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I popoli della terra

Dossier de “il giornale della natura”, a cura di Luisa Motta e Paolo Vaccaro

In questo dossier troverete:


Lo Spirito della Terra
Il dono è un atto sacro
Il sacrificio-dono come espressione utilitaristica
Come espressione soprattutto sociale
Le concezioni etica e dinamistica del sacrificio
Le interpretazioni storica e psicologica

I Pigmei
Pigmei, i cantori della foresta

I nomadi del Sahara


Nel giardino di Allah

Gli Shuar dell’Equador


Ecuador, terra di vulcani e foreste
Padre nostro che sei nella foresta
I miti Shuar

Tibet
Viaggio a Shambala
Il Paese delle nevi
La terra degli sherpa

Nativi d’America
I popoli del Grande Spirito
Gli Algonchini delle coste del Pacifico: il Potlach, il totem
I Lakota-Sioux: la Danza del Sole e la Sacra Pipa
Navajo: le pitture su sabbia e la il "rito del nemico"
Gli Hopi: la Danza del serpente e le kachina
Irochesi: il wampum e la cerimonia dell'albero
La chiesa dei nativi americani e il peyote
L'arte viva degli Indiani d'America
"Il passato è nei nostri cuori, il futuro nelle nostre menti"
La città del cielo
Il Guerriero Mistico
Le organizzazioni dei nativi americani

Antichi popoli: i Celti


Nelle foreste dei Celti
Asterix nella Padania
Una cultura orale
“Le vie commerciali tra fiumi e foreste”
“Una civiltà del legno”
Un albero per rinascere
Dai riti dei Celti un primo maggio diverso
Il simbolo dell'albero
Lo Spirito della Terra
Una visione del mondo come armonia, dalle cosmogonie e dalla religiosità degli altri popoli

"Chi irride coloro che pensano possano esservi spiriti dei boschi e dei fiumi, non vedendovi che
legname e acqua, finirà con lo sporcare tutte le acque e abbattere tutte le foreste, perdendo la sua stessa
anima". Lo afferma Raymond Ruyer, lo studioso che in un suo scritto (La gnosi di Princenton,
Nardini) indica come la ricerca scientifica avanzata avvicini la visione della realtà, che si apre davanti
agli occhi del ricercatore odierno, più a quella di un mistico antico che a quella dello scienziato
comunemente inteso.
E' ormai sempre più largamente acquisito come l'universo stesso risulti oggi simile a una grande idea,
più che a una grande macchina, e che, dovunque ci sia un osservatore, avviene un'interazione, sorge un
sistema simbolico che mette in risonanza il microcosmo umano con il macrocosmo circostante. Nessun
microcosmo culturale può essere considerato superiore agli altri, da un punto di vista antropologico,
poiché ognuno assolve perfettamente alle sue funzioni nel momento storico e nel luogo in cui si
organizza.
Nonostante le differenze fra le diverse culture "primitive", ci sono elementi comuni nelle credenze
religiose come nelle pratiche rituali o terapeutiche come nelle cosmogonie,i racconti mitologici
riguardanti l'origine dell'universo e degli esseri viventi: tutte percepiscono la realtà come un organismo
unico, tutti gli esseri come figli di un'unica famiglia. La profonda spiritualità dell'Africa nera, le
mitologie degli amerindi, le religioni dell'Oceania mostrano un Cielo molto più vicino alla Terra di
quanto oggi non sia e una straordinaria coscienza dell'interrelazione dinamica fra tutti gli aspetti della
realtà.
Alcuni esempi. Perfino nelle complesse cosmogonie della Polinesia vi sono temi ricorrenti, come i miti
di evoluzione della pietra o dall'uovo, quelli sull'evoluzione della o dalla luce, quelli del "sollevamento
del cielo" e della creazione o "pro-creazione" da parte degli dei e di altri esseri soprannaturali.
A Samoa, il Creatore Tangaroa manda dal Cielo la figlia a cercare una terra dove porta i semi delle
varie piante, dopo aver fatto sorgere le isole dalle pietre mandate dal padre; quindi la prima coppia
umana. Altrove, il Creatore opera direttamente sulla Terra, dove è disceso, mediante la parola: l'Uomo,
lo Spirito, la Volontà, il Pensiero fluttuano dapprima sul mare (come non pensare al Verbo del
Vangelo di San Giovanni che fluttua sulle acque?) e si fondono quindi nell'uomo, ancora allo stato di
androgino, dal quale deriverà la prima coppia.
Ma di tale complessità mitologica non è possibile riferire in poco spazio; come dice un'invocazione
tahitiana, "si possono mai contare tutti gli dei? Gli dei sono innumerevoli". Vi sono tante cosmogonie
quanti sono i centri religiosi, ognuno con un proprio culto; né vi è rigidità teologica.
In Nuova Zelanda, se "Io" è la divinità suprema, esistono molti altri dèi, che rappresentano le varie
realtà soprannaturali. I protagonisti dell'origine del mondo sono infatti il Cielo, detto Rangi, o anche "il
Grande-Cielo-che-sta-in-alto" e la sua sposa, Papa, la Terra, ovvero "La Grande-Superficie-
sottoposta", che continuano a rimanere congiunti in un grande coito cosmico anche dopo aver generato
altri dèi, sicché regnano tra loro le tenebre. Interviene allora il figlio, Tane Mahuta, dio delle foreste e
delle acque, a separarli e a sollevare il Cielo, che diventa lo spirito della luce; il fratello, che lo aveva
contrastato, diviene lo spirito delle tenebre.
Il mito si ripete, e i temi intorno a cui s'è sviluppata la coscienza umana, sul sorgere e il divenire
dell'universo e della vita, non sono sostanzialmente diversi. Ma la freschezza o l'aderenza alla vita di
moltissimi miti "meridionali" ci fanno pensare a un universo spirituale ricco e vitale quanto l'ambiente
naturale in cui sorsero.

(Renzo Rossin, Il Giornale della Natura Illustrato n.3 marzo 1992)


Il dono è un atto sacro
Le offerte sono un ponte fra il nostro mondo e quello degli Dei;
i sacrifici e lo scambio uniscono la comunità e la fanno partecipe dell'armonia cosmica

Nelle società primitive lo scambio di beni non è fondato solo su principi e relazioni economiche nel
senso comunemente inteso, poiché include "cortesie, festini, riti, servizi militari, feste, danze, bambini,
donne", come scrive M. Mauss nel 1924 (Saggio sul dono). L'esempio più noto ed eclatante della
funzione sociale del dono, che coinvolge l'intero gruppo sociale, è la festa del potlach propria della
tradizione dei Kwakiutl, pellirosse della costa occidentale del Canada. Qui il dono e il sacrificio sono
connessi al concetto di onore e prestigio; gli individui gareggiavano nel donarsi reciprocamente beni
che non comportavano utilità economica, poiché subivano, anzi, una distruzione finale da parte degli
stessi individui.
L'aspetto simbolico delle manifestazioni del consumo è tuttavia evidente anche nella nostra cultura,
come ha dimostrato C. Lèvi-Strauss (Il Babbo Natale suppliziato, 1952).
In ambito socio-psicologico, seguendo Mauss, il dono viene a connettersi all'esperienza squisitamente
religiosa del "sacrificio", mediante il quale l'individuo profano accede al sacro offrendo una vittima
agli dei.
Nel sacrificio è sottintesa la rinuncia a godere del bene dato alle Potenze superiori, fino alla distruzione
del bene stesso. "offerta" si diversifica invece dal sacrificio, poiché non prevede la distruzione del bene
alienato. Sia i comportamenti sacrificali che quelli di offerta possono assumere valori molto diversi a
seconda delle aree culturali e dei periodi storici, configurandosi di volta in volta come modi per
riscattarsi da colpe commesse, o per sollecitare le Potenze a produrre nuovi beni e a moltiplicarli, o per
ripetere ritualmente il sacrificio di un eroe culturale del mito. Sono comunque, insieme ad altri
atteggiamenti magici o religiosi (preghiera, ripetizione rituale, estasi) "mezzi ritualizzati che
consentono all'uomo di uscire da crisi esistenziali specifiche e dal più generico sentimento di precarietà
esistenziale" come scrive A. Di Nola, al quale ci riferiremo anche in seguito. L'uscita dalla crisi
avviene attraverso l'entrata sul piano stesso delle Potenze, cioè col passaggio dalla condizione profana
a quella sacra, e con il successivo recupero di quella storica profana dell'"utile".
Fra le varie interpretazioni teoriche di queste esperienze del dono (che sono fondamentali per il
divenire dell'uomo, da vari punti di vista: filosofico, sociologico, psicologico, storico, antropologico),
ci limitiamo a segnalarne alcune.

Il sacrificio-dono come espressione utilitaristica


E' una concezione propria innanzitutto dell'inquadramento animistico che ne dà E.B. Tylor agli inizi
del secolo, attribuendo ai "primitivi" l'intenzione prioritaria di ingraziarsi gli spiriti o di allontanarne
l'ostilità. Un'altra intenzione sarebbe quella di onorarli, concependoli come personificazioni vicine
all'uomo e pertanto sensibili ai vantaggi di uno scambio utilitaristico, dal momento che avrebbero i
suoi stessi interessi e desideri.

