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Introduzione p. 5
Capitolo 1
Città da immaginare p. 9
Capitolo 2
La terra nuova di regime p. 29
Capitolo 3
Là dove c’era l’erba ora c’è una città p. 71
Capitolo 4
La città dei numeri uno p. 105
Capitolo 5
Il contagio p. 167
Conclusione p. 201
Bibliografia p. 205
Credits p. 213
Ringraziamenti p. 215
3
4
INTRODUZIONE
____________________
5
geometri”. Una tappa centrale, e particolarmente accurata – nel
quarto capitolo – è a Milano Due, il quartiere residenziale
autosufficiente e destinato alla media-alta borghesia costruito negli
anni Settanta alla periferia di Milano dall’imprenditore Silvio
Berlusconi, e che rappresentò non una semplice edificazione
immobiliare ma una vera e propria dichiarazione culturale. Ultima
tappa – nel quinto capitolo – è nelle forme polimorfe e spesso
recintate del paesaggio urbano (e suburbano) contemporaneo: da
Celebration, città residenziale negli Stati Uniti costruita dalla Disney,
ai parchi a tema, dalle banlieue in fiamme affianco Parigi ai nuovi
quartieri della provincia italiana che sorgono accanto a centri
commerciali o outlet, a loro volta ultime città del consumo.
6
per certi passaggi disinvolti di linguaggio, oppure per una scarsa
chiarezza nei metodi di ricerca, poco accademico. Me ne rammarico,
io in fondo l’accademia non l’ho mai capita fino in fondo.
7
8
CAPITOLO 1
Città da immaginare
9
10
1. Civitas, polis, communitas
11
stato economico e politico: quello di attirare e favorire i traffici. In
altre parole, «da quando esiste la città, la pianificazione urbana e la
costruzione dei monumenti è sempre stata in mano ai sacerdoti e ai
re, ed è tuttora uno degli strumenti a disposizione di chi è al potere
per comunicare insegnamenti o ideologie ai sudditi o ai cittadini, e
per rappresentare se stesso»2. La città non è solo un posto dove la
gente abita, ma soprattutto il luogo dove le persone possono
intessere le loro relazioni, quelle economico-commerciali ma anche le
altre. Non è un caso se tutti quelli che hanno in testa l’idea di
conquistare e dominare una Nazione (o un regno, o un impero, o un
immaginario popolare, o soltanto una corporation) prima o poi si
confrontano sempre con la costruzione di città, con l’irresistibile
mania della creazione urbana.
2. Atlantide e le altre
2
R. Scramaglia, La dimenticanza negli abitati di una periferia milanese, 1991, cit. in
A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, p. 45
3
C. De Gregorio, La strada sia lunga, in “L’Unità”, 10 marzo 2009
12
capitale non di uno Stato ma di un pezzo di mondo – erano realtà
caotiche, stratificate, pulsanti. Nella culla del Mediterraneo,
Alessandria d’Egitto, Roma, Costantinopoli furono le prime obesità
urbane del pianeta (almeno in Occidente), le prime grandi stalle di
umanità, i primi labirinti di palazzi, catapecchie, monumenti,
fontane, templi, regge, bordelli, escrementi, carri, ladri, assassini,
imperatori, scrittori, i primi spazi urbani che abbiano ospitato nelle
loro mura, fino a farle scoppiare, oltre un milione di creature.
Tuttavia, l’arte di pensare alla forma urbana perfetta, lontana dalle
angustie del mondo, è qualcosa che nasceva già con la cultura greca.
4
M. Cavini, Atlantide, in http://spazioinwind.libero.it/cavinimaurizio
5
Platone, Le opere. Repubblica, Timeo, Crizia, 2005
6
T. Moro, Utopia, 2007
7
T. Campanella, La città del Sole, 2006
13
dipingono città e architetture ideali e molti architetti, tra cui lo stesso
Leonardo da Vinci, aspirano a creare la città perfetta.
8
F. Defferrari, Utopie urbanistiche cinematografiche, in www.parametro.it
9
E. Guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento, 1981
10
L. B. Alberti, L’architettura, 1981, p. 161
11
F. Choay, La regola e il modello, 1986
14
boulevards di Parigi, si dice, per evitare che a qualcuno venisse in
mente di metterci qualche barricata e rifare la rivoluzione), i
quartieri operai, che spesso occupavano le zone più vecchie delle
maggiori città europee, restavano luoghi affollati e malsani, privi di
sistemi fognari affidabili e sovrappopolati da persone che vivevano in
condizioni tremende. I teorici che si occupavano del miglioramento
della condizione operaia avrebbero voluto realizzare dimore popolari
che permettessero anche ai poveri di vivere in una condizione
dignitosa ed igienicamente migliore. Alcuni lo hanno fatto
veramente, e Robert Owen ne è certamente l’esempio più famoso. La
sua ottocentesca utopia, come quella di Charles Fourier, prevedeva
piccole comunità autosufficienti, nuovi paesi a dimensione umana in
contrapposizione alle condizioni disumanizzanti dei quartieri operai
cittadini. Tutta una stagione di progetti che rientrava nel filone del
socialismo utopico12. Utopie che però non ebbero fortuna: nel corso
del tempo le metropoli in espansione diventeranno sempre meno
città di uomini e sempre più città di macchine.
12
A. Colombo, L’utopia: rifondazione di un’idea e di una storia, 1997
13
W. Benjamin, I passages di Parigi, 2007
14
G. Simmel, La metropoli e la dello spirito, 2005
15
e differenziazione all’interno, che l’uomo moderno vi avrebbe
l’impressione di soffocare»; quindi «oggi, in un senso sublimato e
raffinato, l’uomo metropolitano è “libero” in confronto alle piccinerie
e ai pregiudizi che limitano l’orizzonte di chi vive la città di
provincia»15. In ogni caso, la città si arricchisce delle sue strade
incantante, sebbene patrimonio per pochi borghesi, al massimo da
guardare e non toccare per tutti gli altri. Sezioni di città “protette” e
totalizzanti, delle piccole zone in cui la vita urbana concentra tutta la
propria capacità seduttiva, tenendo lontane le ombre e le paure.
Nella sociologia moderna c’è poi voluto Max Weber a spiegare che
l’istituzione della città, almeno nell’Europa continentale
settentrionale, fu questione più economica che militare16. Ciò accadde
perché ai detentori extraurbani del potere mancavano le risorse
amministrative per soddisfare, coi loro apparati, i bisogni economici
delle città, quelle stesse città che ad essi fornivano sostanziose
rendite attraverso le tasse e le dogane. Lo stesso si potrebbe dire della
Chiesa. Per questo l’autogoverno delle città medievali rappresentò il
primo passo della società borghese, che prosperava grazie al nascente
capitalismo mercantile. È per questo che «tutti i poteri feudali senza
eccezione, a cominciare dai re, hanno sempre guardato con la
massima diffidenza il loro sviluppo»17. La città – nell’analisi di Weber
– emerse come una sfera di “dominio non legittimato” che operava al
di fuori dell’autorità ecclesiastica e feudale, e per questo costituiva
una sfida alla pretesa dello Stato di detenere il monopolio
dell’autorità legittima. L’era delle città-stato ebbe vita breve ma
comunque la forza motrice della modernizzazione economica e
politica continuò a riassumersi nella stessa parola: urbanizzazione.
15
Ivi, pp. 46-48
16
M. Weber, Economia e società, 1961
17
Ivi, p. 653
16
modo una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita
rurale…»18. Notevole questa istantanea con la sua caratteristica: la
vita rurale e il suo idiotismo. Notevole anche perché ci porta in
campagna, in un quadro comunitario, naturale. Nell’antitesi al vivere
urbano della società. All’urbanesimo come modo di vita, per citare –
dall’altra parte del mondo – i sociologi della Scuola di Chicago, i
quali andavano empiricamente a ficcare il naso nel ventre delle città,
dai ghetti più infidi al proletariato nomade, alle lettere degli
immigrati poveri, dove la solitudine e il degrado morale e sociale
sono l’inevitabile conseguenza del venire meno dei legami
tradizionali. La sociologia americana di quell’epoca recepiva l’idea
durkheimiana di anomia, in un mondo in cui la solidarietà si fa
problematica. Nell’ambiente urbano, scrive Robert Park nel 1915, «è
probabile la rottura dei legami locali e l’indebolimento delle
coercizioni e delle restrizioni all’interno dei gruppi primari,
responsabile dell’incremento del vizio e del crimine»19. Per far
contenti gli amanti del rigore accademico è stato Luois Wirth, nel
1928, a identificare con ottima sintesi e sulla base di una serie di
caratteristiche l’oggetto del suo argomentare, cioè la città. Primo
requisito: il numero degli abitanti. Una città, per essere tale, deve
avere tanti abitanti. Secondo requisito: la densità. Gli abitanti devono
essere concentrati in uno spazio largo ma comunque definito. Terzo
requisito: l’eterogeneità sociale. In una città gli abitanti devono
essere diversi tra loro, possibilmente dispersi e atomizzati nelle loro
relazioni20.
18
K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, 2005, p. 34
19
R. E. Park, La città, 1925, cit. in A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza
urbana, 2000, p. 69
20
A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, pp. 69-71
21
H. Lefebvre, Il diritto alla città, 1970
17
compressione: spazio, tempo, denaro22. Il vero decollo
dell’urbanizzazione avviene nel Ventesimo secolo, soprattutto dagli
anni Cinquanta, quando sotto la spinta della crescita della
popolazione e delle migrazioni dalle campagne, i tassi di espansione
delle città hanno iniziato ad aumentare rapidamente, prima nei paesi
industrializzati e subito dopo nei paesi in via di sviluppo. Nel 1970 il
35% della popolazione del pianete viveva nelle aree urbane, alla fine
del secondo millennio questa percentuale ha raggiunto ormai il
50%23.
3. Eterotopie occidentali
22
D. Harvey, L’esperienza urbana, 1998
23
L. Mencacci, L’eclissi dell’utopia urbana, 2009, p. 10
24
Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, 2005
25
M. Magatti (a cura di), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le
periferie italiane, 2007, p. 19
26
M. Focault, Eterotopia. Luoghi e non luoghi metropolitani, 1994
18
luogo, stabile e ben delimitato, è collocato entro una gerarchia
spaziale che coinvolge non solo la sfera terrena, ma anche quella
celeste. Un po’ come nel viaggio compiuto da Dante nella Divina
Commedia. Un’organizzazione incarnata da due figure simboliche
meglio di altre: il monaco e il contadino. La seconda fase nasce con la
modernità ed è caratterizzata dalla logica dell’estensione. Le grandi
scoperte geografiche, le revisioni delle conoscenze astronomiche,
l’avvento dei nuovi mezzi di trasporto, la diffusione dell’innovazione
economica e sociale scardinano le vecchie gerarchie e aprono nuove
possibilità. I comportamenti acquistano valore in base alla loro carica
di innovazione. L’epoca è segnata dall’emergere di nuove figure: il
viaggiatore, l’inventore, il commerciante. Comunque sia, rimane
uguale l’aspirazione all’omogeneità. La terza fase introduce una
diversa logica di spazializzazione, che Focault chiama della
“dislocazione”. Ciò che definisce questo momento è la sua capacità di
stabilire delle relazioni tra punti differenti e lontani: nessun luogo
esiste più per se stesso, ma sempre in relazione ad altro. Dunque,
ogni luogo viene continuamente dislocato, aperto, interconnesso.
