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ISTITUZIONI DI FILOSOFIA TEORETICA Prof.

. Mariani Programma: -Platone: Repubblica, 104e-118a Fedone, 74a-79a -Aristotele: Categorie, 1-5 Metafisica IV, 1-3, 7 -Cartesio: Meditazioni Metafisiche, prima e seconda meditazione -Hume: Ricerche sull'intelletto umano, parte I, sez. III-V, VII PLATONE La teoria centrale della filosofia di Platone la teoria del mondo delle idee. Vediamo di esaminare da vicino quali sono le caratteristiche proprie delle idee. In prima battuta le idee hanno la caratteristica di essere un paradigma delle cose che troviamo nel mondo e di cui abbiamo esperienza, con la differenza che mentre le cose del mondo sono esposte al divenire, e dunque sono imperfette, le idee sono eterne, immutabili e perfette. Le idee sono la modellizzazione delle caratteristiche delle cose del mondo dell'esperienze, caratteristiche che possiedono in maniera perfetta. Un buon esempio in questo senso pu essere rappresentato dal Simposio, dove si ricerca la bellezza nella sua forma perfetta partendo dalle cose sensibili risalendo fino all'idea di bellezza, forma perfetta che funge da modello di tutte le cose imperfettamente belle che sperimentiamo coi sensi. Dal fatto che nelle cose di questo mondo tutto quanto sia contraddittorio, Platone ricava l'esigenza di un modello perfetto di queste caratteristiche. Ad es. si chiede: che cosa giustifica il fatto che una persona sia giusta? Deve essere una causa che non pu essere imperfettamente giusta: l'idea di Giustizia. Alla base della epistemologia platonica sta dunque il rapporto tra il mondo dell'esperienza, conosciuto in maniera imperfetta attraverso i sensi, e il mondo delle idee, mondo delle pure forme perfette che si apprende attraverso l'intelletto. Da qui prende forma e si snoda quella DIALETTICA, che sar il nucleo centrale degli scritti platonici: da metodo socratico del domandare e del rispondere brevemente, diverr una specifica forma di fare filosofia che indaga i rapporti tra le cose di questo mondo e le idee, cos come i rapporti tra le idee stesse (cfr. i dialoghi Parmenide, Politico, Filebo, Sofista). I rapporti delle idee con la realt: -partecipazione (methexis): le cose particolari partecipano dell'idea corrispondente. -imitazione (mimesis): le entit naturali sono imitazioni delle idee corrispondenti. -comunanza (koinonia): analoga alla partecipazione. -presenza (parousia): presenza delle idee nelle cose. Le idee sono per-s (kath'autn), separate dal mondo dell'esperienza. Questo pone un problema riguardo al rapporto causale che le idee intratterrebbero con gli enti naturali, ed per questo che Platone introdurr la figura del Demiurgo nel Timeo, reale mediatore tra il mondo delle pure forme e il mondo del divenire naturale. Questo problema rappresentato in parte nel Parmenide:

Parmenide e Zenone dialogano con Socrate. Riguardo al rapporto di partecipazione Parmenide obietta: o ogni cosa partecipa delle idee nella sua interezza, oppure in una sua parte. Nel primo caso, se le cose partecipano delle idee nella loro totalit e le cose sono separate le une dalle altre, significa che l'idea corrispondente alle cose che di essa partecipano sar separata da s stessa. Questo presuppone due caratteristiche: a- l'autopredicazione: es., l'idea di grandezza uguale. b- non-identit: l'idea corrispondente a ci che si predica di una molteplicit di cose diversa da ci che si predica; es., se io predico la giustizia di una persona giusta, non posso identificare la giustizia con una persona giusta. L'autopredicazione, come si sar capito, costituisce un problema per tutte le idee, e in particolare per quelle di relazione, come l'idea di uguale (cfr. il Sofista). Tutti questi problemi emergeranno pi chiaramente al confronto con la critica mossa da Aristotele a Platone nel De Ideis e in Metafisica, I, 6, 9. FEDONE (74A-79A) Dialogo tra Socrate, Cebete e Simmia che avviene poco prima che Socrate beva la cicuta. Si discute della morte del corpo e dell'immortalit dell'anima: la filosofia, dice Socrate, esercizio di morte, progressiva liberazione dell'anima dalla prigione del corpo per arrivare a vedere (conoscere) il mondo delle idee. In questo dialogo, di alta levatura drammatica, non certo facile distinguere il reale messaggio filosofica di Platone dal contesto mitico in cui continuamente inserito (cfr. Menone). Al dubbio espresso da Cebete sulla difficolt di dimostrare e di persuadere la gente comune dell'idea espressa da Socrate riguardo all'immortalit dell'anima e all'esercizio filosofico, Socrate risponde che questa perfettamente dimostrabile e lo fa attraverso l'argomento dei contrari: tutte le cose si generano dal loro contrario e i vivi si generano dai morti. Ma questo discorso serve da pretesto per introdurre quello che uno dei cavalli di battaglia platonici di questi anni (390-385 a.C): la dottrina dell'anamnesi. La dottrina dell'anamnesi permette a Platone di collegare l'apriorismo della conoscenza con uno sfondo mitico-orfico che sostiene l'immortalit dell'anima. Ai dubbi espressi da Simmia a riguardo, Socrate risponde fondando la dottrina dell'anamnesi su quella delle Idee. Socrate facendo l'esempio del legno dimostra come l'uguale in s e l'uguale particolare non siano la stessa cosa: chi vede nel particolare qualcosa che associa ad un in-s, pur notando che rispetto a questo in-s esso difettoso, costui deve aver conosciuto prima l'in-s, dunque l'idea. In qualche modo, prima che i sensi si risveglino in noi, dobbiamo aver appreso l'idea di uguale ins. Ma, poich iniziamo ad usare i sensi appena nati, bisogna che questa idea noi l'abbiamo appresa prima di vivere. Una volta acquisite queste conoscenze, noi le abbiamo perdute, dimenticate, quando siamo nati, e le riacquistiamo attraverso il ricordo che in noi suscitato dai sensi. Ma per poter sostenere questo, dobbiamo pensare che la nostra anima sia esistita prima della nostra nascita, dal momento che non possiamo essere nati avendo gi conoscenza. Adesso rimane da dimostrare che l'anima continuer ad esistere anche dopo la nostra morte corporea, ma per farlo basta mettere insieme l'argomento dei contrari e quello per cui l'anima esiste prima che noi nasciamo: se l'anima esiste prima che noi nasciamo necessario che essa, quando viene in vita, si generi dalla morte, e di conseguenza essa continuer ad esistere anche dopo la morte dal momento che poi dovr ritornare ancora alla vita e rinascere. Cebete e Simmia invitano Socrate a continuare a persuaderli. Si arriva cos alla seconda dimostrazione dell'immortalit dell'anima. A che cosa si addice il dissiparsi? Ad una struttura composta. Una natura composta dunque soggetta al mutamento, mentre una non composta rimane sempre identica. La realt in s (l'uguale in s, il bello in s,ecc.) non soggetta a mutamento; la realt sensibile, percepibile attraverso i sensi, soggetta invece al divenire. C' dunque una differente struttura tra il mondo sensibile (visibile) e il mondo intelligibile (invisibile). Al primo corrisponde il corpo, al secondo l'anima. L'anima dunque affine all'incorruttibile, il corpo al corruttibile.

Questo breve testo ci ha calato nel centro della filosofia: apriorismo gnoseologico basato sulla dottrina dell'anamnesi e dell'immortalit dell'anima, strettamente connesse con la teoria delle idee; la distinzione tra un mondo sensibile e un mondo intelligibile, dove le idee sono forme pure e incorruttibili (es. l'idea di uguale non pu essere disuguale, come invece nel mondo sensibile dei legni uguali non lo sono mai perfettamente e appaiono sotto alcuni prospetti anche disuguali); un'epistemologia che pu basarsi solamente sulla conoscenza delle idee. Tutti questi temi stanno alla base del dialogo la Repubblica, dove partendo da tematiche di ordine etico-politico, si arriva a tematizzare quello che il quadro epistemologico della filosofia di Platone (libro VI-VII). REPUBBLICA (504E-518A) Socrate convinto che l'idea di Bene sia il fondamento dello stato ideale e che sia pertanto la conoscenza massima in cui devono cimentarsi i filosofi. L'argomentazione di Socrate sostiene la necessit di conoscere l'idea di bene per conoscere qualsiasi altra cosa. E' infatti inutile possedere una conoscenza se non sappiamo sfruttarla bene. L'idea di perfezione (telios) connessa all'idea di tlos, di scopo e di pienezza. Quindi nella nozione di qualunque idea presente la nozione di perfezione e quella di fine, strettamente connesse con l'idea di bene. Le idee per essere perfette devono partecipare dell'idea di bene. Non c' infatti alcun vantaggio ad avere alcun possesso se poi questo possesso non buono. Glaucone porta poi la discussione dal bene in generale al bene per l'uomo, che alcuni identificano con il piacere, mentre altri con l'intelligenza. Socrate critica i primi sostenendo che dire che il piacere il bene non adeguato perch non tutti i piaceri sono buoni; e critica i secondi sostenendo che l'intelligenza/scienza sempre relativa: confondere il bene con la scienza significa confondere l'oggetto con l'atteggiamento verso l'oggetto stesso. (Nel Filebo invece si sosterr una critica differente: il bene per l'uomo non pu essere n il piacere n la scienza, perch il bene deve essere perfetto e autosufficiente e n l'uno n l'altra lo sono: il piacere senza intelligenza e l'intelligenza senza piacere non esauriscono le aspirazioni umane verso il bene). A differenza delle altre cose, per quanto riguarda l'idea di bene noi non ci accontentiamo dell'apparenza (505D). Apparire giusti di certo cosa utile, ma l'uomo non si pu accontentare di ci che ha solo l'apparenza di essere buono. L'apparenza del buono non serve a nulla. Socrate dichiara, poi (506a), di non essere in grado di dare una definizione dell'idea di bene, cosa riguardo alla quale non ci si pu ritenere soddisfatti di dare un'opinione. Socrate ritiene che pu dire solamente a che cosa assomigli il bene (506 d-e): il Bene come il Sole (con questa similitudine Socrate tenta di spiegare non che cosa sia il Bene, ma come esso funzioni in relazione agli uomini). Cos come per vedere le cose c' bisogno della luce del sole, per pensare tutti gli intelligibili c' bisogno dell'idea di Bene. Il sole ci che produce la vista delle cose, ma non la vista stessa; produce la generazione delle cose, ma non le cose stesse. Allo stesso modo l'idea di Bene funziona per il mondo intelliggibile. L'idea di Bene sta all'intellezione come il Sole sta al vedere. Socrate sta dicendo che senza l'idea di Bene non possibile accedere alla conoscenza del mondo intelligibile; inoltre il Bene l'oggetto del noein e lo rende possibile. La similitudine continua (509b): cos come il Sole genera ma non generazione, causa la vista ma non la vista, l'idea di Bene determina il noein, l'essere stesso delle Idee, ma non a sua volta il noein o l'essere stesso delle Idee. Il Bene dunque superiore alla Verit, alla scienza e all'essere stesso. L'idea del Bene svolge dunque accanto alle altre idee la funzione di primus inter pares: uguale alle altre idee per status ontologico, ma supera verit, scienza, essere in dignit e potere. Socrate ha tenuti ben distinti il mondo intelligibile e il mondo sensibile. Questo gli permette di elaborare, attraverso la famosa metafora della retta (509d), una propria epistemologia che distingue l'ambito del sapere umano in quattro segmenti.

