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Gabriel Bunge

Akedia

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L’ACEDIA:
UNA MALATTIA TIPICA DEI MONACI?*

Il monachesimo, e ancor più la sua forma estrema e originaria, l’anacoretismo, appare oggi a
molti – e non solo non cristiani – come un’esistenza strana, ai margini della vita «normale», se
non addirittura al di fuori della normalità. Si tende perciò a parlare, anche negli stessi ambienti
monastici, di una «spiritualità monastica».
Le lotte e i problemi, le esperienze spirituali e i metodi dei monaci, di conseguenza, appaio-
no sovente, anche a cristiani credenti, come qualcosa che appartiene esclusivamente al mona-
chesimo, senza un rapporto reale con la vita del cristiano «ordinario».
Qualche lettore, quindi, sarà tentato di accantonare subito questo libretto, dato che vi si trat-
ta degli insegnamenti di un padre monastico: «Che cosa avrà mai da dirci costui oggi?». Ma chi
avrà la pazienza di leggere fino alla fine si renderà conto che c’è qui da sfatare un grave malin-
teso. Un malinteso peraltro ampiamente diffuso, e da tempo, di cui sono in parte responsabili
gli stessi monaci.
Indubbiamente, secondo gli esperti in materia, l’acedia (akedia, in greco) era uno dei proble-
mi più gravi con cui l’antico monachesimo e specialmente gli anacoreti dovevano confrontarsi.
«L’acedia, così come la definisce Evagrio, è essenzialmente legata alla vita anacoretica ed è pro-
pria di colui che ha scelto questo stato»1. Se ne deve dedurre che l’acedia è una malattia specifi-
ca ed esclusiva degli anacoreti? Certo, voci autorevolissime, come quelle di Giovanni Cassiano
e Giovanni Climaco, possono essere citate a suffragio di questa tesi2. Infatti già nel trattato De
octo vitiosis cogitationibus attribuito a Nilo di Ancira si dice laconicamente in tal senso:

A coloro che vivono nell’hesychia fa guerra soprattutto la passione dell’acedia3.

Lo stesso Evagrio sembra confermare questa tesi quando afferma, in una lettera ad alcuni mo-
naci che lo avevano consultato circa la tentazione di lasciare la loro casa, quando erano in preda
all’acedia:

Lasciare la casa sensibile è per il monaco una cosa vergognosa, perché è il segno di una sconfitta.
Ma questo capita a coloro che vivono in solitudine4.

Il seguito della stessa lettera prova però in modo inequivocabile che Evagrio non pensa affatto
soltanto agli anacoreti:

In Egitto, infatti, gli stessi monasteri vengono costruiti con tante celle [singole], e ognuno dei fra-
telli si reca da solo nella sua cella, per lavorare con le proprie mani e pregare. Essi si riuniscono
però nel medesimo luogo nell’ora del ristoro e nell’ora delle preghiere [in comune] che sono fis-
sate al mattino e alla sera5.

Questa lettera è rivolta a monaci che vivono chiaramente da cenobiti, senz’altro non in Egitto,
forse in Palestina, e che conducono una vita evidentemente molto meno isolata di quella che
Evagrio qui descrive loro.

* Estratto da G. BUNGE, Akedia, il male oscuro, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella) 1999,

pp. 17-34 (capitolo I). Per i riferimenti bibliografici, si rimanda all’opera completa (pp. 151-153).
1 A. Guillaumont, in EVAGRE LE PONTIQUE, Traite pratique ou Le moine I, SC 17, Paris 1971, p. 89. Ritroviamo

lo stesso parere dell’autore in altri numerosi studi su Evagrio.