All’interno di questa configurazione c’è una pluralità di logiche che
non risponde più a un disegno unitario. Figure archetipiche di questa
fase sono il pendolare, il turista, l’uomo d’affari. Secondo Focault
quest’attuale fase coincide con il passaggio dal dominio dell’utopia,
che ha caratterizzato la modernità, al prevalere dell’eterotopia. Con il
primo termine, la modernità aveva immaginato il suo futuro in un
altrove che doveva essere costruito. Un luogo ideale, una proiezione
di speranze, un’omogenizzazione forzata, e proprio per questo
irreale. Il concetto di eterotopia si muove, invece, in tutt’altra
prospettiva. Esso è orientato alla varietà e alla diversificazione, e ha a
che fare con l’esistenza di luoghi reali, effettivi e che pure
«costituiscono dei contro-luoghi, specie di utopie effettivamente
realizzate, nelle quali i luoghi reali vengono al contempo
rappresentati, contestati, sovvertiti»27. Con il concetto di eterotopia
Foucault sembra dire che lo spazio nel quale viviamo tende a
differenziarsi al proprio interno, creando una varietà di realtà ed
esperienze qualitativamente diverse, che sono sempre meno
sovrapponibili tra di loro. Le eterotopie, scrive ancora Foucault,
«sviluppano con lo spazio restante una funzione (…) esse creano un
altro spazio reale, così perfetto, così meticoloso, così ben arredato al
27
Ibidem, p. 13
19
punto da far apparire il nostro come disordinato, maldestro,
caotico»28. Così l’eterotopia riassume in sé elementi opposti: da un
lato il desiderio di sfuggire all’ordine sistemico per trovare contesti di
creatività e libertà, dall’altro il rischio di una differenziazione
funzionale, per puntare a logiche di segregazione. Tuttavia è
innegabile che la città contemporanea crea continuamente
eterotopie, luoghi sempre più specializzati e dotati di un codice
proprio, che vale solo al loro interno. Parchi di divertimento, centri
commerciali, isole pedonali, centri sociali, piazze attrezzate. Infine le
eterotopie si formano anche come luoghi in cui vengono concentrati
tutti coloro che sono inadatti rispetto alla vita contemporanea.
“Discariche” in cui collocare “vite di scarto” che non si vogliono
vedere e che non si sa come integrare: centri di permanenza per
immigrati, carceri superaffollate, ghetti urbani, campi rom, palazzi
abusivi. Si sfilaccia il tessuto connettivo del luogo, della città. La
socialità pubblica, gratuita, si rattrappisce29.
28
Ibidem, p. 19
29
M. Magatti (a cura di), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le
periferie italiane, 2007, pp. 21-28
30
I. Buruma, A. Margalit, Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici,
2004, p. 42
20
4. Utopie e omelettes
31
F. Orsini, Le utopie urbane e la forma della città, Dottorato in Progettazione
Urbana – Università degli studi Federico II Napoli, pp. 12-14
21
comportamento privato, giudicato potenzialmente antisociale.
Insulari e spesso xenofobi, nella loro applicazione pratica, i piccoli
mondi apparentemente utopici si ritrovano simbolicamente e
fisicamente preservati dalle pericolose influenze esterne, grazie
all’ausilio di barriere che possono essere sia naturali, come l’acqua o
le catene montuose, sia realizzate dagli uomini, come le fortificazioni
o le “cinture verdi”»32.
32
Ivi
33
Ivi
22
e del prossimo futuro, ibrida, ambigua, in perenne mutazione dove lo
stesso concetto geografico e classista di periferia subisce infinite
eccezioni e capovolgimenti.
È strano: come ha scritto l’etnologo e antropologo francese Marc
Augé, «l’architettura è il mestiere che più di tutti deve fare i conti con
i problemi del mondo, ma al tempo stesso ne è sopraffatta»34. A suo
parere, i “grandi architetti” del Ventunesimo secolo sembrano più
affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più
importanti del pianeta (e chi potrebbe rimproverargli questa
ambizione?) che dall’idea di affrontare i problemi tecnici e sociali
causati dall’urbanizzazione mondiale. L’esempio di Le Corbusier
dovrebbe spingere alla prudenza: il maestro di tanta architettura
moderna, con il suo ideale dell’alloggio autosufficiente, il suo rifiuto
della città storica, la passione per la tabula rasa, ha fatto molti
danni35. Oggi quei testi, insieme a tanti altri sogni, hanno fatto la fine
di quei “grandi racconti” utopici di cui Jean-François Lyotard
celebrava la scomparsa36.
Nella storia, fuori dal mondo spesso consolante delle idee, la “città
del sole” di cui parlava il filosofo Tommaso Campanella ha avuto
molteplici tentativi di realizzazione, almeno in piccolissima scala,
spesso in maniera effimera. Si può risalire alle comunità dei socialisti
utopisti dell’Ottocento oppure ai giorni nostri con esempi che spesso
hanno preso ispirazione dai modelli della controcultura hippy degli
anni Sessanta e Settanta. Per esempio Christiania, in Danimarca: un
quartiere della città di Copenaghen nato negli anni Settanta e
rigorosamente autogestito secondo alcuni principi come il rifiuto
dello Stato e della violenza, l’inesistenza della proprietà privata, la
libera circolazione di droghe leggere. Oppure il caso di Arcosanti in
Arizona, negli Stati Uniti: una piccola “città esperimento” tirata su
dall’architetto italiano Paolo Soleri e da numerosi volontari a partire
dal 1970, secondo una filosofia architettonica basata sull’ecologia
ambientale e sull’alta densità abitativa, con strutture compatte a
forma di abside e strade strette e senza automobili, come nella
rappresentazione delle antiche città di strade, di pietra e di uomini,
dove le macchine non avevano ancora conquistato e formato lo
spazio. Minuscole comunità, piccole idee dove futuro e passato,
34
M. Augé, L’architecture globale, in “Le Monde”, 17 ottobre 2009
35
A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, pp. 73-85
36
J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, 1981
23
utopia e nostalgia, si mischiano in una perfettibile realtà, giacché
quello dell’avvenire è un concetto che si sposta continuamente in
avanti, come l’avvenire stesso.
5. Blade Runner
37
F. Defferrari, Utopie urbanistiche cinematografiche, in www.parametro.it
24
e sterili solo avendo un lasciapassare. Altrimenti c’è il fuori abitato
soltanto dai poveri e dai clandestini, temuto da chi vive nelle città ma
colorato e vivo. Se fossi catapultato nella Londra del 2027 dei Figli
degli uomini (Alfonso Cuaròn, 2006) mi troverei in un mondo dove il
cielo è lurido, le acque spesse e nessuno partorisce più bambini da
diciotto anni. I cartelloni pubblicitari sparano ovunque il nome del
miracoloso medicinale “Quietus”, kit per eutanasia fai da te, bombe
esplodono all’improvviso, immondizie tracimano senza pudore, sugli
autobus una voce femminile registrata, ferma e cortese, ripete che
“non denunciare un immigrato è reato”, i profughi sono incarcerati e
nei recinti c’è ancora spazio. Se mi inoltrassi nella Los Angeles
giardino di Demolition Man (Marco Brambilla, 2003) mi
sembrerebbe invece un ambiente di pace e tranquillità, ma potrei
scoprire che si tratta soltanto di un luogo di ricca ipocrisia, che ha
eliminato le periferie degradate nascondendo la povertà e la
disperazione nel sottosuolo. In Artificial Intelligence (Steven
Spielberg su un progetto di Stanley Kubrick, 2001) dovrei
attraversare in barca la New York del futuro, diventata come una
Venezia fatata in cui i grattacieli emergono dalle acque come isole
verticali, e tutto ciò per effetto della natura che si è rimpadronita del
mondo, grazie al catastrofico scioglimento dei ghiacci polari. Nella
città astratta, iperurbanizzata, alienante di Alphaville (Jean-Luc
Godard, 1965) il mio spirito verrebbe manipolato, come quello di
tutti gli abitanti, dal potere del computer Alpha 60 che trasforma
tutti in “alfabeti” e mutanti. Come il detective Lemmy Caution che
arriva dai “Paesi esterni” col compito di indagare su quella “capitale
del dolore”, uscendo da un corso di semantica domanderei a una
ragazza alphavilliana «Perché qui la gente ha l’aria così triste?», e lei
risponderebbe: «Perché manca l’elettricità».
38
Ibidem
25
fare il palo con la visione opposta propugnata dalla comunicazione di
massa, quell’iconografia idilliaca degli spot televisivi alla Mulino
Bianco, idilliaca, patinata, a tinte flou, la rassicurante utopia di noi
stessi. Forse due facce della stessa medaglia. Utopie e nostalgie si
scavalcano, come la realtà che si nutre dell’immaginario e viceversa.
Nell’attesa di trovare un compromesso tra la città macchina che tutti
temono e la città giardino che tutti sognano.
26
27
28
CAPITOLO 2
La terra nuova di regime
Ogni compagno
nei sogni affioranti alle pupille
sull’ali stellate della notte
libera una città sepolta
nel folto delle sue carni.
