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Pierpaolo Bellucci (a cura)

Pierpaolo Bellucci (a cura)

In nomine Jesu

La chiesa e la confraternita

del Nome di Dio a Pesaro

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INTRODUZIONE

La chiesa del Nome di Dio è l’unico esempio rimasto a Pesaro di edificio religioso

concepito come unità architettonica e scenografica: nell’aula unica vennero prefissate

e disposte nel giro di alcuni decenni tutte le strutture decorative, gli altari, le cornici,

le sculture e i fregi lignei dipinti in oro e nero, le tele ad olio di vario formato.

Presenta inoltre un interno ancora pressoché originario, che documenta un preciso

periodo di storia artistica ed esprime suggestivi contenuti attraverso la ricca

decorazione che lo ricopre interamente. L’esterno, invece, è stato rimaneggiato e

restaurato nel 1912, e prima ancora era stato ornato del portale in pietra d’Istria nel

1763 dall’architetto pesarese Gian Andrea Lazzarini. Fu fatta costruire, a partire dal

1577, dalla Compagnia del Nome di Dio, una delle più ricche tra le numerose

confraternite laicali pesaresi, particolarmente fiorenti ed attive in opere pie nella

zelante atmosfera religiosa controriformistica. Si provvide in breve tempo alla

sistemazione degli altari, commissionando a Federico Barocci il quadro raffigurante

la Circoncisione di Gesù, che fu posto sopra l’altare maggiore nel 1590. Vennero poi

collocati all’altare laterale sinistro il pregevole Crocifisso ligneo cinquecentesco, e

all’altare laterale destro un dipinto del mantovano Teodoro Ghisi (1536-1601)

raffigurante l’Incoronazione della Vergine e Santi.

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1 Portale della chiesa del Nome di Dio in via Petrucci.

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PRIMA PARTE

PANORAMA STORICO

Nel 1570 era forte la paura dovuta alla minaccia turca, che metteva in pericolo il

persistere della cristianità in Europa. L’anno dopo, la vittoria del 7 ottobre a Lepanto

riaffermava la forza degli ideali religiosi comuni ed esaltava la Spagna di Filippo II

come baluardo della Controriforma. Da Madrid, nel 1568 era tornato a Pesaro

Francesco Maria II Della Rovere. Questi era coetaneo con Guidubaldo del Monte,

scienziato e matematico, protagonista anch’egli della battaglia di Lepanto.

Guidubaldo morì nel 1574, e con lui finiva un’epoca che già la ribellione degli

urbinati (1572) aveva scosso dall’apparente splendore, mettendo a nudo il divario

insanabile tra una realtà economica avara e disegni politici grandiosi.

La nascita della Confraternita e della Chiesa

Già da tempo, a Pesaro, le Compagnie o Confraternite formate da laici che si

dedicavano ad opere di beneficenza e di pietà, formavano un poderoso sostegno

fideistico ed operativo alle strutture ecclesiali tradizionali. Aggiunti alle chiese

parrocchiali e a quelle degli ordini conventuali e monastici, gli edifici religiosi delle

Confraternite svolgevano un compito sempre più rilevante nell’ambito della

Controriforma cattolica italiana. Le più antiche Compagnie operanti in città erano

quelle dell’Annunziata, della Misericordia, di S. Andrea, di S. Antonio, del Buon

Gesù, che avevano formato nel 1465 l’ospedale dell’Unione, mentre in precedenza si

erano denominate Compagnia del S. Salvatore. Tra la fine del ‘500 e i primi decenni

del ‘600, si aggiungevano altre Confraternite annesse alle varie chiese o parrocchie,

come quelle della Carità e del SS. Sacramento (contigue alla Cattedrale), quella di S.

Maria della Scala, di S. Donino (annessa alla parrocchia di S. Nicolò), dei Crociferi

(presso S. Spirito), di S. Rocco, della Carità, della SS. Concezione, di San Giuseppe, di

Santa Maria del Ben Morire, trasferita nel 1714 presso la Chiesa del Suffragio.

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Citiamo (in lingua corrente) qui di seguito la prima pagine del manoscritto n° 2 del

“Libro della Creazione della Chiesa”, dove viene raccontata la nascita della

Confraternita del Nome di Dio.

“Il 6 febbraio 1573 nella chiesa parrocchiale di S. Martino in Pesaro, è stata istituita la

venerabile compagnia del SS. Nome di Dio. Alcuni devoti, ispirati dallo Spirito Santo, si sono

radunati in questa chiesa per esercitare con maggiore devozione e progresso spirituale, le

opere salutari. Il principale intento di questi confratelli è recitare l’Ufficio della Beata Vergine

in tutte le feste e le vigilie dell’anno. Inoltre, avendo saputo che in Spagna è stata istituita una

Confraternita intitolata al Nome di Dio, volta ad estinguere il pessimo vizio della bestemmia,

ispirati dallo Spirito Santo piacque a loro di dare questo nome anche alla loro Confraternita, e

per questo fecero richiesta al vescovo Giulio Simonetta”.