2 GIOVANNI CASSIANO, De institutis coenobiorum X,1; GIOVANNI CLIMACO, Scala Paradisi XIII.
3 PG 79,1460A.
4 Epistula 27,7 gr.
5 Epistula 27,7.
Ugualmente, altre due importanti affermazioni sul tema dell’acedia, che incontreremo più
avanti, si trovano in due opere – le Sententiae ad virginem e le Sententiae ad monachos – che pre-
suppongono indubbiamente una vita cenobitica. Probabilmente si tratta dei due monasteri fon-
dati a Gerusalemme, sul monte degli Ulivi, da Melania e Rufino, gli amici di Evagrio, monasteri
quindi non situati nel deserto, bensì in città.
Queste osservazioni, che troveranno numerose altre conferme nel corso della nostra esposi-
zione, ci forniscono già un primo, importante risultato: nell’ottica di Evagrio l’acedia non è affatto
una malattia dei soli anacoreti! Essa colpisce in egual misura coloro che vivono in comunità. Cer-
to, si può essere tratti in errore dal fatto che Evagrio scriva soprattutto per gli anacoreti, ossia
per monaci che vivono, come lui stesso, in solitudine e che solo di quando in quando incontra-
no altri fratelli o visitatori, per cui le descrizioni che egli dà dell’acedia tengono conto, natural-
mente, delle particolari condizioni di vita dei suoi lettori.
«Benissimo – dirà qualcuno –, ma in che cosa ci concerne tutto questo? Noi non siamo ne
anacoreti ne cenobiti, ma dei cristiani che vivono nel mondo!». Questa obiezione nasce dal gra-
ve malinteso di cui si è detto sopra, secondo il quale ci sarebbe un mondo che appartiene uni-
camente ai monaci e agli anacoreti, i cui problemi sarebbero in definitiva estranei ai cristiani
«normali». Ma si perde così di vista una verità elementare: i vizi che opprimono l’umanità sono
sempre e dovunque gli stessi, solo le loro manifestazioni concrete variano a seconda delle con-
dizioni di vita degli uomini. L’acedia poi è proprio uno dei vizi capitali!
Evagrio dice con molta chiarezza:

Con i secolari (kosmikoi) i demoni lottano soprattutto servendosi delle cose, con i monaci per lo
più servendosi dei pensieri, poiché vivendo in solitudine sono privi delle cose6.

In un altro passo egli fa una distinzione ancora più precisa, distinguendo, fra gli stessi «mona-
ci», tra anacoreti e cenobiti:

Contro gli anacoreti i demoni combattono nudi, mentre contro coloro che praticano la virtù nei
cenobi o nelle comunità essi armano i più trascurati tra i fratelli7.

Evagrio quindi è del parere che gli avversari degli uomini, ossia le passioni o i demoni che le
suscitano, siano gli stessi su tutta la terra, ma che ci siano vari gradi nell’intensità della lotta. I
fedeli che vivono nel mondo sono per lo più tentati dalle cose materiali, mentre i cenobiti che
vivono in comunità, e sovente in uno spazio ridotto, sono messi alla prova soprattutto dai loro
fratelli più negligenti e da tutti quegli attriti, piccoli e grandi, che la vita comune comporta e che
sono molto più difficili da evitare in monastero che non nel mondo. Gli anacoreti infine, che
hanno rinunciato non solo ai beni materiali ma in larga misura anche ai rapporti con gli altri,
sono indotti in tentazione soprattutto dai «pensieri», cioè da tutte quelle immagini e rappre-
sentazioni che tanto le cose materiali quanto le relazioni umane e i loro problemi lasciano inevi-
tabilmente impresse nella nostra memoria. I «pensieri» o ricordi rappresentano le passioni in un
certo senso allo stato puro, svincolate da qualsiasi causa concreta e immediata. Ed Evagrio con-
clude con estrema pertinenza che questa lotta «corpo a corpo» è di gran lunga la più dura, poi-
ché nessun uomo può essere cattivo quanto un demone8.
Questa convinzione deve farci riflettere! Il monachesimo delle origini aveva chiara coscienza
che nel deserto non avrebbe incontrato nient’altro che «il principe di questo mondo». Andare
con Cristo nel deserto non significa sfuggire a tutte le tentazioni, ma piuttosto, come Cristo e
con Cristo, affrontare «nudi» il tentatore. Pensare che oggi le cose siano diverse sarebbe
un’illusione fatale. L’oppositore del genere umano non è legato a luoghi, tempi o condizioni di
vita. Chi entra oggi in monastero o si dà alla vita religiosa o ecclesiastica, in questo nostro mon-
do demitizzato, spesso non considera questo fatto fondamentale: egli è eo ipso entrato nel «de-