Pietro Ingrao, Coro per la nascita di una città
29
30
1. Fantasmi
Certe notti, dai campi attorno alla via Appia, c’è ancora qualche
vecchio colono che giura di sentirlo. Vroooom, vrooom, come un
rombo di motore in avvicinamento. Di lato agli alberi di eucalyptus
ancora superstiti, in tutti quei Borghi piantati in mezzo agli incroci
stradali, vicino ai canali e alle piantagioni di kiwi, pare di sentirlo
ingrossarsi man mano quel rumore, il ruggito di una moto in
avvicinamento, una folata di vento improvvisa, la sagoma di una
Guzzi 500. Nessuno l’ha mai vista, in verità. Ma certi vecchi, gente
che parla in romanesco e ricorda in veneto, ne sono sicuri: quello, è il
fantasma del Duce39. Un altro poco di strada, moto o non moto, e si
arriva al centro della città. A Latina. Nel mezzo della piazza del
Popolo, dove c'è quella specie di fontana con un’enorme palla al
centro, anche lì nelle notti di temporale a qualcuno pare di udire dei
rumori sinistri. Lì sotto in effetti qualcosa c’è: un camion tutto intero,
sepolto. C’è affondato il 17 dicembre 1932, in un pomeriggio di
pioggia. Fervevano i lavori, la mattina dopo doveva essere tutto
finito. Il camion era carico di pietrame. Prima affondò da una parte,
con la ruota motrice. Poi, a forza di farlo girare per tirarlo fuori,
affondò pure l'altra. Provarono a tirarlo su prima con le braccia, poi
con le macchine, ma niente: la piccola voragine di fango lo
risucchiava. Siccome non c’era tempo da perdere decisero di scavare
un po’ intorno e seppellirlo lì. Sopra ci misero altro pietrame, e
l’asfalto. Il camion sta ancora là sotto, insieme alle pietre e al gattino
dell’autista, che non era voluto scendere, spaventato dal rombo dei
motori e della gente che stava intorno. Miagolava, finché non è stato
ricoperto40. L’indomani sarebbe stato il grande giorno: quello
dell'inaugurazione della città. Di Littoria. Il Duce avrebbe parlato dal
balcone, lì sopra la piazza, e proclamato alla folla osannante che
«l’aratro traccia il solco, ma è la spada che lo difende»41, manifesto di
un'epoca.
39
A. Pennacchi, Palude, 2000, pp. 10-13
40
Ivi, p. 87
41
B. Mussolini, Scritti e discorsi IV, 1934, p. 153
31
avevano portato via la terra a carrettate e l’acqua coi secchi, e seimila
persone almeno erano morte, quasi tutte di malaria. Fu la prima
delle “città di bonifica” realizzate all’interno del piano di bonifica
integrale delle paludi pontine. “Un deserto paludoso-malarico” lo
definivano i geografi. Fu un’opera immensa: dal 1926 al 1937, per
bonificare l’area che si trova a sud di Roma, grande 240 chilometri,
delimitata ad ovest e sud dal mar Tirreno, a est dai primi rilievi
appenninici dei monti Lepini ed Ausoni, a nord dal medio corso del
fiume Astura e dai primi rilievi dei Colli Albani, furono impiegate ben
18.548.000 giornate-operaio su un’ampiezza di 80.000 ettari. Oltre
al prosciugamento delle paludi, alla costruzione dei canali, ci fu
l’azione di disboscamento delle foreste e la costruzione dei nuovi
centri, che sorgevano man mano sui nuovi territori42. Littoria (poi
chiamata Latina dopo la seconda guerra mondiale, dal 1946) fu il
primo, nel 1932, e divenne il capoluogo della nuova provincia.
Seguirono i comuni di Sabaudia nel 1933, Pontinia nel 1934, Aprilia
nel 1936, Pomezia nel 1939, insieme ad altre tredici borgate rurali di
più piccole dimensioni.
In effetti, ogni volta che si passa da queste parti, è facile farsi venire il
pensiero che se non fosse stato per lui forse oggi non l’avrebbe fatta
ancora nessuno, questa benedetta bonifica. Sicché adesso ci sarebbe
toccato di ammirare Berlusconi sulla poltroncina bianca di “Porta a
porta” a spiegarci perché e percome il precedente regime comunista
l’avesse trascurata e adesso ci pensa lui a risolvere il problema. Altro
che Ponte sullo Stretto e monnezza di Napoli.
Ci sono passato decine di volte per l’Agro Pontino, ogni volta butto
l’occhio su quei cartelli che indicano i borghi dai nomi di trincea del
‘15/18 – Borgo Sabotino, Borgo Piave, Borgo Isonzo eccetera – mi
tornano in mente pure quei vecchi compagni di classe un po’
camerati che quando si litigava sul fascismo a un certo punto, per
stanchezza, se ne uscivano sempre con l’argomento che non ammette
repliche: “Vabbe’, il Duce qui e là avrà pure sbagliato e la guerra
l’abbiamo persa, ma volete mettere la bonifica dell’Agro Pontino?”.
Eh figuriamoci, a questo punto – come mi disse una volta un mio
vecchio professore delle medie – non valeva la pena sacrificare
vent’anni di suffragio universale maschile e libertà politica; non
valeva la pena di scontare un po’ di embargo internazionale, di
42
P. Incardona, P.G. Subiaco, La palude cancellata. Cenni storici sull’Agro Pontino,
2005
32
allearsi coi franchisti e i nazisti, importare le leggi razziali, morire a
milioni su un po’ di fronti in tutto il mondo, combattere un’ultima
disperata guerra civile contro il proprio stesso popolo, collaborare
con un invasore folle e invasato, pur di aver bonificato, una volta per
sempre, l’Agro Pontino?
2. Idee anti-urbane
43
E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, 1962
44
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 45
33
riportavano casi di particolare disagio, ad esempio le pessime
condizioni di vita con famiglie di dieci o più persone stipate in una
sola stanza, oppure lo stupore sul rapporto tra nati e morti coi
secondi che superano i primi, tuttavia si può dire che in generale
ancora in quel tempo le città italiane vivevano un periodo di relativa
stabilità, se messe a confronto con quanto accadeva
contemporaneamente in ogni simile città francese o inglese o
tedesca.
45
G. Mortara, Lo sviluppo delle grandi città italiane, 1907
34
comprensione dei doveri più modesti, e facile preda a cupidigie basse
e materiali, spinta com’è, per la vaga cognizione di teorie
socialistiche, ad eccessive o premature rivendicazioni di diritti»46. E
si sa che i grossi agglomerati urbani sono considerati terreno ideale
per fare entrare in gioco interessi e aspettative di nuovi soggetti
politici e sociali. La metropoli diventa l’epicentro da cui parte il
contagio della modernità.
46
G. Mortara, L’incubo dello spopolamento e l’Italia, 1912, p. 48
47
O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, 1981
48
D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in
“Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, p. 2
49
Ivi, p. 793
35
antropologica. La Kultur, caratterizzata da una forma di
comprensione organica ed empatica della vita come destino, si
irrigidisce in una Zivilization fredda ed esangue, che porta a
concepire il mondo come un insieme di nessi casuali e meccanici.
Una dicotomia che ricorda quella famosa tra Gemeinschaft e
Gesellschaft, dovuta a Ferdinand Tonnies già sul finire del secolo
precedente, ovvero da una parte una comunità fondata sul
sentimento di appartenenza e sulla partecipazione spontanea,
dall’altra parte una società basata sulla razionalità e sugli aridi
rapporti di scambio50.
Questi temi saranno destinati a riaffiorare e tornare, sotto varie
forme sia benigne che maligne, quasi ossessivamente, nella cultura
del Novecento: la servitù dell’uomo contemporaneo, la dissacrazione
della persona, la responsabilità delle macchine, la violazione della
natura. Ciò che è moderno non coincide più con ciò che è umano51.
Non solo. Gli anni Venti e Trenta rappresentano, per la prima volta,
un’epoca in cui va in crisi l’idea stessa di modernità, di progresso.
Crolla l’ideale positivista legato allo sviluppo industriale che
sembrava garantire alla società una prosperità illimitata nello spazio
e nel tempo. Il moderno inizia a fare paura. Il linguaggio delle
possibili utopie fiduciose nella tecnica e nel progresso prendeva a
ripiegarsi sulle nostalgie verso quei valori e quelle radici che paiono
abbandonati. Dopo la grande guerra, e dopo la rivoluzione d’ottobre,
cominciò a farsi sempre più largo la sensazione che contro l’anarchia
e la disgregazione dei vecchi assetti sociali e delle vecchie gerarchie
politiche e morali fosse ormai quasi impossibile trovare adeguate
contromisure che proteggessero l’esistente e addomesticassero il
“nuovo che avanzava”, fascinoso e minaccioso al tempo stesso.
3. Mistica fascista
50
F. Tonnies, Comunità e società, 1979
51
P. Rossi, Naufragi senza spettatori. L’idea di progresso, 1995, p. 94
36
conto suo, senza dare fastidio a nessuno, e veniva in città, soprattutto
ad ammassarsi nei quartieri operai, a fare gli scioperati, o i
disoccupati. E magari pure a bere nelle osterie, finendo per parlare di
politica. “Altro che urbanesimo” disse in sostanza Mussolini, “tutti in
campagna” e fece pure chiudere le osterie. Venticinquemila in tutta
Italia. E in quelle poche che restarono aperte fece attaccare un
cartello con tanto di marca da bollo: “Qui non si parla di politica”52.
Un discorso che, come si è visto, si inserisce nel mutato clima
culturale e psicologico dell’Europa a cavallo tra guerre mondiali e
totalitarismi. Quando la presunta razionalità delle élite al potere
viene fagocitata dall’irrazionalità delle masse guidate da élite escluse
dal potere. La diffusione dell’igienismo sociale – ovvero la
“ripulitura” delle sacche di marginalità, povertà, devianza rispetto
all’ordine costituito – quale presunto rimedio all’enorme, e a tratti
incontrollabile, crescita di molti centri urbani costituiva un segnale
in tal senso53.
52
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 29
53
G. Zucconi, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti 1885-1942,
1989
54
B. Mussolini, Discorso dell’Ascensione, 1927
37
affermava con forza un principio che ribadirà più volte negli anni
successivi: il numero è forza, politica e militare, ossia una nazione
occupa un posto di rilievo nel consesso internazionale anche in
misura della quantità di popolazione, possibilmente giovane e sana,
che la abita. Passando in rassegna gli indici di natalità e mortalità dei
vari paesi confinanti, si soffermava allarmato sulla situazione
italiana. Questa non era ancora disperata né irrecuperabile, ma vi
erano a suo avviso sintomi preoccupanti che andavano affrontati.
Molte regioni d’Italia erano scese al di sotto del 27 per mille, per quel
che riguardava l’indice di natalità. Tra quelle positivamente in
controtendenza, spiccava la Basilicata, una delle regioni più povere
del Paese ma al contempo una delle più prolifiche, ed era
quest’ultimo aspetto ad entusiasmare il Duce. Il quale poneva come
traguardo demografico per la metà del secolo quello dei sessanta
milioni di abitanti. La causa principale del decremento demografico
in atto, apparentemente inarrestabile, era individuata chiaramente e
senza ombra di dubbi nell’urbanesimo. Affermava Mussolini nel suo
discorso alla Camera: «Ma voi credete che, quando parlo della
ruralizzazione dell’Italia, io ne parli per amore delle belle frasi che
detesto? Ma no! Io sono il clinico che non trascura i sintomi e questi
sono sintomi che ci devono fare seriamente riflettere. E a che cosa
conducono queste considerazioni? 1) Che l’urbanesimo industriale
porta alla sterilità le popolazioni. 2) Che altrettanto fa la piccola
proprietà rurale. Aggiungete a queste due cause di ordine economico
la infinita vigliaccheria morale delle classi cosiddette superiori della
società. Se si diminuisce, signori, non si fa l’impero, si diventa una
colonia […]. Vi spiegherete quindi che io aiuti l’agricoltura, che mi
proclami rurale; vi spiegherete che io non voglia industrie intorno a
Roma; vi spiegherete quindi come io non ammetta in Italia che le
industrie sane, le quali industrie sane sono quelle che trovano da
lavorare nell’agricoltura e nel mare»55.
