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CHARD, Chiesa, lotta di classe e strtfteglepol~tiche,.Assisi 1973; G. qUTIERREZ, Teologia delfa ItberaZto~e,
MANARANCHE,
ESIste
MORTE
GIAMPIERO BOF
Il LA MORTE NELLA STORIA DELLE RELIGIONI. SOFICO.. IIII L'ANTICO TESTAMENTO. - IV/ N
MORTE. . VII LA MORTE COME COMPIMENTO. .
MORTE. - VIII/ LA MORTE E LA SPERANZA IX
MORTE NEL QUADRO DELL'ANTROPOLOGIA TEO
DIO. - XIII LA MORTE IN CRISTO.
590
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591
te rappresentata dal tentativo di ridurre la
morte a fatto ({naturale: intendiamo, con
questo genericissimo termine, indicare la tendenza a privare la morte di quelle dimensioni e
risonanze che la costituiscono evento decisivo
dell' esistenza umana e a deprimerla a momento la cui singolarit irrilevante nell'economia
generale del processo della realt e delle sue
leggi immanenti. La massima di EPICURO:
({Quando ci siamo noi, la morte non c'; e
quando c' la morte, noi non ci siamo (Diog.
L. X, I 2 5), la formula classica di questa tendenza, ripresa e variata in mille toni, dall'antichit ai nostri giorni, da Marco Aurelio a Wittgenstein e a Sartre (cfr. MARCOAURELIO,Ricordi, VI, 24; L. WITIGENSTEIN, Tractatus
lo~ic{)-philosophicus, 6.43 I I; l-P. SARTRE,
MORTE
gart 19055; p. 2 3o). Sono chiare testimonianze di un indirizzo di pensiero nel quale la
morte assume tutto il suo peso di dimensione
essenziale all'intera esistenza e che nel pensiero
di Scheler, Heidegger, Jaspers giunger alla
sua pi avanzata maturazione.
MORTE
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In questo vasto contesto veterotestamentario,
vita e morte non sono considerate come grandezze astratte, ma come due ambiti di realt,
due forze decisive nella vicenda dell'uomo e
dell' universo intero. Dietro ad esse, alla morte
non meno che alla vita, sta per Jahv, che le
domina: anche la morte opera dove e come
Jahv permette e vuole.
Il regno dei morti, lo sceol, non presenta tratti
assolutamente caratterizzanti rispetto alle rappresentazioni antiche pi largamente diffuse.
Ma l'AT sottolinea, oltre alla particolare intonazione teologica, che ogni diminuzione della
vita dice un irrompere dello sceol nel mondo:
cos accade nella malattia (Sal 13, 22; 3 o;
88), nella prigionia (Sal 142; 143), nella inimicizia (Sal 18; 144), in generale nella infelicit, nella miseria, nella fame, in tutte le forme
dell'indigenza. Lo sceol il regno dell'oblio,
della tenebra, dell' orrore: le determinazioni
negative si moltiplicano. Ma soprattutto -
appunto l'aspetto teologico - il regno della
lontananza da J ahv: l si spegne la lode di
Jahv (Sal 6,6.8;
30,10; 88,6.11-13;
I I 5, I 7) Re dello sceol (Am 9, 2; Sal
139, 8), come della morte, non ha per comunione con i morti: i morti pi non ricorda
(88, 6).
In questo quadro va intesa la morte come sorgente di impurit cultuale; anzi ogni impurit
non che un'anticipazione dell'impurit della
morte (cfr. G. VON RAD, Theologie des A.T.,
vol. 1, p. 276).
Ma pi forte che la convinzione di questa forza distruggente della morte la fede in J ahv e
nella sua promessa, che resiste anche ad una
contestazione che si presenta con siffatta radicalit: di qui, se pur nel giudaismo tardivo, s' apriranno nuove vie di soluzione che influiranno potentemente anche sul NT.
IV /
NUOVO TESTAMENTO
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ne assume perci, nella predicazione del regno
di Dio quale risuona nella comunit cristiana,
tratti decisamente cristocentrici e cristologici.