6 Capita pratica ad Anatolium 48.


7 Capita pratica ad Anatolium 5.
8 Capita pratica ad Anatolium 5.
serto», nel luogo dell’isolamento e della derelizione, di desolati percorsi di sete e di ingannevoli
miraggi. Chi non volesse ammettere questa realtà e che immaginasse di essere solo un bravo
«operaio nella vigna del Signore», correrebbe il rischio di misconoscere la vera natura delle dif-
ficoltà che inevitabilmente incontrerà. Sarà sorpreso di trovare nella sua «vigna» tanta «zizza-
nia», «spine e cardi», invece di «uva», e non capirà che è stato il «nemico» a seminarli di nasco-
sto. Questa lotta non è un semplice incidente, un imprevisto, ma è parte integrante della vita nel
deserto!
Paradossalmente questa mancanza di consapevolezza non si riscontra solo nei cristiani che
vivono nel mondo, il cui sguardo spesso è offuscato dall’opacità dei beni materiali, ma anche in
tanti monaci ed ecclesiastici, che pure dovrebbero essere più avvertiti. L’acedia ne è un esempio
particolarmente significativo, come vedremo. Da dove questa sprovvedutezza? Forse dal fatto
che gli stessi monaci o religiosi o ecclesiastici non vanno più consapevolmente con Cristo nella
spietata nudità del «deserto», ma preferiscono restare nell’opacità del «mondo»?

Qualcuno forse ci obietterà: «Non parlateci più del ‘mondo’ ne del diavolo! Sono vecchie fa-
vole, e l’uomo del nostro tempo non sa che farsene!».
Che sia diventato difficile parlare all’uomo moderno del male come di una potenza persona-
le, è vero. Talmente vero, che un biblista contemporaneo ha potuto avanzare la richiesta che la
si finisca una volta per tutte con il «mito del diavolo»9!
Il poeta avrebbe dunque visto, in questo caso, più chiaro del biblista? Nel suo Spleen de Paris
Baudelaire, con grande sgomento del diavolo, fa dire a un predicatore, che era «più acuto dei
suoi confratelli», questa frase diventata giustamente celebre per il suo cinismo e la sua chiaro-
veggenza:

Miei cari fratelli, non dimenticate mai, quando sentirete vantare il progresso dei lumi, che la più
bella scaltrezza del diavolo è quella di persuadervi che non esiste10!

Non suona forse come una terribile «profezia» di cui solo oggigiorno misuriamo la piena porta-
ta? E che dire di «quella bizzarra affettazione della noia», che a giudizio del diavolo «è la fonte
di tutte le nostre malattie e di tutti i nostri miserabili progressi»? Ma lasciamo il poeta dei Fiori
del male e torniamo a considerare i nostri padri del deserto che, a loro volta, nulla hanno perso
della loro attualità.

Nei testi che citeremo si parla per lo più indifferentemente di passioni, di pensieri e di demoni,
dal momento che i secondi sono i veicoli delle prime, gli ultimi, poi, gli autori di entrambi. Pur
senza voler sviluppare qui la «demonologia» dei padri del deserto e quella di Evagrio in parti-
colare, ci pare opportuno proporre alcune considerazioni.
In netta opposizione al dualismo manicheo, che poté conoscere negli ambienti a lui vicini, E-
vagrio afferma che il male è fondamentalmente una pseudo-esistenza, una privatio boni. Con ciò
non viene minimamente negato il suo carattere di realtà, ma viene risolutamente respinta una
contrapposizione metafisica di due principi originari.
Per questo Evagrio si volge con sdegno contro ogni diffamazione del Creatore. La creazione è
buona ed è espressione della bontà di Dio, nella sua totalità e in ogni sua parte. Evagrio si sca-

9 Quanto poco biblico sia in realtà un tale atteggiamento «illuminato», l’ha già messo in evidenza un ese-
geta solido come Heinrich Schlier nel suo Principati e potestà nel Nuovo Testamento, Brescia 1967 (Quaestio-
nes disputatae).
10 «Mes chers frères, n’oubliez jamais, quand vous entendrez vanter le progrès des lumières, que la plus

