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ϕκλζξχϖβνµθωερτψυιοπασδφγηϕκλζξχ
Il
mio
nome
è
Ariel

ϖβνµθωερτψυιοπασδφγηϕκλζξχϖβνµθ

ωερτψυιοπασδφγηϕκτψυιοπασδφγηϕκλ
Roberto
Vassallo


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νµθωερτψυιοπασδφγηϕκλζξχϖβνµθωε
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ασδφγηϕκλζξχϖβνµθωερτψυιοπασδφγη
I


Oltre
le
nuvole
dove
il
sole
non
ha
più
ostacoli
alla
sua
luce,
ove
anche
le
più
intrepide
aquile

non
osano
volare
e
gli
uccelli
meccanici
costruiti
dall’uomo
arrancano
con
fatica,
più
su
di

dove
le
antiche
divinità
costruirono
i
loro
palazzi
dorati
e
molta
ancora
di
più
si
erge
un
posto

che
gli
uomini
sulla
terra
hanno
sempre
chiamato
“paradiso”.
In
questo
posto
tanto
tempo
fa

cominciò
l’avventura
del
genere
umano,
il
Padre
celeste
un
giorno
creò
dal
fango
un
essere

simile
a
lui
e
lo
chiamò
Adamo
e
da
costui
ne
trasse
un
corrispettivo
opposto
Eva.
Una
storia

vecchia
che
ebbe
origine
all’inizio
del
mondo,
da
allora
sono
passati
talmente
tanti
anni
che

anche
le
più
vetuste
montagne
sparse
per
l’universo
hanno
perso
il
conto.



Così
dopo
tanto
tempo
il
Signore
dell’universo
aveva
il
piacere
di
conoscere
se
gli
esseri

umani
erano
migliorati
dall’ultima
volta
che
aveva
fatto
visita
loro.
Bisogna
dire
che
il
Signore

durante
prima
faceva
spesso
visita
ai
suoi
figli
sulla
terra,
parlava
loro,
donava
loro
regali
e
li

redarguiva
anche
duramente
quando
era
necessario.
Ma
l’uomo
che
per
sua
stessa
indole
è

poco
incline
all’ubbidienza
l’ultima
volta,
che
il
Padre
fece,
visita
lo
mise
a
morte
con
accuse

infamanti
e
Lui
memore
di
quest’accoglienza
promise
che
mai
sarebbe
sceso
sulla
terra
fino
a

che
non
sarebbe
giunto
l’ultimo
giorno.


Sono
passati
tanti
secoli
da
allora
ma
un
Padre,
non
è
un
buon
genitore
se
non
ha
a
cuore
il

destino
dei
suoi
figlioli.
Così
un
bel
giorno
il
Signore
decise
di
fare
vista
ancora
una
volta
ai

suoi
figli
sulla
terra,
ma
ricordandosi
del
modo
in
cui
lo
aveva
accolto
l’ultima
volta,
volle

mandare
un
emissario
al
suo
posto.


Un
essere
innocente,
piccolo,
che
in
qualche
modo
assomigliasse
a
Lui
quando
era
un

bambino.



C’era
nell’immenso
spiazzo
davanti
all’albero
della
conoscenza
un
gruppo
di
angioletti
che

giocavano
tra
loro,
il
Signore
li
guardava
da
lontano
quasi
senza
farsi
accorgere.
C’era
poi
in

questo
gruppo
di
angioletti
tutti
dai
riccioli
biondi
e
dagli
occhi
che
andavano
da
un
blu

profondo
un
verde
brillante,
una
creatura
dai
capelli
ricci
e
neri
come
la
più
profonda
delle

notti,
ma
dagli
occhietti
vispi
color
del
ghiaccio,
dal
viso
roseo
come
un’alba
ma
così
goffo
e

impacciato
che
ogni
suo
movimento
per
quanto
naturale
potesse
sembrare
suscitava
ilarità

negli
altri;
anche
il
Signore
non
poteva
fare
a
meno
di
sorridere,
ma
il
suo
sorriso
era
di

compiacimento
e
non
di
scherno
come
inconsapevolmente
i
bambini
sanno
fare,
quindi
si

sedette
in
mezzo
a
loro
aspettando
che
tutti
gli
si
fecero
intorno,
tranne
uno.


