedoni, e la rase al suolo, poi assalì con violenza Atrace, ma, non essendogli riuscito a
costringerla alla resa, e non volendo perder tempo assediandola, passò oltre, espugnò Fanotea, Anticira,
Ambriso, Iampoli, Daulisia, alcuni castelli della Focide e la città di Elazia. Ma più che la conquista di
queste terre giovò al console l'alleanza con gli Achei. Costoro si erano uniti in lega nell'anno 281, allo
scopo di tutelare meglio la propria indipendenza, ma insidiati e minacciati da Sparta si erano messi sotto la
protezione di Filippo e così per evitare di cadere in una servitù erano caduti sotto il dominio di un altro
tiranno.
Flaminino riuscì a convincere i rappresentanti della Lega Achea che se volevano viver liberi dovevano
abbandonare il Macedone e stringere amicizia con Roma della quale sarebbero stati dei confederati e non
sudditi. Gli Achei, persuasi dalla convincente eloquenza del console e dai successi da lui riportati,
abbandonarono Filippo. Soltanto Argo e Corinto rimasero fedeli, ma non passò molto tempo che anche
quest'ultima seguì l'esempio delle altre città della Lega. In Grecia, oltre Corinto e gli Acarnani, alleati di
Filippo non rimanevano che i Beoti e Nabide, tiranno di Sparta, uomo senza coscienza, avido di danaro,
violatore di donne e protettore di pirati, al quale il Macedone per legarlo di più a sé aveva concessa la città
di Argo.

Ma sia NABIDE che i Beoti furono convinti da FLAMININO a rompere l'alleanza con Filippo. Con Nabide
il console non dovette faticare né mettere in opera le sue arti perché fu il tiranno a proporre per primo
un'alleanza con i Romani, che ben presto fu conclusa; con i Beoti invece Flaminino giocò d'astuzia.
Trovandosi egli accampato a cinque miglia da Tebe, capitale della Beozia, gli riuscì a penetrare in città per
partecipare ad un'assemblea di rappresentanti della Lega, ma non visti con il console erano penetrati
duemila legionari ed ai Beoti non restò altro partito che quello di staccarsi da Filippo e stringere amicizia
coi Romani. Trovandosi in difficoltà, Filippo cercò di concludere una pace onorevole e vantaggiosa, ma le
trattative essendo fallite, decise di fare un ultimo sforzo affidando la decisione della guerra alle sorti delle
armi.
Chiamati sotto le armi i vecchi ancora validi e i giovani di sedici anni, mise insieme un esercito di circa
ventiseimila uomini e si accampò presso Fere in Tessaglia. Ricevuto dagli Etoli un aiuto di duemila fanti e
quattrocento cavalli, rinforzato poi da mille Atamani e da ottocento guerrieri di Creta e di Apollonia, il
console Flaminino, si mise in movimento contro il re, nell'estate dell'anno 197.

FILIPPO, venuto a conoscenza dell'avvicinarsi del nemico, levò il campo e marciò in direzione di Scotussa;
ma verso questa città marciò pure Flaminino. I due eserciti camminarono per due giorni nella stessa
direzione, divisi solo da una bassa catena di colli chiamati Cinocefali; la sera del primo giorno si
accamparono i Macedoni lungo il fiume Onchesto, i Romani ad Eretria; la sera del secondo Filippo a
Melambio e il console a Tetideo.

II terzo giorno, dopo una pioggia dirotta, una densa nebbia calò sui colli e sul piano. FLAMININO,
temendo di cadere in qualche imboscata, non si mosse, FILIPPO invece riprese la marcia ed andò ad
accamparsi all'estremità della catena, dove più tardi, fu raggiunto dagli esploratori romani.
Qui avvennero alcune scaramucce tra reparti di cavalleria che ben presto per il sopraggiungere delle
opposte fanterie si mutarono in una battaglia campale. In un primo tempo la fortuna arrise ai Macedoni che
riuscirono a scacciare da un colle l'ala sinistra dei Romani; ma Flaminino, fatti entrare in azione gli elefanti,
sbaragliò la sinistra macedone, quindi con rapidissima mossa corse alle spalle dell'ala destra annientandola
del tutto. Ottomila Macedoni rimasero quel giorno sul campo di battaglia e cinquemila furono fatti
prigionieri; dei Romani perirono solamente settecento uomini.

Filippo, fuggito da Cinocefali, si rifugiò nella valle di Tempe e, raccolti i pochi resti del suo esercito, si
ritirò nella Macedonia, sperando forse di poter presto tornare alla riscossa. Invece gli giunse la notizia che
gli Achei, alleati dei Romani, si erano impadroniti di Corinto, uccidendo i duemila Macedoni che vi erano
di presidio e che Leucade era stata espugnata da LUCIO QUINZIO fratello del console.
A quel punto FILIPPO chiese la pace a FLAMININO e questi gliela concesse contro il desiderio degli Etoli
i quali volevano che la guerra fosse continuata fino alla distruzione del regno macedone e non capivano che
la Macedonia rappresentava per la Grecia l'unica difesa dai barbari del Settentrione. Fu prima accordata una
tregua dietro il pagamento di quattrocento talenti e la garanzia di ostaggi fra cui Demetrio, figlio di Filippo.
Giunto poi in Grecia il consenso del Senato di Roma, furono stabilite le condizioni di pace.
Filippo si obbligò di, lasciar libere tutte le città greche d'Europa e d'Asia che erano sotto la sua signoria; di
consegnare ai Romani tutte le navi; di tenere sotto le armi soltanto cinquemila soldati; di restituire i
prigionieri e i disertori; di non muover guerra e stringere alleanza senza il permesso di Roma; infine di
sborsare mille talenti di cui la metà subito e il resto in dieci anni.Conclusa la pace, Filippo domandò ed
ottenne di essere alleato di Roma. Conseguenza della guerra romano-macedone fu la liberazione della
Grecia dalla tirannide.

