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dell'altro
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perché egli stesso lo riconosca per suo uguale, deve essere
ragionevole. Ciò che la scienza descrive è soltanto la
materia a cui bisogna ancora imporre una forma, e la
definizione umana non è data perché si possa riconoscere
l'uomo, ma affinché lo si possa realizzare (p. 5).
Secondo la visione classica, il superamento non dialettico
della negatività consiste nel vivere secondo ragione, cioè
nell'eliminazione di quegli elementi di violenza presenti
originariamente nell'uomo. In questo senso, per Weil, la
riflessione del filosofo e della filosofia è il cammino della
filosofia nel mondo perché la violenza scompaia dal mondo.
Ma la vita secondo ragione non è una necessità, bensì una
scelta, una «scelta prima» (p. 59) la definisce Weil. La
violenza e la libertà sono gli elementi che definiscono
l'uomo; la violenza è originaria, radicale e irriducibile e la
libertà si afferma soltanto sul fondo della violenza.
Prendere sul serio la violenza pura, significa mettere in
luce il fondamento della filosofia che non è una qualche
necessità, ma la libertà dell'uomo con la sua volontà di
coerenza e di saggezza che in tal modo si innalza al di
sopra della sua finitezza. Weil, ripetendo Kant, comprende
l'uomo come «ragionevole» (nell'aggettivo è detta una
possibilità), ridefinendolo come «animal rationabile». Egli
può scegliere la ragione: «invece di dire che l'uomo è un
essere dotato di discorso ragionevole, noi diremo che egli è
un essere che può, se lo sceglie, essere ragionevole, che
egli è, in una parola, libertà in vista della ragione (o per la
violenza)» (p. 68). Quindi c'è la filosofia perché l'uomo è
volontà di senso, volontà di un mondo sensato e la filosofia
è il discorso di un essere ambiguo la cui altra possibilità è
la negazione del senso o la violenza. «Il discorso si forma,
l'uomo forma il suo discorso nella violenza contro la
violenza, nel finito contro il finito, nel tempo contro il
tempo» (p. 69).
La tentazione della violenza è quella del discorso esaustivo,
totale e totalizzante, della certezza assoluta; è il discorso
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che si formula secondo la formula «tutto è...», con
l'implicazione di una teoria della verità assoluta affermata
come totalità. Gran parte del pensiero contemporaneo ha
reagito alla filosofia della totalità, della determinazione
completa, conscia che la finitezza è frammento, ma
frammento di verità che ha bisogno del frammento di
verità che altri può offrire come dono dialogico. Uno dei
grandi maestri di questa prospettiva è stato certamente
Franz Rosenzweig, quando asseriva in Il nuovo pensiero
che «nel dialogo vero qualcosa accade sul serio», che noi
abbiamo bisogno dell'altro e che ciò significa «prendere sul
serio il tempo». Le riflessioni di Levinas che proseguono
queste provocazioni sono note.
L'intera struttura dell'esistenza sarà quindi dialogica, sia
perché abita uno spazio comunicativo costituito dal
linguaggio, sia perché ciò che la costituisce intimamente è
la domanda. Certamente noi siamo costituti più da
domande che da risposte e ciò trasforma anche la nostra
posizione nei confronti della verità. Una verità dialogica si
pone nell'ordine della prospetticità relazionale, certa
nell'incertezza, certa della propria porzione di verità che
non esaurisce la totalità della verità. Verità finita disposta a
lasciarsi integrare con le altre prospettive di verità, ma
anche disponibile a donare la propria porzione di eredità di
verità. Non proponiamo un pensiero rinunciatario, né
relativistico, bensì relazionale, convinti che la verità, madre
di tutti non è figlia a nessuno.
In questa logica la filosofia diventa pensiero militante, non
più attento soltanto a rendere ragione di ciò che è stato,
ma anche a cercare le faticose strade di umanizzazione e di
senso di cui l'uomo contemporaneo ha bisogno. Per questo
lo spazio della nostra pagina telematica, la nuova agorà, è
aperto a quanti vogliano partecipare a questo lavoro e
intendano porre a confronto i risultati sempre provvisori
della loro ricerca con quello di altri. Questo cammino è
certamente di libertà, ma anche di responsabilità.