La retta viene divisa in due parti principale, quella del mondo visibile sulla quale domina il Sole, e quella del mondo intelligibile sulla quale domina l'idea di Bene. Ciascuna parte viene poi divisa in altri due segmenti: il mondo visibile (conoscenza sensibile o doxa) viene divisa in Immaginazione (eikasia, segmento pi ampio) e Credenza (pistis); il mondo intelligibile (conoscenza intellettuale o episteme) viene divisa in Dianoia (pensiero discorsivo, segmento pi lungo) e Noesis (la dialettica filosofica). La distinzione che viene tematizzata da Socrate tra Dianoia e Noesis richiede particolare attenzione: la dianoia comprende al proprio interno quei saperi che, come geometria e matematica, procedono in maniera ipotetica-deduttiva infra moenia da ipotesi; la Noesis (dialettica) parte s da dei postulati, necessari punti di appoggio, ma per arrivare ad un principio non pi ipotetico del Tutto(511B). La conoscenza matematica pertanto limitata perch non pu fare a meno dei postulati, delle dimostrazioni e della mediazione del sensibile. E' compito del dialettico trasformare i postulati, le ipotesi non dimostrate e date per vere, in dei principi, che servano come saldi cardini per cogliere la verit di ogni cosa. Si chiude cos il libro VI. Il libro VII si apre con la presentazione del famoso mito della Caverna. La condizione iniziale dei prigionieri nella caverna rappresenta la conoscenza delle realt sensibili (i prigionieri ritengono che il vero non possa essere niente altro che le ombre delle statuette artificiali). A questa condizione segue la conversione verso la luce e la visione delle realt intelligibili. Come spiega Socrate il significato del mito consiste nel fatto che l'idea di Bene il sommo principio ontologico (perch per dignit e per potenza supera l'essere delle altre idee), gnoseologico (perch irradia la luce che permette di conoscere gli altri enti intelligibili), normativo (in senso eticopolitico): questa metafora va adattata nel suo complesso a quanto si affermato in precedenza e cos questo luogo che ci appare alla vista, deve paragonarsi al luogo del carcere, e la luce del fuoco che brilla in esso alla forza del Sole. Se poi tu paragonassi l'ascesa verso l'alto e la contemplazione delle realt superne all'elevazione dell'anima al mondo intelligibile non mancheresti di sapere quello che il mio intendimento, dato che appunto questo che tu desideri conoscere; ma se poi esso sia vero iddio lo sa. Ad ogni buon conto, questa la mia opinione: nel mondo delle realt conoscibili l'Idea del Bene viene contemplata per ultima e con grande difficolt. Tuttavia, una volta che sia stata conosciuta non si pu fare a meno di dedurre, in primo luogo, che la causa universale di tutto ci che buono e bello e precisamente, nel mondo sensibile, essa genera la luce e il signore della luce, e in quanto intelligibile procura, in virt della sua posizione dominante, verit e intelligenza e, in secondo luogo, che ad essa deve guardare chi voglia avere una condotta ragionevole nella sfera pubblica e privata (517b-517d). Questo spiega il disagio del filosofo quando, una volta disceso dalla conoscenza della luminosit del mondo intelligibile, si confronta con l'oscurit dell'attuale situazione politica: egli colto da quello stesso disturbo che coglie la vista quando si passa da un posto molto illuminato ad uno molto buio. E' dunque necessario, nell'educazione, convertire l'anima dal divenire alla contemplazione del mondo intelligibile, fino a che non sia capace di pervenire alla contemplazione dell'essere e al fulgore supremo dell'essere (518c), l'idea di Bene. Esiste un'arte educativa per educare, convertire all'idea di Bene: quest'arte consiste nell'educazione dell'intelligenza.

ARISTOTELE Il problema centrale attorno a cui verte l'indagine teoretica di Aristotele consiste nel trovare - come in un certo senso cerca di fare anche Platone una dottrina ontologica che sia garante di un determinato ordinamento epistemologico. Inutile infatti ricordare che proprio dall'Accademia e dai problemi che entro le sue mura si discutevano il giovane Aristotele prende le mosse. Quando si ricerchi una dottrina dell'essere in Aristotele alla Metafisica che dobbiamo riferirci in prima battuta. In questo testo infatti si elabora quella scienza dell'essere in quanto essere, generale e massimamente universale che in maniera dialettica procede, distaccandosi definitivamente da Platone, che viene criticato in maniera potremmo dire definitiva (Metafisica, I, 6, 9). METAFISICA I In questo libro Aristotele presenta quelle che sono le pretese della scienza che egli intende spiegare: la sapienza in questione una scienza puramente teoretica, il cui contenuto elevatissimo (divino) e generale, conoscenza dei principi primi e delle cause (NB: nel libro IV si dir scienza dell'essere in quanto essere). Ogni scienza infatti possiede dei propri principi che non possono essere desunti da altre scienze..., fa uso di principi comuni a pi scienze e dei principi comuni a tutte le scienze. Questi principi valgono come assunti indimostrabili, che stabiliscono i confini (oroi) di ogni scienza. E' naturale che ogni scienza finir cos per avere uno status particolare. Ma in che cosa allora la Metafisica diversa, si emancipa dalle altre scienze e diventa massimamente universale e generale? Vedremo pi avanti, confrontandoci con i testi che per primi muovono una critica all'ontologia platonica e che sviluppano un modo dialettico di procedere (es. i Topici), che le radici di questa dottrina stanno in una maniera pluralistica di concepire l'essere (le categorie) a cui legato un metodo dialettico metascientifico e in grado di porsi i dovuti interrogativi di metodo e di merito sulle scienze particolari che si fondano su un proprio abito dimostrativo. Ma per vedere come si arriva ad una determinata conclusione dobbiamo prima vedere come Aristotele, in quel primo abbozzo di storia della filosofia che il primo libro della Metafisica, critichi l'ontologia platonica. Nell'esaminare, infatti, l'ordine delle cause reperite dai filosofi che lo hanno preceduto Aristotele si concentra sull'insufficienza della causalit formale che le idee di Platone pretenderebbero di avere (Metafisica, I, 6) e le difficolt e le aporie a cui tale dottrina va incontro (Metafisica, I, 9). E' legittimo pensare che queste parti si riferiscono ad un dibattito sorto all'interno dell'Accademia a cui Aristotele partecip con il proprio De Ideis, che qui probabilmente riprende. Gli interrogativi interni all'Accademia riguardavano l'origine logico-ontologica delle forme di vita e di pensiero ammesse sotto il titolo di idee (modalit della loro formazione) e la loro capacit di incidere sulla formazione di enti e di processi sensibili (modalit del loro operare). Aristotele ci riassume in maniera molto plausibile quello che era il nucleo originario della dottrina platonica delle idee e il dibattito che si era sviluppato all'interno dell'Accademia. Una configurazione pi matura di questa dottrina la vede articolata in tre parti: le idee: le forme pure intelligibili di cui partecipano le cose sensibili; gli enti matematici: intermedi tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile, immutabili ed eterni ma con pi esemplari per ogni tipo; l'Uno e la Diade grande-piccolo: principi a tutti sovraordinati, l'Uno causa formale delle Idee e la Diade grande-piccolo causa materiale o ricettacolo di ogni determinazione unitaria di ogni molteplice. Aristotele muove a questa dottrina delle obiezioni che possono essere distinte in due gruppi: a- argomenti con cui si rimprovera alla dottrina di Platone di essersi costituita da un nucleo dottrinario non all'altezza delle sue stesse ragioni, perch il suo modo di dar conto di enti che, pur

soggetti a mutamenti continui, si mostrano capaci di mantenere una loro identit non contingente n occasionale, stato quello di moltiplicare gli enti a cui diventa necessario riferirsi con una scelta che si rivelata gratuita, inutile, abusiva, suscettibile di implicazioni contraddittorie. b- argomenti con cui si sostiene il fallimento di quelle dottrine integrative (enti matematici intermedi, principi dell'Uno e della Diade grande-piccolo) con cui si tentato di colmare l'iniziale cesura tra la sfera del sensibile e la sfera dell'intelligibile stabilendo che, se non proprio i medesimi principi, quanto meno principi tra loro strutturalmente connessi interverrebbero nella costituzione di qual si voglia ente (corporeo o ideale). I temi di fondo di queste argomentazioni sono: il mondo delle Idee un inutile doppione del mondo sensibile le prove addotte dai platonici non dimostrano niente o portano a delle contraddizioni le idee non sono atte a restituire n a spiegare la realt sensibile; anche la dottrina degli enti matematici piena di contraddizioni interne assurda la dottrina platonica dell'innatismo delle idee Secondo Aristotele la dottrina platonica delle idee responsabile di un'inutile moltiplicazione degli enti che non riguarda solamente quelli che tra essi meritano di essere considerati enti (ovvero enti per s sussistenti), ma riguarda anche le loro propriet che non si prestano certamente ad essere pensate come enti per s sussistenti. In poche parole, si disposti ad ammettere l'idea di uomo-ins, ma non quella di bianco-in-s. Lo status di essenza per Aristotele non pu essere concesso a ci che in qualunque modo , ma solo a enti per s sussistenti (sostanze). Di essi soltanto lecito pensare che siano partecipi di una configurazione ideale dell'essere in grado di fungere da eterna garante di ci che sono. Le propriet per Aristotele sono solamente degli accidenti e non possono essere pensate come realt immutabili ed eterne. La contraddizione della dottrina platonica risulta dal fatto che se un'idea deve essere garante di un'identit inalienabile di ogni ente ad essa conforme non si possono ammettere idee di entit pensabili solo come propriet di qualcosa che esse stesse non sono (in quanto entit per s sussistenti). Aristotele poi distingue gli argomenti addotti dai platonici in inconcludenti e argomenti che, anche se presi per buoni, ci obbligano a conclusioni paradossali. Aristotele riconosce la validit degli argomenti desunti dalle scienze. Dall'argomento che fa leva invece sull'universalizzibilit del molteplice si genera la paradossale conseguenza che una loro configurazione ideale debbano avere anche gli oggetti concettualmente determinati dalle nostre negazioni. Dell'argomento che fa leva sul criterio che conferisce dignit universale a tutto ci che risulta in s stesso e per s stesso pensabile nasce la paradossale conseguenza di dover ammettere una configurazione ideale, una eterna ragione e identit anche di quegli enti che non sono pi. Alcune argomentazioni portano poi a dover ammettere delle idee anche per le relazioni (altra conseguenza paradossale). La dottrina dei principi poi incompatibile con quella delle idee: anche i principi devono essere idee (altrimenti non sarebbero intelligibili), e allora risultano l'una all'altra relativa (l'idea dell'Uno non pensabile senza le idee, e viceversa). Inoltre questo argomento platonico ha il difetto di far discendere la necessit della diade dall'impossibilit di pensare altrimenti quella relazione tra uno e molto che ci obbliga a riconoscere originaria e dunque ci obbliga ad ammettere che la logica secondo cui stiamo ragionando quella dei numeri (i numeri sono dunque anteriori alla diade) e il relativo anteriore all'uno e alla diade per s considerati. Un qual si voglia principio pensabile e formulabile solo attraverso un'idea, ed chiaro che l'idea non pu essere concepita come qualcosa di separato (al modo platonico), ma bisogna attribuirle una funzione da cui anche il principio dipende, cessando in questo modo di essere principio. Si vede chiaramente come Aristotele, sin dal De Ideis, fosse insoddisfatto della dottrina delle idee