FLAMININO avrebbe potuto mantenere nelle principali città greche presidi romani ma non volle esser
considerato un conquistatore né togliere la libertà alla Grecia della cui storia e civiltà lui era un sincero
ammiratore. Né del resto stimò opportuno che Roma -in quel periodo- sopportasse il peso della conquista di
un paese così turbolento come la Grecia; era invece una buona politica rimanere vigile protettrice.
Per festeggiare la vittoria e la ricuperata libertà a Corinto furono celebrati con straordinaria solennità i
giuochi istmici (anno 196) durante i quali Flaminino rese noto per mezzo di un pubblico banditore il
famoso decreto: "Il Senato romano e TITO QUINZIO FLAMININO proconsole, avendo vinto il re Filippo
ed i Macedoni, vogliono e comandano che i Corinti, i Focesi, i Locresi, gli Eubei, i Magnesi, i Tessali, i
Perrebi, i Ftioti e gli Achei siano liberi e vivano con le proprie leggi". Chi scrive queste note, assistendo
agli scavi a Dio, in Tessaglia, ai piedi del dominante Monte Olimpo, ha visto - con una particolare
emozione- venire alla luce, una lapide che riportava il decreto sopraddetto. Dio, (Dion in Greco), allora era
una città enorme, forse più grande di Atene. E' veramente curioso che pochi storici e libri accennano a
questa stupenda città; gli scavi - con uno stuolo di archeologi di tutto il mondo- tuttora sono molto intensi;
vie, templi, teatri, mura ciclopiche, sono già emersi da una coltre di quel terreno della Magnesia, più fine
della sabbia, che sembra borotalco. Ma queste scoperte, sono ancora off-limit per i turisti. Nè si sa perchè
scomparve. (ne riparleremo ancora - e con alcune immagini dell'autore- nel capitolo anni 149-129 a.C.)

Ma l'opera di Flaminino non era ancora finita. Gli Achei, rivali degli Spartani, si lamentavano che Argo
fosse restata in potere del tiranno NABIDE e, trovate giuste le lamentele, il proconsole invitò il re di Sparta
a rendere la libertà a quella città. Nabide però si rifiutò, sperando nella discordia dei vari Stati greci e
dell'arrivo, che si annunziava prossimo, di ANTIOCO di Siria. Flaminino allora dichiarò guerra a Nabide e
con le sue legioni ed un esercito di cinquantamila uomini fornito dalle città greche mosse contro Sparta e
costrinse il re a cedere Argo e varie città della costa laconica, a consegnare la flotta e le prede, a fornire
ostaggi e pagare un tributo (anno 195).

Si oppose invece alle richieste degli Achei che avrebbero voluto Nabide rimosso dal trono in modo che la
lega achea non acquistasse ulteriore potenza. Nella primavera del 194 il proconsole convocò in Corinto i
rappresentanti di tutte le città greche per esortarli alla concordia e consigliarli a sapere servirsi della libertà,
che avevano da lui riottenuta. Per sé non chiese nulla, ma volendo essere utile ai suoi connazionali,
domandò che senza riscatto sarebbero stati liberati gl'Italici fatti prigionieri da Annibale e venduti come
schiavi in Grecia. Assommavano questi a mille e duecento e a tutti fu restituita subito la libertà.
Fatte tutte queste cose, TITO QUINZIO FLAMININO rimosse le guarnigioni romane dalle città di Corinto,
di Calcide e di Demedriade e ritornò a Roma, che in premio delle sue imprese gli tributò il trionfo.
A Sparta, l'anno dopo, entrato in conflitto contro la Lega Achea, vinto da FILOPEMENE, nel 192 Nabide
fu ucciso, e la città entrò nella Lega Achea, perdendo la sua indipendenza.

Se per i Romani, le cose andarono abbastanza bene in Grecia, dopo un paio d'anni, non andarono invece
bene in Oriente: in Siria. Di questa guerra "Asiatica", con protagonisti i Romani e coo-protagonista ancora
una volta lo sconfitto Annibale, che lasciata l'Italia, si era rifugiato in Siria, cercando di convincere quel re
ad attaccare Roma.
LA GUERRA ASIATICA - MORTE DI ANNIBALE E SCIPIONE
ANTIOCO III DI SIRIA E ROMA - ANNIBALE E GLI ETOLI SPINGONO ANTIOCO ALLA GUERRA - GLI
ETOLI INIZIANO LE OSTILITÀ - ANTIOCO IN GRECIA - GLI OZI DI CALCIDE - BATTAGLIA DELLE
TERMOPILI - LA GUERRA ASIATICA - BATTAGLIE DI CISSONTE, DELL' EURIMEDONTE E DI
MIONNESO - LUCIO SCIPIONE SCONFIGGE ANTIOCO A MAGNESIA - ASSETTO DELL'ASIA -
SPEDIZIONE CONTRO I GALATI -SOTTOMISSIONE DEGLI ETOLI - MORTE DI ANNIBALE - ESILIO E
MORTE DI SCIPIONE L'AFRICANO -IL PROCESSO CONTRO LUCIO PUBLIO SCIPIONe
---------------------------------------------------------------------------------
ANTIOCO III, RE DELLA SIRIA, e ROMA

Tre anni dopo della fine della prima guerra macedonica (che abbiamo narrato nel precedente capitolo) ebbe
inizia la guerra asiatica contro Antioco III re della Siria.Sebbene fosse amico ed alleato di Roma, Antioco
non vedeva di buon occhio i rapporti di amicizia che legavano la repubblica a Rodi, al regno di Pergamo ed
all'Egitto e non tralasciava nessuna occasione per danneggiare gli amici dei Romani.
Roma, impegnata contro i Galli e contro FILIPPO di Macedonia, non voleva tirarsi addosso il peso di
un'altra guerra, e all'amico ATTALO che si lagnava con il Senato delle molestie di ANTIOCO e chiedeva
soccorsi rispondeva di non potere agire ostilmente contro il re della Siria, con il quale era legato da vincoli
di amicizia; adoperava con lui una saggia politica di pazienza, ma il contegno di Roma fu interpretato da
Antioco come debolezza o timore. Credendo che Roma non avesse animo o forza di nuocergli ed
ostacolarlo nei suoi disegni, nel 198, ANTIOCO III il GRANDE, RE di SIRIA mosse guerra all'Egitto;
occupa la città di Gaza, al confine con la penisola del Sinai, gli strappa con le armi la Celesiria (200 a.C.)
Altri scrivono che ciò avvenne nel 198 con la battaglia di Panion, in Palestina; Antioco sconfisse Scopa,
generale greco di Tolomeo V, cui sottrasse la Palestina

Poi, passato l'Ellesponto, Antioco ridusse in suo potere parecchie città della Tracia e si accinse a ricostruire
la città di Lisimachia, rasa al suolo dai barbari del nord.