belle des ruses du diable est de vous persuader qu’il n’existe pas!»: CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes,
Paris 1951 (Bibliothèque de la Pleiade), p. 320.
glia con forza soprattutto contro coloro che designano il corpo come cattivo. Viene così messo
un argine, in via di principio, non soltanto al suicidio, ma anche ad ogni ascesi nemica del cor-
po, che è un lento suicidio per motivi più o meno religiosi11.
In quanto pseudo-esistenza, il male non ha in se stesso nessuna consistenza, e non ce l’ha
nemmeno il malvagio. La sua malvagità è di natura secondaria, poiché «Dio non ha creato niente
di male»12. Lo stesso «diavolo non è malvagio di natura»13, lo è solo per il cattivo uso che fa del-
la sua libertà. Quando noi insultiamo i demoni, quindi, non è a causa della loro natura, bensì
per la loro malvagità 14.
La stessa distinzione Evagrio la fa anche per l’uomo peccatore. Se per la sua empietà questi
può essere detestabile, in quanto immagine di Dio è sempre degno di amore15. Di conseguenza
non si dà una giusta ira contro un proprio simile16.
Il male esiste dunque solo in quanto parassita che si innesta, alienandolo, sull’essere creatu-
rale, che è buono. Da qui Evagrio trae la conclusione (discussa) che il male non solo è seconda-
rio, ma è anche finito: «Ci fu un tempo in cui il male non esisteva, e ci sarà un tempo in cui non
esisterà più», poiché eterno è solo ciò che corrisponde alla volontà originaria di Dio creatore: il
bene17. Ora, in che modo l’uomo fa esperienza del male come forza impersonale e quindi del
maligno come entità personale? Come mostra il continuo scambio, in Evagrio, tra «pensiero»
(quale veicolo delle passioni), «passione» e «demonio», anche nell’ambito umano il male può
avere una consistenza solo in quanto parassita. Esso aliena l’essere-persona dell’uomo, il quale,
nella misura in cui esperisce se stesso come persona, percepisce pure il male come personale nel
«demonio». Al di fuori dell’ambito umano, invece, il male è percepito generalmente come ano-
nima «potenza», «forza», eccetera, che aliena le forze della creazione. Generalmente per l’uomo
moderno risulta estremamente difficile, come si è detto, prendere coscienza del carattere perso-
nale del male e quindi dell’esistenza di potenze maligne personali come Satana e i demoni. Ep-
pure il fatto che il mondo satanico sia tanto più presente in certe zone periferiche della società,
dovrebbe far riflettere. Non vi è qui forse un misterioso legame? Una situazione analoga l’uomo
moderno – quello occidentale per lo meno – la vive nei confronti della consapevolezza del peccato:
gli è diventata totalmente incomprensibile la coscienza del peccato che avevano i padri. Alla
consapevolezza di essere un peccatore per aver commesso dei «peccati» – gravi o più leggeri
che siano – in modo personalissimo, si contrappone oggi, per molti, un diffuso «senso di colpa»,
al quale non pochi cercano di sottrarsi, quando il suo peso diventa insopportabile, con atteg-
giamenti di aggressività nei confronti della società, poiché l’uomo si rende ben conto che da
questo senso di colpa, o addirittura da questo complesso di colpa, che per l’appunto non è un
peccato in cui è in gioco una responsabilità personale, nessuno potrà liberarlo. Sì, manca ciò che
è essenziale al peccato: il vis-à-vis personale, in definitiva Dio, contro il quale l’uomo ha «pecca-
to». Per il «male» o «l’imperfezione» non si dà perdono, perché solo una persona può perdonare
un’altra persona. Così dunque l’esperienza di essere personalmente peccatore – e ugualmente
quella di essere perdonato e di essere liberato da ogni peccato – è legata all’esperienza della
persona di Dio.

Quanto più l’uomo si avvicina a Dio, tanto più si vede peccatore. Il profeta Isaia infatti, quando
vide Dio, si proclamò «miserabile e impuro» (Is 6,5)18.

Ci sarebbe parecchio da dire sulle ragioni profonde di questa crescente incapacità a riconoscere
il male come potenza personale, che tuttavia certi spiriti illuminati ritengono costituisca un