55
Ivi, p. 23
38
legislazione pro-natalista varata dal regime, si dava abbastanza per
scontato il nesso automatico, come di causa-effetto, tra urbanesimo e
denatalità. In realtà la letteratura precedente, e diciamo meno
irreggimentata, nonché molti studi più recenti, confermano come
non in tutti i casi esista un collegamento così meccanico tra
urbanizzazione e decremento della natalità, tra crescita urbana e
limitazione volontaria delle nascite. Il ruolo che la città assume nel
processo di modificazione dei comportamenti demografici non è
legato infatti agli effetti meccanici dell’inurbamento ma dipende da
un delicato intreccio tra mobilità, età media della popolazione,
speranza di vita, riduzione della fecondità. Indubbiamente il livello di
reddito, i livelli sociali e culturali, hanno generalmente una
correlazione negativa con il livello di fertilità. Chi studia di più e chi
guadagna meglio spesso poi fa meno figli. Ma è sbagliato pensare che
il trasferirsi tutti in città, finché non sia provocato o accompagnato
da un adeguato sviluppo produttivo, comporti repentini cambiamenti
per le masse, né della situazione economica né della collocazione
sociale, né tantomeno della mentalità e delle consuetudini familiari.
Per esempio, dove ci sono più giovani, e comunque un maggior
numero di soggetti in età attiva, i tassi di natalità saranno comunque
più alti, indipendentemente dal trovarsi in città o in campagna 56.
Tuttavia questo ragionamento può valere nella primissima fase
dell’inurbamento, che pressappoco era quella in cui ci si trovava sul
finire degli anni Venti, mentre Mussolini pronunciava il suo famoso
discorso dell’Ascensione. In realtà gli effetti all’epoca temuti si
sarebbero poi realmente verificati nel medio-lungo termine.
Per alcuni studiosi l’antiurbanesimo fascista sarebbe da intendersi
come un capitolo della più generale politica demografica e pro-
natalista lanciata da Mussolini in quella fase del regime. In altre
parole, politica antiurbana sarebbe un modo diverso per dire politica
antimigratoria. “Tutti in campagna” continuavano a ripetersi, “questa
è la vera mistica fascista”. Ma il più delle volte la gente, lì in
campagna, ce la tenevano con la forza, anche se continuava a
scappare da tutte le parti verso le città57. Dovevano costruire l’uomo
nuovo – secondo la mistica fascista – e lo dovevano fare con le buone
o con le cattive. Per spostarsi da campagna e città e viceversa in
alcuni casi ci voleva l’autorizzazione, una specie di passaporto.
56
D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in
“Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, p. 5
57
A. Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, 1976
39
A tale proposito, nel dicembre 1928 viene varato un disegno di legge
contro l’urbanesimo. Il provvedimento scaturiva dalla necessità di
dare una risposta al progressivo aumento della popolazione residente
nei centri urbani, e per comprovarlo si faceva notare che nei soli 92
capoluoghi di provincia vivevano ben 10 milioni di individui, pari al
25% della popolazione nazionale. I pericoli venivano indicati
soprattutto nella corruzione della “sanità fisica e morale della stirpe”.
Senza varare regole assolute, si concedeva ai Prefetti la facoltà di
emanare ordinanze sul numero e sugli spostamenti migratori interni
della popolazione. L’approccio generico del provvedimento, che
aveva più che altro natura di “monito” o “richiamo”, è dovuto anche
al fatto che non vi fu in generale un’accoglienza favorevole. Negli
ambienti industriali si ebbero reazioni negative, seppur mascherate
da semplice cautela e perplessità. Il fatto che riuscissero a filtrare
persino la stampa ufficiale del regime induce a pensare che l’entità
del disagio alla base di queste reazioni critiche fosse consistente.
Diffuso era il timore che si potessero ingabbiare movimenti di uomini
e cose che avevano un’utilità sia sotto il profilo economico-
industriale sia sotto il profilo politico del prestigio di governare città
in crescita58.
Senz’altro non si può ignorare il momento storico in cui la campagna
contro le grandi città e l’urbanesimo fu lanciata. Si era in piena “crisi
da rivalutazione della moneta” e l’appello reiterato dalla propaganda
alla “ruralità” era anche un tentativo di alleggerimento delle
conseguenze negative del processo deflattivo (dall’aumento del costo
di produzione alla disoccupazione, specie nel Sud). Protezionismo,
interventismo statale e concentrazione industriale: erano queste le
grandi linee di una strategia che mirava a stabilizzare – gli operai
nelle fabbriche, i contadini nei campi e i disoccupati nei cantieri – la
società italiana. E c’era un’altra questione aperta: quella del rapporto
con la borghesia. È chiaro che alla lenta urbanizzazione dell’Italia
corrisponde – pari pari – una lenta formazione di una matura classe
borghese, come avviene nelle altre nazioni europee.
Dietro la proclamazione dell’antiurbanesimo c’erano anche
motivazioni di ordine pubblico, legate al controllo del territorio ai
movimenti della popolazione che vi risiedeva. Ciò che più si temeva,
negli ambienti di regime, era che una crescita senza freni delle città,
58
D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in
“Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, pp. 11-12
40
soprattutto se dovuta allo sviluppo industriale, avrebbe comportato
la perdita di un controllo politico e sociale del territorio che il
fascismo faticosamente andava costruendo. Mussolini si fidava delle
masse rurali, secondo lui ancora da “fascistizzare”, ma guardava con
immutato sospetto la popolazione di città, e ancor più quella
proletaria, che sentiva, a pelle, irriducibilmente aliena.
59
Ivi, p. 5
60
B. Mussolini, Discorso dell’Ascensione, 1927
61
O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, 1981, p. 634
41
germanica si può vedere la recensione che Mussolini dedicò nel 1928
al libro di Richard Korherr, Regresso delle nascite: morte dei popoli,
e che poi uscì come prefazione alla traduzione italiana. «La metropoli
cresce attirando verso di sé la popolazione della campagna – scriveva
Mussolini – la quale però appena inurbata diventa al pari della
preesistente popolazione infeconda. Si fa il deserto nei campi; ma
quando il deserto estende le sue plaghe abbandonate e bruciate la
metropoli è presa alla gola: né i suoi commerci, né le sue industrie né
i suoi oceani di pietre e di cemento armato possono ristabilire
l’equilibrio irreparabilmente spezzato: è la catastrofe»62. Sul finire
degli anni Venti il pensiero politico di Mussolini si impregnò di molti
di questi temi e umori, e dalla cultura tedesca il Duce del fascismo
trasse non pochi elementi per alimentare la propria visione della
società contemporanea e dell’intera storia mondiale. Tra questi,
l’avversione alla metropoli e, in generale, alla civiltà urbana e
industriale63. Non si trattò certamente di un trapianto di idee
interamente nuove, quanto semmai della conferma autorevole di tesi
e concezioni che Mussolini già si era formato autonomamente,
seguendo un proprio percorso in cui avevano influito sia l’origine
provinciale e piccolo-borghese sia il tipo di socialismo assorbito in
gioventù, nonché altre letture giovanili, da Nietzche a Gustave Le
Bon, il quale gli sarà utile nel fornirgli alibi teorici indicandogli la
strada per penetrare “l’anima delle folle”64.
62
B. Mussolini in R. Korherr, Regresso delle nascite: morte dei popoli, 1928, pp. 209-
216
63
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp. 73-85
64
G. Le Bon, Psicologia delle folle, 2004
65
R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1926-1936, 1974, pp. 303-304
42
“Fascismo e antiurbanesimo”, pubblicata dalla rivista Storia e futuro,
si trovano molti materiali che ricostruiscono questo rapporto 66. In
un’editoriale sul Popolo d’Italia del 29 dicembre 1928, dunque a
pochi giorni di distanza dalla promulgazione della prima legge anti-
urbana, Arnaldo precisava i termini entro i quali si muoveva la
politica ruralista del governo fascista: definiva «pericolosi e
denigratori» gli attacchi di quegli «ultramoderni intenti a dimostrare
che la politica rurale è un regresso nella vita civile», un modo per
«arenare nei campi il corso della modernità». Invece «noi ci
chiediamo prima di tutto: le città che sono affollate in modo
inverosimile nel dopoguerra, che cosa hanno guadagnato in fatto di
civiltà e che cosa hanno acquisito per la storia?»67. Arnaldo cita i
sobborghi malfamati di Londra, New York e le sue “follie
borsistiche”, Parigi città regina della “corruzione dei costumi”,
Berlino affogata nel “cemento armato”, Mosca e la sua “miseria”,
Vienna ancora città dei “divertimenti” anche se ormai priva del suo
impero. In generale, quindi, da «queste capitali non viene dunque la
luce per il genere umano», afferma Arnaldo. Insomma, «non è detto
che l’agglomerato affini la sensibilità e migliori la razza, è vero
precisamente il contrario». Come si vede però, il fratello del Duce
faceva riferimento alle metropoli, alle «città giganti, piene di esigenze
materiali, di null’altro perplesse e preoccupate che di uno sciopero
dei trasporti, di una epidemia infettiva, della mancanza di
approvvigionamenti». È in questo tipo di città che «la vita diventa
arida, il carattere dei più si fa nevrastenico»68. L’alternativa non era
però individuata nel ripudio di qualsiasi centro urbano e nella fuga
indiscriminata dalle città.
Significativa conferma in tal senso è una lettera che Arnaldo scrive al
fratello il 10 maggio 1927, dunque poche settimane prima del
discorso dell’Ascensione. Relazionando sulla situazione fascista
milanese, che languiva per leadership e iniziative, Arnaldo osserva:
«Certamente, se qui non si prende quota, entro dieci anni Milano
sarà un grosso borgo e per moltissime ragioni – soprattutto di forze
economiche – ciò sarebbe gran male ed è un gravissimo errore non
66
D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in
“Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005
67
A. Mussolini, La città, in “Il Popolo d’Italia”, 29 dicembre 1928
68
Ibidem
43
cercare di evitarlo. Non dimentichiamo che Milano concorre per la
sesta parte a formare il bilancio dello Stato»69.