Il
Signore
attese,
poi
cominciò
a
parlare:‐“
miei
diletti,
dall’ultima
volta
che
sono
sceso
sulla

terra
molte
cose
sono
cambiate,
alcune
in
bene
e
altre
in
male,
degli
uomini
alcuni
hanno

seguito
l’esempio
del
mio
figliolo
unigenito,

altri
invece
hanno
fatto
di
testa
loro”.
“Ora
io

sono
troppo
vecchio
e
stanco
per
sincerarmi
di
quello
che
accade
laggiù
quindi,
uno
di
voi

dovrà
occupare
il
mio
posto
e
come
una
bianca
colomba
dovrà
riportarmi
tutto
quello
che

succede
là
in
basso.”

Il
buon
Dio
non
aveva
ancora
finito
di
pronunciare
l’ultima
frase
che
una

selva
di
piccole
manine
cominciò
ad
agitarsi
e
tutti
gli
angioletti
a
gridare
“io,
scegli
me,
sono

qui,
prendi
me,
io,
io”.
Un
allegro
schiamazzo
scosse
per
un
attimo
la
calma
di
quel
posto,
e

mentre
l’intraprendenza
degli
angioletti
dimenticandosi
che
avevano
davanti
si
faceva
più

audace,
c’era
che
chi
tirava
a
se
la
manica
della
tunica,
chi
batteva
insistentemente
sul

ginocchio,
chi
tentava
di
saltare
più
in
alto
per
farsi
vedere,
chi
invece
accantonato
ogni

pudore
salva
sulle
ginocchia
del
Creatore
aiutandosi
come
poteva,
chi
addirittura
tentava
di

tirargli
la
folta
barba
bianca.
Tutto
questo
tumulto
non
faceva
altro
che
accrescere
ilarità
e

gioia
tutt’intorno.
Poi
quando
tutti
gli
angioletti
lasciato
ogni
imbarazzo
si
erano
accomodati

alla
bene
e
meglio
nel
grembo
del
Signore,
Egli
parlò,
rivolgendosi
invece
con
tono
serio

proprio
all’unico
angioletto
che
se
ne
era
rimasto
in
disparte
chiese
quale
fosse
il
suo
nome

e

perché
era
rimasto
in
disparte”.
Di
colpo
il
silenzio
scese
come
una
notte
invernale
e
da
un

momento
all’altro
e
tutto
l’entusiasmo
si
spense,
si
smorzarono
i
sorrisi
e
le
grida.
Bastò

invece
un
accenno
di
sorriso
da
parte
del
Signore
e
quel
piccolo
angioletto
dai
capelli
neri
così

rispose:‐“
il
mio
nome
è
Ariel”,
attimi
d’imbarazzo
non
fecero
altro
che
aumentare
la
dolcezza

di
quel
momento,
così
il
Signore
tese
la
mano
e
il
piccolo
anche
se
timidamente
si
fece
avanti.

“Credo
anzi
ne
sono
certo
sia
proprio
tu
colui
di
cui
ho
bisogno”
disse
soddisfatto
il
Signore.

Di
colpo
gli
altri
angioletti
che
erano
presso
di
Lui
cominciarono
a
vociferare,
a
parlottare
tra

loro,
finché
il
più
grande
in
mezzo
loro
prese
la
parola:‐
“Signore
che
portai
mai
ricavare
di

buono
da
quello
li”
(indicando
con
il
dito
teso
in
avanti
proprio
Ariel),
poi
aggiunse
“lo
vedi

anche
tu
è
incapace,
insicuro,
maldestro
e
poi
è
così
diverso
da
noi”.
A
quel
punto
anche