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I campi di questo lavoro sono quello etico-antropologico,
religioso (in cui il dialogo è la vera sfida del prossimo
futuro), interculturale, pedagogico, ma anche ontologico-
metafisico, nel senso originario del termine. Un pensiero
dialogico è un pensiero della differenza e le differenze
ridisegnano l'identità come differenza, pensiero del dono e
dell'interdipendenza relazionale in cui nessuno è il custode
del segreto ultimo della verità.
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distingue dal potere e trova la sua origine nella stessa
fondazione di una società. Nei nostri sistemi democratici
proprio l' “autorità”, il rapporto con la propria fondazione,
le proprie origini, sarebbero venuti meno, generando gli
attuali fenomeni di crisi e di disgregazione.(D.S.)
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e condizioni di vita degli individui, indipendenti dal loro
controllo. Il progresso economico produce un potere sociale
estraneo agli individui, che si trovano a vivere nel “bellum
omnium contra omnes” descritto da Hobbes. L'esito della
società capitalistica è lo sviluppo di una comunità
apparente, incapace di valorizzare gli “individui come
individui”.
A questa società alienante, l'Ideologia Tedesca non intende
sostituire un'organizzazione sociale basata sul sacrificio
dell'individuo: criticando il moralismo altruistico, Marx ed
Engels non contrappongono all'uomo “privato” l'uomo
“universale”; piuttosto tentano di fondare un' “etica
materiale”, che trova il suo fondamento nello studio delle
condizioni sociali in cui gli individui si trovano a vivere per
proporre un loro superamento. Sembra emergere nelle
analisi di Marx e di Engels, come evidenzia Basso
riprendendo gli studi di Balibar, un' “ontologia della
relazione”, nella quale l'inseparabilità tra “individuale” e
“transindividuale” configura il singolo come
“interrelazionalità, multidirezionalità, potenzialità infinita”.
(D.S.)
collocata la figura di Nietzsche?
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Come può esserci, in sintesi, una volontaria rinuncia al
volere? E del resto, non va nemmeno sottovalutato un altro
punto di vista. La gente piange la scomparsa degli ideali,
quando capisce che tutte le cose che si erano credute sono
in una fase di modernizzazione. Tutto ciò che nel mito ci
veniva trasmesso come positivo e più in generale i sistemi
di valore del passato poco alla volta, in un progressivo
rischiaramento si rivelano delle menzogne, delle credenze.
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anche di fronte ad una affermazione che si apre su un
abisso, e questo abisso è ancora un abisso dello spirito.
Ovvero: Nietzsche non è entrato in tal modo nella fase del
non-pensiero, dell'ottenebramento e via dicendo; e non è
nemmeno da politico, da ideologo che egli sta affermando
queste cose. Nietzsche sta parlando da filosofo, e
rispondendo di problemi filosofici. Se lo avesse fatto da
ideologo, del resto, in fondo non avremmo problemi;
questa ideologia - diremmo - serve agli interessi di un
individuo, di una classe, di un ceto, di una nazione, e così
la metteremmo da parte. Ma che cosa significa che un
filosofo dica questo? È ancora un filosofo nel momento in
cui dice questo? Cessa di essere un filosofo? Questi sono i
problemi.
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Aristotele, avendo ammesso lo schiavismo, sarebbe stato
uno schiavista nello stesso modo in cui lo era un
proprietario terriero della Louisiana del 1860.
Evidentemente non è vero, perché si tratta di situazioni
differenti. Platone non era certo un democratico, anzi era
contro la democrazia, l'essenza della sua filosofia è anti-
democratica, ma in ogni caso non è con i criteri di una
democrazia formale moderna che possiamo giudicare
queste cose. Quando si dice, quando si parla del nazismo di
Nietzsche, fatalmente si cade in un ragionamento di questo
genere.
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possiamo giudicare questi casi filosofici con lo stesso metro
che potremmo utilizzare per una ideologia.