69
D. Susmel (a cura di), Carteggio Arnaldo-Benito Mussolini, 1954, p.85
70
D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in
“Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, p. 7
71
A. Mussolini, La città, in “Il Popolo d’Italia”, 29 dicembre 1928
44
modello di società vagheggiato dai due Mussolini era una campagna
che sapesse trasmettere alla città uno stile di vita austero, sobrio,
incline al rispetto delle gerarchie sociali e delle tradizioni culturali. In
linea con quelli che effettivamente furono i provvedimenti di legge
del regime, l’idea di fondo dello studioso fratello del dittatore era che
la distribuzione della popolazione non mutasse, se non nel senso di
un ripopolamento di certe zone su cui incombeva una vera e propria
emorragia demografica, come quelle montane. Sia Arnaldo che
Benito nutrivano una visione del rapporto città-campagna non molto
diversa dalla teoria corporativa che sosteneva l’articolazione di una
società si base gerarchica e funzionalista. Non a caso, quindi,
rimandava ad una divisione dei ruoli: città del mare, città
dell’interno. Negli anni Trenta, con il varo delle cosiddette “città
nuove” e delle “città autarchiche”, si assisterà allo sviluppo di questa
visione “corporativistica” dell’insediamento umano sul territorio
nazionale.
72
D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in
“Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, pp. 14-15
45
Belle cose! Ma esse ti invitano a sprecare danaro che invece tu sai
risparmiare per comprarti il pezzo di terra e la casetta; essi ti
corrompono l’animo, ti tolgono la serenità e i tuoi sonni tranquilli e
riposanti, e le gioie pure della tua famiglia… La maggior paga che
prendi ti va tutta appunto in quelli che ti sembrano i nuovi comodi e
gli ambiti divertimenti; ti va nelle maggiori pigioni che paghi per
abitare un quarto piano in piccole stanze dove i tuoi figlioli cercano
invano lo spazio per correre, e l’erba, le piante per giocare; ti va nel
maggiorato prezzo cui sei costretto a pagare ogni più modesto
ortaggio e ogni altro cibo. Fa conto, e a fine anno ti troverai con
minori avanzi e con minor salute. E penserai con nostalgia ai tuoi
campi, alla vita libera, all’aria sana, e rimpiangerai di aver lasciato la
tua dimora della campagna semplice, l’aria di pace e di tranquillità…
Contadino, non lasciarti sedurre da false teorie. Tieniti alla tua terra,
buona madre di tutti»73.
Insomma, Marescalchi pretendeva di dire al contadino quale fosse e
dovesse essere la “giusta aspirazione”, coltivata da “mille e mille
anni”: «diventare padrone di un pezzo di terra e di una casetta che
serva a sostentare e ad albergare la tua famiglia»74. Nonostante siano
passati già cento anni dalla rivoluzione industriale e la cultura
disponga di una considerevole mole di studi su questo fenomeno, in
Italia l’uomo che si “inurba” è paragonato a una stupida farfalla,
abbagliata dalla luce sfolgorante della città, e che in quella luce
rischia di bruciarsi le ali. La politica governativa di
“sbracciantizzazione”, lanciata nel 1929, assecondava questa visione
del mondo, cercando di aumentare la stabilità sociale nelle campagne
mediante l’aumento del numero dei mezzadri, dei coloni parziari e
dei compartecipanti.
73
A. Marescalchi, Una parola amica al contadino, in “Il Traguardo”, 1930
74
Ibidem
46
agli effetti della crisi monetaria internazionale sempre più acuta.
Ognuno di questi elementi spingeva verso una grossa scelta che
orientasse l’attenzione comune; e la scelta fu quasi condizionata:
ruralità. Oppure, pragmaticamente: urbanizzazione rurale. È a
questo punto che Mussolini sente il bisogno concreto di una maglia
culturale e teorica che leghi le sue operazioni mostrandole come parti
di un unico insieme. Una missione che contribuisca a celebrare
presso un’opinione pubblica esacerbata le virtù taumaturgiche del
capo del regime. Così lui tenta di coinvolgere ogni alta gerarchia dello
Stato nel suo disegno per la grande bonifica. Scrive più volte al
ministero del Tesoro chiedendo aiuti e disponibilità finanziarie,
riceve esperti agrari e ingegneri idraulici. Di città il regime non ne
voleva sapere, eppure ora si mette a fondarle.
4. Bonifiche e borghi
75
J.W. Goethe, Viaggio in Italia, 2006, p. 136
76
M. Rossi Doria (a cura di), Le bonifiche in Italia dal ‘700 a oggi, 1984
47
penisola, soprattutto al Nord ma anche nel pontino. L’ideologia alla
base di questi interventi era in linea con quella dei precedenti governi
di matrice liberale: modernizzare e bonificare le terre, coi soldi dello
Stato, per poi darle ai privati che le potessero far fruttare. Tra la fine
degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, una volta trovati fondi
economici sufficienti e consolidata la politica del regime,
l’impostazione ideologica cambia radicalmente. Quel che occorre non
è solo la bonifica e lo sfruttamento proprietario dei terreni, ma un
piano sociale e politico di ruralizzazione che coinvolga le masse
agricole e i contadini. Non basta solo bonificare, a vantaggio di
latifondisti e capitalisti, bensì ruralizzare, anche al fine di realizzare
una vera e propria redistribuzione delle terre. E i maggiori sforzi si
concentrano sulle paludi pontine a sud di Roma. Nel febbraio 1931
Mussolini mette l’operazione Agro Pontino nelle mani dell’Opera
Nazionale Combattenti comandata dal conte Valentino Orsolini
Cencelli, e lì ha inizio la seconda fase. Cencelli entra in campo con la
frusta: deve bonificare e dare le terre ai contadini, la “ruralizzazione”
che ha ordinato il Duce. La bonifica idraulica rimane formalmente
competenza degli appositi Consorzi, che l’avevano avviata in quelle
zone fin dal 1926. All’Onc tocca invece carta bianca per realizzare la
bonifica agraria, la trasformazione fondiaria, la colonizzazione e la
messa in coltura e in valore di tutti i terreni. Già nel 1928 il governo
aveva cambiato decisamente l’impostazione della bonifica: da un
accordo coi privati latifondisti a un approccio decisamente statalista.
Tutti i terreni improduttivi o abbandonati furono espropriati di circa
due terzi, in alcuni casi superando le resistenze dei proprietari, alcuni
restii alla bonifica. Da secoli i terreni paludosi-malarici pontini erano
proprietà di importanti famiglie nobiliari romane, in particolare i
Caetani. Le paludi, senza toccarle né vederle, davano loro comunque
una discreta rendita, grazie ai mercanti di campagna e ai diritti di
pascolo. Dal suo arrivo l’Onc diventa nell’Agro Pontino il braccio
armato della ruralizzazione: accelerazione dei lavori, espropri e
appoderamenti a rotta di collo su 70mila ettari, frazionati in unità
produttive di estensione medio-piccola con promessa di vendita ai
coloni che già sono pronti ad arrivare da altre zone del Paese77. Ma
questo cambio di marcia non fu una decisione unanimemente
accettata e applaudita. Tutt’altro. Le polemiche e le resistenze interne
allo stesso regime e al blocco di interessi socio-economici che lo
sosteneva furono moltissime e feroci. Al di là delle lotte di potere
77
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, pp. 216-220
48
sottotraccia, lo scontro vedeva in campo da una parte il blocco
agrario e i consorzi dei proprietari, stretti attorno al Ministero
dell’Agricoltura, favorevoli a una capitalizzazione dei terreni
bonificati a vantaggio dei grandi possidenti fondiari, dall’altra parte
l’Onc di Cencelli che perseguiva un obiettivo politico di
modellizzazione sociale delle terre bonificate attraverso
l’assegnazione di queste a contadini e piccoli proprietari ex novo, da
una mano statale. La linea dell’Onc fu quella che si impose in buona
parte della bonifica pontina – sotto la già esaminata parola d’ordine
di “ruralizzazione” – determinando la particolarità di questo
“esperimento sociale di regime”78. I “segni urbani” costituiti dai
borghi, dai poderi, dal reticolo delle strade poderali e dalle città,
testimoniano questa lotta tra opposte visioni. Talmente che il
“fasciocomunista” scrittore Antonio Pennacchi può arrivare a
sostenere – con un’equazione che a taluni apparirà spericolata – che
«quello avrà pure fatto le guerre, ma togliere la terra ai grandi
proprietari e darla ai contadini è una riforma di struttura
marxianamente intesa, è rivoluzione. Qui l’hanno fatta»79.
C’è qualche storico che sostiene che solo uno Stato forte, quale era
indiscutibilmente il regime fascista all’apice del suo dominio, poteva
essere in grado di bonificare le paludi pontine, sia per gli enormi
interessi che si andavano a toccare, sia per gli ancor più enormi
sacrifici umani che si andavano ad imporre: masse di operai
bonificatori e, dopo, di coloni, sottoposte a migrazioni, malaria, duro
lavoro e stenti. Con problemi, oltretutto, di governabilità di questi
flussi e di vero e proprio ordine pubblico. Eppure c’è un fatto storico
su cui quasi tutti concordano: ed è quel certo pressapochismo ed
improvvisazione che avrebbe caratterizzato gli interventi messi in
atto. In particolare sarebbe mancata la pianificazione generale
dell’urbanizzazione di questo territorio, sarebbe mancato a priori un
modello progettuale compiuto, determinando nei fatti gravi guasti e
diseconomie80. Riassume infatti Pennacchi, nei panni un po’ dello
scrittore un po’ dello storico: «Si sarebbe andati avanti dalla sera alla
mattina. Mo’ intanto leviamo l’acqua e poi si vede; anzi, mo’ facciamo
i borghi; anzi no: facciamo una città, Littoria; ma perché solo una?
Fàmone un’altra, Sabaudia; anzi un’altra ancora, Pontinia, e via di
78
Ivi, pp. 265-266
79
Ivi, p. 220
80
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 69
49
questo passo»81. A pensarci bene emerge sempre una delle tipiche
attitudini nazionali: a proclami roboanti seguono realizzazioni
confuse o quantomeno rassicuranti. Non è importante cosa proponi,
se vincere la partita, o se prometti un milione di posti di lavoro, o se
vuoi bonificare una palude, e nemmeno è importante se riesci a
raggiungere il tuo obiettivo, quello che importa è la strada che scegli,
la proclamazione dei tuoi intenti. Tuttavia se si tratta di analizzare un
fenomeno va tenuto conto che una cosa sono i dati di fatto, altra cosa
sono i giudizi storici. Il giudizio storico è un’altra cosa: è la
“comprensione” del fatto, l’individuazione degli elementi e delle
dinamiche che lo hanno prodotto, la sua contestualizzazione e la sua
comparazione a quanto, eventualmente, nelle stesse condizioni è
stato fatto altrove. Dunque, nonostante le frenate e le accelerazioni,
quello dell’Agro Pontino lo si può definire come un progetto con una
sua coerenza storica, geo-fisica e sociale, figlia del regime fascista ma
allo stesso tempo perfettamente in linea con molti filoni culturali di
quello che potremmo chiamare il paesaggio anti-urbano dell’Italia.