e come ricercasse un'alternativa, dal momento che la dottrina platonica attribuiva il duplice status di enti per s sussistenti e di propriet riferibili ad una molteplicit di enti diversi. Questi due diversi tipi di realt Platone le aveva considerate cumulabili e l'una all'altra irriducibili. Aristotele ricerca dunque una nuova ontologia che a una tale distinzione costantemente obblighi come pre-condizione fondamentale per una scienza dei principi, come quella che Platone non ha saputo promuovere. Aristotele ha elaborato cos la convinzione che solo di realt per s sussistenti sia lecito chiedersi di che cosa possano essere principio e che cosa possa essere principio di ci che sono. Si apre cos la strada alla dottrina della Sostanza e delle Categorie, nucleo fondante della pluralistica ontologia aristotelica. Alla nozione di sostanza Aristotele affida il compito di evitare la fallacia ontologica in cui incorsa la filosofia platonica. Aristotele parla di sostanza in tre accezioni differenti: ousa: sostanza in quanto ente di cui si sta pensando che essendo per s sussistente possa contare su una propria non accidentale essenza (ci che fa s che un determinato ente sia in quanto tale). Tode t: questo qualcosa qui; sostanza quando la si sta pensando come qualcosa di univocamente determinato e pertanto di non ulteriormente determinabile, cio come una realt di cui molto pu essere predicato, ma sempre nei limiti di qualcosa che essa stessa per s stessa e che non pu essere pertanto predicato di realt diverse dalla sua. Ypokeimenon: sostrato; sostanza quando la si pensa come una realt la cui funzione logica non potrebbe mai essere se non quella del soggetto di una predicazione che la riguarda, e il cui status ontologico quello di sostrato. Generalmente, Aristotele con il termine di sostanza si riferisce all'individuo, ente per s sussistente e da ogni altro separabile e distinguibile (Metafisica, VII). Nei testi dell'Organon (in particolare negli Analitici Primi) tali prerogative si possono attribuire ai sinoli, mentre nella Metafisica tali prerogative vengono attribuite ad un ente per s sussistente che si presenti alla maniera di una forma. Quest'ultima ovviamente una condizione preliminare per poter ammettere l'esistenza di sostanze non sensibili, ovvero quegli enti massimamente universali alla cui conoscenza tende la filosofia prima esposta in questo trattato. Nel contesto degli scritti logici prevale la sostanza intesa come ypokeimenon o tode t in quanto prevale l'interesse per la funzione logica attribuibile alla sostanza; dal libro settimo della Metafisica prevale l'accezione di sostanza come ousa, proprio perch in questo contesto l'interesse verte su ci che in ogni sostanza pu essere considerato causa primaria del suo essere sostanza: la forma. Ma le forme di cui parla Aristotele non sono, al modo platonico, modelli o paradigmi a cui gli enti si uniformano, ma forme di esistenza e coincidono in tutto e per tutto col modo di essere di un ente che gli consente di essere quel che effettivamente (genere e specie). Infine Platone non riuscito a dare tramite le idee una spiegazione causale di ci che muta, e che sia in grado di dare conto di una forma di esistenza quale che sia. Aristotele intende qui causa come: a) stato che non potrebbe darsi senza che stati non altrimenti possibili n pensabili si diano; b) nessuna spiegazione di tipo causale pu essere raggiunta se e finch di una molteplicit di cause, anche tipologicamente diverse, non si arrivi a tener conto. Si tira cos in ballo l'ipotesi di cause prime, di differente genere e tipo. Una tale ipotesi implica anche la tesi di una molteplicit delle cause che dovremmo supporre congiuntamente operanti e appartenenti a generi diversi, ciascuno dei quali finito. Una tale dottrina delle cause che prevede quattro serie tipologicamente diversi di cause operanti e l'una all'altra irriducibili trova spazio in un'ontologia disposta ad ammettere l'essere nella generalit delle sue forme e accezioni possibili. In questo ordinamento delle cause vediamo che la Metafisica presuppone, nell'impianto gnoseologico aristotelico che prevede la necessit di partire dalle realt conoscibili a noi pi vicine,

una Fisica. E' intenzione di Aristotele sviluppare questo sistema in maniera coerente. Per risultare compatibile con una nozione di sostanza che ci obbliga ad ammettere una pluralit di sostanze, e con una nozione di causa che ci obbliga ad ammettere una pluralit di cause, l'ontologia di Aristotele dovr essere garante di questo pluralismo. L'annuncio di un tale tipo di ontologia esplicito all'inizio del libro IV della Metafisica e rimanda alla dottrina delle categorie. CATEGORIE (1-5) Non si tratta di un trattato che possiamo pretendere unitario nella sua interezza. In esso, fra l'altro, il termine categoria compare solo cinque volte, e solo due di queste cinque indica quel che solitamente si intende, cio predicare (cosa che si dice di qualcos'altro). Nei primi tre capitoli si parla dei vari tipi di predicati, e solo nel cap.4 abbiamo una presentazione delle dieci categorie, con una sorta di approfondimento sulla sostanza nel cap.5. Il carattere del testo pu essere assimilato a quello di un dizionario filosofico (cfr. Metafisica, V). Cap. 1: si parla di omonimia, sinonimia e paronimia. Omonimi sono quelle cose che hanno solo il nome in comune, ma il discorso (definitorio) che ne esprime l'essenza (ti est?) differente. Aristotele fa l'esempio dell'uomo e del ritratto: uomo e ritratto sono omonimi perch hanno in comune il nome di animale (zon). Sinonimi sono invece quelle cose che hanno in comune sia il nome che il discorso definitorio: es. l'uomo e il bue hanno in comune il nome di animale definito nello stesso senso. La sinonimia non una relazione linguistica, ma di somiglianza di natura, e quindi pu riguardare solo le cose. Paronimi sono quelle cose che vengono chiamate in maniera derivata rispetto ad un'altra cosa: es. il grammatico dalla grammatica, il coraggioso dal coraggio. Anche in questo caso il segnale linguistico segnale di un rapporto ontologico. La relazione della paronimia univoca, a differenza di quella della sinonimia e dell'omonimia che biunivoca. Per Aristotele il linguaggio il veicolo attraverso cui penetriamo la struttura dell'essere (cfr. De Interpretatione, cap.2). Cap.2: Aristotele introduce la distinzione tra le cose dette in connessione (enunciati) e le cose dette senza connessione (termini). Vengono poi stabilite due tipi di relazione tra le cose che sono: l'essere-detto-di e l'essere-in. Ne deriva uno schema quadripartito: 1) Cose dette di che non sono in nulla: es. l'uomo 2) Cose che non sono dette di nulla, ma sono in qualcosa: es. questa grammatica; questo bianco 3) Ci che in ed detto di: es. il colore 4) Cose che non sono in nulla e non sono dette di nulla: es. Socrate (sostrati ultimi). (ricordiamo che la sostanza in questo testo intesa come ypokeimenon-sostrato, ovvero come ci di cui si predicano le cose e non predicato di altre). L'essere-in inteso nei seguenti modi: - essere come una parte materiale (es. mano del corpo) essere come una parte definitoria (animale e razionale di uomo) essere come un contenente in un contenuto essere come essere in un determinato luogo, tempo, ecc. Essere detto di: qualcosa detto di quando noi vi possiamo applicare il nome di ci che predichiamo. Es. possiamo dire che la bianchezza detta del corpo (essere detto di) e che il corpo in relazione con la bianchezza (essere-in). Il corpo, infatti, non pu essere detto bianco indipendentemente dalla bianchezza. Ogni oggetto che sia indivisibile e numericamente uno non si pu dire di alcun sostrato. La nozione di numericamente uno riguarda sia gli oggetti compresi in 4) sia gli oggetti compresi in 2).