l’eterna
pazienza
del
Signore
giunse
al
termine
e
in
questo
modo
volle
rispondere

quell’angioletto
insolente.
“Non
v’è
nessuna
diversità
tra
i
figli
miei,
ho
forse
fatto
distinzione

quando
vi
siete
arrampicati
sulle
mie
ginocchia?”
“
ho
forse
fatto
obiezione
al
vostro

vociferare?”
“Lasciate
che
queste
cose
le
facciano
laggiù
sulla
terra,
io
avevo
bisogno
di
uno
di

voi
e
così
vi
ho
messo
alla
prova
e
il
risultato
è
lì
davanti
a
voi,
Ariel”.
Poi
prese
in
disparte

l’angioletto
dai
capelli
ricci
e
neri
e
gli
spiegò
quale
fosse
il
suo
compito
e
lo
mandò
sulla
terra.


II

Durante
il
tragitto
il
povero
Ariel
non
faceva
altro
che
domandarsi
che
cosa
avrebbe
trovato

tra
il
genere
umano
ma
i
suoi
dubbi
furono
subito
fugati
quando
arrivò
sul
pianeta
terra.

Giunse
sotto
forma
di
una
colomba
e
subito
dovette
fare
conto
con
le
doppiette
caricate
a

pallini
di
alcuni
cacciatori,
assiepati
nei
paraggi
che
vedendo
un
volatile
(caso
molto
raro
dato

che
sulla
terra
causa
l’inquinamento
voluto
dall’uomo
questi
esseri
alati
avevano
quasi

cessato
si
esistere)
impacciato
volteggiare
come
spaesato,
lo
avevano
preso
di
mira.
Dieci,

venti,
cento,
canne
di
fucili
cominciarono
a
vomitare
il
loro
piombo
rovente
contro
l’essere

piumato,
che
vedendosi
senza
speranza
e
in
preda
alla
paura
non
trovò
di
meglio
che
tentare

un
impacciato
atterraggio,
ma
quale
brutta
sorpresa
trovò
quando
mise
la
prima
zampetta
sul

suolo.
Un’orda
di
cani
inferociti
si
stava
abbattendo
su
di
lui,
spaesato,
impaurito,
in
preda
al

panico
e
con
una
muta
di
bestie
ululanti
che
in
pratica
lo
avevano
circondato
e
lo
avrebbero

sicuramente
sbranato
se
una
voce
da
distante
non
avesse
richiamato
a
se
quell’orda
infernale.

Subito
quell’orda
di
cani
famelici
si
trasse
indietro:‐
“Ma
non
vedete
che
non
è
altro
che
una

colomba?”,
“
Stupidi
animali,
che
non
sanno
riconoscere
una
colomba
da
un
fagiano”,
disse
la

voce
urlando
contro
i
cani.
Di
colpo
tutto
quel
bailamme
finì,
ad
un
tratto
in
mezzo
ad
una

radura
spoglia
come
gli
alberi
d’autunno,
si
ritrovava
solo
una
colomba
bianca
tremante
dalla

paura,
il
povero
volatile
se
fosse
stato
umano
forse
avrebbe
imparato
a
piangere
ma
agli

animali
non
è
dato
mostrare
sentimenti
così
profondi
e
le
lacrime
sono
solo
prerogativa
degli

uomini,
chissà
cosa
sarebbe
cambiato
se
anche
gli
animali
avessero
potuto
versare
lacrime,
se

gli
animali
avessero
avuto
l’uso
della
parola,
forse
non
si
sarebbe
arrivato
a
tanto
e
forse
il

mondo
sarebbe
stato
migliore.

Tutti
questi
interrogativi
frullavano
nella
mente
del
piccolo
Ariel,
quando
stremato,
fece

ritorno
dal
Padre
una
prima
volta.

Giunto
al
Suo
cospetto
col
fato
grosso
per
la
paura
e
per
la
fatica,
il
piccolo
angelo
cominciò
a

fare
quelle
domande
che
avevano
affollato
la
sua
mente
innocente
per
tutto
il
tragitto.