Parallela modificazione esperimenta il senso
cristiano della vita e della morte. In Giovanni
specialmente assume spiccato rilievo la solidariet della fede con la vita, in antitesi all'altra
connessione tra incredulit e morte: al punto
da rendere la morte terrena pressoch insignificante per colui che crede.
Profondamente innestato nelle prospettive della sua antropologia, il tema della morte occupa
una posizione centrale nel pensiero di Paolo,
all'interno del quale ci pare raggiunga anche
particolare ricchezza ed organicit di sviluppo.
Morte e vita rappresentano, infatti, le possibilit antitetiche che all'uomo si aprono. La formulazione di questa antitesi, quale si presenta
in Paolo, vista dal Cerfaux come suggerita
dall'ambiente greco: ((Passi come I Cor
3, 22-23; Rm 8, 38, confrontati con la letteratura della diatriba stoica, mostrano con evidenza che Paolo ha subito l'influsso della letteratura greca contemporanea) (L. CERFAUX,Le
Cbrist (fans la thologie de Sant Paul, p. 90).
Tuttavia il carattere retorico dell'antitesi n
annulla n sminuisce il suo significato teologico. Piuttosto dobbiamo guardarci dal pericolo
sempre ricorrente di un'interpretazione anacronistica e modernizzante di Paolo. Il significato
di accadimento naturale, di necessit biologica, che nella nostra mentalit attribuito alla
morte, insieme con l'interpretazione della morte in una struttura concettuale di derivazione
dalla dottrina dualistica del platonismo, minaccia la possibilit di una precisa intelligenza
9ella concezione paolina.
E possibile raccogliere attorno al termine tbanatos, in Paolo, una serie di passi capaci di delineare, in un quadro sufficientemente unitario,
la storia intera della salvezza. Il suo inizio infatti la colpa del primo uomo, il padre del genere umano, per il quale il peccato entrato
nel mondo, e con il peccato la morte (Rm
5, I 2. I 7; I Cor I 5, 2 I). Da allora tutti gli
uomini peccarono (Rm 5, I 2) ed in Adamo
muoiono (I Cor I 5, 2 2), cosicch da allora la
morte regna sul mondo.
Simili affermazioni non possono non suonare
estranee alla nostra mentalit corrente, abituata a riconoscere nella morte una necessit naturale e propensa, tutt'al pi, a ricercare quali
possano essere i fondamenti di questa necessit. Ma Paolo si muove in altra direzione;
non manca, vero, in lui un riferimento al mito dell'uomo originario (Urmens,ch) da lui rico-
MORTE
MORTE
NT, p. 352).
Cristo, dunque, il nuovo Adamo (I Cor
15,45; Rm 5,14). il nuovo capo dell'umanit. Per questo, se egli morto per noi, noi
tutti siamo morti (2 Cor 5, 14). Tutta via bisogna che questa morte diventi una realt effettiva per ciascun uomo: il senso del battesimo.
Moriamo al peccato (Rm 6, I I), all'uomo
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vecchio (6, 6), al corpo (6,6; 8, IO), alla legge (Gal 2, 19); la morte con Cristo in re alci
una morte alla morte. Quando eravamo prigionieri del peccato allora eravamo morti, or..
siamo dei viventi da morte (Rm 6, I 3). Ma la
nostra unione con Cristo, realizzata sacrarnentalmente nel battesimo, deve ancora essere attualizzata nella nostra vita quotidiana facendo
morire in noi le opere del corpo (Rm 8, 13)'
La morte ha mutato senso dopo che Cristo ne
ha fatto uno strumento di salvezza. Se l'Apostolo di Cristo appare agli uomini come tu:
morente (2 Cor 6, 6; Fil I, 20; cfr. 2 Co;
I, 9 SS.; I I, 2 3; I Cor I 5, 3 I ), ci non costituisce pi un segno di sconfitta: egli porta in s
la mortalit di Cristo, affinch la vita di Ges
si manifesti pure nel suo corpo (2 Cor 4, IO
ss.).