Cap.3: Aristotele affronta la nozione di essere-detto-di nei termini di una relazione transitiva: quando un termine sia predicato di un altro termine, inteso come sostrato, allora tutto ci che viene detto del predicato sar detto altres del sostrato. Se la nozione di uomo viene predicata di Socrate, e la nozione di animale predicata di quella di uomo, la nozione di animale sar predicata altres di quella di Socrate. E' necessario soffermarsi un attimo su quella che la nozione di definizione per Aristotele, che intende la ricerca scientifica come ricerca della definizione corretta. Questa verr dunque affrontata nei diversi ambiti: logica (Topici, libro IV) attorno a quali sono gli argomenti adatti per costruire una definizione e quali per distruggerla; metafisica attorno all'essenza; scientifico attorno alla nozione di genere prossimo e differenza specifica (Analitici Posteriori libro II e De Partibus Animalium libro I). Il genere prossimo il genere dalla cui divisione risulta ci che noi andiamo a definire. La propriet in base alla quale abbiamo fatto l'ultima divisione la differenza specifica. La specie si ottiene quando non pi possibile procedere in ulteriori divisioni (NB questa parte essendo stata dettata da Mariani esposta in una maniera logica-calcolistica, che non pu essere coerente con l'approccio adottato sino ad adesso, ma tant'...). Tra il genere e la specie ci sono i generi intermedi (es. Animale Terrestre Bipede Implume Razionale : Uomo). La differenza specifica permette di dividere il genere in gruppi pi piccoli che hanno delle caratteristiche comuni. La definizione deve rispondere in maniera completa alla domanda ti est? Indicando la specie, il genere e la differenza specifica (es. che cos' l'uomo? Razionale). La formula riassuntiva della procedura definitoria appena esposta il to ti n einai (essenza) Cap.4: troviamo l'esposizione delle dieci categorie. Sostanza, quantit, qualit, relazione, luogo, tempo, essere in una situazione, avere, agire, patire. Noi parliamo di categorie, ma dal momento che le categorie sono predicati, sarebbe meglio parlare di generi di predicati. E' evidente il riferimento alle tematiche del Platone maturo che erano sicuramente centrali nel dibattito interno all'Accademia: a differenza che per Platone, per Aristotele non possibile ricondurre l'intero mondo degli esistenti ad un solo genere sommo e non possibile trovare nemmeno una differenza specifica dell'essere in quanto essere. Le categorie in questo senso possono essere intese come quelle divisioni dell'essere che sono gi sufficientemente determinate in base alle proprie differenze. Cap.5: la sostanza in senso principe l'individuo. Sostanze seconde sono la specie e poi il genere. Infatti la sostanza come individuo non pu essere detto di niente e non pu esser detto essere in niente. All'infuori delle sostanze prime tutti gli altri oggetti o si dicono di sostrati, e allora si dicono di sostanze prime, oppure sono in sostrati, ed allora sono in sostanze prime. Tra le sostanze seconde la specie sostanza in maggior misura del genere, dal momento che si approssima di pi alla sostanza prima. Le sostanze prime sono dette sostanze in massimo grado perch stanno alla base di tutti gli altri oggetti: tutti gli altri oggetti o si dicono di esse o sono in esse. Cos come le sostanze prime si comportano in relazione agli altri oggetti, la specie si comporta in relazione al genere. La specie, infatti, un sostrato del genere, dato che i generi si predicano delle specie, mentre le specie non si predicano inversamente dei generi. In seguito si specifica che, a differenza delle sostanze seconde, tra le sostanze prime nessuna sostanza in misura maggiore dell'altra. Altri predicati che non rivelano le sostanze prime, non sono sostanze ma altre categorie. Ogni sostanza non in alcun sostrato: le sostanze prime non si dicono di alcun sostrato n sono in alcun sostrato, le sostanze seconde si dicono di un sostrato ma non sono in alcun sostrato. Questi non sono caratteri propri unicamente delle sostanze, ma anche le differenze non sono in alcun sostrato, ma si dicono di un sostrato. Inoltre tutte le predicazioni che derivano dalle sostanze

seconde e dalle differenze vengono attribuite tutte quante in forma sinonima. Tutte le predicazioni che derivano dalle sostanze seconde e dalle differenze sono attribuite, infatti, o agli oggetti indivisibili o alle specie. Pare, dice Aristotele, che ogni sostanza debba esprimere un oggetto immediato; cosa che certamente vera per le sostanze prime, ma solo apparentemente vera per le sostanze seconde, che non si predicano di un oggetto numericamente uno e indivisibile, ma di molti oggetti insieme e determinano la qualit riguardante la sostanza, dal momento che esprimono una sostanza che ha una certa qualit. Altra caratteristiche delle sostanze (ma non loro specifica, dal momento che propria anche della quantit) quella di non avere alcun contrario. La sostanza non pu, poi, certo esser suscettibile di una misura maggiore o minore. D'altra parte la sostanza fatta per accogliere i contrari, pur possedendo unit ed identit numerica; ad es. un determinato uomo, pur essendo uno solo e medesimo, pu diventare ora chiaro ora scuro, ora caldo ora freddo, ora dappoco ora eccellente. E' in effetti il divenire delle sostanze che permette il fatto che loro accolgano i contrari. Alcuni sostengono che anche l'espressione discorsiva possa accogliere i contrari, ma questo non assolutamente vero, perch i contrari sono accolti dalle sostanze che l'espressione discorsiva esprime. L'espressione discorsiva si dice ora vera ora falsa a seconda che l'oggetto sussista o non sussista, e non perch essa sia costituita per accogliere i contrari (come la sostanza). In realt, l'espressione e l'opinione non sono modificate da nulla e, quindi, non potranno accogliere i contrari, non verificandosi in esse alcuna affezione. Quindi un carattere peculiare della sostanza risulter l'esser costituita, pur essendo numericamente una e identica, per accogliere i contrari mediante una propria trasformazione. Ritrovata la presentazione delle Categorie nell'Organon concentriamoci adesso sull'ontologia pluralistica promossa da Aristotele, un Aristotele che, come gi detto, non concepisce ormai pi la sostanza solamente come corporea, come sinolo di forma e materia, ma come pura forma senza cadere nelle contraddizioni dell'ontologia platonica. Il manifesto di questa nuova ontologia senza dubbio alcuno l'incipit del libro IV della Metafisica. METAFISICA (cap. 1-3, 7) Cap.1:la sopha di cui Aristotele sta parlando in questo trattato viene identificata con la scienza dell'essere in quanto essere, e in quanto tale la pi elevata di tutte le scienze particolari che considerano solo determinate maniere di darsi dell'essere, e non l'essere nella sua universalit. Le cause e i principi, del cui riperimento questa scienza si deve assumere il compito, sono dunque le cause e i principi dell'essere in quanto essere. Cap.2: ma che cos' l'essere? L'essere si d in una molteplicit di significati, tutti per implicanti in maniera unitaria un significato principale: quello di sostanza. Il filosofo dovr dunque indagare tutti i significati dell'essere, ma sopratutto quello di sostanza, la serie delle cause e i suoi principi. Bisogna considerare l'essere nella sua pluralit di significati, ma allo stesso tempo necessario farlo nel suo significato unitario. Del resto essere e uno si implicano l'un l'altro e quante sono le specie di essere tante sono le specie di uno. Nell'uno, inoltre, sono presenti le nozioni di identico, simile, diverso, dissimile, ecc. Anche di queste nozioni la sopha in questione dovr farsi carico. La filosofia si divide in parti, ciascuna delle quali studia le diverse sostanze: una filosofia prima studier un determinato tipo di sostanze (sostanza soprasensibili), una filosofia seconda un'altro tipo (sostanze sensibili). Infine, alla filosofia compete lo studio dei contrari, e dunque del contrario dell'uno il molteplice e delle altre nozioni in esso implicite. Cap.3: alla filosofia spetta poi anche lo studio degli assiomi e dei principi di dimostrazione. Gli

assiomi, infatti, valgono per tutti quanti gli esseri, e dunque sono di competenza della scienza che prende in considerazione l'essere in quanto essere. Il principale di questi principi il principio di non contraddizione, che recita: impossibile che uno stesso attributo appartenga e non appartenga , allo stesso tempo, alla stessa cosa. A questo principio tutti si rifanno quando dimostrano qualcosa. Un determinato principio non pu essere dimostrato direttamente, ma solo indirettamente per via di confutazione (cap. 4). Segue poi la confutazione di ogni posizione sofistica di relativismo, e in particolare di quello protagoreo (cap. 5-6). Cap. 7: strettamente legato al principio di non contraddizione il principio del terzo escluso, che recita: fra due termini contraddittori non pu esserci un termine medio. Aristotele fornisce sette argomentazioni a difesa del principio. Coloro che lo hanno negato lo hanno fatto o perch sono rimasti impigliati in alcune argomentazioni eristiche, oppure perch vogliono cercare una ragione di tutto. A tutti si pu rispondere, per via di confutazione, semplicemente costringendoli a dare un significato alle parole che usano. Aristotele confuta, perci, Eraclito che, dicendo che tutte le cose sono e non sono, fa essere tutte le cose vere, e Anassagora che, ammettendo un termine medio fra i contraddittori, fa essere tutto falso. Il IV libro si conclude con la confutazione di tutte le tesi estremistiche di coloro che sostengono che tutto vero e di coloro che sostengono che tutto falso. Sono importanti da prendere in considerazione gli spunti che Aristotele ci fornisce al cap.1 e al cap.2, dove si allude a una ontologia pluralistica che deve risultare compatibile con una comprensione unitaria dell'essere. Un'affermazione come l'essere si regge su molti significati possibili ha alla base la dottrina delle categorie. Aristotele prende gli spunti per questa sua dottrina nel periodo dell'Accademia (367-347), quando Platone e i suoi discepoli stavano riflettendo attorno a problematiche di natura dialettica. La dialettica si pone il problema di stabilire un'identit per ogni ente, conforme con l'assunzione di un tutto ordinato. Questa ricerca delle definizioni resa possibile dal duplice modo di procedere dato dalla synagogh (che coniuga) e dalla diairesis (che distingue). Questo permette di includere un ente all'interno di uno spazio logico pi ampio (genere), e poi all'interno di uno spazio logico meno ampio e generale (specie). Il fascino di questo modo dialettico di procedere sta tutto nella sua pretesa di collocare ogni oggetto-ente in quel modo definito, all'interno di una struttura gerarchica in grado di assegnargli uno luogo logico-ontologico tutto e unicamente suo, e dunque tale da garantirgli un'identit compatibile con quella di ogni altro. Aristotele attiva questa riflessione nei vecchi libri centrali dei Topici (libri II e IV), dove si colgono i limiti dell'unico schema a cui Platone si era affidato nello studio dei predicati, che si basava su una minore o maggiore generalit del predicato con cui intendiamo definire un ente. A Platone bastava stabilire un ordine gerarchico tra le idee e tra i predicati (es. si pu dire l'uomo un animale, ma non l'animale un uomo). Ma questo criterio non concede niente al differente status ontologico degli enti considerati. Parole come uomo e animale non sono idee platoniche, che gi in origine sono portatrici di ogni loro possibile significato, ma sono concetti, cio costruzioni logiche con cui ci consentito di riferirci ad ordini di realt tra loro statutariamente differenti e che, solo riferendole a queste differenti realt, acquistano l'uno o l'altro dei loro significati. La scoperta pi importante di Aristotele fu che il modo con cui arriviamo a dire che Socrate uomo strutturalmente diverso dal modo con cui arriviamo a dire che Socrate bianco, perch uomo e bianco rappresentano due modi diversi di riferirsi all'ente in questione, cio due diversi generi di predicazione. Uomo riferibile a Socrate solo all'interno di un genere di predicazione che miri a stabilire l'essenza di Socrate, bianco, invece, la qualit, e cos via. Nei Topici (IV, 1, 120b, 36-39) troviamo la prima formulazione della dottrina delle categorie, che solo a tre di esse si riferisce: sostanza, relazione, qualit. Ma gi nel libro I dei Topici (pi tardo del quarto) le categorie sono dieci: sostanza, quantit, qualit, relazione, luogo, tempo, stare, avere, fare, patire (Top., I, 9, 103b, 21-23). la dottrina delle categorie ha un senso ontologico. Essa rappresenta la dottrina del nostro modo di