Sottomessa la Macedonia, conclusa la pace con Filippo e dato assetto alla Grecia, Roma mutò
improvvisamente il contegno che fino allora aveva tenuto verso Antioco e gli spedì in Lisimachia, dove il
re si trovava, dieci ambasciatori perché lo inducessero a restituire i territori sottratti a Tolomeo e a Filippo e
a non occuparsi più delle cose d'Europa.

La conferenza tra i legati romani e quelli di Siria fu interrotta dall'improvvisa notizia della morte di
TOLOMEO, e che Antioco approfittandosi aveva messo in mare una flotta diretto verso l'Egitto; ma ben
presto la notizia si scoprì esser falsa e fu ripresa la conferenza. A capo della legazione romana era questa
volta TITO QUINZIO FLAMININO, il vincitore della guerra macedonica, il quale parlò senza sottintesi e
con quella energia di cui sempre aveva fornito prova. Ma Antioco rispose che la vertenza con l'Egitto era
ormai superata avendo data in moglie al re Tolomeo la sua figliuola CLEOPATRA, e riguardo alle città del
Chersoneso e della Tracia egli le aveva avute dal suo bisavolo Seleuco, vincitore di Lisimaco, erano state
perse e lui le aveva riconquistate strappandole ai Traci; inoltre disse infine, che per quel che riguardava
l'Asia i Romani non avevano nessun diritto di occuparsene né di interessarsene.

Dopo questa altezzosa risposta non poteva Roma, senza compromettere il suo prestigio ed i suoi interessi,
non venire ad una guerra. Ed alla guerra si preparava pure ANTIOCO, arruolando milizie, armando navi,
stringendo alleanze con i Galati, con Ariararte re di Cappadocia, al quale aveva dato in sposa un'altra sua
figlia, e con i principi e le città della Grecia, spinto anche da un irriducibile nemico dei Romani: da
Annibale.

ANNIBALE E GLI ETOLI SPINGONO ANTIOCO ALLA GUERRA

Annibale, dopo la sconfitta toccata a Zama, con seimila e cinquecento veterani si era rifugiato a Cartagine,
aveva consigliato il Senato a concludere la pace con Roma, poi, essendo l'uomo più influente della fazione
dei Barcidi che aveva allora il potere, prese nelle sue mani le redini del governo.
Desideroso di giovare alla patria e di sollevarla dalle tristissime condizioni in cui versava, Annibale aveva
prima rivolto le sue cure a ristorare le finanze della repubblica ed era riuscito a trovare nelle medesime
entrate di Cartagine i cespiti occorrenti al pagamento del tributo di guerra senza aggravare i cittadini con
nuove imposte. Ma le sue idee democratiche in aperto contrasto con quelle degli avidi oligarchi e la sua
maniera di governo che mirava soltanto al bene della patria travolgendo, se occorreva, gl'interessi dei
privati, lo avevano reso inviso a tutti coloro che anteponevano gl'interessi propri al supremo interesse della
repubblica.
Questi si erano accorti che con la sua politica Annibale mirava a ridar potenza alla patria per lanciarla di
nuovo contro Roma in una guerra di rivincita, ed animati com'erano da gretto egoismo e da un eccesso
desiderio di tranquillità, non si erano vergognati di avvisare i Romani delle intenzioni del loro concittadino,
provocando a Roma l'invio a Cartagine di una commissione, composta da CAJO SERVILIO, MARCO
CLAUDIO MARCELLO E QUINTO TERENZIO CULLEONE. Non desiderando di essere consegnato
nelle mani dei Romani, era partito di nascosto (anno 195 a.C.) da Cartagine per una sua terra fra Adrumeto
e Tapso, di là era passato con una nave nell'isola di Cercina, donde si era recato prima a Tiro, poi ad
Antiochia e ad Efeso dove era stato amichevolmente accolto da Antioco. Da allora, il fiero cartaginese non
aveva cessato un istante di consigliare il re di Siria a muover guerra ai Romani, offrendosi anche di passare
in Italia alla testa di un esercito. Antioco aveva prestato volentieri orecchio ad Annibale ed aveva spedito a
Cartagine un emissario per crearvi un'atmosfera favorevole alla guerra contro Roma; sospettando poi di
Annibale dopo avere appreso che aveva avuto dei colloqui segreti con certi ambasciatori romani giunti a
Efeso, lo aveva tenuto lontano da sé. Pur non sapendo come muovere contro Roma, Antioco non aveva
cessato di accarezzar l'idea di quella guerra, alla quale altri lo spingevano gli Etoli, che avevano avuto
miglior fortuna dell'esule cartaginese. Gli Etoli avevano sperato, dopo la sconfitta di Filippo, di diventare i
padroni della Grecia e non essendovi riusciti per il fermo contegno di Flaminino erano divenuti i peggiori
nemici di Roma ed avevano cercato di spingere contro i Romani, NABIDE tiranno di Sparta, Filippo di
Macedonia e Antioco. Al re della Siria avevano fatto credere, per farlo decidere a rompere gl'indugi, che la
Grecia lo aspettava come liberatore, e Antioco aveva risposto che sarebbe presto partito per "liberarli".

Sicuri del prossimo arrivo del sovrano della Siria, gli Etoli erano cresciuti in sfrontatezza e quando
FLAMININO, mandato in Grecia, aveva chiesto conto del loro contegno ostile a Roma, avevano
arrogantemente risposto che presto gli avrebbero dato conto della loro condotta sulle rive del Tevere.

