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Concetti e concezioni Ruth Millikan

tr. it. delle pp. 66-72 di Language: A Biological Model, Oxford, OUP, 2005, cap. 3 Traduzione di E. Lalumera [...] Questa l'idea che intendo contrastare: che per capire che lo stesso termine referenziale semplice ha lo stesso significato, parlanti diversi debbano avere processi psicologici simili in corso. L'idea da difendere, invece, che 'il significato non nella testa'. Ma vorrei anche lanciare un attacco all'impostazione di Frege e all'analisi concettuale, che credo sia pi radicale ed esaustivo dei ben noti colpi inferti da Putnam, Burge ed Evans. La mia argomentazione si sviluppa a partire da una teoria sulla struttura del pensiero, su che cosa sia avere il concetto di una propriet, un individuo, un genere, una sostanza, e simili. La teoria articolata nel dettaglio in Millikan (1984, 2000): qui mi limiter a un rapido schizzo delle linee principali. Considerate che cosa comporti l'essere in grado di riconoscere le forme, per esempio. Pensate alla variet di stimoli visivi prossimali che una certa forma produce quando viene vista da varie angolazioni, diverse distanze e diverse condizioni di luce, attraverso l'acqua o la nebbia, colorata in diversi modi, parzialmente nascosta, e cos via. Il problema della invarianza della forma come il sistema visivo sia in grado di riconoscere la stessa forma come tale in una gamma di condizioni diverse di una complessit quasi inimmaginabile ed ancora in gran parte irrisolto. Analogamente, la invarianza del colore, della superficie, delle dimensioni e della distanza sono problemi enormemente complicati. Siamo anche in grado di percepire che si tratta dello stesso suono, soprattutto nel caso delle parole, da vicino o a distanza, attraverso l'aria o l'acqua, smorzato o distorto, e cos via. Ci che appare chiaro in ciascuno di questi casi che non viene applicata un'unica regola. Il sistema percettivo utilizza diversi indizi a seconda delle circostanze, separatamente o insieme. Ad esempio, la distanza viene percepita in parte grazie alla disparit oculare, la tensione dei muscoli atti alla focalizzazione, l'occlusione di un oggetto da parte di un altro, la presenza di foschia atmosferica. Riconosciamo le distanze anche dal tatto e dall'estensione di varie parti del corpo, e con l'udito afferriamo bene la distanza di oggetti che producono suoni. E ovviamente ci sono modi pi ovvi di riconoscere la distanza, ad esempio misurare con un righello o con un metro a nastro, o per triangolazione come un topografo, o con un contachilometri o un millimetro, o tramite il tempo che impiega la luce a ritornare. Nessuno di questi modi di individuare la distanza infallibile e nessuno definisce i nostri concetti di distanza. D'altra parte ognuno aggiunge qualcosa ai nostri concetti di distanza, e non potremmo avere tali concetti se non avessimo almeno alcuni di questi metodi di riconoscimento. La situazione simile, anche se non sempre cos estrema, per quanto riguarda il modo in cui afferriamo altre invarianze percettive. I sistemi percettivi fanno il loro lavoro in flagrante violazione dell'ideale un tempo fissato dai sostenitori delle definizioni operative. Pi sono i metodi meglio risulta la percezione di una propriet. Dopotutto, quali siano i modi in cui le propriet empiriche colpiscono i vari sensi una questione del tutto empirica, una questione di legge naturale, non di logica o definizione. Questa la ragione ultima per cui n il fenomenalismo n il verificazionismo sono riusciti a sopravvivere. Ora, concepibile che tutte le persone normali percepiscano alcune invarianze, ad esempio la profondit, nello stesso modo, ed concepibile anche che siano geneticamente programmate