Come espressione soprattutto sociale


Il sacrificio è in questo caso la porta d'accesso al sacro per l'intera comunità, che esce così dallo stato
profano in precisi periodi di tempo, ciclici o economici, come le lunazioni e i ritmi dell'agricoltura,
oppure in momenti di passaggio occasionali, come il matrimonio, la guarigione, l'iniziazione. La
vittima sacrificata possiede uno spirito che viene liberato nell'immolazione, "adescando" la divinità che
scende così nell'offerta. E' raggiunto in questo modo l'apice del contatto con la Potenza, cioè quella
comunione che è lo scopo del sacrificio. Nei riti di espiazione la vittima diventa il veicolo
dell'impurità-colpa di cui l'uomo vuole liberarsi e di cui essa si carica, prima di essere distrutta. Il
sacrificio agli dèi è in definitiva, secondo Durkheim, un dono alla comunità degli uomini che da quegli
dèi sono rappresentati. Sacralizza pertanto il rapporto fra l'individuo e la collettività.
Le concezioni etica e dinamistica del sacrificio
La prima, fenomenologica, mette in risalto che, soprattutto nei riti di espiazione e purificazione, ciò
che viene richiesto all'offerente è la purezza interiore, l'innocenza, la riparazione morale. Lo scopo
ultimo della liturgia è perciò alimentare la comunione mistica fra l'uomo e la divinità, alla cui sovranità
viene reso omaggio.
La seconda concezione afferma che il dono porta con sé l'energia ("mana") del donatore, poiché "colui
che dona contemporaneamente si dona"; perciò una parte della personalità dell'offerente viene immessa
nel circolo della donazione perpetua che unisce l'uomo alle Potenze. "Nutrite gli dèi e gli dèi
nutriranno voi", si legge nei Veda.
Ma il sacrificio è, ancor prima, una forma di elevazione, una parziale rinuncia ad "avere", per un
incremento di "essere".

Le interpretazioni storica e psicologica


Naturalmente, come messo chiaramente in evidenza da V. Lanternari nel 1959, offerte e sacrifici
mutano di forma e di significato in relazione alle strutture economiche, ideologiche e storiche delle
società umane in cui si presentano: nelle società della caccia-raccolta e della pesca si pone la necessità
di placare il Signore degli animali, che potrebbe accusare l'uomo di "animalicidio" e profanazione dei
suoi domini; i coltivatori melanesiani di tuberi cercano invece di placare con offerte gli spiriti dei
morti, dimoranti nella terra che la coltivazione sconvolge. In questi casi, come nell'uccisione cruenta
fra gli allevatori o in quella umana fra i coltivatori, un atto che potrebbe essere sacrilego viene
ritualmente elevato a sacrificio.
Per Freud l'uccisione dell'animale totemico e il pasto con le sue carni costituisce un parricidio
simbolico (del padre come "capo dell'orda"), ritualmente festeggiato nel sacrificio-comunione. J.
Cazeneuve vede nel sacrificio un meccanismo di compensazione del primitivo, che avverte la propria
condizione come non autosufficiente, "quasi volesse farsi perdonare di esistere". Se Freud fa
riferimento al complesso edipico, Cazeneuve richiama quello di Policrate, che si priva di parte della
propria fortuna poiché teme possa ingelosire gli dèi. Il sacrificio rappresenta dunque la negazione, da
parte dell'uomo, della sua possibilità di esistere al di fuori della connessione con il mondo delle
potenze trascendenti.
Nei racconti di magia indagati da V. Propp, i donatori rappresentano, come nei miti più antichi, un
nesso fra l'uomo e ciò che è oltre la sua natura, il regno dei morti e il mondo degli antenati. La strega,
il personaggio donatore più antico, ha essa pure un legame con gli avi totemici. Fra gli aiutanti-
donatori vi sono animali quali il cavallo, l'aquila e altre figure che riconducono al mondo sciamanico e
delle rappresentazioni funerarie, sostituite, in epoca cristiana, da quelle degli angeli custodi e dei santi.

Bibliografia
Alfonso Di Nola, Sacrificio e offerta, in Enciclopedia delle religioni, AA.VV, Vallecchi, Firenze 1973.
Vladimir Ja. Propp, Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma 1977.

(Renzo Rossin, Il Giornale della Natura Illustrato n.10 novembre 1992)


I Pigmei

Pigmei, i cantori della foresta


Alti al massimo 1.55 cm ma in media 1.40 cm (per un complesso meccanismo ormonale e
l'adattamento all'ambiente dell'intricata foresta), i pigmei sono "parenti" dei "negritos" della fascia
equatoriale asiatica (Onge delle Andamane, Veddas di Sri Lanka, Aeta delle Filippine, Semang della
Malesia e pigmoidi di Papua-Nuova Guinea, anch'essi abitanti nelle foreste umide).
Popolazione: 150-200.000 persone circa; non esiste censimento poiché seminomadi, e spesso chi ha
origini pigmee non lo dichiara, per la discriminazione da parte dell'etnia bantu, e perché molti sono gli
incroci (pigmoidi). Tre entità tribali principali: Ba-Mbuti, Ba-Binga o Ba-Mbenga e Ba-Twa.
Localizzazione geografica: Africa equatoriale centro-occidentale (Zaire, Gabon, Camerun, Guinea
Equatoriale, Ruanda, Burundi).
Ambiente e stile di vita: cacciatori e raccoglitori nella foresta pluviale, che fornisce loro abitazione,
cibo (l'elefante è per loro quello che era il bisonte per i Pellirosse: cibo ma anche divinità in terra,
chiamata Gor, oggetto di miti, rituali, canzoni con cui lo invocano chiedendogli comprensione per
averlo dovuto uccidere), ispirazione e materiali per musica (la loro principale forma espressiva
culturale: non hanno scrittura), medicinali dalle erbe, veleni per la caccia.
Minacce: apertura di strade, disboscamento e insediamenti nella foresta, ferrovia Transgabonese;
bracconaggio (elefanti); sfruttamento delle altre etnie che li forzano a diventare bracciati per
coltivazioni e allevatori (come nel caso dei 40.000 Efe, tribù dei Ba-Mbuti della foresta dell'Ituri,
Zaire).

(Stefano Fusi, Il Giornale della Natura Illustrato n.2 febbraio 1992)


I nomadi del Sahara

Nel giardino di Allah


Così è chiamato il Sahara dai nomadi che ne percorrono le infinite distese di sabbia e pietre. Cronaca
di un viaggio nella sua regione più fiabesca, il Ténéré, nel Niger

