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Dossier de “il giornale della natura”, a cura di Luisa Motta e Paolo Vaccaro
I Pigmei
Pigmei, i cantori della foresta
Tibet
Viaggio a Shambala
Il Paese delle nevi
La terra degli sherpa
Nativi d’America
I popoli del Grande Spirito
Gli Algonchini delle coste del Pacifico: il Potlach, il totem
I Lakota-Sioux: la Danza del Sole e la Sacra Pipa
Navajo: le pitture su sabbia e la il "rito del nemico"
Gli Hopi: la Danza del serpente e le kachina
Irochesi: il wampum e la cerimonia dell'albero
La chiesa dei nativi americani e il peyote
L'arte viva degli Indiani d'America
"Il passato è nei nostri cuori, il futuro nelle nostre menti"
La città del cielo
Il Guerriero Mistico
Le organizzazioni dei nativi americani
"Chi irride coloro che pensano possano esservi spiriti dei boschi e dei fiumi, non vedendovi che
legname e acqua, finirà con lo sporcare tutte le acque e abbattere tutte le foreste, perdendo la sua stessa
anima". Lo afferma Raymond Ruyer, lo studioso che in un suo scritto (La gnosi di Princenton,
Nardini) indica come la ricerca scientifica avanzata avvicini la visione della realtà, che si apre davanti
agli occhi del ricercatore odierno, più a quella di un mistico antico che a quella dello scienziato
comunemente inteso.
E' ormai sempre più largamente acquisito come l'universo stesso risulti oggi simile a una grande idea,
più che a una grande macchina, e che, dovunque ci sia un osservatore, avviene un'interazione, sorge un
sistema simbolico che mette in risonanza il microcosmo umano con il macrocosmo circostante. Nessun
microcosmo culturale può essere considerato superiore agli altri, da un punto di vista antropologico,
poiché ognuno assolve perfettamente alle sue funzioni nel momento storico e nel luogo in cui si
organizza.
Nonostante le differenze fra le diverse culture "primitive", ci sono elementi comuni nelle credenze
religiose come nelle pratiche rituali o terapeutiche come nelle cosmogonie,i racconti mitologici
riguardanti l'origine dell'universo e degli esseri viventi: tutte percepiscono la realtà come un organismo
unico, tutti gli esseri come figli di un'unica famiglia. La profonda spiritualità dell'Africa nera, le
mitologie degli amerindi, le religioni dell'Oceania mostrano un Cielo molto più vicino alla Terra di
quanto oggi non sia e una straordinaria coscienza dell'interrelazione dinamica fra tutti gli aspetti della
realtà.
Alcuni esempi. Perfino nelle complesse cosmogonie della Polinesia vi sono temi ricorrenti, come i miti
di evoluzione della pietra o dall'uovo, quelli sull'evoluzione della o dalla luce, quelli del "sollevamento
del cielo" e della creazione o "pro-creazione" da parte degli dei e di altri esseri soprannaturali.
A Samoa, il Creatore Tangaroa manda dal Cielo la figlia a cercare una terra dove porta i semi delle
varie piante, dopo aver fatto sorgere le isole dalle pietre mandate dal padre; quindi la prima coppia
umana. Altrove, il Creatore opera direttamente sulla Terra, dove è disceso, mediante la parola: l'Uomo,
lo Spirito, la Volontà, il Pensiero fluttuano dapprima sul mare (come non pensare al Verbo del
Vangelo di San Giovanni che fluttua sulle acque?) e si fondono quindi nell'uomo, ancora allo stato di
androgino, dal quale deriverà la prima coppia.
Ma di tale complessità mitologica non è possibile riferire in poco spazio; come dice un'invocazione
tahitiana, "si possono mai contare tutti gli dei? Gli dei sono innumerevoli". Vi sono tante cosmogonie
quanti sono i centri religiosi, ognuno con un proprio culto; né vi è rigidità teologica.
In Nuova Zelanda, se "Io" è la divinità suprema, esistono molti altri dèi, che rappresentano le varie
realtà soprannaturali. I protagonisti dell'origine del mondo sono infatti il Cielo, detto Rangi, o anche "il
Grande-Cielo-che-sta-in-alto" e la sua sposa, Papa, la Terra, ovvero "La Grande-Superficie-
sottoposta", che continuano a rimanere congiunti in un grande coito cosmico anche dopo aver generato
altri dèi, sicché regnano tra loro le tenebre. Interviene allora il figlio, Tane Mahuta, dio delle foreste e
delle acque, a separarli e a sollevare il Cielo, che diventa lo spirito della luce; il fratello, che lo aveva
contrastato, diviene lo spirito delle tenebre.