E alle parole avevano fatto seguire i fatti. Favoriti dal fuoruscito EURILOCO, si erano impadroniti di
Demedriade, città della Tessaglia; avevano tentato per mezzo d'insidie di ridurre in loro potere Calcide
senza però riuscirvi; né era loro riuscito a prendere Sparta. Su quest'ultima avevano inviato nel 192,
ALESSAMENE con mille uomini fingendo di voler con queste milizie aiutare Nabide a riconquistare i
territori della Laconia sottrattigli da Flaminino. Penetrati in città gli Etoli avevano invece ucciso il re e si
sarebbero impadroniti di Sparta se gli abitanti, corsi alle armi, non li avessero sconfitti e ricacciati,
affidandosi poi a FILOPEMENE, generale degli Achei, nella cui lega furono ammessi, perdendo però la
loro indipendenza.

ANTIOCO IN GRECIA

Nell'autunno dello stesso anno 192 a.C. Antioco con trecento navi, da guerra e da carico, diecimila fanti,
cinquecento cavalli e sei elefanti passò in Grecia. Conduceva un esercito così esiguo credendo di trovare la
Grecia tutta in armi schierata con lui, e invece solo gli Etoli e qualche altro popolo avevano fatto dei
preparativi di guerra. Cercò all'inizio di trovare alleanze, poi si mosse contro Calcide che riuscì a ridurre in
suo potere e di là passò in Tessaglia occupando Fere, Scotussa, Cranone, Cipera e Metropoli, mentre il suo
alleato Aminandro con le schiere degli Atamani prendeva Pellineo e gli Etoli si impadronivano di Mallea e
Cirezia.
Ottenuti questi successi, Antioco marciò contro Larissa, ma, appreso dell'avvicinarsi di un esercito romano
comandato da APPIO CLAUDIO, levò il campo e si ritirò prima a Demedriade e poi a Calcide.
Qui Antioco si innamorò perdutamente della giovane figlia del Calcidese Cleotolemo e, sebbene tra lui e lei
ci fosse una grande disparità di anni e di condizione, la sposò, poi passò l'inverno in conviti, bagordi e
mollezze, imitato da tutto il suo esercito. Correva l'anno 191, quando i Romani iniziarono le operazioni di
guerra contro Antioco. Marco Bebio e Filippo il Macedone, uniti i loro eserciti, scesero in Tessaglia,
presero Pesto, Mallea, Fano, Cirezia, Erizia, Egio, Argissa, Gonfi, Trica, Melibea e assediarono Pellineo
dove si trovava Aminandro con i suoi Atamani.

In questo frattempo sbarcava in Grecia il console MANIO CECILIO GLABRIONE, con diecimila fanti,
duemila cavalli e quindici elefanti, conducendo con sé in qualità di luogotenenti i consolari MARCO
PORCIO CATONE e LUCIO VALERIO FLACCO. Dopo una rapida marcia il console occupò Limnea e
Pellineo, ridusse in suo potere tutta l'Atamania, facendo prigionieri oltre tremila Atamani, e, dopo un breve
riposo a Larissa, costringeva alla resa, Cranone, Farsalo, Scotussa, Fere e Taumasto.
Antioco si trovava allora a Calcide. Rinforzato da truppe giuntegli dall'Asia ed ottenuto dagli Etoli un aiuto
di quattromila uomini, cercò di fermare l'esercito romano alle Termopili, la stretta che guarda la Grecia,
famosa per la battaglia sostenutavi da Tebani e Spartani e per l'eroica morte di Leonida.
Ordinò pertanto agli Etoli di presidiare il monte Oeta, alle cui falde egli schierò il suo esercito, e sostenne
l'urto delle truppe consolari. La battaglia, data la fortissima posizione dei luoghi, non avrebbe forse avuto il
risultato che ebbe, se gli Etoli avessero eseguito fedelmente gli ordini del re di Siria; di loro, una parte
rimase ad Eraclea per essere pronta a saccheggiare il campo romano durante il combattimento e per esser
più presta a passare in Etolia se il nemico vinceva; gli altri sul monte Oeta non fecero buona guardia e,
sorpresi dalle schiere di PORCIO CATONE, furono sgominati e ricacciati.

In tal modo l'esercito di Antioco, assaltato alle spalle da Catone mentre combatteva contro le truppe del
console, subì una durissima disfatta. Di diecimila uomini, quanti erano al principio della battaglia, soli
cinquecento con Antioco riuscirono a salvarsi, fuggendo, in Calcide, dove poi il re s'imbarcò per Efeso.

La Grecia rimase alla mercé dei Romani. Occupata Calcide e sottomessa la Beozia, il console mosse contro
Eraclea difesa dagli Etoli e con l'esercito diviso in quattro gruppi, comandate da LUCIO VALERIO,
SEMPRONIO LONGO, MARCO BEBIO ed APPIO CLAUDIO, tenne assediata la città per ventiquattro
giorni; infine la prese d'assalto e fece prigionieri i superstiti della guarnigione, fra cui quel Damocrito che a
Quinzio Flaminino aveva affermato che avrebbe reso conto dell'operato degli Etoli sulle rive del Tevere.
Ridotti a mal partito, gli Etoli domandarono la pace, ma non ottennero che una breve tregua.

LA GUERRA ASIATICA BATTAGLIA DI CISSONTE, DELL'EURIMEDONTE E DI MIONNESO

Tornato in Asia, ANTIOCO consigliato da Annibale cominciò a prepararsi per difendere il suo regno.
La guerra contro di lui intanto prendeva proporzioni più vaste, entrando in azione la flotta romana
spalleggiata dalle armate degli alleati d'Oriente. Comandante della flotta era il pretore CAJO LIVIO, il
quale con un centinaio di navi, di cui settantacinque romane, il resto di Cartagine, di Reggio e di Locri,
toccato Corfù e saccheggiate Zacinto e Samo, si era portato dentro al porto del Pireo.
Di qui Livio veleggiò verso Delo, poi verso Chio, dove fu raggiunto dai soccorsi navali di EUMENE II re
di Pergamo e dai Rodiesi. La flotta nemica, comandata da Polissenide, si trovava a Cissonte, presso Corico.
All'avvicinarsi delle navi romane, essa si schierò in ordine di combattimento, tenendo l'ala destra vicino
alla costa. Polissenide era con la nave ammiraglia alla sinistra dell'armata asiatica e, poiché le navi romane
non erano ancora tutte riunite e disposte in battaglia, gli riuscì ad avere il sopravvento sulle navi
dell'avanguardia nemiche. Fu però un effimero successo perché, sopraggiunto Cajo Livio con il grosso
dell'armata, l'ala sinistra nemica fu messa in poco tempo allo sbaraglio, e uguale sorte toccava alla destra
intensamente assalita dalle navi di Eumene. In quella giornata dieci navi asiatiche furono colate a picco e
tredici catturate; il resto riuscì a riparare a Efeso.