Il fuoristrada scivola sulla soffice, fra le linee nitide delle dune. Sono nel deserto del Ténéré, luogo di
incredibile bellezza, uno scrigno situato nel più grande deserto del mondo, il Sahara, "il vuoto" come lo
ha voluto chiamare Ibn Abd-El Hakem, egiziano del IX° secolo. Da alcuni giorni ho lasciato Agadéz,
l'oasi color ocra posta sui bordi meridionali del Ténéré, nell'irreale del Sahel. Luogo di incontro delle
genti nomadi sahariane (i tuareg dell'Air, i tébu del Kauar e le popolazioni nere sedentarie haussa),
Agadéz è un oasi che da sempre offre al viaggiatore suggestione e misticismo. Alta sull'abitato si
innalza l'originale sagoma piramidale del minareto della moschea fatta erigere da sultano Yuns nel
XV° secolo; alle sue spalle il mercato, straordinariamente animato, rappresenta i mille volti di questo
antico centro carovaniero che fu un tempo un importante punto di scambio per le merci provenienti dal
bacino del Mediterraneo, dalla penisola arabica e dai grandi imperi situati a nord del golfo di Guinea.
Sui panni distesi nella sabbia della piazza i mercanti espongono le loro merci. Nelle mani nodose dei
tuareg rimbalzano i bellissimi gioielli cesellati in argento che rappresentano le croci di Agadéz, di
Timia e di Iferouane; collane d'ambra riflettono i mille colori del deserto. Qua e là, disposte in
policromo disordine, le merci più strane: feticci, spezie, finimenti per cammelli, pani di sale giunti sin
qui con le azalai, le carovane del sale che provengono dalle saline di Timia, di Fachi e di Teguiddan
Tessoum. La storia del commercio del sale potrebbe da sola riempire le pagine di interi volumi.
E' un rito antico che continua immutato da secoli: stoffe, zucchero, tè raggiungevano le oasi più isolate
del Ténéré dopo mesi e mesi di viaggio con interminabili carovane di dromedari, alcune formate da più
di 1000 animali, che partivano dai grandi centri di Zinder e Madaoua, affacciati sull'Africa Nera.
Nelle saline, alcune già conosciute in epoca romana, si caricava il sale per uso animale ricavato
facendo evaporare l'acqua in grandi buche a cielo aperto, un lavoro incredibilmente penoso affidato ai
discendenti degli schiavi sudanesi.
Il mio viaggio prosegue, tra sobbalzi, spianate e dune, verso l'"Albero del Ténéré", un albero così
importante da essere indicato sulla carta Michelin dell'Africa Nord-Ovest. Situato quasi al centro del
Ténéré, un rettangolo di 700 chilometri per 400, l'arbre come si usa semplicemente chiamarlo, era uno
dei riferimenti per chi si avventurava nelle incognite del deserto.
Carovanieri, nomadi, viaggiatori, truppe menariste (sui dromedari) sostavano alla sua modesta ombra
ricordando il cocciuto tenente francese che all'inizio del secolo, durante una ricognizione, lo vide perso
nella solitudine e intuì l'esistenza di una falda d'acqua. Si iniziarono così gli scavi e dopo numerosi
tentativi l'acqua sgorgò a circa 40 metri di profondità. L'arbre da quel giorno segnò ai viandanti la
presenza del pozzo; un'acqua salmastra consentiva solamente l'abbeveraggio delle mandrie di cammelli
prima dell'ultimo grande balzo verso le oasi di Fachi e di Bilma, distanti ancora centinaia di chilometri.
Spesso la sosta richiedeva più giorni, durante i quali era un continuo ruotare di primitive carrucole in
legno, di funi e di rudimentali recipienti in cuoio che, instancabilmente, giorno e notte, scendevano e
salivano dalla profondità del suolo.
L'"acacia del Ténéré" non era l'unica esistente ma sicuramente quella che più intimamente ha vissuto la
storia delle genti sahariane.
Da alcuni anni l'arbre non spinge più le sue radici nella falda d'acqua ma è esposto nel museo di
Niamey. Il suo tronco contorto, che nelle pieghe racchiude mille leggende, è stato cosparso di una
vernice trasparente per preservarlo intatto. Sono molte le storie che si raccontano sulla sua morte.
Forse quella più vera è che un camion diretto nel Ciad, guidato da un autista libico, lo abbia travolto
durante una manovra di retromarcia.
Oggi, accanto al pozzo, un traliccio di ferro, che vorrebbe simbolizzare l'albero con tanto di tronco e
rami, ricorda e segna la via ai viaggiatori. E' difficile immaginare nel contesto della bellezza composita
del Sahara qualcosa di più triste e irreale di un albero in ferro piantato nella sabbia.
Qui anch'io sosto prima di ripartire verso la lontana oasi di Seguedine, abitata dai Tébu. Seduto accanto
al fuoco assisto al rituale antico della preparazione del tè alla menta, osservo i tuareg muoversi con
eleganza, avvolti nell'ampio gandura, la tunica di lana, con la spada al fianco e il gri-gri, l'astuccio in
cuoio portato sul petto, che racchiude sogni, magia, felicità e speranze. Mai come in questa notte i
"Signori del Deserto" appaiono così lontani dal mio mondo, dalla mia rumorosa fuoristrada, dalle
inutili cianfrusaglie che mi sono portato appresso. Un cielo incredibilmente stellato mi fa da tetto ed io
sono totalmente soggiogato dal fascino di queste dimensioni, che non mi appartengono. La guida
Aghali, interpretando i miei pensieri, disegna con il braccio un ampio semicerchio che sta ad indicare
la grandiosità e impenetrabilità dell'universo. Nel suo stentato francese inizia a raccontare una storia,
forse la più tragica, sull' "arbre du Ténéré": "L'ispettore del dipartimento scolastico di Agadez, sapeva
quanto l'albero fosse legato alla cultura e alle tradizioni delle genti sahariane. Decise con il figlio e un
autista di recarsi da Agadez al pozzo, centottanta chilometri di pista sulla direttrice Agadez/Bilma, per
piantare alcune pianticelle di acacia.
Costruirono un piccolo recinto, un muretto alto un metro per impedire alla sabbia portata dal vento di
seppellirle appena piantate. Il lavoro li impegnò alcuni giorni, dopodiché ripresero il viaggio in
direzione dell'oasi di Bilma per poi proseguire verso l'oasi di Seguedine, dove viveva la madre; oltre
ottocento chilometri attraversando da ovest a est il Ténéré.
La pista, non molto difficile, è segnata ogni quattro-cinque chilometri. A un punto imprecisato, un
guasto blocca la vettura. Inutile l'attesa dei soccorsi, non passano camion e neppure nomadi; dopo
alcuni giorni l'acqua razionata finisce; inizia così il disperato tentativo di raggiungere Blima a piedi.
Solo il figlio e l'autista vi giungeranno, l'ispettore muore non lontano dall'oasi di Fachi. Passa del
tempo, i parenti organizzano un camion per andare a cercare le spoglie del loro caro e darne sepoltura.
Partono in sei o sette da Seguedine. Nel Ténéré sono di casa: il caldo torrido, i miraggi, il vento di
sabbia, il freddo delle notti, la scarsità d'acqua sono costanti che già da piccoli hanno imparato a
combattere e dominare.
Ma anche il loro autocarro ha un guasto. Attendono, sono abituati, la sosta forzata per loro non è
drammatica, il tempo scorre con un altro ritmo, forse solo l'alba e il tramonto hanno un significato
nell'immensità del deserto. Passano alcuni giorni e la tragedia si ripete: inizia l'angoscia dell'acqua, la
scorta si esaurisce. Possiamo solo immaginare quel che poi è successo. Discutono e poi decidono.
Partono i più forti mentre i più deboli rimangono in attesa all'ombra del camion. Ma la strada per il
pozzo è lontana e l'albero, questa volta, rimane invisibile". Oggi la pista che dall'albero porta a Bilma è
segnata per un lungo tratto da tumuli con una pietra rivolta ad est verso la Mecca.
Il giorno successivo riprendiamo il percorso.
Il Ténéré ora è un'incredibile, piatta distesa dove i pneumatici affondano solamente per pochi
centimetri, consentendo una velocità decisamente alta.
Non vi sono ostacoli sul percorso e la guida è entusiasmante. Guardando nello specchietto retrovisore
intravedo una traccia simile a quella lasciata dagli sci sulla neve fresca. E' ormai sera quando appaiono
le rocce lucenti dell'Adrar Madet, il gigantesco vulcano che emerge, solitario in questa distesa
sconfinata. Mi fermo, incuriosito dall'affiorare nella sabbia di innumerevoli ciottoli di vario colore.
Aghali mi fa capire che siamo giunti su di un paleosuolo e mi indica con occhio esperto i reperti litici
lasciati dalle popolazioni di pastori, che migliaia di anni fa, nel neolitico, abitavano questi luoghi,
attraversati allora da immensi fiumi e ricchi di vegetazione.
Punte di freccia in selce, mazze, macine sono le testimonianze di antiche comunità di agricoltori e
cacciatori. E' difficile credere che in questi luoghi, dove il deserto è totale e le piogge sono assenti,
vivessero un tempo giraffe, antilopi, mufloni ed elefanti; eppure, in ogni parte del Sahara incisioni
rupestri e affreschi riportano le scene di questa realtà pervenuta sino a noi attraverso l'opera di artisti e
di attenti osservatori.
La pista sale in direzione nord-est verso la falesia di Achegour. Mi trovo nel grande letto fossile del
Tafassasset, l'imponente fiume, oggi scomparso, che con un percorso nord-sud-est portava le acque dei
massicci dell'Hoggar e del Tassili (Sahara algerino) nel lago Ciad, anticamente molto più vasto. I
cordoni di dune disposti nel senso da ovest ad est consentono, correndo sul fondo dei loro
avvallamenti, di mantenere una velocità costante. All'orizzonte già si intravedono i primi contrafforti
rocciosi dell'altopiano di Djado, fasciati dalle dune più settentrionali del Grand Erg di Bilma.
L'ambiente circostante è stupendo, i colori e le linee indescrivibili. E' sera quando giungo in vista di
Djado e di Djaba, città fortificate costruite in banco, un impasto di paglia ed argilla cotta al sole.
La struttura architettonica è del tipo dello Ksar berbero, in cui le case sono edificate su di un colle e
addossate l'una all'altra in modo da formare all'esterno una fortezza. Da tempo abbandonate, risalgono
al lontano Medioevo e testimoniano la presenza di uomini e traffici in una zona che è oggi fra le più
remote del mondo.
Seguendo i letti sabbiosi di antichi oued (fiumi), ridiscendo a sud verso il Ténéré in direzione della
meta finale del mio viaggio, Seguedine, a nord di Bilma. Una spianata di cristalli, di cenere, diG
sabbia, fantasmagorici torrioni di rocce calcinate dal sole, sono l'anfiteatro nel quale è adagiata l'oasi
abitata dai tebù.

(Willy Fassio, Il Giornale della Natura Illustrato n.4 aprile 1992)


Gli Shuar dell’Equador

Ecuador, terra di vulcani e foreste

Duecentottantatremila chilometri quadrati e dieci milioni di abitanti nel nord-ovest dell'America


meridionale, sulle coste del Pacifico: l'Ecuador, così chiamato perché attraversato dall'Equatore,
riassume in sé la morfologia geografica e la composizione etnica del Sudamerica: costa, sierra (la
catena andina), selva (l'Oriente amazzonico), e inoltre le isole Galàpagos, note per le scoperte di
Darwin e la natura unica; la popolazione: neri nella regione costiera di Esmeralda, meticci in
maggioranza (50 per cento), bianchi (9 per cento), Indios (41 per cento, una delle maggiori
percentuali di nativi in tutte le Americhe sul totale della popolazione). Le etnie native sono:
Colorados, Chachis e Awa nella regione costiera, Quechua sull'altopiano andino, Shuar, Achuar,
Cofanes, Siona Secoya, Waorani-Aucas e Quichua nella selva, 120.000 persone sempre più
assediate dai coloni arrivati con le enormi piantagioni di palma africana da olio destinato
all'esportazione, e dal petrolio, estratto nella foresta (i loro fiumi sono spesso inquinati da perdite
negli oleodotti).
Il gruppo indio più minacciato, qualche centinaia di persone, è quello degli Waorani o Aucas, di
cui una cinquantina (i Taga-eri) sono ancora isolati completamente dal mondo esterno, al punto
da diventare protagonisti di un dramma: l'uccisione di un vescovo venuto in elicottero a
"pacificarli" nel loro conflitto con le compagnie petrolifere. La Maxus (di Dallas, Usa), sta
costruendo una strada e un oleodotto nel loro territorio: arriveranno colonizzazione e
inquinamento. La Maxus fa infatti parte della "Top Ten list" di Survival International, ovvero
l'elenco delle aziende, per lo più multinazionali, che maggiormente violano i diritti degli indigeni
americani mettendone a repentaglio la stessa esistenza.
Dura prova per gli Aucas, dunque: l'economia dell'Ecuador, membro dell'Opec, dipende in buona
parte dall'esportazione del petrolio, oltre che da quella di cacao e banane.
La cooperazione italiana in Ecuador ha una lunga tradizione; oltre a quella governativa, che
privilegia grandi opere come dighe e impianti di irrigazione, quella delle Organizzazioni non
Governative ha privilegiato la formazione professionale e l'educazione, l'organizzazione e la
tutela del lavoro, la comunicazione e informazione, l'area socio-sanitaria, l'agricoltura, l'utilizzo
delle risorse del territorio. Fra le ONG più attive: Movimento Laici per l'America Latina MLAL,
Operazione Mato Grosso, Cooperazione Internazionale COOPI, Mani Tese, Centro Orientamento
Educativo COE, Terra Nuova, CRIC.
Anche il commercio equo e solidale si occupa dell'Ecuador: dalla zona amazzonica e da quella
andina provengono bellissimi oggetti di artigianato (per informazioni, Comunità di Tainate, vedi
altrove in questo servizio, o CTM).