Il mito si ripete, e i temi intorno a cui s'è sviluppata la coscienza umana, sul sorgere e il divenire
dell'universo e della vita, non sono sostanzialmente diversi. Ma la freschezza o l'aderenza alla vita di
moltissimi miti "meridionali" ci fanno pensare a un universo spirituale ricco e vitale quanto l'ambiente
naturale in cui sorsero.
Nelle società primitive lo scambio di beni non è fondato solo su principi e relazioni economiche nel
senso comunemente inteso, poiché include "cortesie, festini, riti, servizi militari, feste, danze, bambini,
donne", come scrive M. Mauss nel 1924 (Saggio sul dono). L'esempio più noto ed eclatante della
funzione sociale del dono, che coinvolge l'intero gruppo sociale, è la festa del potlach propria della
tradizione dei Kwakiutl, pellirosse della costa occidentale del Canada. Qui il dono e il sacrificio sono
connessi al concetto di onore e prestigio; gli individui gareggiavano nel donarsi reciprocamente beni
che non comportavano utilità economica, poiché subivano, anzi, una distruzione finale da parte degli
stessi individui.
L'aspetto simbolico delle manifestazioni del consumo è tuttavia evidente anche nella nostra cultura,
come ha dimostrato C. Lèvi-Strauss (Il Babbo Natale suppliziato, 1952).
In ambito socio-psicologico, seguendo Mauss, il dono viene a connettersi all'esperienza squisitamente
religiosa del "sacrificio", mediante il quale l'individuo profano accede al sacro offrendo una vittima
agli dei.
Nel sacrificio è sottintesa la rinuncia a godere del bene dato alle Potenze superiori, fino alla distruzione
del bene stesso. "offerta" si diversifica invece dal sacrificio, poiché non prevede la distruzione del bene
alienato. Sia i comportamenti sacrificali che quelli di offerta possono assumere valori molto diversi a
seconda delle aree culturali e dei periodi storici, configurandosi di volta in volta come modi per
riscattarsi da colpe commesse, o per sollecitare le Potenze a produrre nuovi beni e a moltiplicarli, o per
ripetere ritualmente il sacrificio di un eroe culturale del mito. Sono comunque, insieme ad altri
atteggiamenti magici o religiosi (preghiera, ripetizione rituale, estasi) "mezzi ritualizzati che
consentono all'uomo di uscire da crisi esistenziali specifiche e dal più generico sentimento di precarietà
esistenziale" come scrive A. Di Nola, al quale ci riferiremo anche in seguito. L'uscita dalla crisi
avviene attraverso l'entrata sul piano stesso delle Potenze, cioè col passaggio dalla condizione profana
a quella sacra, e con il successivo recupero di quella storica profana dell'"utile".
Fra le varie interpretazioni teoriche di queste esperienze del dono (che sono fondamentali per il
divenire dell'uomo, da vari punti di vista: filosofico, sociologico, psicologico, storico, antropologico),
ci limitiamo a segnalarne alcune.
Bibliografia
Alfonso Di Nola, Sacrificio e offerta, in Enciclopedia delle religioni, AA.VV, Vallecchi, Firenze 1973.
Vladimir Ja. Propp, Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma 1977.
Il fuoristrada scivola sulla soffice, fra le linee nitide delle dune. Sono nel deserto del Ténéré, luogo di
incredibile bellezza, uno scrigno situato nel più grande deserto del mondo, il Sahara, "il vuoto" come lo
ha voluto chiamare Ibn Abd-El Hakem, egiziano del IX° secolo. Da alcuni giorni ho lasciato Agadéz,
l'oasi color ocra posta sui bordi meridionali del Ténéré, nell'irreale del Sahel. Luogo di incontro delle
genti nomadi sahariane (i tuareg dell'Air, i tébu del Kauar e le popolazioni nere sedentarie haussa),
Agadéz è un oasi che da sempre offre al viaggiatore suggestione e misticismo. Alta sull'abitato si
innalza l'originale sagoma piramidale del minareto della moschea fatta erigere da sultano Yuns nel
XV° secolo; alle sue spalle il mercato, straordinariamente animato, rappresenta i mille volti di questo
antico centro carovaniero che fu un tempo un importante punto di scambio per le merci provenienti dal
bacino del Mediterraneo, dalla penisola arabica e dai grandi imperi situati a nord del golfo di Guinea.
Sui panni distesi nella sabbia della piazza i mercanti espongono le loro merci. Nelle mani nodose dei
tuareg rimbalzano i bellissimi gioielli cesellati in argento che rappresentano le croci di Agadéz, di
Timia e di Iferouane; collane d'ambra riflettono i mille colori del deserto. Qua e là, disposte in
policromo disordine, le merci più strane: feticci, spezie, finimenti per cammelli, pani di sale giunti sin
qui con le azalai, le carovane del sale che provengono dalle saline di Timia, di Fachi e di Teguiddan
Tessoum. La storia del commercio del sale potrebbe da sola riempire le pagine di interi volumi.