Cos la morte corporale assume un nuovo significato: non pi un destino inevitabile, una
condanna per i peccati; il cristiano muore per
il Signore come ha vissuto per Lui (Rm 14, 7
ss.; Fil I, 20). Perci per il cristiano morire .
in definitiva, un guadagno, perch Cristo la
sua vita (Fil I, 2 I). La condizione presente.
che lo lega al suo corpo mortale, per lui opprimente: Paolo preferirebbe lasciarla per andare a dimorare presso il Signore (2 Cor
5, 8); ha fretta di indossare la veste di gloria
dei risorti, affinch ci che c' in lui di mortale
sia assorbito dalla vita (2 Cor 5, 1-4; cfr. I
Cor I 5, 5 1-5 3)' Desidera andarsene per essere con Cristo (Fil I, 2 3)' Ma questo essere
con Cristo, non annullato dalla morte, rappresenta 1'autentico valore.
VI
TE
L'ESPERIENZA
DELLA MOR
La storia delle interpretazioni della morte testimonia nella maniera pi convincente il peso
decisivo che esse hanno sulla determinazione
del senso della vita; addirittura non pare esagerato affermare che la morte decide del seriso
della vita e del suo valore. Riconoscere nella
morte la fine dell'uomo sembra condannare la
vita ad una radicale insignificanza: tutti gli
sforzi intesi a valorizzare la vita come valore
oggettivo appaiono infatti, con grande facilit,
non solo destinati al fallimento, ma ancora come forme evasive ed alienanti. Si tratterebbe
allora di prendere atto, con lucida veracit,
della ,insuperabile assurdit dell'essere dell'uomo. E la tesi del Sartre esistenzialista, per il
quale {(1'uomo l, stupidamente l, per nien-
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te e ogni esistente nasce senza ragione; si
protrae per debolezza e muore per combinazione n (J.- P. SARTRE,La nausea, p. 191).
Molteplici sono le vie tramite le quali l'uomo
cerca di evitare cos nichilisticaconclusione: richiamandosi alla immortalit, o almeno a qualche forma di permanenza nel ricordo, nelle
opere, nel processo vitale della specie che continua; oppure giungendo ad affermare una forma di permanenza personale, sino al punto
che, nel mondo sia pagano che cristiano, s'
proposta l'ipotesi che proprio nella morte l'uomo raggiunga la sua pienezza. L'ipotesi teologica detta della cc decisione ne oggi rinnovata espressione: {(nella morte si apre per l'uomo
la possibilit per il suo primo atto pienamente
personale; essa costituisce quindi il luogo veramente privilegiato del divenire della coscienza,
della libert, dell'incontro con Dio e della decisione del suo destino eterno (L. BOROS,
Mysterium mortis, p. 30).
In realt il confronto con la morte necessario; gi 1'esprimevala splendida formula di Seneca vivere tota vita discendum est et, quod
magis fortasse miraberis, tota vita discendum
est mori (SENECA,
De brevitate uae, VII, 3)..
Ma come posso confrontarmi con la morte,
dove la colgo? Ne conosco aspetti esteriori;
oppure momenti preliminari, che per di pi
sfuggono, ben spesso, alla coscienza riflessa,
obnubilata o spenta affatto dalla sofferenza e
dai farmaci con i quali si vuol lenirla. Non
certo colui che sorge da situazioni che l'hanno
condotto ai limiti estremi della vita pi qualificato di altri ad offrirei una chiara intelligenza
della morte. Tutto quello che pu proporsi come oggetto di osservazione empiricoscientifica non permette di identificare il tempo, il momento della morte, nonch la sua natura; quello che il biologo od il fisiologo intendono come morte, non coincide con quello che
intendono il filosofo ed il teologo. Quello che
nuove acquisizioni scientifiche o nuove esperienze hanno reso possibile, ad es. in fatto di
rianimazione, ha piuttosto complicato che risolto il problema dello stabilire che cosa sia la
morte.