Padre Miniato Fiorentino si poneva come guida dei confratelli, i quali, dopo poco

tempo:

“Cresciuto il fervore delle opere buone, aggiunsero alla recita dell’Ufficio della Beata Vergine,

anche l’incarico di seppellire i morti, soprattutto poveri. Decisero dunque di vestire un abito

nero e deliberarono di vestire con tale abito anche tutti i poveri morti che andavano a

seppellire. Nel 1576, con licenza del vescovo Simonetta, fu concesso ai confratelli di chiedere

fondi per le loro attività: cominciarono dunque a seppellire quei poveri che morivano, andando

in processione con la croce e vestendo i corpi dei morti con l’abito nero. Portavano la bara a

spalla, e alcuni di loro seguivano il feretro facendo luce con le torce. Facevano poi celebrare

una messa di Requie per queste anime. Questa carità veniva osservata anche nei confronti dei

poveri giustiziati”.

Era tempo di provvedere ad una sede più adatta, in quanto San Martino non faceva

più al caso loro. Il 5 giugno 1577 fu posta la prima pietra in un sito di proprietà di

Giacomo Pavoli, previo accordo con i frati agostiniani. La costruzione, ad opera del

capomastro Guglielmo Francia, fu completata in brevissimo tempo, e comprendeva

la sagrestia e la canonica dove abitava il cappellano. Finalmente alle ore 23 del 26

dicembre 1578, la Compagnia del Nome di Dio partiva in processione da S. Martino,

accompagnata da quella della SS. Concezione, con la quale sarebbe poi rimasta legata

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da cerimonie comuni, come la visita scambievole nel giorno della propria festa. Il

primo protettore della Confraternita fu il marchese Rainiero del Monte, padre di

Guidubaldo. Seguivano a questo ufficio le cariche di Preposto (incaricato del

controllo delle elemosine), Sottopreposto (amministratore della banca), Consiglieri,

Camerlengo (cancelliere) e Sindaci (incaricati di occuparsi delle liti). Importante fu

l’operato di papa Paolo V Borghese in favore delle Confraternite: ordinò l’unione di

più confraternite, per evitare la dispersione dei fedeli, cosicché compagnie come la

nostra si unirono con altre affini, anche di altre città. I confratelli del Nome di Dio si

aggregarono alla Confraternita dell’Orazione e Morte di Roma e con quella del Nome

di Dio, sita ugualmente nella “città eterna”. Da un punto di vista storico-politico, non

c’era più nell’ambiente pesarese, il facile mecenatismo di Guidubaldo, e questo

andava bene al popolo, che non era più oppresso dei tanti tributi e dazi determinati

da quel tenore si spese: nella pace claustrale del palazzo urbinate, della Villa

Imperiale, del Palazzo Ducale di Pesaro e di quello di Urbania, l’ultimo Della Rovere

viveva isolato, mistico e solitario, assorbito da interessi scientifici e filosofici,

disponendo l’attuazione di diverse opere pubbliche ed interventi urbanistici che

contribuirono al rafforzamento di una certa quiete cittadina.2

2I testi sono tratti da Grazia Calegari, Scene dal ‘600: i confratelli e la chiesa del Nome di Dio a
Pesaro.

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SECONDA PARTE

I PRIMI LAVORI DI DECORAZIONE

La decorazione degli altari

I confratelli iniziarono la decorazione della Chiesa nel 1581, commissionando a

Federico Barocci il quadro per l’altare maggiore che doveva raffigurare la

“Circoncisione”, evento collegato alla festa più solenne per la Compagnia, quella del

1° gennaio. Nasceva una lunga contesa col pittore di Urbino, chiuso nella nevrastenia

dei rimandi e delle interruzioni, e sollecitato con pagamenti anticipati. Solo nel 1590

il quadro veniva terminato e sistemato in questa Chiesa, dove avrebbe rappresentato

3 Veduta dell’interno della chiesa del Nome di Dio.

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il centro focale di convergenza. Oggi nella chiesa è presente la copia in formato

ridotto realizzata dal pesarese Carlo Paolucci (1733-1803), che sostituisce l’originale

finito al Louvre. Dunque l’altare maggiore della chiesa del Nome di Dio significava

sicuro prestigio per la Confraternita, e l’incorniciatura dorata a colonne lignee

scanalate, capitelli corinzi, doppio timpano con angeli e festoni che innalzano il

monogramma di Gesù, suggellano con sobrietà classicistica il primo pubblico gesto

di “scelta d’immagine”. Sempre nel 1581 veniva sistemato l’altare laterale sinistro,

dove un crocifisso ligneo donato dal confratello Giulio Quintavalli veniva inserito su

fondale grigio con raggiera e piccole stelle lignee, circondato da un’incorniciatura in

nero ed oro. Nel 1587, infine, si costruiva l’altare di destra, con la stessa partitura

lignea, per la quale era destinata la tela del mantovano Teodoro Ghisi, che raffigura

la “Madonna in gloria tra Cristo, l’Eterno ed Angeli”.