Padre nostro che sei nella foresta


Gli Shuar sono Jivaros, "banditi" per i Quechua, gli Indios andini. Mai sottomessi né dagli Incas né
dagli spagnoli, nel 1964, prima nazione indigena, si riunirono in federazione per contrapporsi alle
moderne minacce. Ecco il volto nascosto e nuovo della loro cultura Iinia aparì najankartin yanchuik
karànam ("il nostro padre creatore, in principio, nel sogno").

Così comincia il Genesi degli Shuar, gruppo indigeno dell'Amazzonia ecuadoriana. E' il tentativo di
legare le credenze ancestrali, mai abbandonate, al cristianesimo, portato dai missionari e religione
odierna della maggioranza degli ecuadoriani, come di tutti i latino-americani. Con eccezioni: diversi
gruppi Indios ancora isolati e, fra gli esempi di culture a metà fra i due mondi, appunto gli Shuar. I
quali non furono mai convertiti completamente al cristianesimo, anche se i gesuiti arrivarono già nel
1638 nel loro territorio. E anche oggi mantengono un sincretismo nel quale convivono elementi
tradizionali autoctoni e l'adesione più o meno profonda al cattolicesimo.
Del resto, lo sforzo dei missionari, in particolare i salesiani italiani coadiuvati dai volontari
dell'Operazione Mato Grosso, dagli anni Sessanta in poi è stato più quello di aiutarli a recuperare i
propri diritti alle terre e le radici culturali, che di evangelizzarli. Nella coscienza che per tali gruppi
etnici l'identità culturale è altrettanto importante della possibilità di vita materiale. O meglio, le due
cose coincidono: vivere nella foresta secondo le tradizioni significa potersi difendere dalla
maggioranza di meticci e bianchi, ansiosi di prenderne le terre (oggi, per il petrolio e le piantagioni da
esportazione). Per far questo, i bianchi innanzitutto ne disgregano, volontariamente o no, l'unità
culturale e sociale.
Gli Shuar seguono il patrimonio di conoscenze tradizionali, che forniscono le coordinate per la
comprensione del proprio sistema di vita: chi è l'autorità -l'anziano che l'ha ereditata dagli antenati, non
il bianco venuto da fuori-, come si vive nella foresta -rispettandone la vita immersa nello spirito, non
distruggendola. Una visione del mondo oggi mutata dall'introduzione di una civiltà diversa e di mezzi
moderni -camion, strade, segherie, radio, aerei- ma capace di scegliere coscientemente ciò che della
modernità si può adattare alla tradizione, rinforzandola.
Ecco che cosa ne dicono gli stessi Shuar (da una pubblicazione del 1976 della Federazione Shuar): "Gli
studiosi di antropologia delle culture allo stato `chimicamente puro' ci rimproverano il fatto che non
siamo più come una volta, con l'itip (la tessitura), la lancia, e il lungo saluto ufficiale. Credono che
vogliamo approfittare del meglio dei bianchi, dimenticando il nostro passato o rinnegandolo...", d'altra
parte "i bianchi ci rimproverano proprio il contrario: il nostro amore verso il gruppo e la tradizione
shuar, il `separatismo', l'intestardirci nell'usare la lingua dei nostri avi, le nostre strutture sociali
speciali, diverse dalle loro...

Uno shuar che guida il camion o alleva bestiame o veste alla moda o frequenta l'università, non cessa
di essere uno shuar. Approfittare delle cose utili di civiltà comuni a tutti i popoli non significa per forza
copiare il bianco, tutt'al più partecipare con lui al tesoro comune dell'umanità, al quale tutte le culture
di tutti i tempi hanno contribuito: culture che in se stesse non sono mai state statiche, ma dinamiche
(basti pensare a come vestiva uno spagnolo nel XVI secolo e a come veste oggi, senza per questo
cessare di essere uno spagnolo...). Noi non stiamo semplicemente copiando, ma usando, selezionando,
rivivendo a modo nostro: la cooperativa india, per esempio, è molto diversa da quella dei coloni... si
tratta semplicemente di una nuova cultura, incomprensibile se non a partire da quella della selva e che
con quella conserva vincoli indissolubili; infatti un lavoratore qualsiasi dell'altopiano non afferra varie
volte, alla fine del lavoro, il capace recipiente della chicha (bevanda fermentata di yucca), né trova
tutta la sua gioia, la domenica, in una pesca collettiva tipica" (da L'utopia selvaggia, teoria e prassi
della liberazione indigena in America Latina, a cura di E. Amodio, ed. La Fiaccola).
Più che intatta, è quindi una cultura in rifacimento, basata sulla rivisitazione attualizzata delle origini:
le ricerche "sul campo" di Cesare Bianchi, di padre Bolla e l'opera delle edizioni Abya Yala ("Madre
Terra") di padre Botasso, che pubblica tutta la loro mitologia e tradizione artigianale e linguistica,
hanno permesso agli Shuar di ricostruire il proprio tessuto culturale. I manifesti di cui riproduciamo
alcuni particolari sono il prodotto di questo lavoro: nelle scuole shuar sono usati come testo di storia e
catechismo insieme. Infatti la storia si confonde con la mitologia, nel sistema culturale shuar. E le
cerimonie sono ancora vive, accanto a quelle cristiane: come la ricerca della visione dell'animale-guida
spirituale, la tsantsa ovvero il taglio rituale della testa dei nemici per intrappolarne l'anima impedendo
così la loro vendetta (oggi la tsantsa è effettuata su bradipi morti), i riti femminili delle pietre.

(Stefano Fusi, Il Giornale della Natura Illustrato n.14 aprile 1993)


I miti Shuar

La serie di otto manifesti, disegnati dall'italiano Franco Rovere, riproduce su indicazione degli
stessi Indios i miti shuar e la loro corrispondenza con la tradizione cristiana: uno straordinario
"manifesto culturale" del più forte gruppo indigeno dell'intero bacino amazzonico.

Etsa, il Sole
La divinità si presenta sotto quattro aspetti principali. Qui, Etsa, il Sole, il Fuoco che di notte
scende nella terra, la caccia. Etsa nasce, insieme a Nandu, la Luna, da due uova da una donna
fecondata dalla divinità. Ivia, lo spirito del male, il gigante cattivo e goloso, uccide la donna e tutti
gli animali per mangiarli, ma Etsa soffia nella sua cerbottana (usata dagli uomini per la caccia),
che aveva riempito di piume di uccelli, e ricrea tutta la natura. Etsa è la forza che crea, Ivia quella
che distrugge, in continua contrapposizione.

Arutam, la forza degli antenati


Si avvicina al nostro concetto di Dio padre. Compare in sogno sotto forma di animale (giaguaro,
alligatore, tartaruga, formichiere, anaconda) agli Shuar che vanno a digiunare, per diversi giorni,
vicino alle cascate. L'arutam sognato diventa la forza personale, lo spirito guida della persona a
cui compare. La preparazione del natem, mistura allucinogena assunta dallo stregone per entrare
in contatto con Arutam, dura tre giorni (prima celebrata ogni tre anni circa, oggi avviene ogni
anno a Pasqua). L'arutam del guerriero, alla sua morte violenta, diventa Muisak, anima
vendicatrice: essa viene imprigionata dalla tsantsa, la cerimonia del taglio e riduzione della sua
testa, non più celebrata. Qui è rappresentata la personificazione di Arutam, che porta l'atawasap,
il copricapo adorno di piume di tucano, lo stesso che portano i capi shuar.

Nunkui, la forza femminile


E' l'archetipo femminile della fertilità, della Terra. Nunkui fu mandata sulla Terra per riportarvi il
cibo: ogni cosa da lei nominata venne creata all'istante (la yucca, l'argilla, i frutti), ed ella insegnò
alla donna a fare le pentole, a cucinare.
Nel disegno, anche le nanda, pietre simili a quarzi, viste in sogno dalle donne. Trovate poi nella
selva, sono messe sotto il cuscino; nel sonno, un nuovo sogno propizio indica loro dove metterle,
nella chakra, la radura coltivata, per propiziare il raccolto.

Jempe, la divina foresta


E' l'equivalente maschile di Nunkui: il colibrì, spirito della selva, che insegnò il lavoro ai maschi
(shakaim', l'uomo agricoltore), portando loro l'ascia per tagliare gli alberi e costruire le case e le
canoe, le lance, i bastoni. Jempe portò sulla terra, nella bocca, il fuoco. Qui, il colibrì succhia la
maikua, fiore della Datura, fortemente inebriante, che trasmette il nettare e la conoscenza della
divinità. Dietro, gli uomini imparano come si tagliano i tronchi.
Tibet

Viaggio a Shambala
Tibet e Nepal, dove la terra tocca il cielo, sono luoghi per avventure dello spirito senza uguali nel
mondo. Ecco come visitarli e trovarne la parte più autentica