La morte un momento limite, non assimilabile ad altri momenti della esistenza, che pur ne
condizionano la comprensibilit, e sui quali, a
sua volta, proprio in quanto limite, proietta la
sua ombra. Propriamente non posso esperimentare la morte sin che son vivo: posso esperimentare gli stadi di una evoluzioneche inevitabilmente conduce alla morte, posso esperimentarne le sofferenze preliminari, la stessa
MORTE
VII
Quello che separa con un segno netto e profondo la morte dell'uomo da un qualsiasi finire, la consapevolezza che l'uomo ha del suo
essere per la morte: consapevolezza che pu
MORTE
assumere le pi diverse figure e sempre si presenta con intonazioni singolari, ma che nella
sua struttura soggiace a tutte le scelte ed agli
orientamenti autenticamente umani: ora appare come speranza o timore, ora come sereno
andare incontro o fuga, altra volta come ricerca di razionale chiarezza o di oblio. La comprensione della esistenza come possibilit intrinsecamente legata al senso della morte; e
mette in luce la contraddizione, nella quale
l'uomo si dilacera tra la inarrestabilit del procedere in tutto il suo essere verso la morte - la
naturalezza della morte - ed il non meno radicato rifiuto che oppone alla morte con tutto il
suo essere; tra la casualit continuamente esperita del vivere e del sopravvivere, ed il senso
della possibilit dell'esistenza come trascendimento di questa casualit.
Al fondo la contraddizione gi sopra dichiarata tra l'essere e il non essere, per la quale il
non essere appare come raccapricciante ed angoscioso, perch non gi il niente, ma il nulla
che insidia l'essere, insidendo in esso, che pur
s'afferma in una apertura progettante. Il non
essere si pone perci come ostacolo, come contraddizione alla radicale volont di vivere, di
essere, dell'essere che vuoi essere, che volont di potenza.
La rassegnazione non impossibile, ma solo
come affermazione dell'esigenza suprema dell'essere, non della sua negazione. Ed in questa
stessa linea anche inquadrabile la gi accennata teoria della morte come decisione o come
compimento. La enuncia chiaramente K. Rahner: Se l'asserzione che la morte per sua natura il compimento personale di s, la "propria
morte" ha ragione di sussistere, allora la morte
non pu essere soltanto un incidente che viene
accettato passivamente (sebbene sia evidentemente anche questo), un evento biologico di
fronte al quale l'uomo come persona si trova
inerme ed estraneo, ma pure da intendere come atto dell'uomo dall'interno e, beninteso,
non soltanto una presa di posizione dell'uomo
nei suoi confronti, che rimanga fuori di essa.
Ed ancora: La morte deve essere dunque
queste due cose: la fine dell'uomo come persona spirituale e attivo compimento dall'interno,
un attivo portarsi-a-compimento, generazione
crescente e comprovante il risultato della vita e
totale prendersi-in-possesso della persona, un
aver-realizzato-se-stessi e pienezza della realt
personale attuata liberamente. E la morte dell'uomo come fine della vita biologica allo
stesso tempo e in maniera indissolubile e riguardante tutto l'uomo, rottura dall'esterno,
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cos che la "propria morte" dall'interno amaverso ratto della persona stessa al tempo
stesso l' evento del pi radicale depotenziamento dell'uomo, azione e passione in uno. Data
l'unit sostanziale dell'uomo, sempre che sia
presa veramente sul serio, non possibile assegnare semplicemente ciascuna di queste due
parti dell'unica morte all'anima e al corpo ddl'uomo, e cos scomporre la vera e propria essenza della morte umana (K. RAHNER, Sulla
teologia della morte, pp. 29-30).
Sarebbe azzardato affermare da un punto di
vista della ragione naturale la realt effettuale
della morte come compimento; potremmo forse riconoscere il profilarsi di siffatta possibilit..
o addirittura di esigenza, nella constatazione
che tutto quello che di volta in volta s' raggiunto o realizzato gi in qualche modo a noi
sottratto, irrigidito, cristallizzato, e solo pu
valere come momento di un processo sempre
progrediente. Ma anche questo abbisogna di
precise chiarificazioni e solleva gravi difficolt.