Il soffitto e il suo programma iconografico

Le decisioni definitive per la decorazione totale della Chiesa furono prese dai

confratelli a partire dal 1617. Si cominciò dal soffitto, decidendo un progetto unitario,

affidato allo scenografo roveresco Giovanni Cortese e al pittore Giovan Giacomo

Pandolfi, entrambi appartenenti alla Confraternita, per una spesa globale di circa

3000 scudi. La tecnica scelta fu quella della copertura con tele ad olio e cornici in

legno dorato. Non c’erano precedenti in città, né di chiese parrocchiali né di

Confraternite, e se qualcosa di simile verrà ripetuto, non sarà mai su impostazione

unitaria affidata ad un unico autore, affiancato da uno scenografo. Per esempio, la

chiesa della Confraternita di S. Antonio, in anni successivi, sarà rivestita

completamente di quadri dipinti agli altari e alle pareti, forse su imitazione del Nome

di Dio, e così avverrà in quelle della Misericordia e di Sant’Egidio a Sant’Angelo in

Lizzola. Gli autori, però, saranno diversi, e le opere verranno accostate in maniera

non preordinata. Anche nelle Marche non c’erano precedenti di ambienti così

decorati, e si suppone che sia stato seguito l’esempio di Venezia, dove troviamo casi

simili al nostro. L’accorso tra il Cortese e il Pandolfi è uno spaccato di cultura locale

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nel biennio 1617-19, un concentrato di spettacolarità tardo-manieristica e di

contaminazioni intellettualistiche, una sintesi di invenzioni scenografiche e di

sensibilità pittorica che precede, in forma rigida e contenuta, gli illusionismi dei

soffitti barocchi dai quali la provincia pesarese rimarrà, generalmente, esclusa.

Venendo al programma iconografico, la spartizione del soffitto tende idealmente ad

indicare un itinerario di salvezza dall’ingresso al presbiterio dell’aula unica,

scenograficamente studiata in modo da esaltare il punto di vista relativo all’esagono

centrale. Non si ha cioè la tradizionale lettura che parte dall’altare e costringe a

seguire le immagini col viso alzato fino al termine del percorso, né si ha una radicale

inversione di tendenza, se non a livello concettuale e teologico. Se è chiara

l’intenzione dei confratelli di visualizzare il passaggio della morte (scheletro) e dai

tormenti dell’inferno alla salvezza rappresentata dall’Immacolata Concezione e dalla

Resurrezione (passando attraverso il “Trionfo del Nome di Dio”, circondato ai lati

dalle “Gerarchie spirituali” e dalle “Gerarchie temporali”, ed esaltato agli angoli dai

profeti e dagli angeli), è altrettanto chiaro che la coppia Cortese-Pandolfi puntò

teatralmente sul Trionfo centrale, fulcro dell’intera superficie, costringendo ad una

lettura delle immagini che parte dal centro della Chiesa, seguendo al successione

Trionfo-Immacolata-Resurrezione. Si è poi portati a guardare lateralmente le due

gerarchie, per seguitare, infine, in direzione della porta d’ingresso, a vedere da un

punto di vista esatto l’Inferno e lo scheletro. C’è quindi un’attenzione particolare a

focalizzare l’immagine centrale, trattando quasi l’ottagono irregolare di tela come la

cavità di una cupola e inserendovi la raggiera circolare delle gerarchie angeliche.

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4 Il soffitto con sullo sfondo l’altare maggiore e il quadro della “Circoncisione”.


5 La pianta iconografica del soffitto della chiesa.

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6Il quadro che domina il proscenio del soffitto della chiesa, raffigurante il Trionfo del Nome
di Dio.

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TERZA PARTE

I LAVORI DI COMPLETAMENTO DELLA CHIESA

Nel 1634 il ducato di Pesaro è ormai sotto la gestione pontificia e vive i primi tempi

di una decadenza politica aggravata dai contrasti tra la parte montana di Urbino e

quella marittima di Pesaro, fino a qualche anno prima abbastanza controllati dalla

disciplina ducale. Francesco Maria II Della Rovere, morto nel 1631, si era incupito in

una solitudine che la morte improvvisa dell’unico figlio diciottenne, Federico

Ubaldo, nel 1623, aveva reso disperata e totale. La pressione del papato romano si era

fatta allora più opprimente, la quiete del ducato più snervata ed ansiosa, anche

perché la venuta di un governatore pontificio, dal 1624, aveva favorito abusi,

provocando liti tra fazioni e successive condanne. La scelta di Urbania come ritiro

segnava il definitivo tramonto di Pesaro (e di Urbino) come capitali di corte, e la fine

di un microcosmo che, seppure languendo, ancora offriva attività in cui esprimersi.

Il completamento della chiesa

Per circa 10 anni, dopo la copertura del soffitto, non si affrontarono grosse spese da

parte dei confratelli. Nel 1629, era urgente la sostituzione del vecchio organo con uno

nuovo, che venne costruito e posto in opera nel 1631, in modo da essere inserito tra le

due finestre della parete d’ingresso e da porsi come fulcro della successiva struttura

lignea del palco con balaustra. All’organaro Paci, oltre al prezzo di 150 scudi, fu dato

in cambio l’organo vecchio, donato dal confratello Marcello Barignani. Poi, nel 1634,

si decise di completare definitivamente la decorazione delle pareti e si affidò la

partizione scenografica a Nicolò Sabbatici, mentre dell’esecuzione pittorica si occupò

ancora Giovan Giacomo Pandolfi. Ai fianchi dell’organo, in due sottili strisce di tela,

il pittore raffigurò da un lato il flautista, e dall’altro se stesso, nell’atto di affacciarsi

per osservare l’opera eseguita.