81
Ivi, p. 201
82
L. Nuti, R. Martinelli, Le città di Strapaese. La politica di fondazione del Ventennio,
1981, p. 27
50
Strade, ponti, canali, case coloniche, appezzamenti, dissodamenti,
dicioccamenti, porcili, magazzini, migliaia di operai “pionieri” in
baraccamenti di legno. Una selva di poderi spuntava giorno dopo
giorno, come funghi. Nel mezzo bisognava tirare su i primi
embrionali centri di urbanizzazione: i borghi. Inizialmente i borghi
dell’Agro Pontino – Borgo Faiti, San Michele, Isonzo, Grappa,
Sabotino, Bainsizza, Montello, Podgora, Piave, Carso – sono solo
centri di servizio. Non li hanno concepiti gli architetti, ma i tecnici
dell’Onc. Sono centri di servizio collocati all’interno della maglia di
terreni e poderi in cui è stato diviso l’Agro appena bonificato,
affinché possano essere facilmente raggiunti dai coloni in bicicletta o
coi carri, ma anche a piedi, da una distanza massima di 3-4
chilometri. Non hanno la minima presunzione o idea – ancora – di
una qualsivoglia forma urbis. Sono prevalentemente collocati
all’incrocio di strade e sorgono, spesso, sullo stesso sito che aveva
ospitato i “villaggi operai”, ovvero i baraccamenti che avevano dato
asilo alle migliaia di operai utilizzati per i lavori di scavo dei canali e
bonifica idraulica. Ci sono quattro case in tutto: la chiesa, la
canonica, la dispensa (una specie di bottega generica dove trovare dai
farmaci di base ai generi alimentari fino alle attrezzature agricole e di
ferramenta), l’ambulatorio, la sede e i magazzini dell’Opera. In alcuni
casi c’è anche la caserma dei carabinieri. Ma fin dall’arrivo dei coloni
arrivano, al seguito stesso, commercianti privati ed artigiani che
aprono nei borghi osterie, botteghe di fabbro e tutto quello che
serve83. Così i borghi diventano in breve tempo parte essenziale e
fondante del paesaggio urbano pontino. Non è il caso di mettersi ad
approfondire se nel mezzo di questa opera fascistissima c’entrerà
qualcosa il modello “prassi-teoria-prassi” tanto caro al leninismo, ma
c’è da dire che l’Onc dimostra un notevole pragmatismo pratico e
teorico – seppure fedele a una matrice ideologica e urbana fondante
– nelle sue realizzazioni in terra pontina. Nei borghi si vanno
aggiungendo edifici come la Chiesa, la Casa del Fascio, il campo
sportivo, l’ufficio postale, il cinema, gli spazi per il dopolavoro.
Inoltre tutti sono serviti di energia elettrica, fognature, acqua
potabile. Il cambio di direzione è suggellato anche da un imprimatur
chiaramente politico: così, su impulso dell’Onc, tutti i vecchi borghi
vengono ribattezzati con nomi che onorino i gloriosi fatti della
Grande Guerra del ‘15/’18. Così negli anni seguenti, in particolare tra
83
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 138
51
il 1933 e il 1935 sorge una seconda generazione di borghi – Borgo
Pasubio, Montello, Vodice, Hermada, Montenero, il secondo Carso
eccetera – concepita in maniera più articolata. L’architettura degli
edifici è riconducibile a uno stile rurale ma ormai moderno, «né
ruraleggiante né tardofloreale come la prima generazione, è un rurale
razionale, anche se non razionalista. Punta all’efficacia e
all’efficienza; è roba di campagna, con la copertura a tetto, a capriate
di legno e senza decorazioni, ma deve essere fatta bene e deve
funzionare»84. C’è infine tutto quello che serve perché la comunità
che vi gravita attorno possa farne il fulcro e lo snodo di tutte le sue
relazioni: economiche, sociali, sanitarie, interpersonali e di
intrattenimento, civili e religiose, affettive e politiche ma sempre
sotto la rigida cappa autoritaria del regime. Insomma emerge in
maniera sempre più scientifica un “problema-città”, il quale – per
dirla con Pierotti, «esiste quando la creazione di un nuovo
insediamento ha come scopo esclusivo o prevalente la costituzione di
un nuovo organismo urbano, pensato nelle sue esclusive articolazioni
costruttive e funzionali»85.
5. Littoria
52
dalle province di Rovigo, Padova, Treviso, Verona e Vicenza86.
L’appoderamento venne fatto sulla base di un’unità poderale media
di 20 ettari, ma tenendo conto della diversa fertilità dei terreni. Su un
lato perimetrale era collocato il casale, fornito di stalla, pozzo, fienili,
forno, concimaia, locali di abitazione su due piani. Questi poderi
erano posti a coppia, sulla strada, e ogni 250 metri, mediamente, ce
n’era una coppia87. In ogni podere era sistemata una sola famiglia
colonica. Questa infrastruttura in cui si privilegiava il modello
“individuale”, cioè basato su una gestione familiare, comportò una
spesa sensibilmente maggiore da parte dell’Onc ma fu preferita
perché meglio rispondente al criterio generale dell’operazione
“bonifica”: legare alla terra, alla piccola proprietà, un discreto
numero di diseredati, e al contempo quello di evitare il più possibile
rapporti stretti tra famiglie. Arrivano col contratto a mezzadria, ma il
Duce aveva formalmente promesso che col tempo sarebbero
diventati proprietari del loro podere. Questa è la ruralizzazione che
lui vuole: costruzione di una nuova classe di contadini piccoli
proprietari (ed anche ex combattenti) che sia la base sociale granitica
– lo “zoccolo duro” – del fascismo. Una vera e propria opera di
costruzione, anzi potremmo dire di eugenetica, sociale. Come scrive
Mariani, nel suo Fascismo e città nuove, «la campagna, sanata
dall’insidia dei conflitti di classe, si realizza come il polo positivo in
opposizione alla città e alla fabbrica, che sono invece le sedi nelle
quali si forma e si riproduce la tensione sociale. La prolificità, la
laboriosità, la vita “sana” che sarebbero state tipiche del mondo
contadino diventano capisaldi del progetto fascista di
riorganizzazione della nazione»88. Perfino i gatti furono
certosinamente importati: nelle paludi in via di bonifica era pieno di
topi, così fecero arrivare un paio di camion da Roma, riempiti di gatti
presi al laccio tra il Pantheon e i Fori, tra le gattare che urlavano
contrariate, e li liberarono lì, a Borgo Grappa89. I primi tempi non
furono affatto facili: alcuni coloni furono ricacciati indietro perché
ritenuti incapaci o disturbatori, molti di loro non avevano la
necessaria cultura agraria, altri pativano la scarsa produttività di
molti terreni appena bonificati, qualcuno addirittura azzardò degli
86
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 157
87
L. Nuti, R. Martinelli, Le città di Strapaese. La politica di fondazione del Ventennio,
1981, pp. 28-29
88
Mariani, Fascismo e città nuove, pag. 82
89
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 220
53
scioperi. Ma il sistema di controllo autoritario e la stessa immagine
politica del regime non potevano permettere di sgarrare.
90
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp. 141-142
91
Ivi, p. 141
92
Ivi, p. 90
54
Nel giro di sei mesi, il 18 dicembre 1932, Mussolini viene ad
inaugurare Littoria, la prima “città nuova” sorta nella zona delle ex
paludi. In quella occasione preannuncia la costruzione di altre 4500
case da aggiungere alle 500 esistenti e un aumento fino a 40-50mila
abitanti, che si aggiungeranno ai 10mila presenti. Agli occhi di quelli
che arrivavano ad abitarci o solo a rimirarla Littoria si presentava
con i tipici canoni dell’architettura razionalista allora in voga. Senza
orpelli estetici ma anche senza le grandiosità che poi si vedranno, per
esempio, nella cittadella romana dell’Eur. La forma della città era
ottagonale, con vie che si snodano attorno alle due piazze centrali,
quelle ora chiamate piazza del Popolo e piazza della Libertà. Una
rigorosità architettonica che, qui come altrove, sarà ingoiata
dall’espansione informe e a macchia d’olio del boom edilizio del
secondo dopoguerra, senza alcun ordine.
Quanta gente abitava e poi abiterà nella prima città nuova di regime?
Gli abitanti il giorno dell’inaugurazione sono 6.308 (oltre a 11.492
temporanei) e si prevedeva che sarebbero aumentati a 15mila circa
l’anno successivo, con l’estensione della bonifica e la costruzione di
nuove case. Nel 1934 Littoria viene elevata a capoluogo della nuova
provincia, l’anno successivo la previsione del numero di abitanti è
portata a 50mila, l’area urbana a 170 ettari di cui 150 per la
residenza. Al censimento del 1936 la popolazione residente assomma
a 19.654 unità. Da allora rimarrà pressoché stazionaria, e solo dopo
la guerra l’incremento riprenderà, specialmente alla fine degli anni
Cinquanta (nel 1951 i residenti saranno 35.187), e poi in maniera
sempre costante (all’ultimo censimento, datato 2001, risulta una
popolazione di 107.898 abitanti). Ma Littoria, ormai ribattezzata
Latina, dopo la guerra è diventata nel frattempo un centro per
l’industria leggera. Lo sfasciarsi della struttura agraria, e il
cambiamento funzionale con il connesso boom edilizio hanno reso
pressoché irriconoscibile perfino il centro cittadino93.
Alla fondazione della città, i primi abitanti furono immigrati italiani
originari del nord-est dell’Italia, come nei borghi del territorio
pontino e nei comuni limitrofi istituiti con la bonifica,
principalmente coloni dell’Onc. Combattenti ed artigiani, che diedero
vita a quella che si chiama “comunità veneto-pontina”. Accanto ad
93
V. Cotesta, Modernità e tradizione. Integrazione sociale e identità culturale in una
città nuova. Il caso Latina, Milano, 1988
55
essi inoltre la città di Latina vide presenti fin dal primo popolamento
anche contributi da altre regioni d'Italia, soprattutto dal Lazio
(principalmente da Roma e dalla adiacente area Lepina), dalle
Marche e dall'Umbria, i cui emigrati furono addetti perlopiù
all'artigianato, alla prima debole industria, al settore impiegatizio ed
a ruoli vari negli enti pubblici e della bonifica e della colonizzazione.
