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Editoriale:La verità dialogica, cioè aver bisogno

dell'altro

La filosofia nel suo significato specifico, non soltanto come


ricerca di un'arché, ma soprattutto come raggiungimento di
una dimensione «sapienziale» (sophía) nasce tra le strade
e le piazza di Atene nella forma del dialogo. Dialogo
socratico innanzi tutto, dialogo di un uomo che si riconosce
come «colui che sa di non sapere», poi dialogo platonico
che fa del filosofo l'«amico delle idee» capace di rendere
conto della verità della realtà nella comprensione
«speculare-speculativa» di essa, e quindi capace di usare
l'arte dialettica. Quest'ultimo termine avrà un'importanza
tutta propria nella storia del pensiero occidentale. Il
dialettico, come lo definisce Platone nella Repubblica, è
colui che è capace di lógon didónai tes ousías («dar ragione
dell'essenza»), a sé e agli altri, in altri termini capace di
produrre un'argomentazione, o, che è lo stesso, capace di
esibire e manifestare in un discorso vero la verità della
realtà. Questo è il presupposto del procedimento
categoriale di Aristotele dove la relazione tra l'essere, il
pensiero e il linguaggio veritativo diventa ancora più
cogente. Tuttavia, la categorialità, nella sua struttura
argomentativa, si presenterà come reductio ad unum della
verità dell'ente alla verità dell'essenza. Il filosofo è colui
che risponde, o cerca di rispondere, alla questione «che
cos'è?». La dimensione dialogica è praticamente scomparsa
dalla filosofia che sarà sempre più esercizio dell'arte
dialettica, fino a identificarsi tout court con essa nella
dialettica speculativa di Hegel.
Il rigore dell'argomentazione, l'orthótes, la verità come
esattezza e come conformazione all'essere, to ón hos
alethés («l'ente come vero»), o l'adaequatio rei et
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intellectus, inaugurano un modello di scienza
assolutamente nuova, la próte philosophía, il cui oggetto
specifico saranno i rhizómata pánton («radici di tutte le
cose»), la cui originarietà è metá ta physiká e da questi
sorgeranno i principi, condizioni di possibilità della
determinazione categoriale. Dialettica e metafisica
assumeranno una relazione decisiva.
Non abbiamo naturalmente la pretesa di riscrivere
semplicisticamente la storia del pensiero filosofico.
Riprendendo l'antico termine dialégesthai («dialogare»)
vogliamo ripetere, da un lato, l'esigenza del rigore
argomentativo del discorso vero, che oggi spesso scompare
dietro fumose asserzioni incapaci di esibire una interna
coerenza di verità, ma dall'altro, ritrovare la dialogica
prima della dialettica, che significa anche offrire una
«testimonianza» della verità, non soltanto argomentativa,
bensì anche come «passione personale» di ricerca della
verità. Vogliamo situarci in questo spazio intermedio che
oggi si presenta con un'urgenza nuova, in gran parte
ancora da pensare, senza arroganza e senza la pretesa
antidialogica di essere portatori di una verità
semplicemente da comunicare. Vorremmo proporre una
sorta di apologia della verità (dialogo) contro la certezza
(violenza).
Questa correlazione che, a prima vista, può apparire
sconcertante, è stata elaborata e presentata da uno dei
grandi testi della filosofia del Novecento, la Logique de la
philosophie di Erich Weil che scrive:
L'uomo è un animale dotato di ragione e di linguaggio: ciò
vuol dire ed è destinato a dire esattamente ciò che
sembrava prima sorprendente, cioè che gli uomini non
dispongono ordinariamente della ragione e del linguaggio
ragionevole, ma che debbono disporne per essere
pienamente uomini. L'uomo naturale è un animale; l'uomo
quale egli vuole essere, quale egli vuole che sia l'altro