"Viaggiatore, mendicante e analfabeta, il tipico cantastorie tibetano poteva recitare una storia per intere
settimane di seguito, senza tralasciare il più piccolo dettaglio. Si spostava di villaggio in villaggio,
cantando storie popolari e raccontando con una caratteristica cantilena la vita del Buddha, che
illustrava mostrando le tangka, (pitture devozionali) che portava con sé. Una di queste era sulla
leggenda di Shambala, che racconta come nel nord del Tibet sorga un reame impenetrabile, circondato
da montagne innevate e perennemente avvolto dalle nebbie: in esso fame, povertà, crimine e malattia
sono sconosciute, e la vita dura cent'anni. In un palazzo scintillante della città di Kalapa vengono
conservati e onorati i sacri insegnamenti del Kalachakra (la tradizionale iniziazione rituale lamaista)
ma Shambala non può però essere raggiunta e solo alcuni grandi stregoni e saggi hanno avuto la
fortuna di visitarla. Tuttavia il grande sconvolgimento che sta per abbattersi sul mondo obbligherà la
città magica a intervenire in suo aiuto: fra trecento anni Lhasa sarà inondata dalle acque e il mondo
scoppierà in una guerra caotica. Ma quando l'ultimo barbaro penserà di aver conquistato il mondo, le
nebbie si alzeranno da Shambala e il suo re guiderà la riscossa contro le forze del male, aprendo una
nuova era dorata che durerà mille anni. Il sepolcro di Tsong Khapa si scoperchierà ed egli tornerà così
a insegnare ancora la vera saggezza".
Il Paese delle nevi
Questa la leggenda. La realtà del Tibet? "Una vasta terra pietrosa, un regno del cielo e del sole dove il
vento scivola per giornate intere senza altri ostacoli tra le catene ghiacciate e deserte dei Kang-ri, delle
`montagne nevose' dove tutto sembra un simbolo glorioso della razionalità più cristallina, del pensiero
più armonico e sereno". Con queste parole Fosco Maraini descrive il Tibet, dove la meraviglia è
quotidiana, terra pervasa dal silenzio e dall'atmosfera senza tempo. Silenzio e assenza del tempo che
sono stati rotti, negli anni Cinquanta, dall'occupazione cinese e poi dagli orrori che vennero scatenati
contro i tibetani: 1.200.000 morti, distruzione del 90 per cento dei monasteri, etnocidio arrivato quasi
al punto finale con campagne di sterilizzazione forzata, arresti in massa, detenzioni arbitrarie. Qualcosa
sta cambiando, anche per le pressioni dell'opinione pubblica internazionale: le ultime, in occasione
della recente visita in Italia e in altri Paesi europei di Li Peng, premier cinese responsabile della strage
di Tien An Men.
Il Paese delle nevi è un immenso altopiano grande come l'Europa occidentale, 1.200.000 kmq, con
pochi abitanti (quattro milioni più altrettanti di coloni cinesi), che confina con India, Nepal, Sikkim,
Buthan e Birmania. Ma all'originario territorio sono stati sottratti altri grandi spazi, abitati ancora oggi
da tibetani, nelle province cinesi del Qingai e del Sechuan.
E' il punto del globo terrestre più vicino al cielo, e lo è anche da un punto di vista metafisico: la sua
cultura, misteriosa e magica, rappresenta uno dei vertici del pensiero religioso e mistico del mondo.
Quel poco che ne sappiamo in Occidente ci appare miracoloso, improbabile, esoterico, più che in ogni
altra cultura. A ragione: chi l'ha visitato, chi ha conosciuto o vissuto con i tibetani sente che in cima a
quelle montagne l'uomo ha trovato un dialogo diretto con forze che vengono chiamate divinità, che
sono anche dentro di noi, simboli del cosmo nella nostra persona. Ma occorre andarci, per
comprendere e sentire almeno in parte che quella magia non è puro esotismo. Dai 4.000 metri d'altezza
della piana dello Tsang Po, a Thingri, ci si trova di fronte all'Everest, il tetto del mondo coi suoi 8.848
metri, al Cho-Oyu (8.153 m); nella valle, oasi si alternano a distese lunari; il misticismo si respira nei
monasteri e nel Potala, il grande monastero-fortezza di granito e dai tetti d'oro, dalle mille stanze e
dalle mille cappelle, nella capitale Lhasa. L'antica religione sciamanica Bon fa capolino, dall'interno
del buddhismo che vi si è sovrapposto, nella religiosità popolare dei chorten (le cappelle votive,
equivalenti agli stupa indiani), delle bandiere di preghiera che trasportano nel vento le formule
tantriche, nella fede negli oroscopi e nella reincarnazione. Yak e cereali danno vita agli uomini, spiriti
e incantesimi ne alimentano l'anima, tesa verso l'illuminazione e l'uscita dal ciclo delle rinascite.

La terra degli sherpa


Il Nepal, invece, passa dalla pianura ricoperta dalla giungla, nella regione di Terai, alla vetta
dell'Everest, racchiudendo in sé i paesaggi e le ricchezze culturali ed etniche di una popolazione
variegata, mite e capace di enormi fatiche, non sempre compensate da chi ne fa semplicemente un
mezzo per trekking consumistici. Le sue dimensioni, più ridotte (141.577 kmq, 800 km di lunghezza e
una larghezza del territorio fra i 90 e i 250 km, 16 milioni di abitanti), la posizione geografica
(circondato dall'India e a nord confinante con il Tibet) e le diverse vicende politiche ne fanno una meta
più facile e nota, ma altrettanto importante del "Paese delle nevi". L'induismo qui è la religione di
maggioranza, ma nei villaggi delle alte valli le tradizioni sciamaniche sopravvivono insieme alla
religione ufficiale. Moltissimi i gruppi etnici, dai montanari buddhisti sherpa alle genti indù del Terai.
Ma è la splendida valle di Kathmandu ad accogliere il viaggiatore, che dall'aereo o dalla strada la vede
apparire circondata dal bianco delle montagne. Che si vada al dolce villaggio di Pokhara o ci si inoltri
nelle valli, la gente e la natura sono intorno come testimoni di un mondo toccato dal turismo ma che, a
sua volta, trasforma a volte l'atteggiamento verso il mondo di chi parte per fare solo turismo e scopre
invece una dimensione umana prima sconosciuta.
Prima o dopo un viaggio nell'affascinante ma travolgente India, consigliano le guide più informate, è
bene andare in Nepal: per ritrovare se stessi. Ma il Nepal, va aggiunto, val bene un viaggio, da solo.

(Dall’Oglio, Il Giornale della Natura Illustrato n.3 marzo 1993)


Nativi d’America

I popoli del Grande Spirito


Giunta sul punto di scomparire, la cultura dei cosiddetti Indiani d'America, o Pellirosse, o meglio
ancora Nativi americani, sta rifiorendo pur fra immani difficoltà e scontri con la maggioranza dei
bianchi.
E' un universo spirituale misconosciuto, tradito dai western e solo da poco riportato nella sua vera
luce da libri, film e soprattutto dalla rinascita culturale degli stessi popoli nativi. Oggi il 60-70 per
cento dei circa due milioni di nativi degli Usa vive in città, ma nelle riserve quelli che rimangono
stanno dando vita a un "rinscimento indiano". In tutto il Nord America, parallelamente ai movimenti
di emancipazione politica, sono sorte "Scuole di sopravvivenza" che tramandano le tradizioni e il
modo di vita nativo, e centri culturali, scuole d'arte, college e altre istituzioni in cui i nativi
trasmettono la propria lingua e le credenze tradizionali, insieme all'educazione ufficiale della società
bianca. Un esperimento culturale unico al mondo, all'interno e spesso in contrapposizione con la
cultura americana bianca, la più "forte" nel mondo. Ecco che cosa rimane ancora oggi dei tratti
culturali originari, nei principali gruppi etnici nativi dell'America settentrionale (anche in Canada
sono milioni i pellirosse, ma un censimento è più difficile che negli Usa per i molti metis o meticci che
non dichiarano le proprie origini indiane).

Gli Algonchini delle coste del Pacifico: il Potlach, il totem


L'arcinoto palo al centro dell'accampamento di tutti i pellirosse è un falso storico. C'era invece, solo
presso alcune tribù, l'emblema e l'albero genealogico del clan, di cui narrava per immagini la storia.
Erano le tribù che vivevano sulle coste del Pacifico: tutte riunite sotto la definizione di Algonchini,
erano pacifici pescatori. Ogni clan discendeva da un antenato animale, che compariva al vertice del
totem; il clan è l'istituzione che riunisce il parentado, parallela a quella del gruppo sociale noto a noi
come "tribù". Ogni membro del clan doveva sottostare a rigide prescrizioni matrimoniali, sociali e
religiose. Oggi i Tlingit, Kwakiutl, Bella Coola, Salish, Tsimshian, Haida, Nootka sono fra i più attivi
in tutto il continente nel campo artistico. Molto note sono le opere d'arte degli Haida: corvi (il loro eroe
culturale), balene, animali marini.
Vietata dal governo canadese, oggi viene di nuovo celebrata la cerimonia del potlach, voce in lingua
Nootka che significa "donare": grandi ricchezze accumulate da individui di rango (ma tutti i beni sono
ufficialmente di proprietà del capo del clan) vengono distribuite, con un complicato rituale che dura
giorni, a tutti i membri della comunità. Un uso non materiale della ricchezza, destinata dai nativi ad
acquisire prestigio e benevolenza da parte di tutti quanti la ricevono in dono. Per la materialistica
società bianca nordamericana, un vero scandalo!

I Lakota-Sioux: la Danza del Sole e la Sacra Pipa


I Sioux (significa "nemici"), ovvero i Dakota-Lakota, oggi presenti nel Sud e Nord Dakota, ricevettero
la Sacra Pipa dalla Donna Bisonte Bianco. La Sacra Pipa è una vera e propria pipa, oggetto sacro
cerimoniale che si tramanda nel tempo, oggi conservata in un luogo semisegreto della riserva di
Cheyenne River, nel Sud Dakota; ma è anche l'insieme delle sette principali cerimonie che celebrano le
credenze in Wakan Tanka, il Grande Spirito (sono: Wiwanyag Wachipi, la Danza del Sole, la
principale, quattro giorni di digiuno, canti e sacrificio per offrirsi al divino; Inipi, la purificazione,
conosciuta come "tenda sudatoria"; Hanblecheyapi, la ricerca della visione; Hunkapi, il rito
dell'imparentamento; Ishna Ta Wi Cha Lowan, la preparazione di una fanciulla ai doveri della donna;
Tapa Wanka Yap, il lancio della palla; la Custodia dell'anima). Alcune di queste cerimonie, come
l'Inipi, l'Hanblecheyapi e la Danza del Sole, sono celebrate anche oggi. In particolare la Danza del Sole
è la cerimonia su ci si fonda l'identità sociale dei Lakota, ma è celebrata anche dagli Ute, Shoshoni,
Cree, Ojibwa, Piedi Neri, Cheyenne, Crow, Arapaho, gli altri gruppi etnici delle Grandi Pianure.
Navajo: le pitture su sabbia e la il "rito del nemico"
La salute anche presso i Navajo era assicurata dai medicine men, i "guaritori-sacerdoti-uomini di
conoscenza-sciamani": "medicina" significa tutto ciò che ha un potere vitale e spirituale, presso i
nativi. Durante la cerimonia di guarigione gli sciamani dipingevano sulla sabbia, con colori naturali, le
figure della propria cosmologia. Come i mandala tibetani, queste rappresentazioni insieme psichiche e
cosmologiche venivano distrutte alla fine della cerimonia. Oggi sono diventate permanenti nelle opere
d'artigianato artistico destinate ai turisti. Gli Esseri del tuono, la Donna Turchese, i Guardiani delle
Quattro Direzioni e dei Venti, gli Spiriti del mais oggi sono quindi anche sulle pareti di casa.
Un rito che si svolge tuttora è quello "del nemico". Oggi non si tiene più dopo le razzie, ma in
occasioni di festa. E' chiamato anche "danza delle squaw" perché gli uomini sono tenuti a dare una
parte dei doni in denaro (un tempo, del bottino) alle donne, che invitano a ballare l'uomo prescelto, il
quale non può rifiutarsi di ballare. Il rito dura diverse notti in luoghi isolati.