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L’operato alle pareti dello scenografo Nicolò Sabbatini

A lavorare nella chiesa del Nome di Dio si avvicenda un giovane scenografo, Nicolò

Sabbatini, che troviamo attivo nella suddetta chiesa tra il 1634 e il 1636, quando

predispone la spartizione delle pareti in analogia al Trattato da lui scritto dal titolo

“Pratica di fabbricare scene e macchine nei teatri”. Il Sabbatini pensò di suddividere

lo spazio scenico in tre superfici sovrapposte: la stretta fascia monocroma che scorre

sotto il soffitto, i dieci grandi quadri del registro mediano, le tele monocrome della

parte inferiore.

La fascia superiore monocroma

Scorre continua sotto il soffitto, rappresentando: a sinistra, dall’ingresso all’altare,

angioletti, bambini e bambine che compiono opere di misericordia. A destra,

dall’ingresso all’altare, angioletti, bambini e bambine che compiono una processione,

suonando e cantando.

La fascia centrale: i dieci grandi quadri

La scelta di episodi che alludono al passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento

attraverso imprese legate al Nome di Dio, è strettamente collegata alle esigenze

devozionali della Confraternita. Si insiste ancora, come nel soffitto, nel ribadire un

itinerario di salvezza, sottolineato vistosamente dalle scritte didascaliche, che passa

dalle profezie delle Sibille ai quattro episodi biblici che alludono alla liberazione (“Il

passaggio del mar Rosso”, “Davide e Golia”, “Il trionfo di Giuseppe”, “Il trasporto

dell’arca”), ai miracoli (“San Pietro guarisce lo storpio”, “San Paolo libera l’ossessa”),

fino alle scene evangeliche dell’”Annuncio a Maria” e del “Sogno di Giuseppe” che

affiancano la “Circoncisione” dell’altare maggiore. Iconograficamente, i temi sono di

retroguardia in questi anni, rispetto al prevalente culto dei Santi e alla diffusione di

episodi del Nuovo Testamento. Ci sono invece singolari analogie con i soggetti delle

tragedie sacre seicentesche.

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7 La “Circoncisione” di Federico Barocci, posta sopra l’altare maggiore.

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8 “Il sogno di Giuseppe”.

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9 “Immacolata Concezione”.

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10 “Inferno”.

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La fascia inferiore

Dipinta a monocromo, fungeva da spalliera per i sedili sottostanti, dove sono

raffigurati otto dottori della Chiesa (Bernardo di Chiaravalle, Tommaso d’Aquino,

Ambrogio vescovo, Gregorio papa, Bernardino da Siena, predicatore del Nome di

Dio, Bonaventura, Girolamo e Agostino) e i quattro evangelisti.

L’ultimazione della chiesa

Gli interventi più rilevanti eseguiti contemporaneamente alla fase seicentesca

esaminata fino ad ora, riguardano l’integrazione di figure lignee, come le tabelle

della Via crucis, i confessionali, i paliotti d’altare, i tabernacoli, gli angeli lignei

11 “Trionfo di Giuseppe ebreo”.

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reggilampada, le balaustre, l’ornamentazione dell’organo con cariatidi, teschi con

tibie, angeli, motivi decorativi. Solo il confessionale a destra è autentico, mentre

quello di sinistra è di fattura ottocentesca.

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12 Organo.

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13 Tabernacolo.
14 Angeli reggilampada.

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La sagrestia

Lo stato di gravissimo degrado delle strutture lignee e delle pareti decorate costituite

in parte da carta incollata (nel soffitto), rende abbastanza precaria anche la lettura

dell’ambiente, sul quale non abbiamo dettagliate notizie d’archivio. Sono però

possibili una serie di attribuzioni di autori, basate su ipotesi stilistiche e su scoperte

documentarie, e la ricostruzione di varie alterazioni subite (come lo spostamento di

un confessionale e la chiusura del vano di una porta) e di aggiunte anche arbitrarie

(alcuni pannelli decorativi completamente rifatti nel 1941). Si accede alla sagrestia

dalla porta che si apre a sinistra, all’altezza del presbiterio, sotto lo stemma

(attorniato da due angeli lignei) di papa Innocenzo XII Pignatelli, al quale è dedicata

la lunga iscrizione posta dopo che il pontefice divenne confratello del Nome di Dio,

nel 1691. Le strutture reali di una sagrestia sono schermate e nascoste, in un gioco di

“trompe-l’oeil” che fa scorrere davanti agli occhi solo una continua successione di

immagini. Nel registro superiore, sono di vari autori seicenteschi i 19 riquadri

raffiguranti la passione, la morte e la risurrezione di Cristo, mentre appartengono

alla mano del Pandolfi, oltre alla decorazione delle porte, i dipinti posti sopra i sedili

centrali, con le immagini della Immacolata Concezione e, dirimpetto, quella del

Bambino Gesù, e la tela dell’altare, con angeli che sorreggono il monogramma del

Nome di Dio. Sul soffitto sono incassati vari dipinti, di diversi autori del ‘600 e ‘700,

che rappresentano santi e profeti (come tradizione dell’epoca) e fanno corona al

tondo centrale col Bambino Gesù.

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15 Il soffitto della sagrestia.