E' un rito antico che continua immutato da secoli: stoffe, zucchero, tè raggiungevano le oasi più isolate
del Ténéré dopo mesi e mesi di viaggio con interminabili carovane di dromedari, alcune formate da più
di 1000 animali, che partivano dai grandi centri di Zinder e Madaoua, affacciati sull'Africa Nera.
Nelle saline, alcune già conosciute in epoca romana, si caricava il sale per uso animale ricavato
facendo evaporare l'acqua in grandi buche a cielo aperto, un lavoro incredibilmente penoso affidato ai
discendenti degli schiavi sudanesi.
Il mio viaggio prosegue, tra sobbalzi, spianate e dune, verso l'"Albero del Ténéré", un albero così
importante da essere indicato sulla carta Michelin dell'Africa Nord-Ovest. Situato quasi al centro del
Ténéré, un rettangolo di 700 chilometri per 400, l'arbre come si usa semplicemente chiamarlo, era uno
dei riferimenti per chi si avventurava nelle incognite del deserto.
Carovanieri, nomadi, viaggiatori, truppe menariste (sui dromedari) sostavano alla sua modesta ombra
ricordando il cocciuto tenente francese che all'inizio del secolo, durante una ricognizione, lo vide perso
nella solitudine e intuì l'esistenza di una falda d'acqua. Si iniziarono così gli scavi e dopo numerosi
tentativi l'acqua sgorgò a circa 40 metri di profondità. L'arbre da quel giorno segnò ai viandanti la
presenza del pozzo; un'acqua salmastra consentiva solamente l'abbeveraggio delle mandrie di cammelli
prima dell'ultimo grande balzo verso le oasi di Fachi e di Bilma, distanti ancora centinaia di chilometri.
Spesso la sosta richiedeva più giorni, durante i quali era un continuo ruotare di primitive carrucole in
legno, di funi e di rudimentali recipienti in cuoio che, instancabilmente, giorno e notte, scendevano e
salivano dalla profondità del suolo.
L'"acacia del Ténéré" non era l'unica esistente ma sicuramente quella che più intimamente ha vissuto la
storia delle genti sahariane.
Da alcuni anni l'arbre non spinge più le sue radici nella falda d'acqua ma è esposto nel museo di
Niamey. Il suo tronco contorto, che nelle pieghe racchiude mille leggende, è stato cosparso di una
vernice trasparente per preservarlo intatto. Sono molte le storie che si raccontano sulla sua morte.
Forse quella più vera è che un camion diretto nel Ciad, guidato da un autista libico, lo abbia travolto
durante una manovra di retromarcia.
Oggi, accanto al pozzo, un traliccio di ferro, che vorrebbe simbolizzare l'albero con tanto di tronco e
rami, ricorda e segna la via ai viaggiatori. E' difficile immaginare nel contesto della bellezza composita
del Sahara qualcosa di più triste e irreale di un albero in ferro piantato nella sabbia.
Qui anch'io sosto prima di ripartire verso la lontana oasi di Seguedine, abitata dai Tébu. Seduto accanto
al fuoco assisto al rituale antico della preparazione del tè alla menta, osservo i tuareg muoversi con
eleganza, avvolti nell'ampio gandura, la tunica di lana, con la spada al fianco e il gri-gri, l'astuccio in
cuoio portato sul petto, che racchiude sogni, magia, felicità e speranze. Mai come in questa notte i
"Signori del Deserto" appaiono così lontani dal mio mondo, dalla mia rumorosa fuoristrada, dalle
inutili cianfrusaglie che mi sono portato appresso. Un cielo incredibilmente stellato mi fa da tetto ed io
sono totalmente soggiogato dal fascino di queste dimensioni, che non mi appartengono. La guida
Aghali, interpretando i miei pensieri, disegna con il braccio un ampio semicerchio che sta ad indicare
la grandiosità e impenetrabilità dell'universo. Nel suo stentato francese inizia a raccontare una storia,
forse la più tragica, sull' "arbre du Ténéré": "L'ispettore del dipartimento scolastico di Agadez, sapeva
quanto l'albero fosse legato alla cultura e alle tradizioni delle genti sahariane. Decise con il figlio e un
autista di recarsi da Agadez al pozzo, centottanta chilometri di pista sulla direttrice Agadez/Bilma, per
piantare alcune pianticelle di acacia.
Costruirono un piccolo recinto, un muretto alto un metro per impedire alla sabbia portata dal vento di
seppellirle appena piantate. Il lavoro li impegnò alcuni giorni, dopodiché ripresero il viaggio in
direzione dell'oasi di Bilma per poi proseguire verso l'oasi di Seguedine, dove viveva la madre; oltre
ottocento chilometri attraversando da ovest a est il Ténéré.