11 Capita pratica ad Anatolium 52.


12 Kephalaia gnostika III,59.
13 Kephalaia gnostika IV,59.
14 Kephalaia gnostika V,47.
15 Scholia in Psalmos 118,113 ν.
16 Oratio 24.
17 Kephalaia gnostika 1,40.
18 Matoes 2, in Vita e detti dei padri del deserto, p. 331.
grande «progresso», anzi un’autentica «liberazione». Ma come è già emerso chiaramente, qui
non è in gioco solamente il «diavolo»: egli può benissimo rinunciare al fatto che gli uomini lo
ritengano autenticamente «esistente». Molto più seria è la crescente incapacità – ben poco rico-
nosciuta come tale – a prendere coscienza del proprio essere personale. Noi siamo di fatto te-
stimoni di un processo sempre più profondo di spersonalizzazione che, in ultima analisi, minac-
cia l’uomo moderno nel suo stesso essere uomo.
Quel che si svolge davanti ai nostri occhi e nei nostri cuori sono vedute parziali di un evento
in definitiva «metafisico», che noi non abbiamo la possibilità, appunto, di vedere, ma soltanto
di «credere». Il cristianesimo – come compimento della rivelazione biblica – è la massima mani-
festazione della persona di Dio nella persona dell’uomo. Solo nella persona divino-umana di Gesù
Cristo, perfetta autorivelazione della persona di Dio nella sua perfetta «immagine», l’uomo spe-
rimenta se stesso come creato «a immagine di Dio» e quindi come «persona» creata, finita. Ma
se questa «immagine» creata si stacca dal suo «prototipo» increato, svanisce nel contempo an-
che l’esperienza dell’essere personale, sia divino che umano. Ciò che resta, allora, è l’«essere in
balia», è la «solitudine» dell’uomo moderno «gettato» nel mondo. Questa dolorosa esperienza
non viene risparmiata nemmeno ai santi; quanto diverso, però, è il modo in cui essi la vivono!
Si pensi all’impressionante risposta che Cristo diede a Silvano del Monte Athos quando il mali-
gno gli si era opposto con tutta la virulenza della sua potenza personale: «Resta all’inferno e
non disperare!». È l’esperienza dell’estrema lontananza di Dio: sostenuta poggiando sulla paro-
la del Risorto, la cui vittoria sulla morte e sugli inferi noi confessiamo nella fede.

Si potrebbe quindi formulare questa affermazione paradossale: che la consapevolezza di a-


vere a che fare con manifestazioni di potenze malvage personali, quando si tratta dei mali del
mondo e della propria anima, sta in un rapporto diretto con la coscienza del proprio essere-
persona. In gioco c’è, dunque, l’essere «a immagine di Dio» da parte dell’uomo, il suo fonda-
mentale riferimento a Dio, il solo che nel suo essere trinitario è persona in modo assoluto e perciò
il solo che può rendere possibile l’essere personale creato.
Gli effetti di questo processo generalizzato di spersonalizzazione sono oggi sotto gli occhi di
tutti: là dove la coscienza dell’essere-persona di Dio, di se stessi e anche delle «potenze mal-
vage» scompare, ha libero corso una paura diffusa e inafferrabile di essere esposti «al male» in
senso anonimo. Questo «male» si manifesta allora nella storia (politica, strutture sociali, eccete-
ra), nella propria vita (istinti, ereditarietà, ambiente, eccetera), persino nel cosmo (fato, influsso
degli astri, eccetera) nei più svariati modi, senza che l’uomo possa sfuggirgli. Anzi, l’uomo si
trova a essere di nuovo in balìa di quegli «elementi del cosmo» dai quali razione redentrice di
Cristo lo aveva liberato (Gal 4).
Non intendiamo qui esprimere giudizi sbrigativi sui motivi che, non da oggi soltanto, ma
oggi più che mai, hanno portato a questa perdita del giusto equilibrio. Tuttavia se si considera
lo strano entusiasmo con cui attualmente non pochi naturalisti si rivolgono, alla ricerca di una
nuova «unità», alle religioni a-personali dell’Asia e addirittura a certe forme di un mai scompar-
so gnosticismo, c’è da chiedersi se questa spersonalizzazione non sia l’ultimo frutto – certo non
voluto, ma nemmeno inevitabile – di quella «gnosi» naturalistica che a un dato momento della
storia umana si è staccata dalla teologia. Con questa separazione, che voleva essere solo una
soluzione pratico-tattica, è andato perso quel riferimento a un vis-à-vis assoluto che solo rende
possibile il nostro stesso io. Si è smarrita così anche la percezione di una unità, che non è la soli-
tudine di una fusione universale, bensì l’essere-uno (Einssein), senza confusione, dell’io nel faccia a
faccia con il suo Tu.
Ma torniamo ai nostri padri del deserto!