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QUARTA PARTE

UNA LETTURA DELLA CHIESA DEL NOME DI DIO

Per l’espletamento di questa importante parte dell’opera, abbiamo fatto ricorso ad un

elaborato di Teodoro Briguglio, che per l’appunto prende il nome riportato nel titolo

(“Una lettura della chiesa del Nome di Dio”). Si tratta di un’ampia riflessione di carattere

artistico e spirituale, sul significato catechetico dell’intero apparato scenografico

contenuto nella chiesa. Infatti, lo stesso Briguglio sostiene che le pitture, i mosaici e in

generale le decorazioni delle chiese hanno una loro logica sequenziale, un fraseggio

che li unisce in un tutt’uno organico e significativo, secondo il metodo definitivo

“Biblia pauperum”, ovvero la catechesi con l’arte rivolta in particolar modo alle

persone semplici, che non hanno alle spalle una grande cultura teologica.

Il primo sguardo

Oltrepassata la soglia, sapendo che la confraternita è denominata come “Confraternita

della buona morte”, si ha l’immediata sensazione che questo luogo sia connesso alla

realtà ineluttabile della morte. Si ha la sensazione di immergersi in un luogo dal

quale siano totalmente banditi i colori: questo influisce nella percezione delle

dimensioni fisiche dell’ambiente che, a prima vista, sembrano estremamente esigue.

Il soffitto

Volgendo l’attenzione verso l’alto, continua a permanere la sensazione che si è

provata all’ingresso: stando col naso all’insù, si rimane attratti dalla grande tela

centrale che proprio perché posta al centro, rappresenta la sintesi di un percorso

ideale. L’incipit lo si trova nell’ovale, posto in corrispondenza della porta d’ingresso:

il soggetto rappresentato è uno scheletro supino con il teschio leggermente inclinato

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verso la spalla destra, rivolto quindi in direzione dell’osservatore. Accanto si nota

una rappresentazione dell’Inferno, nella quale i corpi dei defunti, spogliati degli abiti

terreni, sono straziati da demoni terrificanti. Dal grande pannello centrale si

sprigiona il concetto che morte e inferno hanno il loro antidoto salvifico nell’opera

redentrice di Gesù: il concetto espresso nella tela è sottolineato dalla frase che la

contorna e recita:

IN NOMINE IESU OMNE GENUFLECTATUR

CAELESTIUM TERRESTRIUM ET INFERNORUM

La frase è una citazione tratta dalla lettera di san Paolo ai Filippesi (2,10):

NEL NOME DI GESÙ OGNI GINOCCHIO SI PIEGHI

NEI CIELI, SULLA TERRA E SOTTO TERRA

Ma ancora non è tutto: come sperare in un futuro di beatitudine senza il supporto e

l’aiuto di una mediazione determinante operata da una persona come noi? Ed ecco

Maria nel momento della sua assunzione al Cielo, accolta da angeli e putti in estatica

contemplazione del suo splendore. L’iconografia di questa tela è l’esplicito richiamo

all’immagine che di Maria dà il libro dell’Apocalisse (12,1): “Una donna vestita di sole”.

L’osservatore in primis scorge lo sguardo della Madonna rivolto alla colomba,

simbolo dello Spirito Santo. E’ questo l’elemento che sottintende la perfetta

sottomissione di Maria alla volontà di Dio. Tale obbedienza le permette di stendere le

sue braccia per accogliervi l’intera umanità.

Ancona un passo avanti e si constata che, a questo punto dell’itinerario, l’idea di

morte lascia il posto a qualcosa di completamente diverso: nel successivo ovale

monocromo vi è l’esplicito rimando alla risurrezione di Cristo, promessa rivolta a

tutti gli uomini, come scrive san Paolo ai Corinzi: “Cristo è risuscitato dai morti,

primizia di coloro che sono morti” (1 Cor 15,20).

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Sul lato destro del soffitto sono rappresentati Abacuc e Davide, mentre sul lato

sinistro Isaia e Salomone. I quattro personaggi sembrano poter richiamare i quattro

fiumi Pison, Ghicon, Tigri ed Eufrate, che sgorgano dal paradiso terrestre (Genesi

2,10-14). Così come i fiumi biblici vogliono sottintendere l’idea che fossero destinati

dal Creatore ad irrigare e rendere fertile le terre emerse, così le parole dei profeti

sono rivolte ad ammorbidire il cuore dell’umanità.

Con Abacuc si tende a confortare l’uomo nel suo porsi l’eterno quesito: perché Dio si

serve di un popolo pagano ed empio come quello caldeo per redimere Israele dalle

sue infedeltà? Perché si serve del male per ricondurre le sue creature al bene? Perché

si serve della morte per condurre l’uomo alla vita eterna?

Davide, malgrado le sue infedeltà, è il capostipite della dinastia regale che si

concluderà con Gesù, eterno redentore: dunque la sua potenza salvifica è destinata a

vivere e a produrre i suoi frutti nei secoli dei secoli.

A Isaia è affidata la missione di annunciare la rovina di Israele e di Giuda, a causa

dell’infedeltà del popolo. Assieme a questo, Isaia annuncia la promessa che “un

giorno un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue

radici” (Isaia 11,1), che è il più esplicito riferimento a Gesù quale diretto discendente

della stirpe di Davide, figlio di Iesse.

Di Salomone si esalta la sua rinomata sapienza e dall’altra la realizzazione della

costruzione del tempio di Gerusalemme, destinato ad accogliere il “nome” di Dio e la

sua Parola, che è legge eterna.