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Questo lavoro è stato fatto, ed è stato mosso anche da
istinti nobilissimi, su cui assolutamente non si può
discutere. Infatti, nel momento in cui si criminalizzava un
pensiero, una cultura - e c'erano dei pamphlet spaventosi,
dove, al di là di ogni verosomiglianza storica, si vedeva in
Nietzsche la causa della catastrofe tedesca, il persecutore
antisemita, il prefiguratore dei Lager e via dicendo- era
fatale e doveroso che si elaborassero, per così dire, dei
controdiscorsi. Vi sono stati persino lavori, come quello di
Walter Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo,
dove si affermava che la volontà di potenza in realtà era
niente altro che la volontà di libertà, e dove si paragonava
Nietzsche a Dewey, il che effettivamente appare un poco
esagerato. Inoltre, in questo famoso libro che ha segnato
un'epoca (è uscito nel 1950), si affermava che quando
nella Genealogia della morale Nietzsche parla della belva
bionda, in realtà non si riferisce solo a tribù tedesche, ma
agli Arabi, ai Giapponesi, agli antichi Romani e via dicendo;
da un secondo punto di vista, inoltre, dice si affermava che
probabilmente quell’immagine non era una metafora, ma
era proprio la descrizione di una cosa vera: Nietzsche stava
parlando del leone, cosicché con «belva bionda» non
voleva indicare una tribù teutonica, per celebrare la
superiorità dei Tedeschi. Del resto, è anche vero che nella
Volontà di potenza, in questa raccolta postuma abusiva di
frammenti fatta dalla sorella e da Peter Gast, Nietzsche
tratta anche malissimo i Tedeschi - segno fra l'altro che
Peter Gast ed Elisabeth non ci hanno messo niente del loro,
ammesso che loro, ed ancora questo deve essere stabilito,
fosse il nazionalismo sfrenato o cose di questo genere.
Comunque, per restare su dati di base elementari, la
Volontà di potenza, nella sua versione cosiddetta definitiva,
in 1067 aforismi, viene pubblicata nel 1906, e Hitler va al
potere nel '33. Questo quarto di secolo fa sì che non sia
possibile che i due compilatori avessero in mente un
destinatario preferenziale delle loro cose; le loro
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preoccupazioni, piuttosto, erano altre, per esempio quelle
di non dispiacere alla chiesa.
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un altro lato della questione, nessuno è chiamato a
prendere posizione per lo spirito o contro lo spirito: ciò che
occorre sapere ed è filosoficamente importante rilevare è
che c'è una duplicità dello spirito e che molte tragedie non
si sono fatte contro lo spirito, ma in nome dello spirito.
Sarebbe aberrante, ma sarebbe sempre possibile dire che il
nazismo era anche un movimento spirituale ed umanistico.
In estrema sintesi, ciò che occorre capire è che c'è
qualcosa nello spirito che non dico che non funzioni, ma
che può essere definito come un male ad esso immanente.
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filosofico non si può impartire comunque e dovunque, e
quindi è bene che ci sia un ideale di cultura, discutibile
quanto vogliamo, ma in cui l'insegnamento filosofico abbia
spazio. Ed è ovvio che ciò giustifica l’esistenza di scuole
nelle quali si insegna filosofia, scuole del tipo dei licei, in
cui ci insegnano le lingue classiche, le letterature classiche,
tutto quel patrimonio di sapere umanistico che noi
sappiamo benissimo essere storicamente andato
degradandosi. Ma questo non è avvenuto in seguito alla
nascita della televisione, ma da molto prima. Intendo dire
che se noi facciamo il confronto tra il patrimonio di sapere
classico che poteva avere un uomo del '700 o un uomo dei
primi anni dell'ottocento con il patrimonio di sapere
classico che qualcuno poteva avere all'inizio del '900, già
osserviamo, già registriamo una decadenza. Qui c'è una
forma di analfabetismo di ritorno, probabilmente, che è
indotto dalle trasformazioni culturali gigantesche che
hanno avuto luogo. Del resto, nella sua autobiografia
Gadamer racconta che suo padre, che era uno scienziato,
un chimico, aveva un patrimonio di conoscenze classiche
migliore del suo. Migliore del suo in partenza,
evidentemente: il liceo del padre di Gadamer, cioè, era
stato un liceo migliore di quello che aveva avuto Gadamer,
perché in quest’ultimo caso vi era stata una maggiore
apertura alle lingue moderne (pure necessarie alle
scienze), e cioè un allargamento del patrimonio da
impartire ai ragazzi. In sintesi, quello che è importante
mettere in chiaro è semplicemente che il vecchio ideale di
un insegnamento filosofico è strettamente legato al vecchio
ideale di studi classici, che sono necessari, che ci mancano,
che mancano adesso più che un tempo; ma non da poco,
come ho detto prima.
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l’esercizio della filosofia sia presente, piuttosto che
assente.
Abstract
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