L’acuta percezione degli antichi padri di avere a che fare con potenze malvage personali è
dunque effettiva testimonianza della profonda consapevolezza che essi avevano della loro di-
gnità di uomini, della loro libertà e della loro responsabilità di fronte alla vita. Il male appare
così come una potenza per sua natura estranea, che dall’esterno cerca di insinuarsi nella persona
per poi, una volta ammessa, pervertirla dall’interno ed estraniarla così da Dio.
Nel battezzato, che ha rinunciato a Satana davanti a dei testimoni e che nell’immersione bat-
tesimale è morto e risuscitato con Cristo, il maligno, in linea di principio, non dovrebbe più tro-
vare spazio. Se, ciò nonostante, abbiamo così spesso l’impressione di essere da lui non solo mo-
lestati, ma addirittura dominati, ciò non dipende dal fatto che il demonio dimora nei nostri
cuori anche dopo il battesimo, come ritenevano i messaliani: la grazia del battesimo lo ha com-
pletamente scacciato, e luce e tenebra non abitano più insieme. Tuttavia egli ha ancora, per così
dire, degli alleati naturali nel nostro patrimonio ereditario, nel nostro ambiente, nelle nostre
abitudini, nella debolezza della nostra volontà, e si serve di essi. È un errore credere, sostiene
Evagrio, che i demoni conoscano il nostro cuore. Solo Dio, che lo ha creato, «conosce il cuore»19.
Certo, gli avversari hanno la possibilità di portare al nostro cuore, per mezzo dei loro alleati, le
loro seduzioni malvage; tuttavia davanti ad esse noi rimaniamo liberi di accettarle o di respin-
gerle.
Ogni sforzo del cristiano, e soprattutto dell’asceta, mira quindi essenzialmente a neutraliz-
zare questi alleati e a non concedere nessun diritto di domicilio all’«estraneo». Si tratta, in altre
parole, di purificare il cuore e mantenerlo puro. «Non date spazio al diavolo!» (Ef 4,27).
La «demonologia» dei padri del deserto, così straordinariamente viva, non è in fondo che il
riflesso fedele della loro vita spirituale oltremodo ricca e differenziata. Nessuna meraviglia che
Evagrio vi abbia trovato quel ricco tesoro di esperienza, a partire dal quale ha sviluppato una
sua psicologia, così mirabilmente sfaccettata. Ben lontana dalla paura medievale – così poco
cristiana, in definitiva – del diavolo e delle streghe, questa demonologia è sostenuta da un otti-
mismo di fondo:

A quel «dragone sfuggente» (Is 27,1) che vi incalza non dovete neppure pensare: non prendetelo
per qualcosa e non temetelo. Non è altro che uno schiavo fuggitivo, che ha vissuto male e si è sot-
tratto al suo padrone. Non dategli spazio fino alla morte! Nostro Signore vi ha dato il potere di
calpestare serpenti e scorpioni (Lc 10,19), e voi tremate all’udire la voce dei demoni, perché sibi-
lano? ... Il drago sa solo minacciare20.

Le storie dei monaci sono piene di episodi, in parte gustosissimi, in cui i padri del deserto si
burlano dei demoni, o semplicemente li puniscono con una totale indifferenza. Una di queste
storie, che Evagrio stesso ci ha tramandato, illustra bene questo tratto della spiritualità degli
antichi monaci:

A un altro santo, che conduceva vita solitaria nel deserto e pregava intensamente, si avvicinarono
dei demoni e per due settimane giocarono con lui come con una palla, lanciandolo per aria e ri-
prendendolo su una piccola stuoia; ma non riuscirono assolutamente a far discendere, nemmeno
un poco, il suo intelletto dalla preghiera infuocata21.

L’unico atteggiamento adeguato in questi casi, infatti, è il totale disprezzo nei confronti dei de-
moni22.
Questa «personificazione» del male, per noi grottesca, che persino un greco colto come Eva-
grio non disdegna affatto, non è semplicemente un riflesso della struttura mentale più o meno
semplice dei padri del deserto di allora: è soprattutto l’espressione di una coscienza estrema-
mente vigile e realistica della dignità e della responsabilità personali.
Lotta con i demoni significa in definitiva lotta per l’integrità della propria persona contro ogni
sorta di alienazione a causa del vizio. Questa lotta, benché sia unica, si svolge a diversi livelli:
nel «mondo», essa avviene in modo anonimo sul piano delle cose materiali, e per lo più non è

19 De diversis malignis cogitationibus 27.


20 Epistula 28,2.4.
21 Oratio 111.
22 Oratio 99.
percepita come tale dagli uomini; nella vita comunitaria, avviene in forma larvata sul piano
delle relazioni interpersonali. In mancanza sia delle cose che degli uomini, la lotta si riduce, per
gli anacoreti che abitano nel deserto, alla disputa con i «pensieri», con le complesse manifesta-
zioni della propria vita interiore. L’anacoreta è così rinviato a se stesso, e nessun altro è più la
causa del suo vizio se non, appunto, lui stesso. Egli lotta in definitiva con se stesso, per la pro-
pria integrità, lotta con il suo cuore non ancora purificato dal quale sgorgano i pensieri cattivi,
anche senza la provocazione di occasioni esterne. Solo la vigilanza e la sobrietà spirituale gli
consentono di non essere alienato dal maligno.