In corrispondenza della grande scena centrale del trionfo del Nome di Dio, a destra

fra i profeti Abacuc e Davide e a sinistra fra Isaia e Salomone, ci sono rispettivamente

le Gerarchie spirituali e le Gerarchie temporali. Nella prima figura un papa

attorniato da cardinali, vescovi e alti prelati. Nella seconda figura un re attorniato da

duchi, principi e personaggi di corte. Nell’ultimo personaggio a destra,

inginocchiato, mani giunte e gravato da una pesante armatura, è stato immortalato il

duce Francesco Maria II Della Rovere. Nel giovane a sinistra, anch’egli inginocchiato

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e con le spalle coperte da un ampio mantello, è raffigurato il duca Federico Ubaldo,

nato nel 1605 e deceduto nel 1623.

Le grandi tele delle pareti laterali

Leggere le pitture della chiesa del Nome di Dio comporta qualche artificio:

innanzitutto la chiesa deve essere divisa in parti ben distinte l’una dall’altra: l’aula, il

presbiterio e, all’interno del presbiterio, vanno distinte le pareti laterali dalla parete

di fondo alla quale è addossato l’altare maggiore. Le otto grandi tele che ornano le

pareti dell’aula, raccontano storie che costituiscono un itinerario che si dipana dal

paganesimo fino all’Antico Testamento. Si tratta di scene nelle quali si dà vita a

profezie antiche e ad episodi concreti della Sacra Scrittura vetero-testamentaria,

accomunati dalla verità di fede che Cristo era atteso fin dal più remoto passato. Per

leggere le tele secondo il loro senso voluto dallo scenografo, può essere utile tracciare

uno schema sommario:

PARTE SINISTRA DELL’AULA

SIBILLA CUMANA PASSAGGIO MAR ROSSO TRIONFO GIUSEPPE

PARTE DESTRA DELL’AULA

SIBILLA ERITREA DAVIDE E GOLIA TRASPORTO DELL’ARCA

Le sibille

La sibilla Cumana è la più famosa tra le sue consorelle. Da Apollo ebbe il dono della

longevità. I padri della Chiesa, ed in particolare Sant’Agostino, diedero ai responsi

attribuiti alla sibilla Cumana una lettura cristologica, mettendo in evidenza

l’aspettativa messianica. E’ questa particolare visione che giustifica la presenza della

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sua immagine nell’oratorio. Anche la sibilla Eritrea, benché a causa del riferimento

geografico sembri lontana dalle istanze culturali e religiose dell’occidente greco-

romano e cristiano, è anch’essa accomunata fra quelle voci del lontano paganesimo

che hanno intuito l’unicità di Dio. Il testo di tale profezia è fissato sul rotolo di papiro

che la sibilla mostra all’osservatore.

Trionfo di Giuseppe Ebreo

E’ da notare che la figura di Giuseppe è in una posizione defilata rispetto agli altri

personaggi che affollano la scena. Al primo sguardo si è attratti dai due cavalli

bianchi che trainano il carro: inoltre salta all’occhio il cagnolino, che sembra aver

causato la caduta di uno spettatore o, ancora, dal grosso tamburo che risuona dei

colpi del musicante. La scenografia all’interno della quale si svolge il trionfo tributato

a Giuseppe Ebreo per aver salvato l’Egitto da lunghi anni di carestia, rappresenta un

angolo ben determinato della Pesaro seicentesca. E’ possibile identificare, a sinistra, il

vecchio edificio del Comune con il noto balcone ad angolo. Il complesso è stato

demolito nel 1932 perché vetusto e reso quasi inagibile in seguito ai terremoti del

1916 e 1930. Sulla destra è riconoscibile il palazzo Baviera. Fra i due edifici si apre

l’attuale via San Francesco, nella quale si intravede il portale trecentesco della chiesa

di San Francesco. Al termine della via si erge Porta Fanestra, demolita nel 1914. La

stessa via è documentata in una delle tarsie del coro ligneo della chiesa di

Sant’Agostino. L’attenzione posta dall’autore nel riprodurre un angolo significativo

della topografia cittadina è da attribuire alla volontà di collegare emblematicamente

la confraternita alla città.

Il passaggio del mar Rosso

Si tratta di uno degli avvenimenti che hanno segnato maggiormente il popolo

ebraico, che in quell’occasione ha potuto constatare la potenza di Dio. Non per nulla

alla tela sono legate le parole: “Omnipotens nomen eius”. La potenza del nome del

Signore è evidenziata dall’atteggiamento di Mosé che rivolge lo sguardo estatico

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verso l’alto, come a volere indicare l’origine del prodigio del quale lui e tutto il

popolo stanno beneficiando. Non altrettanto convinti sembrano gli altri personaggi, a

cominciare da Aronne. I loro volti e i loro sguardi sembrano improntati più ad un

sentimento di stupore che di riconoscenza.

Davide e Golia

Il soggetto di questa tela fa riferimento ad un celeberrimo episodio biblico: così recita

la didascalia che accompagna il quadro:

VENIO AD TE IN NOMINE DOMINI 16

E’ la potenza del nome del Signore che ha messo in tensione il corpo di Davide

facendone vibrare ogni singolo muscolo, ed è la potenza del nome del Signore che ha

svuotato di energia il gigante Golia.