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perché egli stesso lo riconosca per suo uguale, deve essere
ragionevole. Ciò che la scienza descrive è soltanto la
materia a cui bisogna ancora imporre una forma, e la
definizione umana non è data perché si possa riconoscere
l'uomo, ma affinché lo si possa realizzare (p. 5).
Secondo la visione classica, il superamento non dialettico
della negatività consiste nel vivere secondo ragione, cioè
nell'eliminazione di quegli elementi di violenza presenti
originariamente nell'uomo. In questo senso, per Weil, la
riflessione del filosofo e della filosofia è il cammino della
filosofia nel mondo perché la violenza scompaia dal mondo.
Ma la vita secondo ragione non è una necessità, bensì una
scelta, una «scelta prima» (p. 59) la definisce Weil. La
violenza e la libertà sono gli elementi che definiscono
l'uomo; la violenza è originaria, radicale e irriducibile e la
libertà si afferma soltanto sul fondo della violenza.
Prendere sul serio la violenza pura, significa mettere in
luce il fondamento della filosofia che non è una qualche
necessità, ma la libertà dell'uomo con la sua volontà di
coerenza e di saggezza che in tal modo si innalza al di
sopra della sua finitezza. Weil, ripetendo Kant, comprende
l'uomo come «ragionevole» (nell'aggettivo è detta una
possibilità), ridefinendolo come «animal rationabile». Egli
può scegliere la ragione: «invece di dire che l'uomo è un
essere dotato di discorso ragionevole, noi diremo che egli è
un essere che può, se lo sceglie, essere ragionevole, che
egli è, in una parola, libertà in vista della ragione (o per la
violenza)» (p. 68). Quindi c'è la filosofia perché l'uomo è
volontà di senso, volontà di un mondo sensato e la filosofia
è il discorso di un essere ambiguo la cui altra possibilità è
la negazione del senso o la violenza. «Il discorso si forma,
l'uomo forma il suo discorso nella violenza contro la
violenza, nel finito contro il finito, nel tempo contro il
tempo» (p. 69).
La tentazione della violenza è quella del discorso esaustivo,
totale e totalizzante, della certezza assoluta; è il discorso
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che si formula secondo la formula «tutto è...», con
l'implicazione di una teoria della verità assoluta affermata
come totalità. Gran parte del pensiero contemporaneo ha
reagito alla filosofia della totalità, della determinazione
completa, conscia che la finitezza è frammento, ma
frammento di verità che ha bisogno del frammento di
verità che altri può offrire come dono dialogico. Uno dei
grandi maestri di questa prospettiva è stato certamente
Franz Rosenzweig, quando asseriva in Il nuovo pensiero
che «nel dialogo vero qualcosa accade sul serio», che noi
abbiamo bisogno dell'altro e che ciò significa «prendere sul
serio il tempo». Le riflessioni di Levinas che proseguono
queste provocazioni sono note.
L'intera struttura dell'esistenza sarà quindi dialogica, sia
perché abita uno spazio comunicativo costituito dal
linguaggio, sia perché ciò che la costituisce intimamente è
la domanda. Certamente noi siamo costituti più da
domande che da risposte e ciò trasforma anche la nostra
posizione nei confronti della verità. Una verità dialogica si
pone nell'ordine della prospetticità relazionale, certa
nell'incertezza, certa della propria porzione di verità che
non esaurisce la totalità della verità. Verità finita disposta a
lasciarsi integrare con le altre prospettive di verità, ma
anche disponibile a donare la propria porzione di eredità di
verità. Non proponiamo un pensiero rinunciatario, né
relativistico, bensì relazionale, convinti che la verità, madre
di tutti non è figlia a nessuno.
In questa logica la filosofia diventa pensiero militante, non
più attento soltanto a rendere ragione di ciò che è stato,
ma anche a cercare le faticose strade di umanizzazione e di
senso di cui l'uomo contemporaneo ha bisogno. Per questo
lo spazio della nostra pagina telematica, la nuova agorà, è
aperto a quanti vogliano partecipare a questo lavoro e
intendano porre a confronto i risultati sempre provvisori
della loro ricerca con quello di altri. Questo cammino è
certamente di libertà, ma anche di responsabilità.
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I campi di questo lavoro sono quello etico-antropologico,
religioso (in cui il dialogo è la vera sfida del prossimo
futuro), interculturale, pedagogico, ma anche ontologico-
metafisico, nel senso originario del termine. Un pensiero
dialogico è un pensiero della differenza e le differenze
ridisegnano l'identità come differenza, pensiero del dono e
dell'interdipendenza relazionale in cui nessuno è il custode
del segreto ultimo della verità.

Paul Ricoeur, Potere e violenza, pp. 181-198.