Date le circostanze esteriori insolite in cui questi «professionisti» della lotta contro il mali-
gno hanno scelto di vivere, le testimonianze dei «padri del deserto» producono sovente sull’uo-
mo moderno l’impressione di un qualcosa di bizzarro e di esagerato, al punto che egli, a torto,
non si sente chiamato in causa. Ma non è forse la reazione che abbiamo anche nei confronti del
loro «letteralismo» evangelico, che spesso ci entusiasma e nel contempo ci sconcerta? Per esem-
pio, un episodio come quello che segue – è ancora Evagrio a trasmettercelo – non sradica forse
dalle sue sicurezze ogni autentico cristiano?

Un fratello possedeva soltanto un vangelo. Avendolo venduto, diede il ricavato per nutrire gli af-
famati, proferendo questa parola degna di memoria: «Ho venduto – disse – la Parola stessa che
mi diceva: Vendi quello che possiedi e dallo ai poveri» (Mt 19,21)23.

Questa è la concreta realizzazione di un principio prettamente biblico che Evagrio nel suo Pra-
ktikos ha formulato con le seguenti parole:

…È impossibile che in qualcuno l’amore e il possesso coesistano: l’amore, infatti, non solo è di-
struttore del possesso, ma anche di questa nostra stessa vita transitoria24.

Si tratta in realtà di un problema di fondo di non piccola portata: in definitiva, la vita cristiana,
nella sua essenza, nei suoi scopi, nei suoi problemi e nei suoi metodi, è una, sì o no? Secondo
Evagrio, la risposta non può che essere: c’è un’unica vocazione cristiana. Laici e monaci, in-
somma, non hanno una «spiritualità» distinta, proprio perché lo Spirito, che tutti hanno ricevu-
to nel battesimo, è unico per tutti. Così pure i nemici e gli avversari del cristiano sono sempre e
dovunque gli stessi, per quanto si travestano. E anche la vittoria, la si raggiunge in un unico e
medesimo modo, per quanto laici e monaci, a prima vista, non utilizzino sempre gli stessi mez-
zi.
Anche qui, dunque, bisogna guardarsi dalle illusioni. Certe pratiche come la povertà, il di-
giuno, la veglia, la preghiera, il silenzio e molte altre, sovente considerate come «tipicamente
monastiche», sono invece esigenze che il Nuovo Testamento pone a tutti i cristiani, senza ecce-
zioni. Questo vale anche per la vita nel deserto, poiché essa non è altro che l’espressione simbo-
lico-visiva di quella separazione dal «mondo» e dalle sue pratiche che è richiesta a ogni cristia-
no. E non perché lì si sia al sicuro dal «principe di questo mondo»! Ma perché quello è il luogo
in cui Cristo, per primo e radicalmente, ha riportato la vittoria su Satana, vittoria in cui ogni
cristiano è chiamato a entrare con una decisione personale.
Contrariamente alle generazioni posteriori, i primi monaci, che si consideravano come i suc-
cessori della comunità primitiva e dei martiri, avevano ancora una coscienza molto viva di non
essere nient’altro che dei cristiani25. Cristiani nel senso pieno della parola, fino al «letteralismo».
Sapevano di trovarsi al cuore della chiesa, e non alla sua periferia. Perciò quel che essi vivevano
aveva un valore esemplare per tutta la chiesa, così come lo aveva la vita della primitiva comu-