Il trasporto dell’Arca

Per l’ebraismo l’Arca dell’Alleanza è un elemento fondamentale della fedeltà a Dio

che, dopo aver messo la preziosa cassa sotto la protezione di un suo angelo, invita

Davide a prestare la massima attenzione ai consigli di tanto protettore. Per creare un

collegamento col testo biblico, citiamo Esodo 23,20, “Ecco io mando un angelo davanti a

te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato”. Con questo

quadro si conclude l’iter illustrativo delle pareti dell’aula. Alle pareti laterali, però, si

dovrà ritornare per leggere le tele monocrome che fanno da spalliere ai sedili.

16 “Vengo a te nel nome del Signore”.

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Le pareti del presbiterio

L’ordine con il quale poter leggere le varie parti pittoriche (nell’ottica metodologica

della “Biblia pauperum”) sembra poter essere:

1. Annuncio a Maria

2. Sogno di Giuseppe

3. Circoncisione di Gesù

4. San Luca

5. San Giovanni

6. San Marco

7. San Matteo

8. San Pietro risana lo storpio

9. San Paolo libera l’ossessa

Ne l’Annuncio a Maria troviamo la Vergine immersa in un ambiente casalingo molto

vissuto: è una Maria pensosa, assorta nella lettura di un libro. Si ha l’impressione che

la fanciulla, in seguito all’improvvisa esperienza dell’annunciazione, presa da un

ansia imprevista, abbia lasciato le faccende domestiche per riflettere sull’accaduto.

Nel grande quadro (“Il sogno di Giuseppe”) posto a destra dell’altare maggiore

troviamo un san Giuseppe dormiente immerso in un ambiente dal quale emergono

gli elementi connessi con il suo mestiere di artigiano: il banco da falegname, una

grande pialla accostata al muro e, sul piano di lavoro, altri attrezzi fra cui una

tenaglia e grossi chiodi. In questa scena viene fatto riferimento a Matteo 1,21,

richiamato dalla frase: “Vocabis nomen eius Jesum”, ovvero, “Lo chiamerai Gesù”.

L’immagine centrale (“La circoncisione di Gesù”, opera di Federico Barocci) poco

importa che sia la copia ridotta dell’originale, oggi conservata al Louvre. Questo

quadro emana sprazzi di luce capaci di illuminare tutto il complesso. Per descrivere

il soggetto dipinto non ci sono parole migliori di quelle dell’evangelista Luca (2,21):

“Quando furono passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù,

come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre”.

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L’imposizione del nome ad ogni nuova creatura e la conseguente circoncisione sono,

secondo la tradizione ebraica, i segni dell’unione e della fedeltà a Dio. La

collocazione di questo dipinto al centro della chiesa simboleggia la dedicazione della

stessa chiesa e della confraternita al “Nome di Dio”. E’ a questo punto del percorso

che si ha la sensazione di essere giunti nella “luce” della salvezza.

L’esplorazione delle pitture che figurano sulla parete dell’altare maggiore non

sarebbe completa senza la citazione dei quadri monocromi posti in basso, attorno al

presbiterio. Vi sono rappresentati i quattro evangelisti i quali hanno tramandato la

vita e le opere del Messia. Gli evangelisti sono raffigurati in ambienti indefiniti: li

troviamo, inoltre, posti non nell’ordine classico dl canone biblico, ma in ordine

inverso: Luca, Giovanni, Marco e Matteo.

La tela “San Pietro risana lo storpio” narra la vicenda di Atti 3: la didascalia

riportata è: “In nomine Iesu surge”, ovvero “Nel nome di Gesù, cammina”. A seguire

troviamo “San Paolo libera l’ossessa”: Paolo e Sila stanno percorrendo le vie di

Filippi, e l’Apostolo è infastidito dalle grida di una giovane indovina. Paolo risponde

“In nome Iesu exire”, ovvero “Nel nome di Gesù ti ordino di partire da lei” (Atti 16,18).

I Padri e i Dottori della Chiesa. Le opere di misericordia

I riquadri monocromi che fungono da spalliere ai sedili raffigurano figure eccelse che

hanno segnato la storia della Chiesa, in particolare nei primi secoli. La sequenza dei

personaggi comincia a destra della porta d’ingresso:

1. San Bernardino da Siena (1380-1444)

2. San Bonaventura (1221-1274)

3. San Girolamo (347-420)

4. Sant’Agostino (354-430)

5. San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153)

6. San Tommaso d’Aquino (1225-1274)

7. Sant’Ambrogio (334-397)

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8. San Gregorio (540-604)

Dopo aver parlato di questi giganti della vita mistica e spirituale, viene dedicato

spazio alle persone comuni: questa pagina importante nella lettura del significato

teologico dell’oratorio del Nome di Dio, si trova in alto al limite delle pareti laterali,

al confine col soffitto. E’ una ristretta fascia monocroma affollata di figure di bambini

e bambine: questi fanciulli sono in procinto di compiere le cosiddette “Opere di

misericordia”: danno da mangiare agli affamati, visitano malati e carcerati,

confortano i sofferenti, accolgono i senza tetto, perdonano le offese, pregano Dio per i

vivi e per i morti. Queste opere di misericordia sono volte a rendere operante nella

nostra vita il “Nome di Dio”. A questo riguardo è bene meditare Matteo 25,34-46.