A partire dal dopoguerra, il crescente sviluppo industriale (dovuto
anche, in seguito, ai finanziamenti erogati dalla Cassa del
Mezzogiorno) finirà per attrarre persone e famiglie da tutta Italia, in
gran parte meridionale: dal resto della provincia (anche dal sud-
pontino), dalla Ciociaria, da Roma, dalla Campania, dalla Sicilia.
Inoltre l'operatività, fino agli anni '60 e '70, di un grande centro di
smistamento profughi nazionale porterà alla costituzione, in città, di
consistenti presenze di esuli dalmati e giuliani, nonché di espulsi
italiani dall'Algeria e dall'Egitto e in misura superiore dalla Libia.
Poi, dagli anni '90, saranno presenti anche qui diverse comunità di
immigrati: in particolare vi saranno indiani, pakistani, nordafricani
impiegati prevalentemente in piccole attività commerciali e come
operai nelle industrie; rumeni, polacchi e moldavi (che formano la
comunità più numerosa) impiegati soprattutto nell'edilizia e
nell'assistenza agli anziani; infine persone originarie dell'Africa
subsahariana e dell'area del Golfo di Guinea, impiegate nel settore
agricolo.
L’evoluzione, ovviamente, è stata anche linguistica: la varietà di
contributi alla parlata locale è stata piuttosto ampia e ha subito varie
modificazioni nel corso dei decenni. Le originali parlate
settentrionali (veneto, friulano e emiliano) dei primi abitanti del ceto
contadino ed artigiano sono sostanzialmente scomparse nella città
ma sopravvivono, anche se debolmente, nei borghi, o a livello
familiare. Al contrario il romanesco, presente dalla fondazione nel
solo capoluogo, e dovuto alla principale provenienza del ceto
dirigenziale e impiegatizio della nuova città, ha avuto una prima
espansione nel dopoguerra e una seconda, più forte, negli anni
Settanta, a seguito della quale è divenuto la parlata comune della
città94.
94
Aa. Vv., Latina, in it.wikipedia.org
56
“cerimonie e reliquiari di altri tempi”. Negli anni a venire, in tempi
celeri, sarebbero venute Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia. La
notizia fece fracasso dappertutto. Perfino Le Corbusier scrisse al
Duce, e si fece raccomandare dal governo francese, perché gliene
facessero progettare almeno una, pure gratis. Ma non c’è stato
verso95. Si preferì un’architettura autarchica, senza guizzi
d’avanguardia, povera e compilativa, tranne nel caso – esteticamente
più affascinante – di Sabaudia.
Alla fine è stato calcolato che il regime fascista ne costruì circa 150 di
città, tra grandi e piccole, in tutta Italia: Istria, Friuli, Sardegna,
Campania, Puglia, Sicilia, oltre al più famoso Agro Pontino, in soli
dieci anni, dal ’32 al ’43. Generalmente all’interno di piani di
ruralizzazione agraria o industrializzazione specializzata96.
Riconoscibili da qualche costante architettonica, una su tutte: la torre
littoria. Ha cominciato Frezzotti a Littoria, appunto, con la torre del
Comune. Poi Sabaudia, Pontinia e così via, con queste torri più alte
del campanile della chiesa. L’idea, evidentemente, era di ricollegarsi
all’età dei Comuni medievali: la torre municipale, come segno del
potere comunitario e laico, primo su tutti gli altri, pure su quello
religioso. Il segno dello Stato. Una visione estetica e politica che nel
corso dell’evoluzione del regime è destinata a cambiare. Difatti, nelle
“città nuove” degli ultimi anni del regime (ad esempio Carbonia in
Sardegna, anno 1938) le “torri littorie” non sono più le torri
campanarie del Comune ma quelle della Casa del Fascio, sede del
partito unico di regime. Il fascismo si fa Stato etico, corporativo e
centralizzato, e anche l’ideologia urbanistica si radicalizza97.
Alla visione dei posteri l’Agro Pontino passa come una delle prime
esperienze di pianificazione del territorio in Italia, tuttavia solo molto
parzialmente si può considerare sotto questa veste. Si può parlare
infatti di pianificazione idraulica, nel senso che un piano per la
“bonifica idraulica” e il convogliamento delle acque fu realmente
predisposto, ma mancò completamente una pianificazione che
congiungesse razionalmente ogni punto sparso in cui si realizzava
l’intervento. Mancò la previsione del comune di Littoria; dopo averlo
realizzato Mussolini annunciò la costruzione di Pontinia e Sabaudia
senza conoscerne preventivamente l’ubicazione, in seguito nacquero
95
N. Ajello, Le Corbusier e il viaggio in Italia, in “La Repubblica”, 9 dicembre 2007
96
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 31
97
Ivi, p. 34
57
Aprilia e Pomezia, e la scelta della loro localizzazione derivò da un
frettoloso sopralluogo dei tecnici dell’Onc. La medesima cosa vale per
il tratto stradale, che al di là dell’asse di scorrimento centrale,
realizzato per motivi tecnici e secondo vecchi piani precedenti, fu
improntato di volta in volta al seguito della localizzazione dei centri
rurali. Insomma, l’ideologia c’era ma una pianificazione degna di
questo nome non ci fu. Ci fu la volontà di Mussolini che inaugurando
un centro fissava lì per lì la data di inaugurazione di quello
successivo, poco badando se per rispettare i tempi della sua
“pianificazione” le maestranze dovevano lavorare anche di notte e i
podestà incollare le ultime mattonelle dei balconi qualche minuto
prima che arrivasse il Duce. Ma se era possibile anche facendo doppi
turni98.
6. Sentirsi pionieri
98
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 69
99
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 149
100
G. L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, 1982
101
D. Ghirardo, K. Forster, I modelli delle città di fondazione in epoca fascista, in
Storia d’Italia. Annali 8. Insediamenti e territorio, Torino, 1985
58
Chiaramente, il carattere dominante in Agro Pontino è
l’autoritarismo più palese, con il quale vengono imposti tutti i
rapporti tra le alte gerarchie, i coloni e i ceti medi residenti nelle città
nuove. Praticamente si tratta di almeno tre categorie sociali fisse e
assolutamente non comunicanti tra loro: i gerarchi dell’Onc, dei
sindacati, del partito che risiedevano a Roma e raramente a Littoria; i
piccoli funzionari di queste organizzazioni decentrati con le loro
famiglie nelle città nuove; i coloni sparpagliati nei poderi e nei piccoli
borghi. Tra loro – come riporta Mariani nella sua ricerca
sull’argomento – non esiste nessuno scambio sociale, né matrimoni,
né parentele, né occasioni in cui intrecciare una relazione anche
casuale. I rapporti tra funzionari e coloni sono particolarmente
improntati a una profonda diffidenza e intolleranza, alimentate
anche dalla rete di informatori e delatori tipica della vita sotto ogni
regime. «I coloni invidiano la vita dei funzionari, il loro “fare niente”
negli uffici e il loro tenore di vita; i funzionari trovano inconcepibile il
disinteresse del colono per il suo podere e la sua smania
“consumistica”»102. D’altra parte l’Agro Pontino è ormai diventato un
enorme campo di lavoro dove ognuno ha un numero di
riconoscimento e un “lasciapassare per l’interno”, «tutti gli operai
che lavorano nell’Agro Pontino devono essere provvisti di questa
tessera e la mancanza di essa rappresenta un motivo per il
rimpatrio», in più ogni colono è oppurtunatamente schedato in
merito al suo comportamento morale, politico e religioso103.
102
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp.166-167
103
S. Nannini, Le migrazioni e la colonizzazione, in “Le conquiste della terra”,
dicembre 1935, pag. 93
104
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 166
105
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 132
59
certo risulta troppo facile cavarsela dicendo “comunità” e basta. In
realtà sui concetti delimitativi ed i caratteri stessi che andrebbero
rigorosamente riscontrati prima di poter parlare a pieno titolo di
“comunità” gli antropologi e i sociologi non sembrano essersi messi
d’accordo. Per Mia Fuller, un’antropologa americana che nei suoi
studi si interessa proprio di fascismo e colonizzazione, «quando si
dice “comunità”, oggi si intende significare un gruppo che abbia
almeno un tratto in comune; ne basta uno, per esempio “gay”, oppure
“chi ha tale caratteristica genetica. Ovvero queste persone possono
non avere null’altro che le leghi, ma forse hanno o vogliono avere una
presenza politica. Nell’altro caso – quello di un quartiere, di una
cittadina, o di una classe sociale ed economica – c’è la massima
concentrazione di ambiguità, come se la parola “comunità” togliesse
le divisioni interne, le differenze di potere, di opportunità ecc. In
antropologia, grazie a Victor Turner, parliamo anche della
“communitas”, come “sentimento della comunità”, quale hanno ad
esempio i pellegrini che vivono e subiscono assieme il loro
pellegrinaggio. Quindi qualcosa di più limitato ed anche più preciso
nel tempo: esiste per un periodo breve e definito, e fra un gruppo che
è “gruppo” per quella occasione e basta. Poi ci sono le “imagined
communities” di Benedict Anderson che sono le nazioni, e anche
questo è uno strumento utile ma non esaustivo»106.
106
M. Fuller, cit. in A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce,
2009, p. 131
107
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 143
60
sono riusciti a costruirsi da soli i loro spazi comunitari. Sembrerà una
battuta, ma a quei tempi la televisione non esisteva, non era ancora
nata e diventata il nuovo focolare domestico, altrimenti – chissà – la
presunta volontà isolazionista avrebbe avuto lavoro più facile.
Comunque sia, è il morbido potere del vissuto quotidiano che plasma
un territorio e chi lo vive: «L’uomo, – come raccontavano certe
apologetiche cronache di regime – metro per metro, metterà un
ordine familiare e umano, stabilendo le sue consuetudini di vita, il
geranio e la margherita davanti alla casa, e l’aiuola su cui disegna con
la ghiaia bianca le sue scritte di Evviva la Stella e il Fascio»108. Ma
non mancano i momenti di passaggio che hanno formato la
communitas: il “pellegrinaggio” di partenza, quello che li ha portati
dal deserto e dalla miseria delle terre d’origine alla “terra promessa”
del regime, ma anche – una decina d’anni dopo – il passaggio della
guerra per quasi sei mesi, dal gennaio al giugno del 1944, del fronte
Anzio-Nettuno, col suo carico di pene e sofferenze. In alcuni casi,
specialmente in taluni borghi, tracce di queste comunità originarie
rimangono strutturate ancora oggi, mentre nei comuni cittadini il
vortice dello sviluppo economico e dei flussi migratori ha portato una
situazione molto più stratificata.