piuttosto che percettivamente sintonizzate per percepire alcune di queste invarianze in modi standard. La questione dibattuta. Ma sicuramente il fatto che uno abbia o meno capacit percettive normali in questo aspetto non ha alcun peso su ci che intende con le parole italiane usate per designare le profondit, le forme, o i tipi di superfici. Essere ciechi da un occhio e non riuscire a percepire la distanza per mezzo della disparit oculare non cambia ci che uno intende con 'vicino' e 'lontano', n ha molto senso supporre che Helen Keller intendesse qualcosa di diverso da noi con 'vicino' e 'lontano'. Non intendo discutere dell'esistenza delle qualit secondarie (Il fatto stesso che gli psicologi possano studiare la percezione delle invarianze sembra gettare dubbi sull'idea che i colori siano qualit secondarie, almeno nel senso lockeano del termine), ma sicuramente con la percezione riconosciamo un numero sufficiente di propriet e relazioni che sono ovviamente primarie. Ci sono tanti modi diversi di riconoscere ognuna di queste propriet, ma nessuna definisce la propriet n la parola che sta per essa. Passando ora all'estremo opposto, consideriamo i nomi propri. Oltre ad avere un riferimento il vostro nome ha una definizione? Che cosa comporta per qualcuno comprendere il vostro nome per un bambino nella vostra famiglia, per l'insegnante del vostro bambino, per un vostro studente, per la moglie di uno studente, per un lettore dei vostri saggi, per il farmacista che legge la vostra ricetta medica. Queste persone comprendono tutte il vostro nome allo stesso modo? La risposta ragionevole che non esiste una cosa speciale che tutte le menti che comprendono il vostro nome hanno in comune, tranne ho sostenuto (Millikan 1984, capitoli 4 e 9; Millikan 2000, cap. 6) una qualche capacit pratica di reidentificare come tale, nel contesto presente, il tipo ultimo a cui appartiene il vostro nome (piuttosto che il nome di qualcun altro con 'lo stesso nome'), in modo da riconoscere quando vengono offerte informazioni provenienti dalla stessa persona, ancora voi. Pi in generale, avere un concetto di un individuo , in parte, avere una capacit di riconoscere, in un modo o nell'altro, almeno in certe circostanze, che ci si trova di fronte a informazioni a proposito di quell'individuo, e un modo riconoscibile di trovarsi di fronte a informazioni riguardo a qualcosa, a parte la percezione diretta, incontrare enunciati che contengono il suo nome. Per difendere compiutamente questa posizione necessaria una caratterizzazione appropriata dell'informazione (Millikan 2004, capitoli 3 e 4), una spiegazione adeguata di come avviene la percezione attraverso il linguaggio (Millikan 1984, cap. 9; Millikan 2000, cap. 6, cap. 9), e di come le capacit possano essere fallibili (Millikan 2000, cap. 4). Credo comunque che molti siano d'accordo sul fatto che non necessario che i nomi di individui siano associati a metodi di riconoscimento pubblici e condivisi per poter funzionare, n a descrizioni. Chiamiamo 'concezione' di una cosa l'insieme dei vari metodi che si hanno per riconoscerla o, in modo equivalente, per riconoscere quando si stanno ricevendo informazioni su di essa. La concezione che uno ha della maggior parte delle cose comuni ha diverse componenti, perch si dispone di molti modi per riconoscerle nessuno di questi infallibile, ovviamente, ma molti sono abbastanza affidabili. Tutto ci che si sa di una cosa parte della concezione che si ha di essa, perch qualsiasi cosa si sappia pu servire a identificarla, o impedire che la si identifichi erroneamente in certe circostanze. Alcune componenti della concezione sono esplicite e comportano l'impiego di descrizioni, quindi di altri concetti, per essere applicate. Altre componenti concettuali sono implicite, e portano direttamente dall'esperienza percettiva all'identificazione di ci che si percepisce. La mia tesi fin qui che n i nomi di propriet percepibili, n i nomi di individui sono associati a concezioni o a componenti concettuali che tutti coloro che impiegano i nomi debbano

possedere per comprendere quei nomi in modo corretto. Non richiesta alcuna modalit specifica di identificazione del referente. vero che in alcuni casi esiste una considerevole sovrapposizione fra le concezioni che la gente impiega per comprendere il referente di un certo nome; ad esempio, dato che 'Mark Twain' era il nome d'arte di Samuel Clemens, molti sanno che Mark Twain era uno scrittore, forse anche che ha scritto Huckleberry Finn. Si pu sempre contare sul fatto che esista qualcuno che sa questo, se ha il nome 'Mark Twain' nel suo vocabolario. E le componenti concettuali implicite mediante le quali riconosciamo molte delle propriet comuni sono probabilmente condivise dalla maggioranza delle persone adulte. Ma se qualcuno nascesse con orecchie da pipistrello e potesse solo udire le forme, ci non gli impedirebbe di imparare le parole italiane 'rotondo' e 'quadrato'. Mi pare che questo non sia un punto particolarmente controverso. Il principio pu essere esteso, comunque, a casi meno ovvi. Molti termini di genere indicano generi che formano unit naturali oggettive, scoperte piuttosto che create dal pensiero e dal linguaggio (vedi prossimo capitolo di questo volume; Millikan 1984, capitoli 16 -17; Millikan 2000, cap. 2). Questi generi 'reali' sono importanti oggetti di conoscenza, perch c' una ragione per cui i vari membri del genere pi o meno si somigliano in svariati modi, dunque c' una ragione per cui si pu imparare dall'osservazione di uno o di alcuni esemplari qualcosa che sar probabilmente vero per molti altri. La maggior parte dei termini singolari di genere denota generi di questo tipo (vedi prossimo capitolo; Millikan 2000, cap. 3). Tipicamente questi generi non solo hanno molte propriet, ma ci sono anche molti modi per riconoscerli. Pensate a quanti modi esistono per dire che qualcosa rame, o che c' un cane presente. Occorre guardare per dire che questo un limone? O che sta piovendo? Quante strofe di 'Bianco Natale' o del Padre nostro dovete sentire per riconoscerle? Per aver un concetto valido di un genere reale non occorre conoscere la ragione della somiglianza fra i suoi membri, quali siano i principi naturali che li tengono insieme. Basta qualche mezzo abbastanza affidabile di reidentificare il genere pi se ne hanno e meglio , naturalmente, dato che la maggior parte si pu applicare solo in certe occasioni. Come i concetti di individui, i concetti di genere reale possono essere associati a diverse concezioni, metodi di riconoscimento alternativi, e non ci sono componenti concettuali che tutti coloro che fanno uso del nome di un genere reale debbano possedere per comprenderlo (vedi prossimo capitolo; Millikan 1984, cap. 9; Millikan 2000, cap. 3, cap. 5). Il terzo aspetto del significato, la concezione, non dunque essenzialmente pubblico. Riguarda gli idioletti piuttosto che le lingue comuni. C' tuttavia di solito una notevole sovrapposizione tra le concezioni delle persone corrispondenti ai nomi dei generi reali pi comuni. Inoltre spesso le componenti concettuali si passano esplicitamente da generazione a generazione ad esempio le definizioni di certe figure geometriche. Uno potrebbe, dopotutto, 'definire' un cerchio come figura piana chiusa con un solo lato a curvatura uniforme, ma non convenzionale farlo. E nel caso di nomi fittizi e nomi vuoti come 'flogisto' e 'strega', quando si pensa erroneamente che abbiano un referente, non c' un significato pubblico a parte certe componenti concettuali tradizionali ed esplicite, descrizioni che si passano da persona a persona. Non c' altro di pubblico nel significato se non la concezione pubblica, che tra l'altro soggetta a oscillazioni. Babbo Natale ha acquisito il vestito rosso e le renne piuttosto avanti nella sua carriera, mentre al flogisto e alle streghe sono state attribuite diverse propriet diagnostiche nel corso del tempo e a seconda di chi li studiava. L'acqua e i cani, invece, li riconosciamo praticamente nello stesso modo in cui lo facevano gli antichi. Le descrizioni tradizionali associate ai nomi vuoti non riescono a raggiungere alcunch di reale, per cui non corrispondono a reali capacit di identificazione. Ma avere un concetto empirico,