La pista, non molto difficile, è segnata ogni quattro-cinque chilometri. A un punto imprecisato, un
guasto blocca la vettura. Inutile l'attesa dei soccorsi, non passano camion e neppure nomadi; dopo
alcuni giorni l'acqua razionata finisce; inizia così il disperato tentativo di raggiungere Blima a piedi.
Solo il figlio e l'autista vi giungeranno, l'ispettore muore non lontano dall'oasi di Fachi. Passa del
tempo, i parenti organizzano un camion per andare a cercare le spoglie del loro caro e darne sepoltura.
Partono in sei o sette da Seguedine. Nel Ténéré sono di casa: il caldo torrido, i miraggi, il vento di
sabbia, il freddo delle notti, la scarsità d'acqua sono costanti che già da piccoli hanno imparato a
combattere e dominare.
Ma anche il loro autocarro ha un guasto. Attendono, sono abituati, la sosta forzata per loro non è
drammatica, il tempo scorre con un altro ritmo, forse solo l'alba e il tramonto hanno un significato
nell'immensità del deserto. Passano alcuni giorni e la tragedia si ripete: inizia l'angoscia dell'acqua, la
scorta si esaurisce. Possiamo solo immaginare quel che poi è successo. Discutono e poi decidono.
Partono i più forti mentre i più deboli rimangono in attesa all'ombra del camion. Ma la strada per il
pozzo è lontana e l'albero, questa volta, rimane invisibile". Oggi la pista che dall'albero porta a Bilma è
segnata per un lungo tratto da tumuli con una pietra rivolta ad est verso la Mecca.
Il giorno successivo riprendiamo il percorso.
Il Ténéré ora è un'incredibile, piatta distesa dove i pneumatici affondano solamente per pochi
centimetri, consentendo una velocità decisamente alta.
Non vi sono ostacoli sul percorso e la guida è entusiasmante. Guardando nello specchietto retrovisore
intravedo una traccia simile a quella lasciata dagli sci sulla neve fresca. E' ormai sera quando appaiono
le rocce lucenti dell'Adrar Madet, il gigantesco vulcano che emerge, solitario in questa distesa
sconfinata. Mi fermo, incuriosito dall'affiorare nella sabbia di innumerevoli ciottoli di vario colore.
Aghali mi fa capire che siamo giunti su di un paleosuolo e mi indica con occhio esperto i reperti litici
lasciati dalle popolazioni di pastori, che migliaia di anni fa, nel neolitico, abitavano questi luoghi,
attraversati allora da immensi fiumi e ricchi di vegetazione.
Punte di freccia in selce, mazze, macine sono le testimonianze di antiche comunità di agricoltori e
cacciatori. E' difficile credere che in questi luoghi, dove il deserto è totale e le piogge sono assenti,
vivessero un tempo giraffe, antilopi, mufloni ed elefanti; eppure, in ogni parte del Sahara incisioni
rupestri e affreschi riportano le scene di questa realtà pervenuta sino a noi attraverso l'opera di artisti e
di attenti osservatori.
La pista sale in direzione nord-est verso la falesia di Achegour. Mi trovo nel grande letto fossile del
Tafassasset, l'imponente fiume, oggi scomparso, che con un percorso nord-sud-est portava le acque dei
massicci dell'Hoggar e del Tassili (Sahara algerino) nel lago Ciad, anticamente molto più vasto. I
cordoni di dune disposti nel senso da ovest ad est consentono, correndo sul fondo dei loro
avvallamenti, di mantenere una velocità costante. All'orizzonte già si intravedono i primi contrafforti
rocciosi dell'altopiano di Djado, fasciati dalle dune più settentrionali del Grand Erg di Bilma.
L'ambiente circostante è stupendo, i colori e le linee indescrivibili. E' sera quando giungo in vista di
Djado e di Djaba, città fortificate costruite in banco, un impasto di paglia ed argilla cotta al sole.
La struttura architettonica è del tipo dello Ksar berbero, in cui le case sono edificate su di un colle e
addossate l'una all'altra in modo da formare all'esterno una fortezza. Da tempo abbandonate, risalgono
al lontano Medioevo e testimoniano la presenza di uomini e traffici in una zona che è oggi fra le più
remote del mondo.
Seguendo i letti sabbiosi di antichi oued (fiumi), ridiscendo a sud verso il Ténéré in direzione della
meta finale del mio viaggio, Seguedine, a nord di Bilma. Una spianata di cristalli, di cenere, diG
sabbia, fantasmagorici torrioni di rocce calcinate dal sole, sono l'anfiteatro nel quale è adagiata l'oasi
abitata dai tebù.