In ogni caso l'aspetto primo della morte - e
fenomenicamente rilevante - il venir meno.
il cessare, il non essere pi, la fine. Pu presentarsi nella teoria della decisione un sottile paralogisma quando si salti, senza mediazioni, dalla incornpiutezza del dinamismo spirituale e
delle sue realizzazioni, insuperabile nei limiti
della esperienza terrena, alla affermazione di
un compimento raggiunto nella morte. Una simile illazione o postulazione dovrebbe essere
ben fondata. Perch il compimento piuttosto
che la fine completa? Il dato fenomenico della
fine non pu essere semplicemente disatteso. E
senza un preciso riferimento alla fenomenicit
della morte non possono neppure venir elaborate quelle che, a partire da una fenomenologia
dell'uomo, possono essere indicate come propr~et d~llo spirito (immortalit, indistruttibilit, SUSSIstenza,ecc.).
L'origine del problema evidente: posto che
la morte sia considerata come avvenimento
che interessa tutto l'uomo, essa va vista nel suo
momento di determinazione, come fatto naturale, e nel suo momento umano, di libert. Si
fa allora chiara l'alternativa: sar il momento
naturale quello che prevarr, alla fine, sulla veloce e fuggitiva meteora della libert, quale
momento specificamente umano? Oppure sar
la natura quella che verr assunta nella libert?
Le indicazioni bibliche che abbiamo in precedenza esposto oppongono, ovvio, un chiaro
rifiuto alla prima ipotesi, anche se non permettono di accogliere senza precisazioni la seconda. Rahner ci ricorda che nella dottrina della
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chiesa i due momenti sopra indicati sono compresi rispettivamente nelle diciture della morte
come ((separazione dell' anima dal corpo e
dine dello status oiae (a.c., p. 15). In ogni caso, se la natura nella morte assunta nella libert, diventa decisivo, sul dover morire, il
voler morire n. Ma come pu essere intesa
questa affermazione? Insistiamo ancora: il duplice aspetto della morte non pu far dimenticare, con la necessit, la casualit del dover
morire, che non coincide senz'altro con la
maturazione del voler morire. Il vangelo
stesso testimonia che la morte viene sempre
cc tamquam fur et latro; e se, come vedremo,
la morte mette in gioco anche 1'abbandono da
parte di Dio, essa non pu semplicemente rappresentare un acquistarsi e possedersi, ma ~ necessariamente un perdersi; ed anche il suo insistito legame con il peccato non permette di
comprenderla senz'altro come compimento.
Ci pare si presenti una linea interpretativa nella direzione della opzione fondamentale dell'uomo per Dio o contro Dio. Potrebbe essere
fecondo istituire un rapporto esplicito tra la
struttura formale della opzione fondamentale
ed il carattere trascendentale della morte: ma
ora ci impossibile.
Positivo risultato della riflessione svolta in
questo paragrafo sarebbe gi 1'aver sufficientemente chiarito che il discorso della morte come compimento, dal punto di vista filosofico,
dice la seria ipotizzabilit di due ipotesi fondamentali di interpretazione della morte: 1'una
nella direzione della morte come pienezza, 1'altra invece come kenosi radicale. Ma cosa pu
inclinarci o deciderci per l'una o per l'altra?
VIII INTERPRETAZIONE
TRASCENDENTALE DELLA MORTE
Prima di tentare una qualsiasi risposta a quest'ultima domanda per necessario soffermarci ancora sulla sua premessa, che direttamente propone il tema di una ontologia della
morte. Che cosa con questa s'intenda detto
chiaramente da Rahner: N ella morte come
avvenimento concreto nel singolo uomo, per il
quale essa decisamente bene o male, ci deve
essere ancora qualcosa di comune, qualcosa di
ancora neutrale che permetta di dire che tutti
gli uomini in senso vero (anche se ci non
esaurisce l'intero avvenimento della morte)
muoiono della stessa morte, cosicch rimane
velato di che morte in realt il singolo uomo
muoia, se di quella di Adamo o di quella di
MORTE
Una antropologia cristiana nelle lettere di S. Paolo, pp. 77 ss.). N ella morte cessa, anzitutto, la
fenomenicit dell'uomo. L'aspetto primo e pi
immediato con il quale la morte si presenta
quello del sottrarre l'uomo dall'ambito nel
quale egli inserito insieme con tutti gli enti
intramondani: sottrarre che impossibilit di
rinvenimento tra di essi, pi ancora chiusura
di ogni possibilit di ulteriore determinazione
dell'ordine, dell'orientamento, del significato
degli enti intramondani: siffatto rapporto infatti caratterizzante della corporeit e della
mondanit deli' uomo. E forse necessario affermare che la morte rappresenta la fine di questa
corporeit e mondanit?