Qualche mese dopo però POLISSENIDE, approfittando dell'assenza di LIVIO che con l'armata romana
aveva fatto vela per l'Ellesponto, si prese la rivincita a spese della piccola flotta di Rodi e più con l'inganno
che con il valore delle armi la distrusse quasi tutta nelle acque di Samo. In quella battaglia morì
PAUSISTRATO, valorosissimo capo dell'armata di Rodi. Appresa la notizia della rotta degli alleati, CAJO
LIVIO s'affrettò a ritornare, ma era troppo tardi, poiché Polissenide si era messo già al sicuro nel porto di
Efeso. Della sconfitta a Samo si rifece non molto tempo dopo una nuova flotta di Rodi, la quale affrontò
alla foce dell'Eurimedonte, a Side, l'armata di Antioco comandata da Annibale e da Polissenide e la
sbaragliò.

A questa vittoria un'altra ne seguì nel medesimo anno (190 a.C.) presso il promontorio Mianneso. La flotta
romana era composta di ottanta navi, delle quali ventidue appartenevano alla repubblica di Rodi, ed aveva
il comando EMILIO REGELLO, successore di Livio; novantatre erano i navigli nemici. Fu questa la più
importante tra le battaglie navali combattute durante la guerra asiatica per le perdite subite dalla flotta di
Antioco; ventisette navi colarono a picco e tredici le lasciò in mano ai Romani.
Dopo la battaglia del Mionneso, Roma rimase padrona incontestata del mare e la guerra continuò per terra.

BATTAGLIA DI MAGNESIA

A continuare le operazioni contro Antioco ed a portare le armi in Asia fu nel 189 scelto il console LUCIO
CORNELIO SCIPIONE, al quale, in qualità di luogotenente e forse anche per giovargli con la sua preziosa
esperienza e il suo provato valore, volle spontaneamente aggiungersi il fratello, SCIPIONE L'AFRICANO.
Le vittorie navali dei Romani avevano consigliato Antioco ad abbandonare Lisimachia e il Chersoneso
tracico, nella speranza che i Romani, vedendo sgombra di eserciti della Siria l'Europa, non oltrepassassero
il mare. Ma s'ingannò, anzi lo sgombro, facilitò alle armi della repubblica il passaggio dell'Ellesponto,
trovatolo sguarnito di difensori, riuscirono in poco tempo a toccare la costa asiatica.
Dopo l'Africa, Roma sbarcava in Asia! Il re di Siria, che allora si trovava a Sardi, volendo a tutti i costi
evitare che la guerra avesse la sua continuazione in Asia, si affrettò a spedire ambasciatori al console per
trattare la pace a condizioni che ad Antioco sembravano vantaggiosissime per Roma.
Dichiarava, infatti, di esser disposto a pagare metà delle spese di guerra, a cedere alla repubblica romana
tutti i territori che possedeva in Europa e quelle città dell'Asia Minore che desideravano passare sotto la
signoria di Roma. Si narra che ERACLIDE di Bisanzio, ambasciatore del re di Siria, tentasse di corrompere
Scipione - con una gran somma di denaro e il condominio del regno escluso il titolo di re- nella speranza
che facesse accettare dal fratello le proposte condizioni e gli promettesse la restituzione del figlio che era
caduto, non si sa bene come, prigioniero d'Antioco. Ma l'africano rispose - "Io riceverò mio figlio per dono
grandissimo della munificenza reale; delle altre cose possano gli dèi non farmi mai aver bisogno. L'animo
mio certamente non ne avrà mai desiderio. Ad Antioco io sarò grato se lui accetterà la gratitudine privata
per un benefizio privato. Quanto al pubblico, non riceverò da lui né gli darò cosa alcuna. Quel che ora gli
posso dare è un amichevole consiglio: va' e di' al re da parte mia che cessi la guerra e non rifiuti le
condizioni di pace che gli saranno imposte".