Gli Hopi: la Danza del serpente e le kachina


Gli Hopi sono Indiani del gruppo etnico Pueblo; vivono isolati all'interno della riserva dei Navajo, in
Arizona. Fra i più tradizionalisti, conservano diversi tratti culturali originali, nonostante la forsennata
azione dei bianchi che ne deportavano i bambini per indottrinarli nelle scuole missionarie, dove era
vietato loro l'uso della propria lingua.
La cerimonia più nota è la Danza del serpente, rito che si svolge in agosto in parte nelle kiva, le camere
segrete cerimoniali sotterranee, in parte nel kisi, un recinto di salice, davanti a tutti i membri della
tribù. I 70-80 serpenti velenosi, raccolti nel deserto, "partecipano" al rito, vengono spruzzati di farina
di mais come i danzatori; quindi i rettili sono liberati di nuovo nel deserto come messaggeri delle
preghiere per la pioggia.
Le kachina sono circa 250 spiriti che popolano le montagne degli hopi, ma sono anche le maschere con
cui vengono rappresentate nelle danze e le "bambole" coloratissime che ne riproducono le fattezze.
Una festa per le kachina è celebrata in inverno.

Irochesi: il wampum e la cerimonia dell'albero


Le sei Nazioni Irochesi (Hau de no sau nee, la Lega delle sei nazioni, Onondaga, Mohawk, Seneca,
Tuscarora, Oneida e Cayuga) vivono ma soprattutto vivevano, prima delle sconfitte del Settecento,
nell'attuale Nord-Est degli Stati Uniti e nel Canada meridionale, in regioni ricchissime di foreste; la
loro cultura è rimasta legata all'albero e al legno, con cui costruivano la Longhouse, la Casa Lunga, in
cui vivevano le famiglie. Essa era di proprietà delle donne, mentre gli uomini si spostavano a vivere
presso le mogli. La società irochese infatti era matrilineare, ovvero il capo famiglia era la donna; le
donne sono tuttora i capi dei clan, ovvero i capi dei gruppi parentali, ed eleggono i capi tribali, che
invece sono maschi e hanno il compito di curare i rapporti con le altre comunità; un tempo erano i capi
di guerra.
Ancora oggi la cerimonia augurale più comune, celebrata dai capi in occasioni pubbliche, è quella
dell'Albero della Pace: si pianta un albero, a fini soprattutto sacri e simbolici: significa creare pace fra
cielo e terra, fra nazione e nazione. Un elaborato rituale e preghiere accompagnano la piantumazione.
Nel 1990, la riserva Irochese di Oka, in Canada, entrò in guerra contro le Giubbe Rosse canadesi per
difendere la propria foresta dalla costruzione di un impianto da golf.
Nelle scuole irochesi oggi si insegnano le tradizioni e le preghiere originarie. Il succo della tradizione
Mohawk: "la spiritualità è la più alta forma della coscienza politica".
L'oggetto tradizionale tipico degli Irochesi è il wampum, l'ornamento ricavato da pezzi di conchiglia
usato come monile personale o scambiato come pegno di conclusione di trattati di pace o alleanza fra
le tribù. Le decorazioni del wampum sono veri e propri geroglifici, racconti illustrati di popoli che non
avevano lingua scritta.
La chiesa dei nativi americani e il peyote
Il cristianesimo s'è presentato ai nativi sotto forma di potere coloniale e imposizione, non ha potuto
attecchire molto se non all'interno di un sincretismo forzato dalle circostanze storiche. Esiste tuttavia
una chiesa molto particolare, la Native American Church (che raccoglieva 250.000 persone negli anni
Sessanta) la quale, fondata nel 1918, si diffuse presto in tutte le riserve. Essa riprendeva dai Comanche
il culto del peyotl, un cactus grigio-verde senza spine (Lophophora Williamsii) che contiene mescalina,
un alcaloide che ne fa un potentissimo allucinogeno naturale. Mangiando il peyote e sotto l'influenza
degli stati di coscienza alterata provocati dalla cerimonia i nativi "incontrano" il divino (come
raccontano i noti libri di Castaneda). Il peyote è la pianta sacra degli Indios Huichole, Tarahumara e
Yaqui del Messico e dei Pellirosse del Sud-Ovest degli Stati Uniti. Questi ultimi codificarono un
rituale che assimila l'assunzione dei boccioli di peyote al rito cristiano della comunione (in Messico il
peyote è chiamato "carne degli Dei"). Paramenti sacri dei sacerdoti del peyote sono il bastone, il
sonaglio di zucca, il ventaglio di penne d'aquila, il tamburo e il mantello.

(Stefano Fusi,Il Giornale della Natura Illustrato n.18 settembre 1993)

L'arte viva degli Indiani d'America


Il rinascimento dei popoli indigeni americani: da radici millenarie e da un profondo legame con la
Terra, opere d'arte e d'artigianato che si proiettano nel futuro

Gli "Indiani" che tuttora vivono nel territorio degli Stati Uniti sono suddivisi in oltre cento "tribù",
talmente differenti tra loro per origini, storia, tradizioni, religione e linguaggio da costituire delle vere
e proprie Nazioni. E' impossibile in poco spazio dare un quadro completo e omogeneo della loro
vastissima produzione artistica, soprattutto se si tiene conto che l'arte "indiana" rappresenta un
fenomeno tutt'altro che statico, tutt'altro che di esclusivo interesse archeologico.
Molti di questi orgogliosi popoli sono riusciti a evitare l 'annichilimento di fronte allo strapotere dei
"bianchi" e mantengono viva, ancora oggi, la loro identità culturale e spirituale. L'arte è il mezzo
principale per comunicare, a chiunque si ponga in atteggiamento di ascolto, la loro visione del mondo,
il legame con la tradizione e l'eredità spirituale di cui sono portatori.
Ancora, l'arte delle popolazioni indiane è arte viva perché esprime una grande dinamicità attraverso
l'elaborazione creativa e autonoma di spunti attivati nell'incontro con altre culture. Il risultato è una
produzione artistica completamente innovativa e di sicuro interesse anche per chi non conosce a fondo
la storia e la cultura di questi popoli. Gli oggetti sono, infatti, "belli" in se stessi, al di là di qualsiasi
altra considerazione sui loro significati e sulla loro specificità etnica.

"Il passato è nei nostri cuori, il futuro nelle nostre menti"


I riferimenti alla spiritualità, che segna e accompagna tutta la vita dei nativi americani, conferiscono
alla loro produzione artistica spessore storico e autorevolezza e la distinguono nettamente dai tentativi
di imitazione dei "bianchi". Dall'Alaska all'Arizona è la memoria tribale che prende forma, che
richiama e attualizza motivi ancestrali e archetipi del passato, portandone il potenziale emotivo e
coesivo nel contesto frammentario e per molti versi ancora estraneo dell'America d'oggi. L'oggetto è la
voce dell'artista che mantiene in vita, in tutta la sua forza, il patrimonio di conoscenze, di simboli e di
riferimenti cosmogonici ereditato dal passato tribale. Ogni forma, ogni colore, ogni materiale
impiegato ha un preciso riferimento simbolico a una determinata realtà metafisica. Come le radici di
una pianta non costituiscono il suo passato, ma il canale attraverso il quale essa può continuare a
vivere, così le radici culturali della tribù sono il canale attraverso cui si alimentano la creatività e lo
slancio vitale dell'artista.

La città del cielo


Ecco dunque il Pueblo di Acoma, arroccato su una mesa spettacolare al centro del New Mexico
(pueblos definisce sia i villaggi tradizionali di quest'area, sia alcuni gruppi etnici nativi, ndr). Qui, da
secoli, donne e uomini impastano l'argilla cavandone forme antiche e magiche.
La donna che ci vende il vaso, esposto tra altri pochi esemplari in un banco all'aperto davanti alla sua
casa, ci racconta che, come di consueto, ha raccolto di persona la terra colorata in un luogo che solo lei
conosce e ha scelto a questo scopo. Ha celebrato sulla terra una piccola cerimonia; per un nativo
americano la madre Terra è viva e generosa: quando da lei si prende qualcosa occorre ringraziarla e
lasciare, forse, al suo spirito, una piccola offerta: tabacco, strisce di stoffa colorata o qualunque altro
oggetto sia significativo per colui che prende. Le terrecotte sono lavorate a mano e non a tornio,
lentamente e con amore. Il recipiente prende forma direttamente dalle dita dell'uomo: esso è ciò che
"contiene", la madre, il misteri prepara il forno all'aperto in un avvallamento naturale del terreno,
sempre lo stesso da secoli. Gli oggetti da cuocere vengono accatastati secondo una particolare tecnica;
poi tutto viene ricoperto di terra e sopra si accende un grande fuoco di legnai vasi assumono così la
loro forma definitiva sulle ceneri di altre infinite infornate: è la continuità di un'operazione che
travalica il tempo e che si innesta sulla memoria "fisica" di un luogo e dell'uso che l'uomo ha deciso di
farne.
La decorazione dei vasi è poi quanto di più incredibile ci si possa aspetteranno un ciuffo di fibre di
yucca, la pianta più diffusa in quei luoghi, un vecchio di forse settant'anni traccia in modo
assolutamente parallelo centinaia di linee sottili che procedono nelle diverse direzioni, a formare un
disegno antichissimo. Lo osserviamo e non possiamo fare a meno di pensare che quelle mani sanno del
mondo qualcosa che di certo noi non sappiamo; esse sono figlie e testimoni di un piano di realtà di cui
forse, a volte, ci capita di intuire l'esistenza senza per altro poterlo in alcun modo ricondurre alle
categorie occidentali di interpretazione del mondo. L'abilità e la sicurezza dell'uomo diventano la
nostra emozione; a malincuore non possiamo comprare "quel" vaso: occorreranno ore sotto il sole
accecante di Acoma perché la nera pittura si asciughi e si fissi alla terracotta.