riferirsi ai possibili oggetti di una conoscenza qualsiasi a cui si perviene mettendo tra parentesi le diversit di ordine empirico pretende infatti di valere per ogni tipo di ente, senza per considerarli ontologicamente uguali in qualsiasi caso -. Tale dottrina infatti un modo per rimarcare differenze di ordine ontologico, e ci invita a considerare i diversi enti non in base a ci che sono, ma in base al loro modo di essere nei limiti in cui lo sono. La dottrina delle categorie ha non di meno una valenza epistemologica e metodologica, in quanto dottrina nata sul terreno della dialettica e destinata a disciplinare il nostro modo di servirci dei predicati riferibili ad un ente per una conoscenza quale che sia. Ma quale tipo di sapere una tale disciplina si presta a promuovere e regolamentare? Senza dubbio non si tratta delle scienze particolari, possibili solo a partire da definizioni (assiomi). Questa disciplina, infatti, non si presta a stabilire le propriet dei singoli oggetti, ma idonea a stabilire se l'uno o l'altro modo di riferirsi ad essi sia un modo corretto di attribuire loro le propriet che stiamo loro attribuendo. Una dottrina del genere non dovrebbe proporci un sapere disposto a procedere in maniera dialettica e non in maniera assiomatica. Infatti, da un modello epistemologico pu essere mantenuta l'irriducibile molteplicit dell'essere e dei suoi oggetti causali e categoriali. Le differenze tra il modello epistemologico assiomatico e quello dialettico sono esposte da Aristotele negli Analitici Primi, laddove si parla dei diversi tipi di sillogismi: perfetto, imperfetto e dialettico. Il sillogismo perfetto, immediatamente evidente, quello che sta alla base del metodo dimostrativo del modello epistemologico assiomatico; quello imperfetto, quel tipo d sillogismo le cui premesse non contengono tutto ci che necessario ammettere perch il sillogismo sia immediatamente evidente; il sillogismo dialettico quello che piuttosto che partire da assiomi o definizioni, parte da endoxa (opinioni fortemente radicate nel senso comune). Il sillogismo imperfetto si distingue dal perfetto per la sua minore idoneit a raggiungere l'obiettivo di una dimostrazione dal momento che non parte da un quadro definitorio completo e dimostrato. Ma se la questione dell'ammissibilit di una definizione pu ritenersi risolta quando risulta accertata la sua compatibilit con le regole di una corretta predicazione, ecco allora profilarsi un sapere di tipo dialettico che si rivela come una capacit discorsiva atta a verificare la capacit di tenuta, la validit di un determinato contesto assertorio confrontandolo con ognuna delle sue possibili configurazioni. E' quindi un sapere pi grande e pi elevato rispetto a quelli che sta mettendo alla prova. Ma due sono i livelli di formazione delle nostre pratiche discorsive in cui solo in maniera dialettica ci consentito procedere: a) visione del mondo pre-scientifica: ad esprimerla sono opinioni correnti (endoxa) che possibile riconoscere incorporate nei linguaggi di cui ordinariamente ci serviamo; b) possibilit di un sapere meta-scientifico: questo sapere si impegna a tener conto dei presupposti, degli esiti e dei diversi modi di circoscrivere l'orizzonte delle diverse scienze, e tenta di porvi rimedio quando necessario. Proprio a questo, nell'originaria intenzione di Aristotele, sarebbe servita la scienza dell'essere in quanto essere: a promuovere un sapere che fosse in grado di promuovere una verifica dialettica delle opinioni correnti e delle discipline scientifiche che descrivono gli orizzonti del nostro sapere. E a questo intento Aristotele rimasto fedele fino a che non ha tradito i presupposti della sua ontologia pluralistica, cio fino al libro XII della Metafisica. A conferma di questa tesi possiamo sostenere che in effetti il tessuto argomentativo che percorre l'intera Metafisica dal libro I all'XI di tipo dialettico. Dialettico, nel senso che muove da opinioni comuni e che sembra porsi l'obiettivo di verificare la capacit di tenuta delle scienze particolari intendendo inserirle in un contesto sistematico che abbia, in maniera coerente, una valenza universale e sistematica. Esempio illuminanti di questo approccio sono le quindici aporie del libro III, nelle quali si tenta la definizione dell'orizzonte problematico della sopha in questione indicando per ciascuna di esse quale si debba evitare; gli argomenti del libro IV a sostegno della validit universale del principio di non contraddizione e di quello del terzo escluso; l'elenco delle trenta nozioni del libro V.

In questi confini, cio nei confini di un sapere che deve costituirsi procedendo in maniera dialettica, verificando in maniera dialettica le verit proprie di ogni altro sapere, si inscrivono i riferimenti che troviamo nel libro VI (VI, 1, 1026a, 10-15), VII (VII, 2, 1028b, 28-30) e XI (XI, 7, 1064a, 29-32). In questi luoghi si constatano i limiti della fisica e della matematica e la loro differenza rispetto al nuovo tipo di sapere teoretico qui promosso, il cui oggetto quello di una sostanza separata e immobile, la cui esistenza non potrebbe essere ammessa se non ammettendo che tutte le altre sostanze la stanno presupponendo quale loro eterno principio. All'esame di questa Aristotele annuncia di dar spazio, ma assumendolo (cos sembra) a titolo di endoxa: essa deve, cio, essere esaminata e accolta all'interno della prospettiva sistematica dell'ontologia pluralistica che va definendosi. Ma improvvisamente la prospettiva si capovolge: con il XII libro avviene il passaggio da un'ontologia pluralistica a un'ontoteologia. Chiediamoci a questo punto se sia il caso di condividere una tesi, come quella di Giovanni Reale, che sostiene che al riconoscimento di una sostanza immateriale in grado di fungere da principio unico ed esaustivo di ogni forma di esistenza possibile, l'ontologia aristotelica abbia in ogni suo momento e a ogni suo livello costantemente mirato. In base alle tesi sviluppate nella nostra analisi sembrerebbe che l'accettazione di una simile tesi non sarebbe possibile. Nell'ontoteologia, infatti, Aristotele avvia un uso meta-empirico del concetto di sostanza (ampliamento delle sue accezioni possibili, che privilegia solamente le sostanze immateriali, il cui status sarebbe quello di una forma di intelligenza in atto), e un uso meta-empirico del concetto di causa che comporta la caduta in itinere esso aveva all'interno dell'ontologia pluralistica definita dai primi undici libri: l'unico principio divino sembrerebbe, infatti, essere causa efficiente e finale, ma non causa formale e materiale (questa la tesi di Barale, sulla quale nutro dei dubbi: il principio divino, infatti, non sicuramente causa materiale, ma perch non pu essere causa formale?). Sar interesse dei filosofi medievali la rilettura che descrive questo tentativo aristotelico come una ontoteologia che si muove ad ogni livello. Il divino giudaico-cristiano non si limita, per, ad essere principio motore, ma anche principio creatore; non si limita al puro intelletto, ma anche capace di volont ed amore. Ma una determinata struttura concettuale non poteva essere interamente soddisfatta dalla filosofia aristotelica. Infatti, alle spalle della dottrina delle categorie (dieci, l'una irriducibile all'altra) vi sta una logica, alle spalle della dottrina dei quattro generi di cause l'uno all'altro irriducibili vi sta una fisica. Il proseguimento storico della dottrina della categorie lo ritroviamo nei Trascendentalia scolastici. Ma questa un'altra storia, che in questa sede non ci interessa.

CARTESIO Cartesio comunemente inteso come l'autore della svolta filosofica che caratterizza l'et moderna, ovvero il problema della conoscenza inteso come ricerca della fonte della verit delle nostre conoscenze. Questo problema senza dubbio assente in Aristotele che abbiamo visto fonda le diverse scienze sulla sua concezione ontologica: le scienze particolari si occupano di diverse regioni dell'essere (utilizzando un lessico scolastico). Nelle Meditazioni viene posto il problema sulla possibilit della conoscenza, che parte dal dubbio, trova il proprio cardine nel cogito e, considerando Dio come garante del rapporto soggetto-mondo, elabora un metodo che adotta come criteri la certezza e l'evidenza. PRIMA MEDITAZIONE Delle cose che si possono revocare dal dubbio Cartesio gi da tempo si reso conto di quante cose false stato costretto a prendere per vere. In questo senso pesa notevolmente l'educazione collegiale di stampo scolastico che ha ricevuto e che sin dagli anni giovanili critica aspramente (cfr. Le regole per la guida dell'intelletto umano). Cartesio scettico nei confronti delle opinioni ricevute durante la sua educazione, perch vede che ad un esame pi approfondito queste conoscenze sono incerte e non fondate propriamente. Il nostro filosofo non vuol certo dimostrare che tutte le opinioni e le conoscenze tramandate siano false, ma solamente che non sono certe e fondate in maniera evidente. Detto con il linguaggio scettico: se non ci sono argomenti a favore di A o di non-A consigliabile sospendere momentaneamente il giudizio. Questo atteggiamento di Cartesio lo si spiega bene alla luce della prima regola del metodo esposto nel Discorso del Metodo, che precede le Meditazioni di qualche anno: non accettare per vero nulla che per noi non sia chiaro e distinto. Qualunque principio che possa essere messo in dubbio non chiaro e distinto. Del resto solo da una simile posizione che, attraverso l'esercizio del dubbio, colga le cose che appaiono in maniera chiara e distinta possibile arrivare alla fondazione di una scienza. Tutto quello che finora Cartesio ha accolto lo ha ricavato dai sensi, i quali per molte volte ci ingannano e non possono essere i cardini di una conoscenza quale che sia. Ci sono per alcune cose di cui apparentemente sembra impossibile dubitare, a meno che non si sia pazzi, ad esempio che ora sono qui, che siedo accanto al fuoco, che indosso un abito invernale, che tocco questa carta con le mani, e simili(pag. 149). Ma quante volte sognando ci siamo ingannati riguardo alla certezza sensibile del nostro corpo. Per quanto riguarda la certezza sensibile, dunque, non possibile distinguere la veglia dal sogno perch anche mentre sogniamo abbiamo una sensazione forte del nostro corpo. Si potrebbe distinguere la veglia dal sogno basandosi sulla nitidezza della prima distinta dalla opacit del secondo, ma questa distinzione si basa sul criterio dell'evidenza che valido solo matematicamente e non posso usarlo fino a che non mi sar liberato dal dubbio. In questo modo Cartesio ha messo fuori dai giochi ogni forma di conoscenza che derivi dai sensi. Si tratta infatti di un tipo di conoscenza che si basa sull'esame di oggetti composti e non di oggetti semplici come gli oggetti della conoscenza matematica e geometrica. Infatti io posso pur sognare o esser desto, ma in nessun caso posso dubitare che due pi tre faccia cinque. Ma se fosse un Dio, un genio maligno che tutto pu, ad ingannarmi? Come posso escludere questo dubbio? Il dubbio si estende cos all'infinito e si configura come dubbio iperbolico: penser che il cielo, l'aria, la terra, i colori, le figure, i suoni, e tutte le cose esterne non siano altro che inganni dei sogni, con cui egli ha teso insidie alla mia credulit: considerer di essere senza mani, senza occhi, senza carne, senza sangue, senza alcun senso, e di ritenere erroneamente di avere tutte queste cose: rester ostinatamente attaccato a questo pensiero, e cos, anche se non sar in mio potere conoscere