Ma un secondo non meno rilevante momento
della corporeit rappresentato dal suo essere
fondamento del rapporto interpersonale. Anche per questo aspetto la morte rappresenta
motivo di crisi. Come possibile tessere nuove
trame di umani rapporti, come possibile il
perdurare di quelli gi costituiti, quando venga
meno quell'empiricit dell'uomo, che di ogni
rapporto rappresenta il presupposto?
Il rapporto con Dio, anch'esso mediato dalla
corporeit, dovrebbe diventare terzo essenziale
tema ii quest'ordine di considerazioni.
L'ontologia della morte che in tal modo s'
andata profilando ha chiaramente carattere di
ontologia trascendentale. Ora chiaro che una
riflessione trascendentale sulla morte, posto
che non Eossa esercitarsi sull' esperienza dell'istante della propria morte, e tanto meno sulla
contemplazione del cadavere, possibile solo
se la morte non ci sorprende semplicemente,
ma rappresenta una dimensione della vita, potremmo dire una sua struttura. Questo comporta la presenza della morte in ogni momento
della vita, in ogni espressione vitale; ma non
esclude, d'altro canto, che alcuni momenti ne
permettano una migliore trasparenza, facendone emergere i tratti ~i tipici, cos che se ne
possa istituire una piu attenta disamina. Possiamo addurre, nel quadro delle esperienza pi
tipiche, e al fine indicato pi feconde, quelle
MORTE
600
mo, e che mal si prestavano ad una risposta del
tutto soddisfacente e capace di superare questo
aspetto della problematicit della morte. Per
questo egli ricorso a categorie di origine ed
impronta ellenistica, ed a figure come quelle
dell' abitazione e del vestito (2 Cor 5, I - I o ~
cfr. G. BOF, in: Dizionario teologico, voce
Immortalit). Ma non risulta meno evidente la
fedelt di Paolo all'indirizzo fondamentale
della sua concezione, secondo la quale la corporeit rappresenta un elemento essenziale dell'uomo, cosicch all'c(essere sovrarivestito (2
Cor 5,4) si volge la sua aspirazione, e nel raggiungimento del corpo della risurrezione si
compie la sua salvezza.
Acutamente K. Rahner propone, nella ricerca
di una interpretazione adeguata del pensiero di
Paolo sulla corporeit e sulla mondanit dell'uomo, una chiarificazione di quello che in lui
significhi il rapporto dell'uomo con i principi
del mondo di Gal 4, 3. 9. Ci pare prospettiva interessante, anche se possiamo ora solo richiamarla (cfr. K. RAHNER, Sulla teologia della
morte, pp. 19 ss.).
Inequivocabile la risposta di Paolo ad un altro problema posto dalla morte: quello dei
rapporti personali: coloro che sono morti non
sono affatto sottratti alla possibilit di relazioni tra di loro e con Cristo, e neppure con i viventi; e i viventi non sono esclusi dalla possibilit di incidere in qualche modo su di essi; basterebbe a confermarlo il riferimento al pur
oscuro battesimo per i defunti in I Cor
15, 29
601
la chiesa. Possiamo dire che la sua portata dogmatica pu essere limitata alla universalit
della morte come fatto biologico o fisico? Da
quanto abbiamo detto ci pare soluzione almeno improbabile. Addirittura ci pare possa legittimamente esser messo in dubbio se l'affermazione comporti necessariamente la morte fisica.