23 Capita pratica ad Anatolium 97.


24 Capita pratica ad Anatolium 18.
25 Cf. De diversis malignis cogitationibus 5.
nità di Gerusalemme. Certo, la loro vita rappresentava una situazione estrema, ma così era sta-
to anche per la comunità di Gerusalemme! È sovente in queste situazioni estreme che i tratti
essenziali risaltano con inconsueta nitidezza, e proprio da ciò dipende il loro valore esemplare.
Sia egli religioso o laico, cenobita o anacoreta, il cristiano, se vuol seguire con fedeltà il suo
Signore, farà sempre, in questo mondo, un’unica e medesima esperienza, che in ultima analisi
non è nient’altro che quella di Cristo stesso. Anche le esperienze a prima vista straordinarie de-
gli anacoreti e dei cenobiti, se spogliate del «colore» dovuto a quel dato luogo e tempo, rivelano
un nucleo in cui ognuno può riconoscere la propria esperienza personale. Ma se le cose stanno
così, e l’oriente cristiano non ne ha mai dubitato, tant’è vero che mette il monachesimo al centro
della sua vita spirituale, allora le esperienze degli antichi padri del deserto, all’apparenza così
stravaganti e «fuori dal mondo», hanno ancora molto da dire anche a noi, oggi. E non solo le
loro lotte, ma anche le loro vittorie! Le esperienze fatte da questi padri del deserto, nelle loro
situazioni di vita estreme, l’esperienza della debolezza umana, dell’essere esposti alle potenze
nemiche di dentro e di fuori, ma anche l’esperienza di essere concretamente liberati da tutti
questi mali e di poter, per grazia, pregustare la beatitudine celeste, tutto questo può indicare
anche al cristiano che vive oggi nel mondo una via di liberazione verso un’autentica vita cri-
stiana. Basta guardare bene e ascoltare con attenzione.

In un’epoca in cui i demoni, un tempo banditi, sono tornati più numerosi che mai, sotto
nuovi nomi e con altri travestimenti, è imperativo urgente chiamarli di nuovo con il loro vero
nome. Tanto più che si è diffusa l’opinione, falsa, che essi non esistano affatto. Pensavamo di
aver smascherato una volta per tutte il mysterium iniquitatis come pura immaginazione, non so-
lo per quanto concerne il maligno, ma anche per «il cosiddetto male». Ma ecco che il demonio
scacciato è tornato con altri sette demoni peggiori di lui e si è impossessato della casa vuota con
tanta maggior facilità, in quanto l’ha trovata incustodita (cf. Mt 12,43-45).
Per avere una visione chiara delle cose è necessario liberare i «pozzi» che i nostri padri han-
no scavato in passato nel deserto col sudore della loro fronte, e che i «filistei», nel frattempo,
hanno perfidamente riempito di terra; non è ammissibile infatti che, per mancanza di «acqua
viva», gli uomini debbano percorrere lunghi sentieri, solo per bere alle acque torbide del «Ghi-
hon», cosa che già il profeta aveva loro espressamente proibito26. Quando i vecchi pozzi saran-
no riattivati e sgorgheranno di nuovo le loro acque limpide, purificate dalla sabbia del deserto,
allora si vedrà che esse possono ancora oggi spegnere la sete di coloro che sono in ricerca.
L’autore di queste righe è pervenuto a tale convinzione quando, qualche anno fa, ha letto al-
cune pagine del manoscritto di questo libretto ad alcuni studenti che gli chiedevano a cosa stes-
se lavorando. Beninteso, essi ignoravano completamente che cosa fosse l’acedia. Ma quando,
dopo aver letto loro alcuni testi del monaco del Ponto, chiesi loro: «Vi dicono qualcosa queste
righe?», gli studenti risposero stupiti: «Ma certo! Ciò che il suo padre del deserto descrive lì è il
male del nostro tempo!». La domanda seguente fu naturalmente: «Che cosa si può fare per con-
trastarlo?». Questo libretto tenta di dare una risposta.

26 Cf. Ger 2,18 LXX. In questa interpretazione scritturistica allegorico-simbolica che risale a Origene, i «fili-

stei» indicano gli stranieri per eccellenza, i demoni; il «Ghihon» è il Nilo, che scorre in «Egitto», simbolo
del «mondo» e della malvagità (a causa delle sofferenze ivi patite dal popolo di Israele).
Nota biografica sull’Autore
Gabriel Bunge
Monaco benedettino, Gabriel Bunge è uno dei massimi esperti del pensiero e della spiritualità di Evagrio Pontico, figura
di primo piano del secolo IV. Bunge riesce a coniugare in modo armonico la rigorosa documentazione con l’attualità del
pensiero patristico. In Italia, i suoi libri più noti sono editi da Qiqajon (fondamentali quattro opere: La paternità spirituale
nel pensiero di Evagrio Pontico; Vasi di argilla. La prassi della preghiera personale secondo la tradizione dei santi padri; Akedia il
male oscuro; Vino dei draghi e pane degli angeli. L’insegnamento di Evagrio Pontico sull’ira e la mitezza). Si segnala anche
l’opera pubblicata presso l’editrice «La Casa di Matriona», Lo Spirito consolatore. Il significato dell’iconografia della Santa
Trinità dalle catacombe a Rublëv.

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