E le condizioni furono: pagare tutte le spese di guerra; lasciare libere le città della Jonia e dell'Eolide;
cedere tutta la regione a nord del Tauro. Antioco, era da prevedersi, rifiutò queste durissime condizioni ed
affidò le sorti del suo regno alle armi. La grande battaglia, che doveva segnare l'inizio della dominazione
romana in Asia, fu combattuta di lì a poco alle falde del monte Sipilo nella valle dell'Ermo dove sorgeva la
città di Magnesia (Lidia). L'esercito di Antioco era composto di sessantamila fanti e dodicimila cavalli. Il
campo fu circondato da un fosso largo e profondo, munito esternamente di un resistente steccato e
fortificato all'interno da un muro e da torri. L'esercito romano non superava i trentamila uomini. Scipione
andò ad accamparsi a quattro miglia di distanza e al passaggio del fiume avvennero alcune scaramucce di
cavalleria; poi seguì una settimana circa di calma, dovuta alla titubanza di Antioco, il quale forse sperava
ancora che la contesa potesse esser decisa pacificamente. Ma, quando s'accorse che il nemico desiderava la
battaglia, fidandosi nella superiorità numerica del suo esercito, accettò il combattimento cui i Romani lo
provocavano.
Lo schieramento dell'esercito di Scipione fu il seguente: all'ala sinistra, che era protetta dal corso dell'Ermo,
alcune schiere di cavalieri; al centro due legioni romane fiancheggiate da due legioni italiche, disposte su
due ordini: avanti gli astati, dopo i principi; l'ala destra era costituita da fanti Achei e Cretesi e Pergameni
armati alla leggera, comandati da EUMENE II re di Pergamo successo ad Attalo, da ottocento cavalieri di
Pergamo e duemila e duecento romani. I triari formavano la retroguardia e tra questi e i principi erano
sedici elefanti. Duemila volontari della Tracia e della Macedonia furono lasciati alla custodia del campo.
Antioco pose al centro del suo schieramento sedicimila falangiti, rafforzati da ventidue elefanti asiatici
reggenti torri di legno; all'ala destra mise millecinquecento fanti Galati e tremila fanti loricati, fiancheggiati
da un migliaio di cavalieri scelti della Media e seguiti da sedici elefanti. L'estremità della destra era
costituita dalla guardia del re, armati di scudi d'argento, da milleduecento arcieri di Scizia a cavallo, da
tremila fanti armati alla leggera, duemilacinquecento soldati di Misia e quattromila tra frombolieri cirtei ed
arcieri elimei. Formavano l'ala sinistra millecinquecento fanti Galati, duemila pedoni di Cappadocia,
millesettecento fanti di varia nazionalità, quattromila cavalieri loricati, e i cavalieri del re, reclutati nella
Siria, nella Frigia e nella Lidia, un reparto di carri falcati, una schiera di arcieri arabi montati su dromedari.
Chiudevano l'ala sinistra duemilacinquecento Galati, mille Nocreti, millecinquecento soldati di Caria e di
Cilicia e altrettanti Tralli, tremila cetrati di Pisidia, di Panfilia e di Licia, quattromila arcieri e frombolieri
elimei e cirtei e sedici elefanti. Aveva il comando della destra ANTIOCO, quello della sinistra il figlio
SELEUCO ed ANTIPATRO, quello del centro MINIONE e ZEUSIDE. FILIPPO comandava i
cinquantaquattro elefanti. Era così ampio lo spiegamento dell'esercito di Antioco che il centro non
distingueva le ali e queste non si vedevano tra loro. Antioco faceva grande assegnamento sui carri falcati,
che dovevano aprire la battaglia e sfondare il fronte romano, ma i primi all'inizio e gli elefanti poi furono
una delle cause della sua disfatta. EUMENE, infatti, che era pratico dei carri di combattimento, ordinò agli
arcieri e frombolieri a cavallo di assalire in ordine sparso il reparto dei carri e di saettare gli animali da cui
erano trainati. L'assalto fu cosi irruente e così fitto il lancio delle saette, che i cavalli, feriti, e spaventati,
fuggirono scompigliando gli armati alla leggera e i dromedari, lasciando così scoperta la cavalleria pesante
dell'ala sinistra asiatica, la quale, assalita dalla cavalleria romana, non riuscì a sostenere, da sola l'urto e
parte fu tagliata a pezzi, parte messa in fuga.

Lo sbaraglio dell'ala sinistra scoprì il fianco dei falangiti e portò fra loro un certo disordine, di cui
approfittarono le legioni romane, le quali, sbigottite dagli elefanti, diedero di cozzo contro il centro
avversario e, aiutati dalla cavalleria di Eumene che lo aveva preso alle spalle, lo scompigliarono.
Non sapendo della sconfitta del centro e della sinistra, Antioco, approfittando delle poche forze che
costituivano la sinistra romana, l'avviluppò dal lato del fiume e messa in fuga la inseguì fino agli
accampamenti. Fu una fortuna per Romani che il campo era ben difeso da MARCO EMILIO, figlio di
Marco Lepido, guerriero valoroso ed energico. Questi con i suoi duemila volontari costrinse i fuggiaschi a
tornare alla battaglia e lui, rafforzato da una schiera di cavalli condotti da Attalo, fratello di Eumene,
affrontò Antioco e lo mise in fuga. Un'ultima, disperata resistenza gli asiatici la fecero dopo aver raggiunto
il proprio campo, ma questo poi fu attaccato, espugnato e dei difensori fatto un macello.
Secondo TITO LIVIO quel giorno nell'esercito di Antioco, perirono quarantamila fanti e quattromila
cavalieri; catturati quattrocento cavalli e quindici elefanti. Antioco, fuggito con circa diecimila dei suoi
soldati, riparò prima a Sardi poi ad Apamea. Dopo la vittoria di Scipione si arresero le città di Tiatira,
Magnesia, Spilo, Sardi, Efeso e parecchie altre. Ad Antioco non restava altro da fare che chieder pace, e la
chiese. Le condizioni che gli furono imposte -alla cosiddetta "pace di Apamea" del 188 a.C., erano le
medesime che poco tempo prima lui non aveva voluto accettare. In più doveva mantenere l'esercito romano
fino alla ratifica della pace, doveva pagare come indennità di guerra quindicimila talenti in dodici anni,
cedere tutti gli elefanti e le navi escluse dieci, obbligarsi a non metter più piede nelle terre di dominio
romano o in quelle alleate di Roma, consegnare Annibale e Toante, che aveva istigato gli Etoli ed Antioco
contro Roma, e fornire dieci ostaggi fra cui il proprio figlio minore.

Antioco accettò le dure condizioni che gli toglievano circa metà, del regno. I Romani conseguono
l'egemonia del mar Mediterraneo orientale. Poco tempo dopo ANTIOCO morì ad Elimaide, lapidato dagli
abitanti di quella città dove si era spinto per andare a saccheggiare il tempio di Belo, per riuscire con i
tesori contenuti a pagare l'indennità di guerra.

A LUCIO CORNELIO SCIPIONE fu dal Senato dato il soprannome onorifico di "Asiatico" oltre a
tributargli l'anno dopo (187 a.C.) un magnifico trionfo. Secondo TITO LIVIO, condusse nella pompa del
trionfo duecentotrentaquattro insegne militari, centotrentaquattro immagini di città, milleduecentotrentuno
zanne d'avorio, duecentoquarantaquattro corone d'oro, centoquarantasettemila e quattrocentoventi libbre
d'argento, duecentoventiquattromila tetradammi attici, quattrocentotrentamila cistofori, centoquarantamila
nummi d'oro, millequattrocentoventiquattro libbre di vasi d'argento scolpiti e mille ventiquattro libbre di
vasi d'oro. Davanti al suo carro lo precedevano in catene trentadue capitani d'Antioco.