(Elena Speciale, Il Giornale della Natura Illustrato n.15 maggio 1993)

Il Guerriero Mistico

Le due aree culturali dei nativi americani più dinamiche nell'arte e nell'artigianato oggi negli Stati
Uniti sono quella delle Grandi Pianure (Sioux, Cheyenne, Crow, Shoshoni) e quella del Sud-Ovest
(Pueblo, Navajo, Apache).
Prima dell'arrivo dell'uomo bianco, all'epoca in cui il bisonte era il fondamento dell'economia
tribale, le popolazioni stanziate nei grandi altopiani del Nord America avevano sviluppato
un'originalissima produzione artistica, volta essenzialmente alla realizzazione di oggetti di uso
quotidiano, armi, indumenti, strumenti cerimoniali.

Il bisonte, ma anche altri animali come daini, cervi, alci e porcospini, fornivano la materia prima:
le pelli, essiccate e abilmente conciate, venivano usate per le abitazioni tradizionali, i tepee, per
gli indumenti e le calzature (i famosi mocassini) e molti altri accessori.

Le tecniche decorative risalgono a tempi molto più antichi di quelli richiamati dalle "perline di
vetro", introdotte da i colonizzatori come merce di scambio. In origine le pelli erano dipinte con
colori naturali e decorate mediante l'applicazione di sassolini, conchiglie e ossa di animali.
Le donne Sioux erano inoltre abilissime nel quillwork, il lavoro a intreccio di aculei di porcospino.
Quest'arte raggiunse il suo apice tra i popoli delle pianure dopo la diffusione del cavallo e proprio
in quel periodo furono elaborati i disegni, gli schemi e le colorazioni in uso ancora oggi.
Gli aculei di porcospino sono cavi, di colore bianco e con le estremità scure; eliminate le punte
essi vengono appiattiti e tinti facendoli bollire con bacche, foglie e cortecce. I lavori realizzati a
quillwork vengono applicati come ornamento sugli abiti, le suppellettili, le armi e gli oggetti
cerimoniali; possono anche costituire di per sé oggetti decorativi come nel caso dei choker
(collari),degli orecchini o del cerchio sacro della medicina.

Le "perline di vetro" hanno, poco a poco, sostituito gli aculei di porcospino e il quillwork oggi
viene eseguito piuttosto raramente. I lavori con le perline (beadwork) vengono realizzati a telaio
e anch'essi successivamente applicati alla pelle.
Vi sono differenti tecniche di lavorazione, ma sempre l'esecuzione del lavoro richiede molto
tempo e precisione nella composizione del disegno nonché grande cura nella fattura.

La lavorazione dell'argento non ha una lunga tradizione nella storia degli indiani delle pianure.
Le tecniche di lavorazione dei metalli sono state infatti introdotte dai bianchi in epoca
relativamente recente. Oggi vi si dedicano con successo numerosi artisti che richiamano nei loro
gioielli i motivi decorativi tradizionali e religiosi: il cerchio della medicina, il bisonte, la sacra pipa,
il tepee, la stella del mattino con le quattro direzioni dipinte nei colori sacri giallo, bianco, nero,
rosso.

E.S.

Le organizzazioni dei nativi americani


Dalla spinta dell'AIM, il Movimento degli Indiani d'America degli anni Sessanta, sono nati diversi gruppi e
movimenti dei nativi americani; alcuni su base etnica e tribale, altri che riuniscono le diverse nazioni indigene
del Nord America per difendere i loro diritti. Ecco alcuni fra i principali movimenti.

International Indian Treaty Council, IITC


(Consiglio Internazionale Indiano dei Trattati). Nasce nel 1974 dall'AIM, e si batte per il riconoscimento e il
rispetto dei trattati stipulati (e mai rispettati) da Usa e Canada da una parte, e dalle nazioni indigene dall'altra.
Col tempo è divenuta la più forte organizzazione dei popoli indigeni anche dell'America Latina e del Pacifico.
L'indirizzo del suo notiziario è Treaty Council News, 1259 Folson St., San Francisco CA, Usa. Ha ruolo
consultivo presso la Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite.

Mohawk Nation
(P.O. box 196, Roosweltown, N.Y. 13683, Usa, tel. 001/518/3589531, in Canada, tel. 613/5752063, fax
613/5752064). La Nazione Irochese Mohawk pubblica Akwesasne Notes, il più importante giornale dei popoli
indigeni, che aggiorna sulla loro situazione in America e in tutto il mondo.

Leonard Peltier Defence Committee


(P.O. Box 583, Lawrence, KS 66044, Usa) Il Comitato di difesa di Leonard Peltier, il detenuto Sioux dichiarato
"prigioniero politico" dall'IITC e difeso anche da Amnesty International, combatte per liberarlo e per fare luce
sul suo caso. Condannato a due ergastoli per l'uccisione di un agente dell'FBI con prove preconfezionate, Peltier,
uno dei leader della rivolta indiana di Wounded Knee del 1973, è il simbolo della lotta degli Indiani d'America.

Native Education Centre


(362 E GTH, Vancouver, B.C.VST, 1 J8 Canada). Il Centro di Educazione Nativa è opera di diverse nazioni
(Salish e altre) che si avvale di radio e altri mezzi di informazione.

Apache Survival Coalition


(P.O. Box 11814 Tucson, Arizona 85734, Usa). E' l'organizzazione degli Apache che fra l'altro si batte contro la
costruzione di un osservatorio astronomico sulla montagna sacra del Mount Graham. Al progetto partecipano
l'Italia (l'osservatorio astrofisico di Arcetri), la Germania (l'Istituto Max Plank) e il Vaticano: distruggerebbe il
sito delle cerimonie sacre degli Apache e un ambiente naturale che secondo gli ambientalisti statunitensi va
invece protetto.

Native Americans for a Clean Environment


(Route 2, Box 51-b, Vian, Oklahoma 74962, Usa). Il movimento dei nativi americani per un ambiente pulito.

In defence of sacred land


(P.O. Box 1509, Flagstaff, A2 86002, Arizona Usa). Il comitato appoggia la battaglia di alcune centinaia di
Navajo che non intendono essere "rilocati", ovvero deportati dalla propria terra, nella zona della Big Mountain,
dove dovrebbe essere dato il via a progetti minerari.

Hopi Epicentre for International Outreach


(22 S. Francisco Str., 211 Flagstaff, Arizona 86001 Usa). E' il centro culturale e politico degli Hopi, uno fra i
popoli più legati alle tradizioni.

Antichi popoli: i Celti

Nelle foreste dei Celti


Prima di Roma, nel Centro e Nord Italia vivevano i Celti o Galli. La loro cultura era legata
intimamente al bosco e agli alberi. Ecco che cosa rimane di una tradizione sommersa dalla storia
La Pianura Padana, al tempo della Roma repubblicana, era un Far North, un Lontano Nord
paragonabile al Far West dei pionieri americani. Poco conosciuta, popolata da tribù, coperta di foreste
e paludi, solo i fiumi a tracciare confini fra le popolazioni. I Romani prevalsero militarmente ed
economicamente, ma non poterono, naturalmente, cancellare del tutto le origini celtiche delle
popolazioni padane, con cui nei secoli si fusero i coloni latini e romani. Nella toponomastica e nei
dialetti restano tracce di questo sostrato; molto è restato, in tutta Italia, dei popoli che precedettero la
romanizzazione, non solo nei dialetti ma anche nelle diverse identità regionali e locali, influenzando, a
distanza di millenni, usi, strutture mentali e forme di vita materiale degli odierni italiani. Una delle
popolazioni che ha lasciato più tracce è proprio quella dei Celti, o Galli.

Asterix nella Padania


Carlo Cattaneo, nel suo Notizie naturali e civili sulla Lombardia (del 1844) dice che soprattutto nelle
montagne si ritrova ancora "un ordine sociale infinitamente diverso" da quello della ricca ed evoluta
pianura: "senza avvedersi, essi conservano ancora una communanza, la quale rimonta alle genti
celtiche; appena ha fatto luogo qua e là al possesso romano; e non mai sofferse vera signoria feudale
(...). Alcune di queste communanze, pochi anni or sono, tenevano ampie valli", e fa il caso delle valli
svizzere ticinesi Leventina e Mesolcina, ma anche del distretto di Bormio. La storia si è ripetuta: già i
Galli, al loro arrivo, avevano confinato nelle valli le popolazioni indigene dei Liguri, Reti e Leponti.
L'ambiente difficile, la perdurante andata su e giù dall'alpeggio con le bestie, i pascoli sfruttati in
comune mantennero, insomma, le genti delle vallate fuori dalla corrente principale della vita italiana.
Ma anche sul piano i Celti hanno lasciato nomi e memorie.
Popolazioni definite da alcuni studiosi come indoeuropee o protoceltiche arrivarono, pare, già verso il
VII secolo nell'Italia settentrionale, eredi del popolo dei “kurgan”, i tumuli funerari diffusi
originariamente nelle steppe del basso Volga. Questi popoli avevano investito con poderose
migrazioni, nel secondo millennio a.C., prima l'Europa centrale, stanziandosi soprattutto in Boemia ma
sciamando poi in ogni direzione, dalla Spagna (i Celtiberi) all'Asia Minore (i Galati dell'area
circostante l'odierna capitale turca Ankara). In Italia scesero a più riprese, incrociandosi con le
comunità italiche native.