Il saggio è la traduzione italiana del testo presentato da


Paul Ricoeur per la prima volta nel 1989 in “Hannah
Arendt, Ontologie et Politique”. Ricoeur sviluppa in queste
pagine l'analisi di alcuni saggi della Arendt, in particolare
“Sulla violenza” e “Tra passato e futuro”, soffermandosi su
alcune osservazioni critiche di Habermas.
Punto di partenza è la distinzione, operata dalla Arendt, tra
potere e violenza: la violenza può distruggere il potere, ma
è incapace di crearlo, in quanto il potere è una proprietà
dei gruppi sociali ed esiste fino a quando questi rimangono
uniti. E' evidente in queste tesi il rifiuto di larga parte del
pensiero politico, che ha identificato il potere con il
dominio, con la capacità di costringere. Il dominio ha
occultato la vera natura del potere, lo ha trasformato in un
elemento dimenticato, che è necessario riscoprire. Per
superare l'identificazione tra potere e dominio, è opportuno
sottolineare che il potere non trova il suo fondamento nella
verità (che è servita spesso a giustificare i regimi
totalitari), ma nell'opinione.
L'altro nodo concettuale, che Ricoeur giudica decisivo nella
riflessione della Arendt, è quello della “autorità”, che si

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distingue dal potere e trova la sua origine nella stessa
fondazione di una società. Nei nostri sistemi democratici
proprio l' “autorità”, il rapporto con la propria fondazione,
le proprie origini, sarebbero venuti meno, generando gli
attuali fenomeni di crisi e di disgregazione.(D.S.)

Luca Savarino, L'agire del dimenticato – Una nota a


“Potere e violenza” di Paul Ricoeur”, pp. 199-205.

L'articolo di Luca Savarino, traduttore del saggio “Potere e


violenza” di Ricoeur, sottolinea che nella Arendt trova
espressione la crisi delle tradizioni che hanno dominato il
nostro pensiero politico. La consapevolezza di vivere in
un'epoca di crisi non produce il rifiuto di ogni tradizione,
ma la ricerca nel passato di altre tradizioni, diverse da
quelle oggi entrate in crisi. L'atteggiamento di Hannah
Arendt può essere descritto con l'immagine del pescatore
di perle, presente nel suo saggio su Walter Benjamin: di
fronte a tradizioni in frantumi, è necessario sottrarre
all'oblio quelle “forme cristallizzate”, quei frammenti di
pensiero che possiamo riscoprire nello studio delle nostre
radici culturali, in modo che possano tornare ad essere
materia vivente. Il rischio è quello di decontestualizzare ciò
che il passato ci ha lasciato. Ed è su questo elemento, che
costituisce l'originalità e l'ambiguità della riflessione di
Hannah Arendt, che Paul Ricoeur vuole attrarre l'attenzione
del lettore.(D.S.)

Luca Basso, Critica dell'individualismo moderno e


realizzazione del singolo nell' “Ideologia Tedesca”,
pp. 233-256.

Il saggio di Luca Basso esamina le problematiche attinenti


alla condizione individuale, presenti nell'opera di Marx ed
Engels. L'autore si sofferma sul rapporto tra crescita
impetuosa delle forze produttive, realizzata dal capitalismo,

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e condizioni di vita degli individui, indipendenti dal loro
controllo. Il progresso economico produce un potere sociale
estraneo agli individui, che si trovano a vivere nel “bellum
omnium contra omnes” descritto da Hobbes. L'esito della
società capitalistica è lo sviluppo di una comunità
apparente, incapace di valorizzare gli “individui come
individui”.
A questa società alienante, l'Ideologia Tedesca non intende
sostituire un'organizzazione sociale basata sul sacrificio
dell'individuo: criticando il moralismo altruistico, Marx ed
Engels non contrappongono all'uomo “privato” l'uomo
“universale”; piuttosto tentano di fondare un' “etica
materiale”, che trova il suo fondamento nello studio delle
condizioni sociali in cui gli individui si trovano a vivere per
proporre un loro superamento. Sembra emergere nelle
analisi di Marx e di Engels, come evidenzia Basso
riprendendo gli studi di Balibar, un' “ontologia della
relazione”, nella quale l'inseparabilità tra “individuale” e
“transindividuale” configura il singolo come
“interrelazionalità, multidirezionalità, potenzialità infinita”.
(D.S.)
collocata la figura di Nietzsche?