Così comincia il Genesi degli Shuar, gruppo indigeno dell'Amazzonia ecuadoriana. E' il tentativo di
legare le credenze ancestrali, mai abbandonate, al cristianesimo, portato dai missionari e religione
odierna della maggioranza degli ecuadoriani, come di tutti i latino-americani. Con eccezioni: diversi
gruppi Indios ancora isolati e, fra gli esempi di culture a metà fra i due mondi, appunto gli Shuar. I
quali non furono mai convertiti completamente al cristianesimo, anche se i gesuiti arrivarono già nel
1638 nel loro territorio. E anche oggi mantengono un sincretismo nel quale convivono elementi
tradizionali autoctoni e l'adesione più o meno profonda al cattolicesimo.
Del resto, lo sforzo dei missionari, in particolare i salesiani italiani coadiuvati dai volontari
dell'Operazione Mato Grosso, dagli anni Sessanta in poi è stato più quello di aiutarli a recuperare i
propri diritti alle terre e le radici culturali, che di evangelizzarli. Nella coscienza che per tali gruppi
etnici l'identità culturale è altrettanto importante della possibilità di vita materiale. O meglio, le due
cose coincidono: vivere nella foresta secondo le tradizioni significa potersi difendere dalla
maggioranza di meticci e bianchi, ansiosi di prenderne le terre (oggi, per il petrolio e le piantagioni da
esportazione). Per far questo, i bianchi innanzitutto ne disgregano, volontariamente o no, l'unità
culturale e sociale.
Gli Shuar seguono il patrimonio di conoscenze tradizionali, che forniscono le coordinate per la
comprensione del proprio sistema di vita: chi è l'autorità -l'anziano che l'ha ereditata dagli antenati, non
il bianco venuto da fuori-, come si vive nella foresta -rispettandone la vita immersa nello spirito, non
distruggendola. Una visione del mondo oggi mutata dall'introduzione di una civiltà diversa e di mezzi
moderni -camion, strade, segherie, radio, aerei- ma capace di scegliere coscientemente ciò che della
modernità si può adattare alla tradizione, rinforzandola.
Ecco che cosa ne dicono gli stessi Shuar (da una pubblicazione del 1976 della Federazione Shuar): "Gli
studiosi di antropologia delle culture allo stato `chimicamente puro' ci rimproverano il fatto che non
siamo più come una volta, con l'itip (la tessitura), la lancia, e il lungo saluto ufficiale. Credono che
vogliamo approfittare del meglio dei bianchi, dimenticando il nostro passato o rinnegandolo...", d'altra
parte "i bianchi ci rimproverano proprio il contrario: il nostro amore verso il gruppo e la tradizione
shuar, il `separatismo', l'intestardirci nell'usare la lingua dei nostri avi, le nostre strutture sociali
speciali, diverse dalle loro...
Uno shuar che guida il camion o alleva bestiame o veste alla moda o frequenta l'università, non cessa
di essere uno shuar. Approfittare delle cose utili di civiltà comuni a tutti i popoli non significa per forza
copiare il bianco, tutt'al più partecipare con lui al tesoro comune dell'umanità, al quale tutte le culture
di tutti i tempi hanno contribuito: culture che in se stesse non sono mai state statiche, ma dinamiche
(basti pensare a come vestiva uno spagnolo nel XVI secolo e a come veste oggi, senza per questo
cessare di essere uno spagnolo...). Noi non stiamo semplicemente copiando, ma usando, selezionando,
rivivendo a modo nostro: la cooperativa india, per esempio, è molto diversa da quella dei coloni... si
tratta semplicemente di una nuova cultura, incomprensibile se non a partire da quella della selva e che
con quella conserva vincoli indissolubili; infatti un lavoratore qualsiasi dell'altopiano non afferra varie
volte, alla fine del lavoro, il capace recipiente della chicha (bevanda fermentata di yucca), né trova
tutta la sua gioia, la domenica, in una pesca collettiva tipica" (da L'utopia selvaggia, teoria e prassi
della liberazione indigena in America Latina, a cura di E. Amodio, ed. La Fiaccola).
Più che intatta, è quindi una cultura in rifacimento, basata sulla rivisitazione attualizzata delle origini:
le ricerche "sul campo" di Cesare Bianchi, di padre Bolla e l'opera delle edizioni Abya Yala ("Madre
Terra") di padre Botasso, che pubblica tutta la loro mitologia e tradizione artigianale e linguistica,
hanno permesso agli Shuar di ricostruire il proprio tessuto culturale. I manifesti di cui riproduciamo
alcuni particolari sono il prodotto di questo lavoro: nelle scuole shuar sono usati come testo di storia e
catechismo insieme. Infatti la storia si confonde con la mitologia, nel sistema culturale shuar. E le
cerimonie sono ancora vive, accanto a quelle cristiane: come la ricerca della visione dell'animale-guida
spirituale, la tsantsa ovvero il taglio rituale della testa dei nemici per intrappolarne l'anima impedendo
così la loro vendetta (oggi la tsantsa è effettuata su bradipi morti), i riti femminili delle pietre.