Una cultura orale


La storia, di cui i Celti rimasero ai margini non avendo scrittura, testimonia comunque con Tito Livio
che i Celti propriamente detti passarono le Alpi nel 388, guidati da Belloveso, fondatore di Mid-land-
Milano. Si stanziarono nella fertile pianura arrivando dai valichi delle Alpi occidentali, quindi
dall'attuale Francia meridionale; si sovrapposero, fra le altre, alle popolazioni liguri dei Leponti che
avevano dato vita alla civiltà di Golasecca nell'area compresa fra Sesia e Serio, Alpi e Po, e cacciarono
gli Etruschi dalla pianura orientale, dove tuttavia restarono loro forti avamposti commerciali quali
Mantova e Felsina, l'odierna Bologna. Alleati anche con i Cartaginesi all'arrivo di Annibale, vennero
poi sconfitti definitivamente dai Romani a cavallo fra il II e il III secolo a.C; nel 49 a.C. divennero
cittadini romani, e arrivarono la centuriazione e l'urbanesimo nelle loro terre.
Le quali non dovevano essere comunque povere. A metà del II secolo a.C. Polibio nelle “Historie” le
descrive come ricche di querceti che favorivano l'allevamento dei suini e con un'abbondante
produzione cerealicola, soprattutto grano e miglio. Ma, aggiunge lo storico, allora i Celti non ancora
romanizzati "vivevano in villaggi privi di mura (...); dormivano su letti di foglie e si nutrivano di carne
ed erano dediti soprattutto alla guerra e all'agricoltura (...) e non avevano conoscenza di arte o scienza".
Erano ancora, in parte, quei guerrieri biondi, alti, con i baffi lunghi e minacciosi, che attaccavano nudi
i nemici, con addosso solo scudi, enormi elmi alati e gioielli, per scendere e conquistare la valle
Padana, saccheggiando poi financo l'Urbe (il vae victis, "guai ai vinti", di Brenno, nel 386 a.C.).

“Le vie commerciali tra fiumi e foreste”


I Celti “erano tuttavia frazionati in tribù ciascuna con un proprio dialetto, ma con molti tratti comuni,
fra cui la potenza bellica che incuteva terrore nei nemici (attaccavano in trance: il "furore gallico"), la
religione magica e silvana dei druidi, i sacerdoti delle querce, la semplicità di vita. E l'economia
sviluppata. Erano ricchi e abili manifatturieri, estrattori e commercianti di sale. Nei loro villaggi
lavoravano i fabbri alla costruzione di asce, ceramiche, picconi e martelli, e funzionavano telai e
mulini: i loro carri a due o quattro ruote (carro è una parola celtica) erano prodotti rinomati, come le
armi.
Più rustici degli ormai ellenizzati conquistatori, i Galli più pacifici e industriosi del periodo della
romanizzazione erano comunque al centro dei mercati: già allora, l'Insubria era al centro delle vie
commerciali fra l'Italia e l'Europa del Nord: l'avamposto etrusco di Mantova collegava attraverso
Mincio e Po con il Mediterraneo orientale; da Mantova su per il Mincio fino al Garda, e lungo la
pedemontana per Brescia, Bergamo e Como passavano i prodotti -vasi, ceramica attica, anfore, vino,
prodotti esotici fra cui l'incenso- destinati ai Celti transalpini del Rodano, del Reno e della Mosella, del
Danubio; le merci erano trasportate sui laghi, lungo le valli e attraverso i valichi; più tardi, con la
fondazione delle colonie romane di Cremona e Piacenza (218 a.C.), la via commerciale principale
passò per Milano.
Gli Insubri erano il gruppo etnico più compatto, tanto che ottennero lo status di colonia senza essere
colonizzati, quando vennero sconfitti definitivamente dai Romani nel 196-194 a.C. presso Como e poi
Milano. Il fiume Oglio li divideva dai vicini Cenomani fondatori di Brescia e Verona, il Po dai Boi
dell'odierna Emilia.

“Una civiltà del legno”


C'è un'altra ragione, oltre a quella ovvia che la storia la scrivono solitamente i vincitori, per l'oblio in
cui sono cadute le tradizioni e la cultura celtiche: la “Caput mundi” costruiva in pietra, i Celti usavano
il legno, che si decompone; una civiltà silvana lascia meno tracce dietro di sé. Salvo forse, almeno
idealmente, ancora oggi, nella tradizionale cultura materiale dei mille e mille falegnami e mobilieri
della Brianza, l'antica "altura" insubrica sovrastante la pianura, dove si usarono piante e alberi con
sapienza fino a pochi decenni fa, prima dell'industrializzazione massiccia. Gli antichi sacerdoti delle
foreste, che denominavano i mesi dell'anno dagli alberi e celebravano i riti nei boschi, hanno lasciato
una traccia dietro di sé, che vive ancora: la cultura del legno, tipica della Brianza dei falegnami e
mobilieri, e la conoscenza e l'uso degli alberi.
Il gelso, ancora curato fino a questo secolo per l'allevamento dei bachi da seta, e ancora oggi a segnare
i confini dei campi dove le colture intensive hanno lasciato spazio agli alberi e alle siepi; la quercia; il
pioppo, oggi predestinato al taglio, "coltivato" come un cereale, ma che offre un'illusione di bosco
lungo i fiumi padani e nei rari angoli non coltivati in altro modo; il salice, conosciuto per i suoi poteri
antifebbrili e utile per costruire recipienti; la betulla (vocabolo celtico). Sulla corteccia di questo
bianco albero la gente scriveva; la betulla forniva anche i pettini a raggiera diventati poi d'argento,
portati dalle donne manzoniane fra i capelli.

(Stefano Fusi, Il Giornale della Natura Illustrato n .18 settembre 1993)


Un albero per rinascere
Dai riti dei Celti un primo maggio diverso

Si legge nelle antiche cronache che nella zona del Renon (Bolzano) si usava un tempo innalzare sulla
piazza di ogni paese, nei primi giorni di maggio, una pertica adornata di foglie, fiori e strisce di stoffa
colorata; i giovani dei paesi vicini dovevano tentare di far cadere l'"albero", difeso naturalmente con
tutte le forze dai ragazzi del posto. Pare tuttavia che, dato che i contendenti avevano spesso dimostrato
di prendere troppo sul serio il loro ruolo, l'usanza sia stata successivamente abolita.
Non è scomparsa, invece, in Austria: qui la tradizione del Maibaum ("albero di maggio") sopravvive, e
senza pericolo di degenerazioni violente. Sulla piazza di ogni paese fa bella mostra di sé il tronco,
privato di foglie e rami, di un abete o di una betulla, alla cui sommità (come nei nostri alberi della
cuccagna) è appeso un dono, che spetta di diritto al ragazzo più veloce nella scalata. La festa avviene di
solito il primo maggio, con le abitazioni adornate anch'esse, per l'occasione, di rami di betulla; il
tradizionale ballo in piazza viene spesso movimentato dall'insolita messa all'asta di alcune ragazze del
paese: il ricavato della finta vendita della Maikonigin ("regina di maggio") servirà ad alimentare
qualche "giro" di bicchieri all'osteria.

Il simbolo dell'albero
All'origine di questo benvenuto alla bella stagione sono certamente le tradizioni celtiche: l'albero levato
verso il cielo simboleggia la potenza creatrice che suscita ancora una volta dalla terra nuove energie
vitali, mentre la scelta del legno della betulla evoca, in virtù della sua corteccia argentata, l'azione di
energie positive.
Non a caso anche nelle settimane successive al primo di maggio la simbologia dell'albero percepito
come manifestazione di energie vitali ritorna in altre feste: per il Corpus Domini, per esempio, in cui
lunghe pertiche adorne di fiori di campo o di montagna vengono portate in processione per attirare la
benedizione sui campi. Una funzione propiziatoria, quindi, alla quale la fede cristiana si è sovrapposta,
senza peraltro cancellarne del tutto un certo spirito pagano.
La stessa fusione di riti cristiani con antiche tradizioni pagane si può rilevare anche nella scansione
temporale delle feste. Per i Celti momenti fondamentali dell'anno erano infatti i due equinozi e i due
solstizi, come pure i quattro momenti intermedi, e cioè il primo giorno dei mesi di agosto, novembre,
febbraio e, appunto, maggio: otto appuntamenti con i momenti forti del ciclo della natura, insomma,
parte dei quali sopravvive ancora oggi nelle tradizioni contadine. Pensiamo alle feste estive dei nostri
paesi, un tempo sentite come rendimento di grazie per il raccolto, disponibile nella sua pienezza, e
celebrate con fuochi accesi sulle montagne e nei luoghi di culto. Se ora proviamo a rappresentare
l'anno come un cerchio, in posizione diametralmente opposta al primo agosto troviamo il primo
febbraio: non può non venire alla menta la benedizione cristiana delle candele (2 febbraio), erede
diretta della festa di Brigit, dea di quella luce che in occasione del solstizio d'inverno (il nostro Natale)
ha incominciato a rinascere e si prepara, ancora nel buio e nel silenzio, a manifestarsi.
E per finire, ancora una coppia di opposti: primo novembre e primo maggio, dedicati rispettivamente ai
morti, nel momento in cui ha inizio il dominio dell'ombra e non si può raccogliere più nessun frutto, e
alla festa del prorompere gioioso di nuove energie dal grembo della terra.
E perché non anche dal corpo e dallo spirito degli esseri umani?

(Tiziana Villaggi, Il Giornale della Natura Illustrato n.18 settembre 1993)

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