Il
buon
Padre
lo
accolse
sul
palmo
della
mano
e
subito
il
piccolo
Ariel
sentì
il
conforto
e

l’amore
che
sembrava
esserli
mancato
durante
il
suo
breve
soggiorno
sulla
terra.

“cosa
ho
sbagliato”,
disse
con
un
filo
di
voce
il
piccolo
angelo,
“tu
nulla”
fu
la
risposta
del

Padre,
“e
allora?”
chiese
ancora
la
creatura,
un
lungo
silenzio
avvolse
lo
spazio
d’intorno,
una

tranquillità
che
preludeva
un
racconto.


“C’è
stato
il
tempo
in
cui
gli
animali
e
gli
uomini
parlavano
tra
loro,
un
tempo
breve
in
cui
il

mondo,
appena
creato
viveva
in
armonia,
in
cui
gli
esseri
umani
e
la
natura
erano
in
simbiosi,

tempi
in
cui
Io
stesso
ero
“tra
loro
e
loro
erano
in
me”.
“Vi
era
tra
noi
un
angelo
di
nome

Lucifero,
che
essendo
invidioso,
volle
sfidarmi
e
addirittura
occupare
il
mio
posto”.
“La
sua
era

sola
brama
di
libertà,
mandò
quindi
un
emissario
sotto
forma
di
serpe
a
seminare
zizzania
tra

gli
esseri
del
creato
e
ci
riuscì”.
“Tra
uomo
e
donna,
tra
esseri
umani
e
animali,
tra
natura
e
gli

altri
elementi
si
stabilirono
così
divisioni,
contrasti
e
liti
ma
quello
che
più
mi
ferì,
fu
la
nascita

dell’odio”.
“Ecco
cosa
succede
la
lasciare
i
figli
fare
di
testa
loro
che
già
poco
inclini

all’obbedienza
e
senza
briglia
proprio
come
i
cavalli
bradi,
cominciarono
a
correre

assaporando
una
nuova
libertà,
l’indipendenza
di
fare
senza
essere
giudicati,
di
agire

consapevoli
di
essere
gli
unici
a
poterlo
fare,
seguendo
invece
l’esempio
di
Lucifero
si
erano

innalzati
a
dei
e
come
tali
agivano”.
“Vidi
invece
che
erano
capaci
solo
di
combinare
guai
e
così

intervenni”.
“Proprio
come
accadde
a
te
piccolo
Ariel,
inviai
una
candida
colomba
tra
gli

uomini,
ma
a
differenza
di
te,
fu
messa
a
morte”.
“Da
allora
come
ho
potuto
costatare
che
nulla

è
cambiato,
tu
stesso
ne
sei
la
prova.”
Poi
il
Signore
rivolse
ad
Ariel
una
specifica
domanda:‐
“pensi
davvero
che
l’umanità
meriti
ancora
una
possibilità”?
il
piccolo
angelo
sapeva
cosa

significasse
per
lui
una
risposta
affermativa,
conosceva
che
se
avesse
risposto

affermativamente
gli
sarebbe
stato
dato
un
altro
incarico.
Consapevole
di
questo,
sapeva

anche
che
il
genere
umano
doveva
essere
salvato,
quindi
rispose
di
sì
alla
domanda
posta
dal

Padre.

Colui
che
è,
lo
guardò
con
dolcezza
e
la
colomba
che
teneramente
era
pochi
istanti
fa
nella
sua

mano,
ora
si
librava
felice
in
volo
per
la
seconda
volta.