La serie di otto manifesti, disegnati dall'italiano Franco Rovere, riproduce su indicazione degli
stessi Indios i miti shuar e la loro corrispondenza con la tradizione cristiana: uno straordinario
"manifesto culturale" del più forte gruppo indigeno dell'intero bacino amazzonico.
Etsa, il Sole
La divinità si presenta sotto quattro aspetti principali. Qui, Etsa, il Sole, il Fuoco che di notte
scende nella terra, la caccia. Etsa nasce, insieme a Nandu, la Luna, da due uova da una donna
fecondata dalla divinità. Ivia, lo spirito del male, il gigante cattivo e goloso, uccide la donna e tutti
gli animali per mangiarli, ma Etsa soffia nella sua cerbottana (usata dagli uomini per la caccia),
che aveva riempito di piume di uccelli, e ricrea tutta la natura. Etsa è la forza che crea, Ivia quella
che distrugge, in continua contrapposizione.
Viaggio a Shambala
Tibet e Nepal, dove la terra tocca il cielo, sono luoghi per avventure dello spirito senza uguali nel
mondo. Ecco come visitarli e trovarne la parte più autentica
"Viaggiatore, mendicante e analfabeta, il tipico cantastorie tibetano poteva recitare una storia per intere
settimane di seguito, senza tralasciare il più piccolo dettaglio. Si spostava di villaggio in villaggio,
cantando storie popolari e raccontando con una caratteristica cantilena la vita del Buddha, che
illustrava mostrando le tangka, (pitture devozionali) che portava con sé. Una di queste era sulla
leggenda di Shambala, che racconta come nel nord del Tibet sorga un reame impenetrabile, circondato
da montagne innevate e perennemente avvolto dalle nebbie: in esso fame, povertà, crimine e malattia
sono sconosciute, e la vita dura cent'anni. In un palazzo scintillante della città di Kalapa vengono
conservati e onorati i sacri insegnamenti del Kalachakra (la tradizionale iniziazione rituale lamaista)
ma Shambala non può però essere raggiunta e solo alcuni grandi stregoni e saggi hanno avuto la
fortuna di visitarla. Tuttavia il grande sconvolgimento che sta per abbattersi sul mondo obbligherà la
città magica a intervenire in suo aiuto: fra trecento anni Lhasa sarà inondata dalle acque e il mondo
scoppierà in una guerra caotica. Ma quando l'ultimo barbaro penserà di aver conquistato il mondo, le
nebbie si alzeranno da Shambala e il suo re guiderà la riscossa contro le forze del male, aprendo una
nuova era dorata che durerà mille anni. Il sepolcro di Tsong Khapa si scoperchierà ed egli tornerà così
a insegnare ancora la vera saggezza".
Il Paese delle nevi
Questa la leggenda. La realtà del Tibet? "Una vasta terra pietrosa, un regno del cielo e del sole dove il
vento scivola per giornate intere senza altri ostacoli tra le catene ghiacciate e deserte dei Kang-ri, delle
`montagne nevose' dove tutto sembra un simbolo glorioso della razionalità più cristallina, del pensiero
più armonico e sereno". Con queste parole Fosco Maraini descrive il Tibet, dove la meraviglia è
quotidiana, terra pervasa dal silenzio e dall'atmosfera senza tempo. Silenzio e assenza del tempo che
sono stati rotti, negli anni Cinquanta, dall'occupazione cinese e poi dagli orrori che vennero scatenati
contro i tibetani: 1.200.000 morti, distruzione del 90 per cento dei monasteri, etnocidio arrivato quasi
al punto finale con campagne di sterilizzazione forzata, arresti in massa, detenzioni arbitrarie. Qualcosa
sta cambiando, anche per le pressioni dell'opinione pubblica internazionale: le ultime, in occasione
della recente visita in Italia e in altri Paesi europei di Li Peng, premier cinese responsabile della strage
di Tien An Men.
Il Paese delle nevi è un immenso altopiano grande come l'Europa occidentale, 1.200.000 kmq, con
pochi abitanti (quattro milioni più altrettanti di coloni cinesi), che confina con India, Nepal, Sikkim,
Buthan e Birmania. Ma all'originario territorio sono stati sottratti altri grandi spazi, abitati ancora oggi
da tibetani, nelle province cinesi del Qingai e del Sechuan.
E' il punto del globo terrestre più vicino al cielo, e lo è anche da un punto di vista metafisico: la sua
cultura, misteriosa e magica, rappresenta uno dei vertici del pensiero religioso e mistico del mondo.