avere pensieri sugli oggetti, propriet eccetera, comporta il possedere capacit di identificazione. Ne segue che i termini vuoti non esprimono concetti reali. Questo ci porta al nucleo esternista di questo capitolo sul significato. La tesi che il significato di un termine empirico consiste, in prima istanza, nel suo riferirsi a qualcosa, e solo in seconda istanza nei i modi che si hanno di identificare la cosa. Wittgenstein aveva ragione: il primo test per capire se intendiamo le stesse cose con le parole che usiamo l'accordo nei giudizi, ma l'accordo nei giudizi non prova nulla riguardo all'accordo sui metodi di identificazione che si usano per arrivare a tali giudizi. Chiaramente nulla nella testa o nella mente pu determinare, in s e per s, se le disposizioni che uno ha a reagire alle stimolazioni sensoriali con presunti pensieri di individui, propriet e generi reali manifestino vere capacit di identificazione oppure no. Analogamente, nulla nella testa determina se le disposizioni inferenziali esplicite che contribuiscono all'identificazione degli individui, generi e propriet stiano davvero facendo il loro lavoro. Ma se un pensiero presunto ha componenti concettuali esplicite, e se i concetti che formano le descrizioni impiegate da queste componenti non sono di per s vuoti, allora c' un senso, sia pure secondario, in cui anche un termine che esprime un pensiero vuoto pu avere un significato perch alcune componenti della sua concezione hanno significato. In effetti, se il termine pubblico, avr componenti concettuali che sono esplicite e tradizionali, essendo state tramandate da parlante a parlante: avr quindi una sorta di significato pubblico. Ma supponiamo che esista un concetto vuoto che ha solo componenti concettuali implicite, che non sia ancorato ad alcun termine non vuoto. Tale concetto non avrebbe maggior diritto di appartenere al regno dell'intenzionale e del semantico di quanto ne abbia uno starnuto. Sarebbe soltanto una strana reazione regolare a certe stimolazioni sensoriali, che risulta, presumibilmente, dalle operazioni scorrette di sistemi disegnati per designare concetti genuini, pensieri genuini, ma che hanno fallito nel compito. Un problema cruciale che ogni sostenitore dell'esternismo semantico dovrebbe cercare di risolvere come raccogliamo prove, attraverso l'esperienza, del fatto che i nostri concetti non siano vuoti, che siano ancorati esternamente a ci che oggettivamente reale. L'esternista ha l'obbligo di affiancare le tesi sull'ontologia del significato con una plausibile epistemologia dell'adeguatezza dei concetti empirici. Deve costruire un'epistemologia del significato che sostenga le sue tesi in filosofia della mente. Credo che si tratti di una questione urgente e tristemente trascurata nella letteratura sull'esternismo. L'epistemologia dei concetti, o del significato, il tema che tratto in Millikan (1984, cap. 18-19; Millikan 2000, cap. 7; Millikan 2004, cap. 19).

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