Direi che la tematizzazione, diciamo, della non univocità


del riferimento all'illuminismo, e la sottolineatura della
duplicità, della ambivalenza intrinseca all'illuminismo
stesso sono un po' un punto di partenza per avvicinarci a
Nietzsche. In un certo senso, anzi, senza dubbio si può
affermare che Nietzsche sia sintomo e anche analista di
questa duplicità.

La stessa nozione di volontà di potenza che è al centro del


discorso nietzschiano è proprio questo: tutto il mondo altro
non è che volontà di potenza, e, a mio avviso, quello che
viene chiamato spirito non è altro che volontà di potenza.
Nietzsche è molto lucido in questo e, per esempio, tutta la
sua polemica anticristiana, specialmente negli ultimi anni,
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non è solo il retaggio del grecista. Intendo dire che,
sicuramente, come grecista Nietzsche ha sempre avuto
questo tratto di denigrazione nei confronti del
Cristianesimo (anche se non va nemmeno dimenticato che
era un figlio di un pastore, di una tradizione di pastori e
che stando alle ricostruzioni biografiche egli avrebbe
affermato di essere nato, come uomo, presso una canonica
e che la prima memoria della sua vita cosciente fu la morte
di suo padre). In ogni caso, al di là del suo ideale
classicistico, egli ha sempre messo in chiaro, soprattutto,
per esempio, con l'incredibile ed alle volte incresciosa
virulenza polemica dell'Anticristo, il fatto che anche gli
ideali cattolici, gli ideali cristiani - l'umiltà, la
sottomissiome, il rinunciare a se stessi e via dicendo - in
fondo sono sempre una forma di volontà di potenza. Anche
nello schiavo, a suo parere, c'è una volontà di potenza, una
volontà che si nega; ma che proprio per questo si
raddoppia, perché una volontà che nega se stessa è una
volontà che si vuole ancora di più.

A fronte di quanto ho appena detto, va però rilevato che


un'analisi di questo genere, che presuppone un olismo, una
totalità della volontà di potenza, comporta anche il fatto - e
proprio in questo sta l'estrema coerenza del discorso di
Nietzsche - che questa volontà di potenza non può essere
rifiutata, ma deve essere voluta e amata. Questo è
l'aspetto - per restare a dei dati storiograficamente ovvi,
licealmente evidenti - che segna la differenza fra Nietzsche
e Schopenhauer. Schopenhauer dice a tutto il mondo che
noi dobbiamo opporci ed annullare questa volontà.
Nietzsche dice che nello stesso rifiuto della volontà c'è
ancora una volontà, appunto quella che si nega:
l'ascetismo, il Cristianesimo, il Buddismo e via dicendo
sono tutte forme di volontà che si nega, ma che negandosi
si afferma.

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Come può esserci, in sintesi, una volontaria rinuncia al
volere? E del resto, non va nemmeno sottovalutato un altro
punto di vista. La gente piange la scomparsa degli ideali,
quando capisce che tutte le cose che si erano credute sono
in una fase di modernizzazione. Tutto ciò che nel mito ci
veniva trasmesso come positivo e più in generale i sistemi
di valore del passato poco alla volta, in un progressivo
rischiaramento si rivelano delle menzogne, delle credenze.

6. Qual è la reazione della gente a questo


rischiaramento?

La gente reagisce creandosi dei nuovi valori ed entra in un


circolo impressionante, perché, andando avanti ancora un
po', scopre che questi valori non sono che delle vecchie
finzioni, non sono che delle credenze, e piomba di nuovo
nel pessimismo, in quello che Nietzsche chiama il
nichilismo reattivo. Nietzsche propone di essere e di
procedere diversamente. Per esempio, uno dei significati
dell'eterno ritorno è in sintesi il seguente: invece di
rifiutare queste cose, invece di crearci dei nuovi ideali,
invece che rinunciare alla volontà, vogliamola ed amiamola
eternamente, facciamo questa prova. Ma il fatto è che se in
questa proposta c'è una consequenzialità filosofica, di fatto
ci sono anche rischi che nessuno si può sognare di
nascondere. Infatti, non solo nella Volontà di potenza
(l'opera compilata dopo la morte di Nietzsche con criteri
discutibili, ma comunque non falsificanti), ma negli stessi
frammenti postumi che sono serviti da base per la Volontà
di potenza o anche in opere che Nietzsche stesso ha
pubblicato nel pieno delle sue facoltà, come La genealogia
della morale, si legge davvero che i deboli devono essere
soppressi. Perché un’affermazione del genere? Certo, alla
base di essa c’è un discorso di estrema coerenza e
consequenzialità filosofica, ma al tempo stesso siamo