qualcosa di vero, il che certamente sta a me, mi guarder con animo risoluto, dal dare l'assenso a cose false, affinch questo ingannatore, per quanto potente, per quanto astuto, non possa darmi ad intendere nulla (pag. 157-159). Cos si conclude la prima meditazione. Riguardo al dubbio elaborato da Cartesio nelle sue Meditazioni si sviluppato un dibattito nella contemporaneit, che ha coinvolto principalmente Foucault e Derrida. Il tutto parte con Storia della Follia di Foucault, dove l'autore sostiene che Cartesio nelle Meditazioni riduce la follia al totale silenzio. Secondo Foucault, Cartesio metterebbe la follia accanto al sogno e a tutte le altre forme di errore, ma mentre di queste ultime si libera attraverso la garanzia dell'evidenza delle verit universale, per la follia la garanzia ricercata nella posizione del soggetto pensante e dipende dal fatto che io che penso non posso essere folle. Scrive perci Foucault: se l'uomo pu sempre essere folle, il pensiero, come l'esercizio della sovranit da parte di un soggetto che si accinge a percepire il vero, non pu essere insensato. Il soggetto cartesiano pu conquistare la certezza semplicemente perch sa che la follia non lo riguarda. Derrida rispose con una dura critica a questa posizione presa da Foucault con Cogito e storia della follia (in La scrittura e la differenza). Attraverso una minuziosa analisi del testo cartesiano, Derrida sostiene che la follia non viene esclusa dal dubbio cartesiano, ma anzi rimane permanentemente quando Cartesio, attraverso l'ipotesi del demone maligno e la configurazione del dubbio iperbolico, convoca la possibilit della follia al centro dell'esperienza filosofica. Se il pensiero non teme pi la follia non perch questa stata bandita, ma perch la certezza garantita nei limiti della follia stessa. Il principio del cogito ergo sum vale, secondo Derrida, anche se io sono folle. Foucault rispose a sua volta ne le Meditazioni, dove, procedendo con una lettura meticolosa del testo di Descartes, sostiene che ci che interessa Cartesio sia la costituzione del soggetto filosofico che si definisce, come colui che ha il diritto di pensare e di comunicare, nella sua differenza dall'uomo folle. MEDITAZIONE SECONDA Della natura dell'anima umana: come essa sia pi facile a conoscersi del corpo. Una volta esteso il dubbio iperbolico all'infinito che cosa sar vero? Solamente il fatto che non c' nulla di certo. Ma la convinzione stessa che niente esiste che porta il soggetto alla consapevolezza della propria esistenza, se non altro dell'esistenza della propria mente. E mi inganni pure quanto pu, non riuscir tuttavia mai a far s che io sia nulla, fintanto che penser di essere qualcosa. Cos, dunque, dopo avervi parecchio riflettuto, si deve ritenere con sicurezza che questa affermazione, io sono, io esisto, necessariamente vera, ogni volta che la pronuncio, o la mente la concepisce (pag.163). Siamo arrivati a stabilire che un io esiste, ma che cos' questo io? Certamente un uomo, dice Cartesio. Ma di questo uomo bisogna dubitare prima di tutto della componente corporea, che legata all'ambito sensoriale dal quale non ancora stato eliminato il dubbio. L'unica cosa che rimane al soggetto non altro che il pensiero, le cui radici risiedono nell'anima. Dunque l'io esiste in prima battuta come cosa pensante (res cogitans). Ma che cosa una res cogitans? Una cosa che dubita, che intende, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente (pag.169). Cos come nel Discorso sul Metodo, il soggetto, passando attraverso l'esperienza del dubbio, fonda la propria esistenza percependo s stesso come sostanza che, in prima battuta, semplicemente pensante. Adesso Cartesio passa alla considerazione delle cose corporee, per capire come e se possibile comprenderle. Segue il famoso esempio del pezzo di cera: ad un primo esame esso appare ai nostri sensi in un certo modo, ma se lo si avvicina al fuoco il pezzo di cera cambia e tutte quelle caratteristiche colte tramite i sensi che lo determinavano sono mutate. Quindi le caratteristiche colte tramite i sensi non erano in grado di farci comprendere che cosa realmente fosse il pezzo di cera. Ad un esame pi accurato esso non niente altro che qualcosa di

esteso, flessibile, mutevole. Ma che cosa questo mutevole? Secondo Cartesio niente che si possa cogliere tramite la facolt di immaginare. Solo la mente ci pu venire in aiuto per una comprensione chiara e distinta della cosa. Ad una esame pi accurato capiamo, dunque, che la cera non conosciuta da un vedere dell'occhio, ma dalla facolt di giudicare che si trova nella nostra anima. L'essenza della cera pu essere colta solamente quando la si consideri nuda, cosa che pu essere fatta unicamente con la nostra mente. La stessa cosa pu essere detta di me stesso, dice Cartesio: poich mi ora noto che gli stessi corpi non sono colti propriamente dai sensi, o dalla facolt di immaginare, ma dal solo intelletto, e che non sono colti per il fatto che vengono toccati o visti, ma per il fatto che sono concepiti, riconosco che nulla pu essere colto da me pi facilmente o pi evidentemente della mia mente.

HUME Hume insieme a Berkeley e Locke uno dei cosiddetti empiristi inglesi. Questi pensano che l'intelletto umano sia una sorta di tabula rasa, cio che non contenga idee innate (come, invece, sostiene la tradizione platonica e sopratutto quella cartesiana). Vengono ammesse solamente idee avventizie (semplici) e idee fittizie (complesse). Le idee avventizie sono semplici. Le idee semplici si dividono in quelle del senso interno (riflessione) e quelle del senso esterno (introspezione). Le idee complesse sono costruite a partire dagli elementi del senso esterno e del senso esterno. In ultima analisi tutte le nostre idee derivano dal senso esterno: senza sensazione non ci sarebbero idee. Se ne deduce quindi che l'empirismo inglese anti-intellettualistico. Nella parte che ci proponiamo di esaminare delle Ricerche di Hume, si inizia dicendo che ci sono tre tipi di connessioni di idee: somiglianza, contiguit nel tempo e nello spazio, causa-effetto. Hume assume che questi principi siano in qualche modo presenti come universali in tutti gli esseri umani. Ma qual il fondamento di questa di questa universalit? Sez.3: l'associazione delle idee. E' evidente che c' un principio di connessione tra i differenti pensieri o idee della mente che si presentano con una certa regolarit. Si trovato che anche nei popoli di lingue diverse principi di connessione uguali tra simili idee semplici. Ne possiamo ricavare che questi principi di connessione sono universali. A prescindere dagli sforzi fatti dagli altri filosofi, a Hume sembra che esistano solamente tre principi di connessione fra le idee: la somiglianza, la contiguit nel tempo e nello spazio, il nesso causa-effetto. Sez.4: dubbi scettici sulle operazioni dell'intelletto. Parte Prima. Tutti gli oggetti della ragione e della ricerca umana possono essere distinti in due specie: relazioni di idee e materia di fatto. Alla prima specie appartengono tutte le conoscenze ottenuta in maniera intuitiva e dimostrativa, e quindi anche le scienze quali matematica e geometria. Alle seconde appartengono degli oggetti la cui verit non pu essere dimostrata. Ad es. proposizioni quali il sole sorger domani. Ma questo tipo di proposizioni viene considerata una conoscenza certa dalla maggior parte delle persone (non solo nell'opinione comune, ma anche tra i filosofi). Hume interessato a indagare dove nella ragione si cela il fondamento di una tale certezza. Tutti i ragionamenti relativi a materie di fatto sembrano fondati sulla relazione di causa-effetto. Soltanto mediante questa relazione possiamo andare al di l della memoria e dei sensi. Dobbiamo dunque vedere su che cosa si fonda questa relazione causa-effetto. La conoscenza di questo tipo di relazioni non si consegue, secondo Hume, in alcun caso a priori, ma nasce interamente dall'esperienza nel momento in cui troviamo degli oggetti costantemente uniti tra loro. Possiamo