III


Il
piccolo
volatile
scrutava
con
meraviglia
le
bellezze
di
una
natura
che
nel
viaggio
precedente

aveva
solo
assaporato;
il
colore
azzurro
del
cielo
che
pareva
fondersi
con
quello
del
mare
dalle


mille
tonalità
che
variavano
ogni
momento,
dal
blu
più
profondo
al
verde
dai
riverberi
dorati,

una
massa
in
continuo
movimento
contrapposta
a
quella
apparentemente
statica
del
cielo
che

pareva
non
finire
mai,
poteva
scorgere
delle
piccole
creature
in
entrambi
gli
elementi
vagare

senza
meta
apparente
libre
e
felici.
Il
piccolo
Ariel
preso
dalla
contemplazione
di
simili

bellezze
perse
ben
presto
la
rotta
e
in
un
momento
fu
avvolto
da
una
fitta
nebbia
e
da
un

odore
acre
che
gli
otturò
le
narici.
Un
tanfo
tanto
forte
che
provocava
vomito
e
giramento
di

testa,
tanto
che
per
non
finire
in
acqua,
il
piccolo
volatile
avrebbe
voluto
fermarsi,
ma

ovunque
tentava
di
posare
le
sue
zampette
subito
doveva
spiccare
il
volo
tanto
era

insopportabile
l’odore
e
poi
con
quella
nebbia
così
fitta
che
gli
impediva
di
vedere
di
là
dal
suo

becco
e
così
inesorabilmente
stremato
dalla
fatica
di
girare
in
tondo
e
soprafatto
dalle

avversità
precipitò
in
acqua.
Subito
si
sentì
come
tirare
giù
da
una
forza
strana,
ma
più

annaspava
più
si
sentiva
trascinare
vero
il
basso,
quella
massa
d’acqua
che
prima
era

sembrata
amica,
ora
trasformatasi
in
una
schiuma
vischiosa
e
maleodorante
come
una
colla

gli
aveva
appiccicato
le
ali
impedendoli
di
volare
e
quel
cielo
che
solo
poco
prima
sembrava

non
avere
fine
ora
lo
schiacciava
facendoli
mancare
il
fiato.
Tutto
a
un
tratto
si
ritrovò

immerso
in
una
poltiglia
lattiginosa
e
l’unica
cosa
che
poteva
fare,
era
appurare
che
stava

inevitabilmente
scendendo
verso
il
basso.
Sentendosi
mancare
le
forze
si
rassegnò
ancora
una

volta
a
vedere
fallita
la
sua
missione,
ma
proprio
in
quel
mentre
e
cioè
quando
tutto
sembrava

perduto,
ecco
venire
in
suo
aiuto
un
essere
che
di
primo
acchito
poteva
somigliare
a
un
pesce

che
prima
aveva
visto
sguazzare
in
ben
altra
situazione,
ma
com’era
diverso
invece
da
quelle

creature
che
poco
prima
avevano
allietato
il
suo
volo.
Non
aveva
occhi
né
bocca,
solo
piccole

fessure
purulente
che
sembravano
in
continuo
movimento,
non
aveva
colore
mimetizzato
tra

il
pattume
che
gli
umani
avevano
gettato
per
anni
in
quel
mare
che
fu
sorgente
di
vita
per

generazioni
di
uomini
e
che
ora
nella
sua
generosità
stava
dando
indietro
quello
che
gli
era

stato
offerto.
Questo
essere
orribile
a
metà
tra
pesce
e
immondizia,
aveva
salvato
il
piccolo

pennuto
e
lo
aveva
poggiato
su
una
superficie
asciutta,
senza
chiedere
nulla
in
cambio,
forse

senza
neanche
sapere
chi
fosse
e
cosa
facesse
li.
Ancora
una
volta
riecheggiò
nella
sua
mente

di
piccolo
angelo
la
parola
“amore”.
Com’è
possibile
si
chiese,
l’amore
non
è
solo
per
gli
esseri

umani?
Nella
sua
innocenza
trovò
la
risposta,
l’amore
quello
vero
che
da
senza
chiedere,
non
è

prerogativa
di
nessuno,
l’amore
non
si
domanda,
si
dona.
“Quante
cose
devo
imparare
ancora

pensò”.
Attese
quindi
tutta
notte
che
spuntasse
il
sole,
ma
l’alba
del
giorno
nuovo
fu
avara
di

luce
e
di
calore,
il
piccolo
pennuto
capì
allora
che
la
strada
era
lunga
e
che
non
sarebbe

tornato
a
casa
tanto
presto,
quindi
si
asciugò
le
penne
come
poté
e
spicco
il
volo,
questa
volta

consapevole
che
l’amore
quello
vero
esisteva
ancora
da
qualche
parte,
bisognava
però

trovarlo.