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anche di fronte ad una affermazione che si apre su un
abisso, e questo abisso è ancora un abisso dello spirito.
Ovvero: Nietzsche non è entrato in tal modo nella fase del
non-pensiero, dell'ottenebramento e via dicendo; e non è
nemmeno da politico, da ideologo che egli sta affermando
queste cose. Nietzsche sta parlando da filosofo, e
rispondendo di problemi filosofici. Se lo avesse fatto da
ideologo, del resto, in fondo non avremmo problemi;
questa ideologia - diremmo - serve agli interessi di un
individuo, di una classe, di un ceto, di una nazione, e così
la metteremmo da parte. Ma che cosa significa che un
filosofo dica questo? È ancora un filosofo nel momento in
cui dice questo? Cessa di essere un filosofo? Questi sono i
problemi.

7. In Nietzsche il tema dell'aprirsi di una sorta di


abisso può essere messo in relazione col rapporto
che il nazismo ha voluto stabilire con Nietzsche.
Certo, si è trattato di un uso in larga parte
strumentale, ma che comunque è tale da
costringerci, da obbligarci anzi, a discuterne.

Senza dubbio l'uso è stato strumentale. Lo sappiamo bene,


anche in base ad una semplice considerazione storica.
Infatti, noi non potremmo in nessun modo fare di Nietzsche
un nazista, se non ricorrendo alla più equivoca delle
categorie, quella del precorrimento. Ovvero: «cosa significa
che Nietzsche avrebbe fatto delle cose pre-naziste? Cosa
vuol dire fare delle cose pre-naziste?» Non c'è
praticamente nessuna somiglianza tra la Germania
guglielmina o bismarkiana e la Germania di Hitler; questo
divario storico - che non è così grande, ma che è
comunque decisivo - fa sì che in nessun caso Nietzsche
avrebbe mai potuto prevedere i tempi che si facevano
avanti. Fare di Nietzsche un nazista sarebbe come dire che

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Aristotele, avendo ammesso lo schiavismo, sarebbe stato
uno schiavista nello stesso modo in cui lo era un
proprietario terriero della Louisiana del 1860.
Evidentemente non è vero, perché si tratta di situazioni
differenti. Platone non era certo un democratico, anzi era
contro la democrazia, l'essenza della sua filosofia è anti-
democratica, ma in ogni caso non è con i criteri di una
democrazia formale moderna che possiamo giudicare
queste cose. Quando si dice, quando si parla del nazismo di
Nietzsche, fatalmente si cade in un ragionamento di questo
genere.

Va poi sottolineato altrettanto chiaramente che i nazisti si


sono richiamati all'insegnamento di Nietzsche in un modo
strumentale, ed è stato tale per vari motivi. Fra l'altro,
quella di Nietzsche è stata una delle incorporazioni meno
felici operata dal nazismo. E questo era riconosciuto dagli
stessi nazisti quando dicevano di non poter incorporare fino
in fondo Nietzsche all'interno della propria ideologia, per
una serie tutt’altro che marginale di motivi: per il fatto che
quella nazista era una ideologia antisemita, mentre
Nietzsche era filosemita; perché quella nazista era una
ideologia populistica - anche se i nazisti non la chiamavano
proprio così, mentre Nietzsche era assertore di una teoria
aristocratica (ed è evidente che non si può fare una teoria
politica aristocratica ed appoggiarsi al consenso delle
masse). Questi aspetti hanno reso Nietzsche molto meno
utilizzabili di altri. Nel Mito del ventesimo secolo di
Rosenberg Nietzsche compare pochissime volte; mentre
ricorre moltissimo il nome di Meister Eckhart, perché è un
modo di far ribellare il germanesimo all’insegnamento
romano. Inoltre, compare Lutero (ancora per l'autonomia
dello spirito tedesco nei confronti del cattolicesimo romano)
e persino Schopenhauer. Può sembrare strano ma è così,
perché in Schopenhauer ci sono delle affermazioni assai più
razziste che in Nietzsche, fermo restando che non

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possiamo giudicare questi casi filosofici con lo stesso metro
che potremmo utilizzare per una ideologia.