inoltre constatare che nessun oggetto manifesta, per mezzo delle qualit che appaiono ai sensi, n le cause che lo hanno prodotto, n gli effetti che gli seguiranno; n la ragione pu mai, senza l'aiuto dell'esperienza, trarre alcuna inferenza riguardante esistenze reali e materie di fatto. Perci cause ed effetti si possono scoprire non per mezzo della ragione, ma per mezzo dell'esperienza. La stessa verit non pu apparire a prima vista con lo stesso grado di certezza che appare dopo un'esperienza ripetuta e progressivamente assodata. Non dunque possibile conoscere l'effetto che deriva dalla supposta causa a priori, ma solamente dopo averne fatto esperienza. Altrimenti il nesso causa-effetto sarebbe posto in maniera arbitraria. Si conclude che ogni effetto un evento distinto dalla sua causa, dal momento che non aprioristicamente concepibile in essa. Si ammette che il massimo sforzo della ragione umana sia quello di ridurre i principi che producono i fenomeni della natura ad una maggiore semplicit, e di risolvere i molti effetti particolari in cause generali, per mezzo di ragionamenti desunti dall'analogia, dall'esperienza e dall'osservazione. Ma quanto alle cause generali, invano ci sforzeremo di scoprirle; n riusciremo mai a rimanere soddisfatti di qualche altra particolare spiegazione che le riguardi. Queste sorgenti ultime e i principi sono del tutto preclusi all'attenzione e alla ricerca umane. La pi perfetta filosofia della natura, perci, non fa altro che rinviare l'ignoranza e la debolezza della ragione umana un po' pi in l. Le leggi sono rinvenute nella natura unicamente grazie all'esperienza. Parte Seconda. In base alle cose dette sinora possiamo dire che la natura di tutti i ragionamenti riguardanti materie di fatto fondata sul nesso causa-effetto; il fondamento di tutti i ragionamenti e di tutte le conclusioni che concernono questa relazione l'esperienza. Adesso ci chiediamo: qual il fondamento di tutte le conclusioni derivate dall'esperienza? Hume dice di volersi limitare a dare una risposta solamente negativa: anche dopo che abbiamo esperienza delle operazioni di causa ed effetto, le conclusioni che ricaviamo da tale esperienza non sono fondate sul ragionamento o su qualche procedimento dell'intelletto. I sensi ci informano del colore, del peso e della solidit del pane, ma n i sensi, n la ragione ci possono informare di quella qualit che lo rende adatto al nutrimento e al sostentamento del nostro corpo. Ma nonostante questa ignoranza dei principi della natura, noi presumiamo ogni qual volta vediamo qualit sensibili simili, che esse abbiano anche poteri simili. Questo il processo della mente che Hume vuole indagare. L'esperienza passata ci d un informazione certa che valida per quello specifico oggetto in quel determinato momento, ma che cosa ci spinge ad estendere questa esperienza al futuro e ad altri oggetti. Ancora, ho trovato che quel determinato oggetto stato sempre seguito da quel determinato effetto, e prevedo che altri oggetti simili in apparenza saranno seguiti da effetti simili. Che cosa mi autorizza a compiere questa operazione? Le connessioni di quest'inferenza non sono fondate sul ragionamento e sull'intuizione. Ci vorrebbe un medio tra le due proposizione perch questo fosse un ragionamento fondata; ma il medio non c' e non possibile, secondo Hume, rinvenirne uno. Tutti i ragionamenti si possono dividere in due specie, cio in ragionamenti dimostrativi o concernenti relazioni tra idee, e ragionamenti morali concernenti materie di fatto e di esistenza. Pare evidente che nel caso preso in considerazione non ci sono argomenti dimostrativi, dal momento che non implica contraddizione che il corso della natura possa cambiare, o che un oggetto, apparentemente simili a quelli che abbiamo gi sperimentato, possa esser seguito da effetti differenti o contrari. Tutti gli argomenti riguardanti l'esistenza sono fondati sulla relazione causa-effetto; la conoscenza di questa relazione deriva completamente dall'esperienza; tutte le nostre conclusioni intorno all'esperienza si basano sul fatto che il futuro sar conforme al passato esperito. Perci cercare la prova di quest'ultima supposizione in argomenti probabili o in quelli relativi all'esperienza, muoversi in un circolo ed accettare come sicuro proprio quello che il punto in questione. Dal momento che gli argomenti tratti dall'esperienza sono fondati sulla somiglianza degli oggetti, da cause che ci appaiono simili ci attendiamo effetti simili: questa la somma di tutte le nostre conclusioni sull'esperienza. Con ulteriori esempi e prove la questione rimane sempre la stessa, anche se posta in termini diversi: su quale corso di argomentazione fondata questa inferenza? Dov' il medio, dove sono le idee interposte che congiungono proposizioni tanto distanti l'una

dall'altra? Dalle qualit sensibili del pane, infatti, non si pu ricavare la spiegazione delle sue propriet nutritive utili al nostro sostentamento. Se uno dice: ho trovato, in tutti i casi passati, queste qualit sensibili congiunte con questi poteri segreti; e poi conclude: qualit sensibili simili saranno sempre congiunte con poteri segreti simili, questi non colpevole di tautologia, n queste due proposizioni sono le stesse sotto lo stesso riguardo. Ma di che tipo di inferenza si tratta? Questa non n intuitiva n dimostrativa, e dire che sperimentale significa riportare la questione al punto di partenza. La somiglianza del passato col futuro non pu essere provata dall'esperienza, dal momento che essa fondata su questa somiglianza. Quindi il fondamento di questa inferenza non ancora scoperto, e Hume, da scettico, rivendica il proprio diritto di ricercarlo lasciando da parte quelle che sono le conclusioni degli altri filosofi le cui teorie contrastano con i risultati a cui la sua semplice indagine pervenuta. Riassumendo: non il ragionamento che ci spinge a supporre che il passato renda simile a s il futuro e che ci costringe ad attenderci effetti simili da cause che sono, all'apparenza, simili. Sez. 5: soluzione scettica di questi dubbi. Parte Prima. Hume apre la sezione con un'esaltazione della filosofia scettica, che non assolutamente indulgente nei confronti della condizione umana perch non si accorda con alcuna disordinata passione della mente umana e non pu mescolarsi con qualche affezione o propensione naturale. La filosofia scettica l'unica sicura filosofia che si salvaguarda dalla avventata arroganza della mente umana. Con questa filosofia Hume viene assumendo che la natura conserver sempre i suoi diritti e prevarr sempre su qualsiasi ragionamento. Del resto, abbiamo appena visto nella sezione precedente che in tutti ragionamenti derivati dall'esperienza c' un passo che non sorretto da alcun argomento dell'intelletto. Da che cosa la mente umana spinta a compiere questo passo, che non sorretto dal alcun argomento razionale? Qual questo principio che ha cos tanta influenza sulla natura umana? Il principio in questione la consuetudine o abitudine. Infatti ovunque la ripetizione di qualche atto o operazione particolare produce un'inclinazione a ripetere lo stesso atto o la stessa operazione, senza la spinta di qualche processo o ragionamento dell'intelletto, noi parliamo di abitudine. Pertanto, tutte le inferenze dell'esperienza sono effetti di consuetudine e non di ragionamento. La consuetudine, dunque, la pi grande guida della vita umana. E' questo l'unico principio che ci rende utile la nostra esperienza e che ci fa attendere che in futuro, in condizioni simili a quelle che si sono date nel passato, accadano le stesse cose che abbiamo esperito nel passato. Solo grazie alla consuetudine possibile conoscere qualcosa riguardo alle materie di fatto. La credenza su cui si basa la consuetudine derivata dal fatto che la mente umana si trova in determinate circostanze, un'operazione dell'anima che, indipendente da ogni operazione intellettuale, si spiega come un istinto naturale. Hume, a questo punto, si propone di spingersi un po' pi in l e di esaminare pi attentamente la natura di questa credenza, e della congiunzione derivante da consuetudine da cui essa procede. Parte Seconda. Bisogna stare attenti a non confondere l'invenzione con la credenza. La differenza tra le due consiste in qualche sentimento che connesso con la seconda e non con la prima e che non dipende dalla volont, n pu esser comandato a piacere. Ogni volta che un oggetto si presenta alla memoria o ai sensi, immediatamente, o per forza della consuetudine, esso porta l'immaginazione a concepire quell'oggetto che di solito congiunto con esso; e questa concezione seguita da un sentimento, che diverso dai liberi sogni della fantasia. In questo consiste la vera natura della credenza. Hume tenta, adesso, di descrivere questo sentimento. La credenza non che una pi viva, pi intensa, pi potente, pi forte e stabile concezione di un oggetto, di quella che l'immaginazione sia mai in grado di conseguire. L'immaginazione possiede il controllo sulle idee, che pu combinare a proprio piacimento, ma impossibile che essa raggiunga mai la credenza. La differenza dell'immaginazione con la credenza che la credenza non sussiste nella natura o nell'ordine propri delle idee, ma nella maniera della loro concezione e nel loro essere sentite da parte della mente. Perci la credenza qualche cosa di

sentito dalla mente, che distingue le idee del giudizio dalle invenzioni dell'immaginazione. Essa conferisce maggior importanza e maggior peso nella nostra mente alle idee, e ne fa il principio regolatore delle nostre azioni. Riprendiamo adesso i tre principi di associazione delle idee che abbiamo visto all'inizio: somiglianza, contiguit nel tempo e nello spazio, nesso causa-effetto. In tutte queste tre relazioni accade che, quando uno degli oggetti si presenta ai sensi o alla memoria, la mente portata a concepirlo in una maniera pi stabile e pi forte di quanto altrimenti sarebbe stata in grado di fare. Se questa cosa avviene, oltre che per il nesso causa-effetto (come abbiamo appena visto), anche per le altre relazioni, la cosa pu essere stabilita come una legge generale che si riscontra in tutte le operazioni della mente. Con debiti esempi Hume dimostra che questo processo avviene anche per la relazione di somiglianza e per quella di contiguit spazio-temporale. Il passaggio da un oggetto presente conferisce in ogni caso forza e stabilit all'idea che con esso in relazione. C', dunque, una sorta di armonia prestabilita tra il corso della natura e la successione delle nostre idee; e sebbene i poteri e le forze che governano la natura ci siano del tutto ignoti, tuttavia i nostri pensieri e le nostre concezioni hanno sempre seguito lo stesso ordine della natura. La consuetudine quel principio che ha reso effettiva tale corrispondenza, cos necessaria alla sussistenza della specie e al governo della condotta in ogni circostanza ed evenienza della vita umana. Se la presenza di un oggetto non avesse istantaneamente eccitato l'idea degli oggetti solitamente congiunti con quello, tutta la nostra conoscenza avrebbe dovuto limitarsi alla sfera della memoria e dei sensi; e noi non saremmo mai riusciti a proporzionare i mezzi ai fini e ad usare i nostri poteri nel fare il bene e nell'evitare il male (implicazioni morali). Operazioni di una tale importanza per il genere umano non potevano essere affidate alle fallaci, lente e laboriose deduzioni della ragione, ma basarsi piuttosto su una tendenza o istinto meccanico, che pu essere infallibile nelle sue operazioni, pu manifestarsi al primo apparire della vita e del pensiero e pu essere indipendente da tutte le faticose deduzioni dell'intelletto. Come la natura ci ha insegnato l'uso delle membra senza darci la conoscenza dei nervi e dei muscoli da cui sono mosse; cos essa ha posto in noi un istinto che spinge avanti il pensiero in un corso corrispondente a quello che essa ha stabilito fra gli oggetti esterni, anche se noi ignoriamo i poteri e le forze dai quali interamente dipendono questo corso e questa successione regolare di oggetti. Sez. 7: dell'idea di connessione necessaria. Parte Prima. Le scienze matematiche si distinguono da quelle morali perch le idee su cui si basano sono sempre chiare e determinate, senza oscillazioni terminologiche e contenutistiche. Questo senza dubbio in grande vantaggio per le scienza matematiche. L'ostacolo principale al nostro avanzamento nel campo morale e metafisico consiste, invece, nell'oscurit delle idee e nell'ambiguit dei termini qui in gioco. Dal momento che la filosofia ha compiuto rispetto alla fisica e alla geometria un minor progresso finora, si pu pensare che i problemi a cui essa si rivolge richiedano uno sforzo maggiore per essere risolti. Le idee pi oscure di tutte di cui si fa uso in metafisica sono, secondo Hume, quelle di potere, forza o connessione necessaria (sinonimi). Hume si propone di stabilire in questa sezione il senso preciso di questi termini. Partiamo dal fatto che le nostre idee non sono nient'altro che delle copie delle nostre impressioni: in poche parole, impossibile che noi pensiamo qualcosa che non abbiamo precedentemente sentito. Le idee complesse possono essere definite ricorrendo alle idee semplici di cui sono composte, ma come facciamo a definire le idee semplici nelle quali si trova ancora celato qualcosa di oscuro e di ambiguo? Non possiamo far altro che mostrare le impressioni originarie da cui le idee si sono generate. Queste impressioni, infatti, sono tutte forti e sensibili, pertanto non ammettono ambiguit. Per conoscere l'idea di potere o connessione necessaria non si dovr far altro che esaminare l'impressione da cui proviene. Quando osserviamo dei nessi causa-effetto non riusciamo a scorgere nessuna idea di connessione necessaria, dal momento che non c' niente che ci assicuri che data una determinata causa ne segua necessariamente un determinato effetto. Noi troviamo soltanto che l'uno presentemente, di fatto, segue l'altra. Questo quello che appare ai sensi esterni. La mente non prova alcuna impressione interna. Pertanto non c', in alcuna singolo caso particolare di causa ed