ASSETTO DELL'ASIA E SPEDIZIONE CONTRO I GALATI

Nello stesso anno del trionfo di LUCIO CORNELIO SCIPIONE, fu allestito e poi inviato a primavera del
successivo anno 186 fu mandato in Asia il console GNEO MANLIO VOLSONE con dieci commissari per
dare assetto a quella regione. Il console, avido di onori e di bottino, senza permesso del Senato, fece una
spedizione contro i Galati, che avevano aiutato Antioco nella guerra contro i Romani.
Partito da Efeso con le sue legioni e con alcune truppe fornite dal regno di Pergamo attraversò la Panfilia la
Pisidia e la Frigia e, giunto nel territorio di quei barbari, li combatté senza misericordia, uccidendone -
secondo quel che narrano gli storici - quarantamila e procurandosi un ricchissimo bottino.
A proposito di questa spedizione TITO LIVIO ci narra un episodio che rivela la ferocia dei Galati ma anche
da quale desiderio di preda fossero animati i soldati del console Volsone.
Ad Angira si trovavano fra gli altri prigionieri la moglie di ORTIAGONTE, uno dei principali capi dei
Galati, TETTOSAGI, donna di singolare bellezza. Un centurione, preposto alla custodia dei prigionieri,
vinto dall'avvenenza della donna, cercò di farla sua ed essendosi lei rifiutata alle voglie del Romano, questi
la possedette con la violenza, poi le promise la libertà dietro il compenso di un talento attico. Fu disposto
che un prigioniero si recasse dai parenti della donna e ne inviasse altre due, durante la notte, con il danaro
del riscatto presso il vicino fiume. All'ora stabilita il centurione condusse la donna al fiume, e mentre
veniva contato il denaro, i due tettosagi, avvisati dalla moglie di Ortiagonte, piombarono sul centurione e
l'uccisero. Fatta così la sua vendetta, la donna tagliò la testa al romano e, tornata a casa, la presentò al
marito, guadagnandosi, per quel suo gesto, anche una grande fama presso il suo popolo.
I Galati furono costretti a chieder la pace e quindi sottomessi, ma il loro paese fu crudelmente saccheggiato.
Più tardi MANLIO VOLSONE fu accusato da L . EMILIO PAOLO e da FURIO PORPURIONE di
crudeltà e di arbitrio; ma Roma non era più quella di una volta; anche lì la corruzione aveva fatta molta
strada nella città e nel Senato, e le ricchezze del console ebbero ragione delle accuse e gli procurarono pure
il trionfo. Nel dare assetto all'Asia, Roma non tralasciò di premiare i suoi amici. Ad EUMENE furono dati
il Chersoneso, la Misia, le due Frigie, la Lidia, parte della Caria e della Licia. Le città di Dardano, Ilio,
Cime, Smirne, Clazomene, Eritrea, Colofone, Mileto, Chio e molte altre furono restituite a libertà. Ad
ARIODARTE, re della Cappadocia, che aveva sostenuto Antioco, fu inflitta una multa di trecento talenti.

SOTTOMISSIONE DEGLI ETOLI E MORTE DI ANNIBALE

Mentre MANLIO VOLSONE era in Asia, l'altro console MARCO FULVIO NOBILIORE, inviato dal
Senato in Grecia, combatteva contro gli Etoli. Accanita fu la resistenza che -questo popolo bellicoso e
amante dell'indipendenza- oppose alle armi romane dopo avere aiutato Aminandro a recuperare a Filippo
l'Atamania. E specialmente ostinata ed eroica fu la difesa della città di Ambracia attorno alla quale si era
trasferita la guerra. Assediata dall'esercito consolare, la fiera città seppe tener testa valorosamente ai
Romani, i quali, non potendo farsi una breccia nelle mura e prenderla d'assalto via terra, tentarono di
penetrarvi scavando un passaggio sotterraneo. Ma il loro disegno fu sventato dai difensori. Questi, accortisi
dei lavori del nemico, scavarono a loro volta un altro passaggio, sorpresero e ricacciarono i Romani e prima
difesero il sotterraneo con le armi poi lo resero impraticabile producendovi del fumo puzzolente.
Ma, sebbene fieri e valorosi, gli Etoli erano un piccolo popolo né potevano sperare di far rinunciare ai
Romani l'impresa. Chiesero perciò pace alla Repubblica la quale l'accordò alle seguenti condizioni:
pagamento, come tributo di guerra, di cinquecento talenti, consegna di quaranta ostaggi e dei prigionieri e
disertori, cessione a Roma delle isole dì Zacinto e Cefalonia, divieto di far passare per l'Etolia eserciti
nemici dei Romani e dei loro alleati. A questi patti fu conclusa la pace e gli Etoli, caduti sotto il dominio di
Roma, non riuscirono più a riacquistare la loro indipendenza.

Nel 183, dopo sei anni ch'era finita la guerra contro Antioco, si spegneva tragicamente il più grande nemico
di Roma: ANNIBALE. Fra i patti imposti ad Antioco per la pace dopo la sconfitta di Magnesia non ultima
era la consegna dell'esule di Cartagine. Annibale, che più di ogni altra cosa amava la sua libertà, si era
allontanato dalla Siria ed aveva trovato ricovero in Bitinia alla corte del re PRUSIA. Era questo sovrano
nemico di Eumene re di Pergamo. Non potendo direttamente nuocere a Roma, il Cartaginese aveva cercato
di nuocere agli alleati dell'odiata Repubblica. Ma, aveva scelto male il suo ospite. Il re Prusia era dotato di
una natura bassa e vile; sconosciuto era per lui il dovere dell'amicizia e dell'ospitalità, cui egli anteponeva il
proprio interesse. Quando Roma, sollecitata da Eumene, mandò in Bitinia una legazione presieduta dal
consolare T. Flaminino, per reclamare la consegna di Annibale, Prusia non ebbe nulla da obbiettare.
Avrebbe potuto favorire la fuga del Cartaginese, ma temendo di incorrere nello sdegno della potente
Repubblica e desiderando di entrare nelle grazie di Roma, non esitò a tradire il suo ospite e affinché non
potesse sfuggire fece circondare dai suoi armati la casa del profugo. Annibale però non era uomo da cader
vivo nelle mani dei suoi nemici. Poiché non poteva salvarsi, essendogli preclusa ogni via di scampo, preferì
la morte alla prigionia e bevve un potentissimo veleno che conservava in un anello.
Così fini la sua vita il più grande capitano del mondo antico. Con la sua tenacia e con le sue virtù guerriere,
aveva saputo sollevare le sorti della sua patria, le aveva conquistato un vasto impero in Spagna, aveva
osato, contro il volere della stessa Cartagine e con i mezzi che lui stesso si era procurati, sfidare la potente
Roma, era riuscito, attraverso territori stranieri e la barriera delle Alpi a portare la guerra in casa del nemico
e a rimanervi per circa tre lustri sconfiggendo poderosi eserciti. Vinto, aveva cercato una seconda volta di
portare la sua città alla riscossa; esule, aveva speso gli ultimi anni della sua esistenza nel creare nemici a
Roma, della quale era stato perennemente l'incubo minaccioso. Più forte del suo valore e del suo genio era
stata solo la cattiva sorte.