Detto questo, tuttavia, è anche vero che l'unico regime che


abbia pensato di fare un qual si voglia uso
dell'insegnamento di Nietzsche, è stato quello nazista. Non
sono state certo né le democrazie occidentali a elaborare
dei sistemi di insegnamento che si richiamassero a
Nietzsche, né tanto meno Stalin; nessuno vi si è
richiamato. Nietzsche, storicamente, per la serie di motivi
ricordati sopra assolutamente non può essere considerato
nazista; ma, d'altra parte, sarebbe altrettanto falso dire
che era comunista. Anzi, le poche testimonianze che ci
restano del suo parere rispetto a queste cose dicono che
Nietzsche del comunismo e del socialismo sapeva ben
poco, ma anche che di quel poco che sapeva era
assolutamente contrario. Tuttavia, dopo la guerra, si è
anche cercato di far circolare una immagine esattamente
contraria. Ma perché lo si è fatto? Perché allora, a certe
ideologie che proponevano l'emancipazione, il carattere
anche avanguardistico ed emancipativo del pensiero di
Nietzsche poteva andare bene. Da un punto di vista
filosofico, una operazione del genere è sempre legittima,
ma come storicamente è inadeguato dire che Nietzsche era
nazista, è altrettanto storicamente inadeguato affermare
che era comunista (con l’aggravante del fatto che se egli
non ha mai potuto esprimersi sul nazismo, che ancora non
esisteva, ha potuto esprimersi sul socialismo che già c'era,
ed abbiamo le testimonianze in merito).

8. In che modo è stato operato e in che modo si


dovrebbe operare quello che potremmo definire il
lavoro di denazificazione di Nietzsche?

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Questo lavoro è stato fatto, ed è stato mosso anche da
istinti nobilissimi, su cui assolutamente non si può
discutere. Infatti, nel momento in cui si criminalizzava un
pensiero, una cultura - e c'erano dei pamphlet spaventosi,
dove, al di là di ogni verosomiglianza storica, si vedeva in
Nietzsche la causa della catastrofe tedesca, il persecutore
antisemita, il prefiguratore dei Lager e via dicendo- era
fatale e doveroso che si elaborassero, per così dire, dei
controdiscorsi. Vi sono stati persino lavori, come quello di
Walter Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo,
dove si affermava che la volontà di potenza in realtà era
niente altro che la volontà di libertà, e dove si paragonava
Nietzsche a Dewey, il che effettivamente appare un poco
esagerato. Inoltre, in questo famoso libro che ha segnato
un'epoca (è uscito nel 1950), si affermava che quando
nella Genealogia della morale Nietzsche parla della belva
bionda, in realtà non si riferisce solo a tribù tedesche, ma
agli Arabi, ai Giapponesi, agli antichi Romani e via dicendo;
da un secondo punto di vista, inoltre, dice si affermava che
probabilmente quell’immagine non era una metafora, ma
era proprio la descrizione di una cosa vera: Nietzsche stava
parlando del leone, cosicché con «belva bionda» non
voleva indicare una tribù teutonica, per celebrare la
superiorità dei Tedeschi. Del resto, è anche vero che nella
Volontà di potenza, in questa raccolta postuma abusiva di
frammenti fatta dalla sorella e da Peter Gast, Nietzsche
tratta anche malissimo i Tedeschi - segno fra l'altro che
Peter Gast ed Elisabeth non ci hanno messo niente del loro,
ammesso che loro, ed ancora questo deve essere stabilito,
fosse il nazionalismo sfrenato o cose di questo genere.
Comunque, per restare su dati di base elementari, la
Volontà di potenza, nella sua versione cosiddetta definitiva,
in 1067 aforismi, viene pubblicata nel 1906, e Hitler va al
potere nel '33. Questo quarto di secolo fa sì che non sia
possibile che i due compilatori avessero in mente un
destinatario preferenziale delle loro cose; le loro

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preoccupazioni, piuttosto, erano altre, per esempio quelle
di non dispiacere alla chiesa.

9. Professor Ferraris, relativamente al tema della


denazificazione di Nietzsche, va sottolineato che
essa è avvenuta con delle inevitabili forzature. Può
parlarcene?