La sagrestia

Da una porta che si apre nella parete sinistra si accede ad un locale dalla duplice

funzione: sagrestia per l’adiacente chiesa e sala di riunione dei confratelli. Ci si

stupisce per l’abbondanza di luce che fluisce dalle due finestre poste a lato

dell’altare, e per i colori che sembrano piovere dal soffitto riccamente decorato. Si

ipotizza che questa sovrabbondanza di luce sia stata posta in essere per rasserenare

l’animo di quanti dovevano riunirsi in quest’ambiente per parlare dei problemi della

confraternita. Sulla porta secondaria del locale si legge un cartiglio che recita: “I

confratelli col proprio denaro finirono di ornare questo oratorio mentre decorrevano 17

secoli”. Stando dunque a questa iscrizione, il completamento della decorazione della

chiesa avvenne nel ‘700, allorché le forme del barocco avevano già cominciato a

cedere il passo ad un linguaggio figurativo meno esasperato e più disteso.

Sulla parete alla quale è addossato l’altare spicca un grande monogramma

bernardiniano (san Bernardino da Siena è noto per essere raffigurato assieme al

monogramma IHS). Al centro del soffitto campeggia l’immagine di Gesù bambino,

inserito in una cornice ottagona entro i cui lati è iscritta la frase:

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PARVULUS NATUS EST NOBIS ET FILIUS DATUS EST NOBIS 17

La parete di fondo

La meditazione sull’iconografia dell’oratorio si conclude con uno sguardo alla parete

di fondo, dove troneggia il sontuoso organo. Procedendo con un esame attento, si

scopre che nella struttura esterna dell’organo sono inserite delle scritte che

rasserenano l’animo:

• IN SONO TUBAE

• LAUDATE DOMINUM

• IN PSALTERIO ET CITHARA

• IN TIMP. ET CHORO

• IN CHORDIS ET ORG.

• IN CYMBALIS BENESONANTIBUS

• IN CYMBALIS IUBIL.

Si tratta di citazioni prese dal salmo 150, che nella sua interezza recita così:

“Alleluia. Lodate il Signore nel suo santuario, lodatelo nel firmamento della sua potenza,

lodatelo per i suoi prodigi, lodatelo per la sua immensa grandezza, lodatelo con squilli di

tromba, lodatelo con arpa e cetra, lodatelo con timpani e danze, lodatelo sulle corde e sui

flauti, lodatelo con cembali sonori, lodatelo con cembali squillanti, ogni vivente dia lode al

Signore. Alleluia”.

17 “Poiché un bimbo è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Isaia 9,5).

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QUINTA PARTE

SCHEDE DEI PITTORI E DEGLI SCENOGRAFI

PANDOLFI

Giovanni Giacomo Pandolfi (pittore e ceramista, 1567-1636), figlio del pittore

Giovanni Antonio e allievo dello Zuccari, è artista rappresentativo per le sue molte

opere. La sua prima tela documentata è la “Trasfigurazione di Cristo” del 1595,

conservata nella chiesa di Santa Caterina di Rieti. Sempre a Rieti nel 1600 dipinse una

“Madonna e santi”, conservata nella chiesa di Sant’Agostino a Pesaro. Tornato nella

sua città, dipinse una “Madonna” destinata alla Santa Casa di Loreto. E’ datata 1610

l’Immacolata Concezione custodita nella chiesa parrocchiale di Colbordolo, ed del 1615

la “Madonna e santi” sita in Santa Caterina a Urbino. La sua opera principale è la

decorazione dell’oratorio del Nome di Dio a Pesaro, lavoro durato 19 anni, dal 1617

al 1636. Il suo ultimo lavoro è un “San Girolamo” conservato al Museo civico di

Pesaro. Pandolfi fu anche buon ceramista della famosa scuola di Pesaro.

SABBATINI

Nicola Sabbatini (1574-1614), nobile pesarese, studiò sotto Guidubaldo Del Monte e

fu ingegnere rinomato. Tra le altre opere, si ricorda la progettazione del porto di

Pesaro. Nel 1598 costruì una cappella nella chiesa della Madonna dei Servi a Pesaro.

A lui è attribuita la progettazione e la decorazione della chiesa del Suffragio. Infine,

collaborò in maniera consistente con Pandolfi per la decorazione e la progettazione

scenografica della chiesa del Nome di Dio.18

18Notizie tratte da E. Mondaini, Le nostre glorie – Profili di pesaresi illustri (1934) e da G. M.


Claudi, L. Catri, Dizionario biografico dei marchigiani (2002).

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I TESTI SONO FRUTTO DI UNA RIELABORAZIONE DELL’AUTORE SULLA

BASE DEGLI STUDI DI GRAZIA CALEGARI E TEODORO BRIGUGLIO.

LE FOTO SONO STATE SCATTATE DALL’AUTORE, IN PARTE

RIPRENDENDOLE DAL TESTO

“SCENE DAL SEICENTO. I CONFRATELLI E LA CHIESA DEL NOME DI DIO”

IL LAVORO È STATO SVOLTO NELL’ARCO DI DIECI MESI,

DAL MAGGIO 2007 AL MARZO 2008

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