ESILIO E MORTE DI SCIPIONE L'AFRICANO

E la sorte volle che nello stesso anno in cui Annibale si toglieva la vita nella lontana Bitinia morisse
PUBLIO CORNELIO SCIPIONE L'AFRICANO. Al pari di Annibale lui moriva in esilio volontario,
amareggiato dall'ingratitudine della patria e dall'invidia di alcuni suoi concittadini.
Non pochi erano in Roma quelli che invidiavano la gloria e la potenza alla quale era pervenuto il vincitore
di Annibale e fu appunto il malanimo di costoro che causò dolore agli ultimi anni dell'illustre guerriero e
cercò di infangarne il nome.

Da piccoli uomini faziosi, che erano al tribunato della plebe, furono rinnovate le vecchie accuse che gli
erano state mosse al tempo in cui era console in Sicilia: la vita molle ed oziosa di Siracusa e la complicità
con Pleminio nel malgoverno di Locri, alle quali altre e più gravi accuse si aggiunsero.
Fu detto che Scipione aveva partecipato alla guerra asiatica non come luogotenente e consigliere del
fratello, ma come dittatore, e che delle somme, realmente pagate da Antioco, e del ricavato del bottino non
tutto era stato versato nelle casse della Repubblica. Si giunse perfino a dire che la restituzione senza riscatto
del figlio prigioniero non era stata conseguenza della generosità di Antioco, ma segreti accordi (e forse di
denari) intercorsi tra l'Africano e il re di Siria.

Richiesto dal Senato di rendere conto assieme al fratello Lucio dei denari pagati da Antioco e ricavati dalle
prede, Scipione, sdegnato, lacerò davanti all'assemblea, il libro dei conti, rispondendo che non aveva conti
da rendere colui che dalla guerra aveva portato alla Repubblica la somma di quindicimila talenti. I senatori
al fiero gesto del grande generale, meritevole di riprovazione, non protestarono, ma i nemici non
disarmarono e lo citarono in giudizio. Doveva avvenire il processo il 19 ottobre 183. Quel giorno
l'Africano, seguito da un immenso stuolo di clienti, di amici e di ammiratori, si presentò nel foro non per
sentirsi ripetere pubblicamente le accuse ma per rammentare agli immemori che proprio quel giorno
ricorreva l'anniversario della vittoriosa battaglia di Zama. Seguito dal popolo plaudente, lasciò il foro e si
recò sul Campidoglio nei templi delle divinità a rendere grazie della vittoria riportata.. Il giudizio fu
rimandato, ma PUBLIO SCIPIONE si rifiutò di comparire. Lasciata l'ingrata città era andato a vivere in
volontario esilio nella sua villa in Campania a Literno, e li morì poco dopo all'età di soli 51 anni.

Degna da ricordare fu in quell'occasione la condotta del tribuno TIBERIO SEMPRONIO GRACCO, il


quale, sebbene fosse nemico dell'Africano, tuttavia lo difese, svillaneggiando gli accusatori ed opponendosi
a coloro che permettevano o volevano che un uomo così grande fosse vergognosamente trascinato al banco
degli accusati. Non tacque l'invidia nemmeno dopo la morte dell'Africano, e, poiché non si poteva più
colpire il grande scomparso, si volle colpire suo fratello LUCIO CORNELIO.
Nel processo, suscitato contro l'Asiatico da MARCO PORCIO CATONE, furono trascinati anche LUCIO
OSTILIO e CAJO FURIO ACULEONE, luogotenente l'uno, questore di Scipione l'altro. Tutti furono
condannati a restituire le somme ricevute da Antioco e non versate nelle casse dello Stato: seimila libbre
d'oro e quattrocentottanta d'argento Scipione, ottanta libbre d'oro e quattrocentotre d'argento Ostilio,
centotrenta libbre d'oro e duecento d'argento Furio. Essendosi l'Asiatico rifiutato di pagare ritenendosi
ingiustamente condannato, fu dal pretore QUINZIO TERENZIO ordinato che fosse condotto in prigione.
Ma SEMPRONIO GRACCO che era sorto in difesa dell'Africano impedì con il suo veto che Lucio Publio
Scipione finisse dentro un carcere.

Tutti i beni dell'Asiatico non furono sufficienti a pagare la somma alla quale era stato condannato il che fu
una prova dell'innocenza dell'uomo, la quale del resto fu dichiarata dagli stessi questori incaricati della
riscossione, che costatarono di non aver trovato "alcun segno delle pecunie del re" nella casa dell'ex-
console. Questi fu soccorso dalla solidarietà dei parenti che provvidero al suo mantenimento, e ottenne la
soddisfazione e il conforto nella sventura da cui era stato colpito di veder l'odio del popolo rivolgersi ai
suoi accusatori.

Era appena finita la guerra contro Antioco, quando iniziava quella contro Filippo re di Macedonia; che non
era un nemico di Roma, anzi aveva fornito aiuti all'esercito Romano; li aveva fatti passare dal suo regno,
riforniti di vettovagliamento e perfino delle milizie. Ma alla fine, non era stato bene ricompensato; il suo
vicino Eumene di Pergamo, da Roma aveva ricevuto molto di più.

Fu questo malcontento a dare origine alla seconda e alla terza guerra macedonia.

Você também pode gostar