Come ci sono state delle tragiche forzature di Nietzsche


all'epoca di Hitler, così ci sono state delle grottesche
forzature di Nietzsche all'epoca della denazificazione. È
vero, però, che questa epoca è finita, o almeno si spera
che sia finita. Se è finita non sarebbe buona politica
continuare a dire, come sovente si dice, che Nietzsche non
ha mai voluto dire questo non ha mai voluto fare
quest’altro, che le cose che spiacciono in lui sono state
aggiunte da falsari, o che c'è stata una falsificazione della
verità. Perché con questo noi, sì, potremmo anche
cominciare a considerare Nietzsche, per esempio, come se
fosse un Voltaire o un Dewey, ma ci togliamo così la
capacità di pensare il problema della duplicità interna allo
spirito, il fatto che c'è un male nel pensiero e che non è
così facile dire che appena il male si fa avanti non c'è più il
pensiero. Forse così sarebbe tutto molto più facile. Il
problema, invece, è che c'è una terribile logica all'interno
del male, che nasce dal pensiero e che è solidale al
pensiero. Vale la pena citare Dello spirito, un saggio molto
bello di Derrida su Heidegger e la questione del nazismo.
Ebbene, il nazismo non è nato nel deserto, lo si sa bene,
ma bisogna sempre riconoscerlo: nasce da tutto un
insieme fatto di fedi, di religioni, di credenze, da tutto ciò
che - detto in una parola - si intende per mondo dello
spirito. Riconoscere questo è fondamentale nell’ottica della
duplicità dello spirito, della dialettica dell'illuminismo: non
si tratta assolutamente di prendere partito per uno o per

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un altro lato della questione, nessuno è chiamato a
prendere posizione per lo spirito o contro lo spirito: ciò che
occorre sapere ed è filosoficamente importante rilevare è
che c'è una duplicità dello spirito e che molte tragedie non
si sono fatte contro lo spirito, ma in nome dello spirito.
Sarebbe aberrante, ma sarebbe sempre possibile dire che il
nazismo era anche un movimento spirituale ed umanistico.
In estrema sintesi, ciò che occorre capire è che c'è
qualcosa nello spirito che non dico che non funzioni, ma
che può essere definito come un male ad esso immanente.

10. Il presente sembra caratterizzato da una


sensibilità tutta diversa da quella che bene o male si
accompagna al pensiero filosofico: le trasformazioni
pratiche portano a una frammentazione tale della
nostra esistenza, che sembra quasi che ogni spazio
per la riflessione filosofica venga meno. In buona
parte, questo andamento si riflette nel tipo di
formazione delle nuove generazioni. In un contesto
del genere, come vede le possibilità di incidenza
dell'insegnamento della filosofia e come considera
l'organizzazione attuale dell'insegnamento della
filosofia?

Tutto quello che si collega all'idea dell'insegnamento


filosofico non coincide necessariamente con la filosofia, ma
allude ad una esigenza di insegnamento che non sia quella
di un insegnamento puramente tecnico, frammentato o
simile. Quindi, secondo me, l'importanza dell'insegnamento
della filosofia può essere letta a due livelli. Il primo livello,
più strettamente specifico, è quello della necessità e
dell'utilità, che è tutt'altro che un'utilità pratica, di studiare
la filosofia. È bene studiare la filosofia, è bene per chiunque
studiare la filosofia, quindi è bene che ci sia un
insegnamento filosofico. È ovvio che un insegnamento

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filosofico non si può impartire comunque e dovunque, e
quindi è bene che ci sia un ideale di cultura, discutibile
quanto vogliamo, ma in cui l'insegnamento filosofico abbia
spazio. Ed è ovvio che ciò giustifica l’esistenza di scuole
nelle quali si insegna filosofia, scuole del tipo dei licei, in
cui ci insegnano le lingue classiche, le letterature classiche,
tutto quel patrimonio di sapere umanistico che noi
sappiamo benissimo essere storicamente andato
degradandosi. Ma questo non è avvenuto in seguito alla
nascita della televisione, ma da molto prima. Intendo dire
che se noi facciamo il confronto tra il patrimonio di sapere
classico che poteva avere un uomo del '700 o un uomo dei
primi anni dell'ottocento con il patrimonio di sapere
classico che qualcuno poteva avere all'inizio del '900, già
osserviamo, già registriamo una decadenza. Qui c'è una
forma di analfabetismo di ritorno, probabilmente, che è
indotto dalle trasformazioni culturali gigantesche che
hanno avuto luogo. Del resto, nella sua autobiografia
Gadamer racconta che suo padre, che era uno scienziato,
un chimico, aveva un patrimonio di conoscenze classiche
migliore del suo. Migliore del suo in partenza,
evidentemente: il liceo del padre di Gadamer, cioè, era
stato un liceo migliore di quello che aveva avuto Gadamer,
perché in quest’ultimo caso vi era stata una maggiore
apertura alle lingue moderne (pure necessarie alle
scienze), e cioè un allargamento del patrimonio da
impartire ai ragazzi. In sintesi, quello che è importante
mettere in chiaro è semplicemente che il vecchio ideale di
un insegnamento filosofico è strettamente legato al vecchio
ideale di studi classici, che sono necessari, che ci mancano,
che mancano adesso più che un tempo; ma non da poco,
come ho detto prima.