effetto, cosa alcuna che possa suggerire l'idea di connessione necessaria. In effetti dal primo apparire di un oggetto non possiamo in alcun caso scoprire l'effetto che ne risulter, altrimenti non avremmo bisogno dell'esperienza. In realt nessuna parte di materia rende mai note, tramite le sue qualit sensibili, queste cose: solidit, estensione, movimento sono qualit complete in s stesse e non rivolgono mai l'attenzione ad un altro fatto che ne possa risultare. E' impossibile, perci, che l'idea di potere o connessione necessaria sia derivata dall'osservazione dei corpi. Cerchiamo allora di vedere se quest'idea sia copiata dalla riflessione interna della nostra mente. Noi siamo, infatti, in ogni istante coscienti di un nostro potere interiore che si esprime tramite la volont. Noi conosciamo quest'influsso della volont per mezzo della coscienza, e da qui ricaviamo l'idea di potere o energia. L'idea di connessione necessaria un'idea di riflessione poich nasce dal riflettere sulle operazioni della mente e sul governo che la volont esercita tanto sugli organi del corpo quanto sulle facolt dello spirito. Quest'influsso della volizione un fatto che possiamo conoscere solamente tramite l'esperienza e non pu mai esser previsto in base a qualche energia o potere che appaia nella causa e che la connetta con l'effetto. Noi siamo coscienti del fatto che un moto della volont implichi un movimento del corpo, ma sull'energia con cui la volont compie questa operazione siamo molto lontani dall'esserne coscienti. Primo: perch non siamo in grado di conoscere direttamente il potere e l'energia della volont; cosa che risiede nello scoprire l'unione segreta di spirito e corpo. Secondo: noi non siamo in grado di muovere tutti gli organi del corpo con la stessa autorit, e di questa cosa siamo a conoscenza solo grazie all'esperienza.Pertanto noi apprendiamo l'influsso della volont solo tramite l'esperienza, che ci insegna che un evento segue costantemente un altro senza per istruirci riguardo la loro segreta connessione. Terzo: in verit noi non muoviamo con un atto della volizione non muoviamo direttamente le nostre membra, ma piuttosto degli spiriti animali che producono alla fine il movimento, ma che non sappiamo in che maniera operino. Possiamo perci concludere che la nostra idea di potere non copiata da alcun sentimento o coscienza di potere dentro di noi, quando diamo origine al movimento animale o impieghiamo le nostre membra agli usi loro propri. Il potere per cui gli spiriti animali si muoviamo al comando della volont cosa attestata dall'esperienza, la cui intima connessione, per ci sconosciuta, cos come ci sconosciuta la forza o l'energia tramite cui ci reso possibile. Sar allora il moto della volont che suscita una nuova idea a renderci consapevoli di un potere o energia delle nostre menti? Secondo Hume questo non possibile per tre ordini di ragioni. Primo: il nesso tra il moto del nostro spirito e la creazione ex nihilo di un'idea non paragonabile al nesso causa-effetto. Senza dubbio con un moto della nostra volont possibile pervenire alla creazione dal nulla di una nuova idea, ma come questo avvenga nei suoi passaggi segreti una cosa al di l della nostra comprensione. Secondo: il controllo della mente su s stessa limitato al pari di quello che essa esercita sul corpo. Terzo: il controllo che abbiamo su noi stessi molto diverso in tempi diversi e non possibile addurre altra ragione per ci se non l'esperienza. Non possiamo far altro che dire, questa volta in maniera ancora pi fondata dal momento che siamo andati avanti nella nostra ricerca, che la connessione di una determinata causa con un determinato effetto basata unicamente sull'esperienza e sulla abitudine. Da questo si spiega anche l'incapacit degli uomini di spiegare eventi nuovi che contraddicono i nessi causa-effetto abitudinari, che porta alla ricerca di un ente intelligente invisibile quale causa di questi eventi straordinari. Negli eventi pi familiari, cos come in quelli pi straordinari, l'energia della causa allo stesso modo inconcepibile. Noi attraverso l'esperienza apprendiamo la frequente congiunzione di oggetti, senza ma riuscire a comprendere il fondamento di una loro connessione necessaria. Ecco allora che molti filosofi tirano in ballo un essere supremo che interverrebbe ogni qual volta si presenti una causa-occasione per far seguire un determinato effetto (critica a Malebranche e agli occasionalisti). Altri filosofi, ritenendo di poter sapere nulla riguardo alle questioni che fin qui sono state oggetto

della nostra ricerca, arrivano alla stessa conclusione e tirano in ballo una Divinit, causa immediata dell'unione di spirito e corpo. E a volte i filosofi avanzano anche oltre, arrivando ad affermare che ogni cosa piena di Dio: ogni cosa esiste per Sua volont e con la sua concessione. Tutte teorie che possono essere confutate in base a due ordini di ragioni. Primo: se non siamo in grado di conoscere le cose pi banali, come possiamo essere certi dell'energia e dell'operare universale dell'essere supremo? Una simile teoria ci conduce, evidentemente, al di l di ogni nostra capacit di conoscere. Secondo: non conosciamo alcuna energia nella materia pi grossolana, cos come non possiamo conoscere l'energia dell'essere supremo: si tratta di cose che per noi risultano allo stesso modo incomprensibili. Parte Seconda. Siamo perci andati invano alla ricerca dell'idea di connessione necessaria in tutte le fonti in cui essa poteva esser trovata; che si considerino i corpi esterni cos come l'azione della nostra volont sul nostro corpo e sulla nostra mente, il risultato sempre lo stesso. Tutti gli eventi sembrano perci congiunti, ma mai connessi. Ma resta ancora una fonte da esaminare, prima di concludere che non abbiamo affatto alcuna idea di connessione necessaria. Quest'idea di connessione necessaria sorge da un numero di casi simili in cui si costante congiunzione di due eventi, ma non pu sorgere da uno solo di questi eventi. Ma il singolo evento si suppone che sia simile agli altri, eccetto soltanto che, dopo il ripetersi di casi simili, la mente viene spinta dall'abitudine in base al presentarsi di un evento, ad attendere l'evento che di solito lo accompagna ed a credere che esso si verificher. Da questo sentimento della mente nasce l'idea di connessione necessaria. Questa una conclusione, secondo Hume, perfettamente in linea con il profilo di una filosofia scettica, dal momento che l'intelletto si scopre fortemente limitato e la ragione umana molto debole. Del resto, sulla relazione causa-effetto sono basati tutti i ragionamenti che possiamo acquisire in materie di fatto. Soltanto per suo mezzo noi acquisiamo qualche sicurezza intorno ad oggetti che sono lontani dall'attuale testimonianza della memoria e dei sensi. L'unica utilit immediata di tutte le scienze , infatti, quella di insegnarci come regolare gli eventi futuri sulla base delle loro cause. I nostri pensieri e le nostre ricerche sono perci ad ogni momento alle prese con questa relazione; ma le idee che ci formiamo di essa sono ancora cos imperfette, che impossibile dare qualche giusta definizione di causa, all'infuori di quella che tratta d qualche cosa di estraneo o di esterno da essa. Proviamo a dare una definizione di causa: un oggetto seguito da un altro oggetto e dove tutti gli oggetti simili al primo sono seguiti da oggetti simili al secondo; in altre parole, dove se il primo oggetto non esistito, non esistito nemmeno il secondo. L'apparire di una causa spinge sempre la mente, con un passaggio che deriva dalla consuetudine, all'idea dell'effetto. Anche di questo abbiamo esperienza, e possiamo in base a quest'esperienza provare a dare un'altra definizione di causa e chiamarla un oggetto seguito da un altro oggetto e il cui presentarsi porta sempre il pensiero all'altro oggetto. Ci si avvia alla conclusione. Ogni idea copiata da qualche impressione o sentimento precedenti. Dove non possiamo trovare alcun sentimento o impressione non possibile trovare alcuna idea. In tutti i singoli casi dell'operare dei corpi e delle menti non c' nulla che produca qualche impressione, n che possa di conseguenza suggerire qualche idea di potere o connessione necessaria. Ma quando si mostrano molti casi uniformi e lo stesso oggetto sempre seguito dallo stesso evento, allora incominciamo ad accogliere la nozione di causa e di connessione. Allora noi sentiamo una nuova impressione o sentimento, cio una connessione abituale nel pensiero o nell'immaginazione tra un oggetto e quello che di solito lo accompagna. Questo sentimento l'originale dell'idea che ricerchiamo. Infatti, poich quest'idea nasce da un numero di casi simili, e non da un singolo caso, deve derivare da quella circostanza in cui il numero di casi differisce da ogni caso preso per s.

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