Si potrebbe allora proporre questa ipotesi di
interpretazione: la affermazione della universalit della morte dice la universalit di un' esperienza di separazione da Dio, dunque di morte
come espressione, frutto e compimento del
peccato. Che la morte sia essenzialmente connessa alla separazione da Dio, alla opposizione
a Dio, altro non che la ripetizione della sua
dipendenza dal peccato. Ma l'ipotesi esclude
che la morte sia una semplice estrinseca conseguenza del pe~~ato, la quale si con~umi nella
natura, o addirittura nel corpo dell uomo. Al
contrario, essa , in tutta la sua consistenza
reale, espressione del distacco e della distanza
da Dio. La morte un perdersi, perch un
perdere il rapporto con la vita e con la sua sorgente; l'inferno, nella misura suprema secondo la quale sofferto da tutti gli uomini, anche
dal giusto, anche da Ges che, condannato sulla croce come maledetto, ha espresso la suprema angoscia del suo spirito nel grido: ((perch
mi hai abbandonato? l).
Allora si comprenderebbe anche meglio r angoscia della vita, e quella pi violenta e ineluttabile di fronte alla lucidit spettrale della
morte. Certo questo non traspare molto nella
incoscienza nella quale la sofferenza, da un lato, la nostra formazione culturale ed il moderno assetto clinico ed ospedaliero, dall'altro, celano e violano la tragicit della morte, ed il
suo mistero, sottraendola alla possibilit di una
pur relativa esperienza, che altre epoche ed altre culture sembrano aver avuto pi accessibile.
Ma se ancora in qualche misura la morte pu
essere colta e vissuta come separazione dalla
vita e dalla sua trascendente fonte, allora nella
abissale profondit di questa esperienza si intravvede anche il nesso tra morte, peccato,
dannazione.
N e verrebbe allora un' altra conseguenza alla
tesi della morte come compimento. Sarebbe
impossibile identificare con esso la morte reale
concreta: il compimento potrebbe solo significare una possibilit trascendentale, definitivamente negata, come attuazione positiva, dal
dominio, sul piano antico, del peccato e delle
conseguenze non annullate dalla redenzione. Il
peccato sarebbe allora anche la radicale incompiutezza dell'uomo, che trova nella morte il
MORTE
XIII
LA MORTE IN CRISTO
MORTE
602
venimento esteriore, vengono a costituirsi come elementi intrinsecamente qualificanti il
vangelo. Il figlio dell'uomo che viene come
fur et latro , la morte improvvisa, inevitabile, la costanza della sua minaccia, l'urgenza
della decisione, il camminare di fronte a Dio:
sono tutti momenti rilevanti dell' annuncio
evangelico, e sono legati alla morte, la quale
diventa per essi anche giudizio di Dio. Nell'affidarsi a questo giudizio sta la fede, che si pone
come affidamento radicale, soprattutto perch
condizionata dal venir meno, nella morte, di
tutte le assicurazioni mondane. E similmente
assumono la loro radicalit cristiana la speranza contro ogni speranza e l'amore che pu
giunger a sacrificare la vita in un'offerta che
dell'amore prova suprema.
Nella morte si esperimenta, dunque, per il suo
nesso con il peccato, il distacco da Dio ed insieme il distacco di Dio, il no del peccatore
detto a Dio che fonte di vita, il c( no di Dio
ad una vita che si ribella alla sua sorgente. Il
rapporto del peccato con la morte prima rapporto di senso che di causa. Ma nella prospettiva cristiana la morte diventa soprattutto il
luogo della grazia come liberazione dal peccato, come risurrezione dai morti: alla luce della
morte acquista la sua 'pienezza di senso l'annuncio del vangelo secondo il quale (c . non ci
sar pi la morte, n lutto, n lamento, n affanno, perch le cose di prima sono passate
(Ap 21,4).
BIBLIOGRAFIA
Ci limitiamo ad indicare le opere alle quali, in forma esplicita o implicita, ci siamo di fatto riferiti nel
corso della voce, dando anche le indicazioni complete delle opere gi citate.
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MORTE