173 11 Il nostro tempo conosce anche dei problemi di


genere diverso da quelli della formazione di nuove
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generazioni: il nostro mondo attraversa, diciamo da alcuni
anni, momenti di forte tensione e drammaticità, nei quali i
conflitti che sembravano sopiti o destinati a scomparire si
ripresentano con estrema violenza. A suo parere, la
filosofia, la riflessione filosofica in generale può inserirsi in
questi processi di difficile soluzione, o comunque
assecondare gli sforzi di avvicinamento e di integrazione
delle diverse culture?

Nelle nostre speranze certamente, fermo restando il


problema del male così come ne abbiamo parlato nella
nostra conversazione (e del resto, non si può condurre gli
uomini al bene; in generale non li si può condurre da
nessuna parte). Non credo che la filosofia possa intervenire
direttamente a risolvere i problemi o a fare cose simili; ci
sono stati dei tentativi di Stati filosofici: alcuni non sono
neanche nati (come il sogno di Platone), altri sono stati
realizzati più o meno bene, ma mai così bene come ci si
sarebbe immaginati. Questo fatto è di per sé sufficiente a
concludere che non c'è un intervento diretto della filosofia
su queste cose. Tuttavia, restando ad un livello triviale di
riflessione, si deve affermare che è meglio che all'interno
dei processi, dei dialoghi, degli scambi, ci siano delle
persone colte, ragionevoli e capaci di intendersi
reciprocamente, piuttosto che settari, ignoranti, bruti,
analfabeti, maniaci religiosi, eccetera, eccetera. Questo,
però, è una pura ovvietà. Come dire: è meglio che gli
uomini siano buoni o che siano cattivi? È meglio che siano
buoni! Ma una volta concesso che è meglio che gli uomini
siano intelligenti piuttosto che stupidi, bisogna tener
presente il fatto che la semplice intelligenza non è di per se
stessa una garanzia di risoluzione dei conflitti. Anzi, vi sono
stati casi di persone intelligentissime che hanno fatto dei
mali tremendi, e non per sbaglio, ma proprio
volontariamente. Quindi, non c'è un'azione diretta della
filosofia. Ovviamente, lo ripeto, è comunque preferibile che

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l’esercizio della filosofia sia presente, piuttosto che
assente.

Abstract

Maurizio Ferraris sottolinea l'ambiguità dello spirito, la


doppiezza, che è immanente alla spiritualità . Dal Doktor
Faustus e nella Dialettica dell'illuminismo emerge che lo
spirito è al tempo stesso il male e il bene. La libertà è ciò
che lo caratterizza rispetto alle cose che sono determinate
dalla natura e quindi sottoposte a necessità. In questa
prospettiva Nietzsche viene definito sintomo e analista
della duplicità dell'Illuminismo. Ferraris affronta il tema dei
rapporti tra la filosofia di Nietzsche e alcuni presunti usi e
interpretazioni che di essa ha dato il nazismo. Per Feraris è
filosoficamente inadeguato sostenere tanto che Nietzsche
fosse pre-nazista, quanto che fosse pre-comunista.
Nietzsche è stato sottoposto a forzature anche nell'epoca
della denazificazione. Ferraris sottolinea nella riflessione di
Nietzsche l'idea di duplicità dello spirito che può contenere
il bene e il male. Di qui si passa a considerazioni generali
sulla filosofia, sostenendo l'importanza del suo ruolo in
un'epoca in cui si assiste ad una decadenza degli studi
classici. La filosofia comunque non può avere un'azione
diretta sulla realtà.

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