Quel poco che ne sappiamo in Occidente ci appare miracoloso, improbabile, esoterico, più che in ogni
altra cultura. A ragione: chi l'ha visitato, chi ha conosciuto o vissuto con i tibetani sente che in cima a
quelle montagne l'uomo ha trovato un dialogo diretto con forze che vengono chiamate divinità, che
sono anche dentro di noi, simboli del cosmo nella nostra persona. Ma occorre andarci, per
comprendere e sentire almeno in parte che quella magia non è puro esotismo. Dai 4.000 metri d'altezza
della piana dello Tsang Po, a Thingri, ci si trova di fronte all'Everest, il tetto del mondo coi suoi 8.848
metri, al Cho-Oyu (8.153 m); nella valle, oasi si alternano a distese lunari; il misticismo si respira nei
monasteri e nel Potala, il grande monastero-fortezza di granito e dai tetti d'oro, dalle mille stanze e
dalle mille cappelle, nella capitale Lhasa. L'antica religione sciamanica Bon fa capolino, dall'interno
del buddhismo che vi si è sovrapposto, nella religiosità popolare dei chorten (le cappelle votive,
equivalenti agli stupa indiani), delle bandiere di preghiera che trasportano nel vento le formule
tantriche, nella fede negli oroscopi e nella reincarnazione. Yak e cereali danno vita agli uomini, spiriti
e incantesimi ne alimentano l'anima, tesa verso l'illuminazione e l'uscita dal ciclo delle rinascite.
Gli "Indiani" che tuttora vivono nel territorio degli Stati Uniti sono suddivisi in oltre cento "tribù",
talmente differenti tra loro per origini, storia, tradizioni, religione e linguaggio da costituire delle vere
e proprie Nazioni. E' impossibile in poco spazio dare un quadro completo e omogeneo della loro
vastissima produzione artistica, soprattutto se si tiene conto che l'arte "indiana" rappresenta un
fenomeno tutt'altro che statico, tutt'altro che di esclusivo interesse archeologico.
Molti di questi orgogliosi popoli sono riusciti a evitare l 'annichilimento di fronte allo strapotere dei
"bianchi" e mantengono viva, ancora oggi, la loro identità culturale e spirituale. L'arte è il mezzo
principale per comunicare, a chiunque si ponga in atteggiamento di ascolto, la loro visione del mondo,
il legame con la tradizione e l'eredità spirituale di cui sono portatori.
Ancora, l'arte delle popolazioni indiane è arte viva perché esprime una grande dinamicità attraverso
l'elaborazione creativa e autonoma di spunti attivati nell'incontro con altre culture. Il risultato è una
produzione artistica completamente innovativa e di sicuro interesse anche per chi non conosce a fondo
la storia e la cultura di questi popoli. Gli oggetti sono, infatti, "belli" in se stessi, al di là di qualsiasi
altra considerazione sui loro significati e sulla loro specificità etnica.
Il Guerriero Mistico
Le due aree culturali dei nativi americani più dinamiche nell'arte e nell'artigianato oggi negli Stati
Uniti sono quella delle Grandi Pianure (Sioux, Cheyenne, Crow, Shoshoni) e quella del Sud-Ovest
(Pueblo, Navajo, Apache).
Prima dell'arrivo dell'uomo bianco, all'epoca in cui il bisonte era il fondamento dell'economia
tribale, le popolazioni stanziate nei grandi altopiani del Nord America avevano sviluppato
un'originalissima produzione artistica, volta essenzialmente alla realizzazione di oggetti di uso
quotidiano, armi, indumenti, strumenti cerimoniali.
Il bisonte, ma anche altri animali come daini, cervi, alci e porcospini, fornivano la materia prima:
le pelli, essiccate e abilmente conciate, venivano usate per le abitazioni tradizionali, i tepee, per
gli indumenti e le calzature (i famosi mocassini) e molti altri accessori.
Le tecniche decorative risalgono a tempi molto più antichi di quelli richiamati dalle "perline di
vetro", introdotte da i colonizzatori come merce di scambio. In origine le pelli erano dipinte con
colori naturali e decorate mediante l'applicazione di sassolini, conchiglie e ossa di animali.
Le donne Sioux erano inoltre abilissime nel quillwork, il lavoro a intreccio di aculei di porcospino.
Quest'arte raggiunse il suo apice tra i popoli delle pianure dopo la diffusione del cavallo e proprio
in quel periodo furono elaborati i disegni, gli schemi e le colorazioni in uso ancora oggi.
Gli aculei di porcospino sono cavi, di colore bianco e con le estremità scure; eliminate le punte
essi vengono appiattiti e tinti facendoli bollire con bacche, foglie e cortecce. I lavori realizzati a
quillwork vengono applicati come ornamento sugli abiti, le suppellettili, le armi e gli oggetti
cerimoniali; possono anche costituire di per sé oggetti decorativi come nel caso dei choker
(collari),degli orecchini o del cerchio sacro della medicina.
Le "perline di vetro" hanno, poco a poco, sostituito gli aculei di porcospino e il quillwork oggi
viene eseguito piuttosto raramente. I lavori con le perline (beadwork) vengono realizzati a telaio
e anch'essi successivamente applicati alla pelle.