IV


Vagò
non
poco
tra
i
mille
pericoli
che
la
megalopoli
nascondeva
a
chi
si
fosse
avventurato
tra
i

suoi
meandri.
Tutti
i
suoi
abitanti
sembravano
ostili,
tutti
parevano
non
fidarsi,
ognuno

appariva
immerso
in
un
mondo
tutto
suo,
dalla
sua
dimensione
il
piccolo
Ariel
scrutava

queste
creature
all’apparenza
gigantesche
affrettarsi,
correre
di
qua
e
di
là
senza
una
meta

apparente.
Notò
che
erano
esseri
tutti
uguali,
tutti
dello
stesso
identico
colore,
un
grigio
che

perfettamente
gli
mimetizzava
con
la
nebbia
perenne.
Lui
unica
nota
di
colore
in
un
universo

asettico,
tentava
di
avanzare,
ma
la
fretta
e
l’incuranza
delle
“creature”lo
ricacciavo
indietro

ogni
qualora
tentasse
un
passo,
quante
volte
ricevette
calci,
pedate,
tante
volte
rischiò
di

essere
travolto
dalle
automobili,
o
preso
a
sassate
dai
alcuni
bambini
che
non
avendo
meglio

da
fare
avevano
fatto
del
piccolo
volatile
oggetto
del
loro
giochi.
Sono
dunque
questi
coloro

cui
Nostro
Signore
si
dà
tanta
pena,
domandò
incredulo.
Costoro
che
non
hanno
rispetto
per

nulla,
neanche
per
se
stessi,
hanno
ridotto
casa
loro
un
immondezzaio,
e
nonostante
tutto
c’è

ancora
chi
tenta
di
salvarli.
Sconfitto
e
umiliato
per
non
aver
portato
a
termine
la
sua
missione

Ariel,
si
stava
preparando
mestamente
a
tornare
indietro,
quando
notò
vicino
a
una
chiesa
un

essere,
che
non
pareva,
essere
figlio
dell’uomo,
così
prese
il
coraggio
a
due
mani
e
gli
chiese

chi
fosse.
“io
sono
il
diavolo”
rispose.
Stupito
allora,
domandò
cosa
ci
facesse
vicino
a
una

chiesa,
pensando
chissà
a
quale
malvagio
proposito
il
demonio
si
era
prefissato
di

raggiungere.
Restò
stupito
una
seconda
volta
quando
il
demone
gli
rispose.
“sono
qui
a

chiedere
perdono,
non
sono
anch’io
figlio
di
Dio
come
lo
sei
tu”?


Il
piccolo
Ariel
capii
da
solo
quanto
sia
immenso
l’amore
che
Iddio
ha
per
le
sue
creature

qualunque
esse
siano,
capii
anche
che
la
sua
ricerca
era
finita
e
senza
aspettare
più
oltre
si

librò
nel
cielo.

Salì
in
alto
e
dopo
le
pesanti
nubi
cariche
di
piogge
e
le
nebbie
eterne
rivide
il
sole,
il
sole
c’è

sempre
dietro
le
nuvole,
così
come
Dio
c’è
sempre
sopra
di
noi
e
pensando
e
volando

raggiunse
a
sua
volta
le
volte
celesti.
Da
quel
giorno
uno
spiraglio
di
luce
anche
nei
giorni
più

bui
si
fa
strada
tra
le
nuvole
cariche
di
temporale
e
una
colomba
bianca
volteggia
nel
cielo.
“Il

mio
nome
è
Ariel
piacere
di
fare
la
tua
conoscenza”.




30/12/2009


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