Vi sono differenti tecniche di lavorazione, ma sempre l'esecuzione del lavoro richiede molto
tempo e precisione nella composizione del disegno nonché grande cura nella fattura.
La lavorazione dell'argento non ha una lunga tradizione nella storia degli indiani delle pianure.
Le tecniche di lavorazione dei metalli sono state infatti introdotte dai bianchi in epoca
relativamente recente. Oggi vi si dedicano con successo numerosi artisti che richiamano nei loro
gioielli i motivi decorativi tradizionali e religiosi: il cerchio della medicina, il bisonte, la sacra pipa,
il tepee, la stella del mattino con le quattro direzioni dipinte nei colori sacri giallo, bianco, nero,
rosso.
E.S.
Mohawk Nation
(P.O. box 196, Roosweltown, N.Y. 13683, Usa, tel. 001/518/3589531, in Canada, tel. 613/5752063, fax
613/5752064). La Nazione Irochese Mohawk pubblica Akwesasne Notes, il più importante giornale dei popoli
indigeni, che aggiorna sulla loro situazione in America e in tutto il mondo.
Si legge nelle antiche cronache che nella zona del Renon (Bolzano) si usava un tempo innalzare sulla
piazza di ogni paese, nei primi giorni di maggio, una pertica adornata di foglie, fiori e strisce di stoffa
colorata; i giovani dei paesi vicini dovevano tentare di far cadere l'"albero", difeso naturalmente con
tutte le forze dai ragazzi del posto. Pare tuttavia che, dato che i contendenti avevano spesso dimostrato
di prendere troppo sul serio il loro ruolo, l'usanza sia stata successivamente abolita.
Non è scomparsa, invece, in Austria: qui la tradizione del Maibaum ("albero di maggio") sopravvive, e
senza pericolo di degenerazioni violente. Sulla piazza di ogni paese fa bella mostra di sé il tronco,
privato di foglie e rami, di un abete o di una betulla, alla cui sommità (come nei nostri alberi della
cuccagna) è appeso un dono, che spetta di diritto al ragazzo più veloce nella scalata. La festa avviene di
solito il primo maggio, con le abitazioni adornate anch'esse, per l'occasione, di rami di betulla; il
tradizionale ballo in piazza viene spesso movimentato dall'insolita messa all'asta di alcune ragazze del
paese: il ricavato della finta vendita della Maikonigin ("regina di maggio") servirà ad alimentare
qualche "giro" di bicchieri all'osteria.
Il simbolo dell'albero
All'origine di questo benvenuto alla bella stagione sono certamente le tradizioni celtiche: l'albero levato
verso il cielo simboleggia la potenza creatrice che suscita ancora una volta dalla terra nuove energie
vitali, mentre la scelta del legno della betulla evoca, in virtù della sua corteccia argentata, l'azione di
energie positive.
Non a caso anche nelle settimane successive al primo di maggio la simbologia dell'albero percepito
come manifestazione di energie vitali ritorna in altre feste: per il Corpus Domini, per esempio, in cui
lunghe pertiche adorne di fiori di campo o di montagna vengono portate in processione per attirare la
benedizione sui campi. Una funzione propiziatoria, quindi, alla quale la fede cristiana si è sovrapposta,
senza peraltro cancellarne del tutto un certo spirito pagano.
La stessa fusione di riti cristiani con antiche tradizioni pagane si può rilevare anche nella scansione
temporale delle feste. Per i Celti momenti fondamentali dell'anno erano infatti i due equinozi e i due
solstizi, come pure i quattro momenti intermedi, e cioè il primo giorno dei mesi di agosto, novembre,
febbraio e, appunto, maggio: otto appuntamenti con i momenti forti del ciclo della natura, insomma,
parte dei quali sopravvive ancora oggi nelle tradizioni contadine. Pensiamo alle feste estive dei nostri
paesi, un tempo sentite come rendimento di grazie per il raccolto, disponibile nella sua pienezza, e
celebrate con fuochi accesi sulle montagne e nei luoghi di culto. Se ora proviamo a rappresentare
l'anno come un cerchio, in posizione diametralmente opposta al primo agosto troviamo il primo
febbraio: non può non venire alla menta la benedizione cristiana delle candele (2 febbraio), erede
diretta della festa di Brigit, dea di quella luce che in occasione del solstizio d'inverno (il nostro Natale)
ha incominciato a rinascere e si prepara, ancora nel buio e nel silenzio, a manifestarsi.
E per finire, ancora una coppia di opposti: primo novembre e primo maggio, dedicati rispettivamente ai
morti, nel momento in cui ha inizio il dominio dell'ombra e non si può raccogliere più nessun frutto, e
alla festa del prorompere gioioso di nuove energie dal grembo della terra.
E perché non anche dal corpo e dallo spirito degli esseri umani?