108
C. Alvaro, Terra nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino, 2008, p. 21
61
scuola, poste, armadio farmaceutico. Tra il centro e i borghi una serie
di unità produttive costituite dai poderi che forniscono la materia
prima, di trasformazione e di scambio. I caratteri fondamentali di
questa “comunità” dovrebbero essere: il lavoro, la moralità, il
numero chiuso, in espansione ma come frutto della comunità stessa,
la mutualità dell’impegno, infatti i coloni devono prestare la loro
opera per interventi che riguardano l’intero nucleo, il recupero
sociale dei componenti “salvati” dalla crisi generata dall’urbanesimo,
un recupero che avviene grazie all’osservanza di rigide regole di vita.
Il momento di massima concentrazione resta il lavoro agricolo, il
ritorno alla “terra”109.
Tentativi di questo tipo non erano inediti, anzi ricordano cose già
avvenute nell’Inghilterra industriale e nell’America di fine Ottocento,
dove però il carattere religioso impregnava quasi tutte le iniziative
del genere. In ogni caso non si ricorda che esperienze simili abbiano
avuto successo. Anche nelle città utopiche di Owen gli operai
fuggivano dopo un po’ di tempo e comunque, se restavano per
convenienza, boicottavano sistematicamente l’apparato che li
ospitava. Nelle Paludi Pontine il caso diventa un po’ più paradossale:
il colono pontino non è come l’operaio di New Lanark, non ha mai
visto né immaginato l’inferno suburbano delle periferie industriali, è
già nato e cresciuto sulla “terra” o al massimo in una delle tante città
rurali italiane, quindi per lui la vita “insana” della città è una
grossissima tentazione e non certo un mostro da evitare. E però il
colono pontino, a differenza dell’operaio di qualche falansterio, non
può fuggire, così quello che gli rimane da fare è agire passivamente o
trascorrere la sua vita per mezzo di espedienti. La propaganda del
regime gli dice che lui sarà l’uomo nuovo della nazione e che da lui
nascerà la nuova razza, ma guardandosi intorno vede più che altro
tipi laceri e miseri come lui, allora quel che rimane da fare è
“reinventarsi” una propria memoria, basata sul senso di identità e su
una gratitudine, quasi “sentimentale” rispetto a quel fascismo che
tutto ciò ha permeato110.
Nel frattempo, le autorità e la propaganda ufficiale continuano a
sostenere che in Agro Pontino si realizza la «prima grande esperienza
in grande stile di un popolamento selezionato, esperienza che non ha
mancato di sollevare gli interessi degli studiosi di eugenetica»111. Solo
che gli studiosi di eugenetica – in quel periodo pericolosamente in
109
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp. 170-173
110
Ivi
62
voga – rimarranno molto delusi dalla riuscita dell’esperimento,
primo perché non ci fu nessuna selezione se non di tipo politico,
secondo perché la prolificità dei coloni appena giunti sul posto ebbe
un brusco arresto112.
111
S. Nannini, Le migrazioni e la colonizzazione, in “Le conquiste della terra”,
dicembre 1935, p. 93
112
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 167
113
F. Le Play, Famiglia e sviluppo sociale, 1981
114
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp. 172 - 173
63
l’estero e ideologico per l’interno. La propaganda del regime
all’interno del Paese si basava su un largo impiego di immagini
fotografiche accuratamente selezionate, presente un’esaltazione
anche fisica del ruolo del capo, ecco Mussolini a mensa con gli
operai, Mussolini a torso nudo che trebbia il grano, Mussolini sul
trattore che traccia il solco del perimetro di Aprilia – poi uno dice il
presidente operaio – il tutto a corredo di centinaia di articoli
ovviamente d’elogio ma sempre molto generici115: mai si trova un
pezzo pertinente sull’architettura delle città nuove, sulla loro
struttura, non diciamo su eventuali difetti dell’organizzazione ma
perlomeno su suggerimenti da parte dei coloni, anzi le famiglie
coloniche sembrano scomparire dall’orizzonte della visibilità, come
mute comparse sulla scena116. A conti fatti, si trattava comunque di
un successo del regime. Pure il socialista Sandro Pertini non si
trattenne dall’ammettere che negli anni Trenta «Mussolini progettò
la bonifica e riuscì a far crescere il grano dove prima c’erano paludi e
malaria. Fu una grande opera, sarebbe disonesto negarlo. Ricordo
che il mio amico Treves era preoccupato: Sandro, mi diceva, se
questo continua così siamo fregati»117. Molta era anche l’attenzione
dell’estero: l’anti-urbanesimo in chiave italiana interessava a molti.
D’altronde il momento coincideva con la fase in cui in tutto il mondo
capitalistico si accentuava la ricerca pratica e teorica su criteri che
fossero una via di mezzo tra liberismo e pianificazione, sulla linea
tracciata dai piani regionali agricoli e industriali della Gran Bretagna
e della Germania, dai centri urbani minerari della Ruhr, delle nuove
città industriali in Unione Sovietica, primi passi verso il
decentramento urbano.
Passi che si affrettano anche nel regime italiano, col passare del
tempo. Alla fine degli anni Trenta si parla di borgate suburbane con
tutti i servizi della città, quartieri autonomi ubicati a qualche decina
di chilometri fuori dal centro urbano e ad essi collegati con mezzi di
trasporto, diametralmente all’opposto dell’esaltazione precedente
della vita rurale e delle casette con podere. Passati i tempi in cui
Pontinia veniva orgogliosamente presentata come il Comune che
«non avrà bellurie, non avrà fregi, statue, colonne; non avrà sale da
gioco, e ritrovi notturni. A Pontinia la notte si dormirà perché il
115
S. Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, 2003, p. 253
116
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 183
117
C. Gregoretti, Conversazione con Sandro Pertini, in “Epoca”, 23 marzo 1984
64
giorno si lavora e la sera si è stanchi. Non avrà vetrine scintillanti,
con cappellini per signore più o meno improvvisate, profumi e
rossetti esotici: il paese è sorto sul presupposto che nessuno
comprerebbe di codeste cianfrusaglie»118. Tra la fine degli anni
Trenta e l’inizio dei Quaranta, mentre il Paese si avvia nella
catastrofe della guerra e il regime continua a costruire alcuni villaggi
rurali nei latifondi del Meridione, non c’è dubbio che le paludi
pontine siano ormai lontanissime, come un sogno infantile, ora si
chiedono «borgate satelliti, che vogliamo spaziose e ridenti, in cui
l’operaio, il capo-officina, l’ingegnere stanno ancora a contatto di
gomito»119. Così il fascismo passa dalla terra alla borgata di periferia,
pur senza abbandonare l’ordine autoritario e patriarcale. Gli ultimi
anni del regime vedono un ritorno del fascismo nelle città con una
lunga serie di sventramenti urbani e risanamenti, oltre che con la
creazione di borgate e villaggi nelle immediate corone urbane di tutto
il paese, con la netta caratterizzazione della città divisa in centro e
periferia120. La vera data di nascita della maggior parte delle periferie
urbane in Italia è appunto riferita a questo periodo. Quelle stesse
borgate su cui, negli anni della Repubblica che verranno dopo la
guerra, uno come Pasolini si dannerà l’anima. A Roma, in seguito agli
sventramenti di vecchi quartieri nel centro storico, intere porzioni di
popolazione, spesso sottoproletaria, vengono deportate d’autorità
nelle prima periferie. Questo vuole essere lo spazio della nuova
“grande classe media”121. La soluzione prospettata contro
l’affollamento urbano è quella delle borgate e città-satellite, ovvero
spostare le città verso la campagna, far diventare la campagna uno
spazio suburbano. In testa sempre il mito campestre e paesano da
non abbandonare. Nel 1940 in un ennesimo articolo “Contro la città”
sulla rivista Critica fascista si legge: «Per sfollare le grandi metropoli
bisogna attirare in campagna anche le medie classi cittadine. Occorre
creare villaggi semirurali, situati sulle grandi arterie ferro-tramviarie,
alla periferia di una grande città, per una distanza non superiore ai
50 km e non inferiore ai 10 o ai 15, altrimenti sarebbero presto
assorbiti dall’espansione delle metropoli. Queste borgate, destinate
118
Autore ignoto, Ruralità di Pontinia, in “La Tribuna”, 20 dicembre 1934
119
A. Melis, Funzione sociale dell’urbanistica e limiti dell’urbanistica, in “Critica
Fascista”, 1 maggio 1942, p. 111
120
A. Cederna, Mussolini urbanista. Lo sventramento di Roma negli anni del
consenso, 1979, p. 85
121
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 245
65
agli operai specializzati, ai capi tecnici, alle famiglie di impiegati e
anche di professionisti, avrebbero un duplice scopo: anzitutto di
sfollare le grandi città e far godere alle famiglie quei vantaggi che
sono proprio della vita cittadina e campestre»122.
7. Benvenuti a Strapaese
122
C. Manetti, Contro la città, in “Critica Fascista”, 15 agosto 1940, p. 31
66
trasformazioni»123. Insomma tutto qui rimanda all’esaltazione della
cultura rurale e municipale, a Longanesi, Maccari e Malaparte, «al
vino buono e soprattutto nostrale», al genius loci e
contemporaneamente ai difetti italiani assunti come limite e come
forza, al selvaggio (allora fascista) che tira cazzotti intellettuali alla
modernità. Lo Strapaese è un movimento culturale ed artistico,
sviluppatosi in Italia dopo il 1926, di natura patriottica e a difesa del
territorio nazionale. Ma l’insegna di Strapaese, piuttosto sterile sul
piano letterario, si è trasformata nell’elemento portante della vicenda
delle città di fondazione del Ventennio e poi, sotto diverse maschere,
in tanta parte dell’architettura ideologica nazionale. «Strapaese è
stato fatto apposta per difendere a spada tratta il carattere rurale e
paesano della gente italiana; vale a dire l’espressione più genuina e
schietta della razza, l’ambiente, il clima e la mentalità ove son
custodite per istinto e per amore, le più pure tradizioni nostre.
Strapaese si è eletto baluardo contro l’invasione delle mode, del
pensiero straniero e delle civiltà moderniste, in quanto tali mode,
pensieri e civiltà minacciano di reprimere, avvelenare o distruggere
le qualità caratteristiche degli italiani, che nel travaglio
contemporaneo debbono essere l’indispensabile base e l’elemento
essenziale; come sono state, se si pensi, le impareggiabili nutrici del
genio, dell’arte e dello spirito»124. C’è un aspetto anche violento dello
Strapese e dell’arcitaliano che oggi è implicito ma allora era esplicito
e rivendicato: «Ormai l’Italia è messa bene / ve ne potete andare a
letto / ma rammentar sempre conviene / che la fortuna va presa di
petto. / Mogli briache e botti piene / a Strapaese non fanno difetto: /
qui ci sono legni per tutte le schiene / legni d’olivo benedetto. / A
raddrizzar le gambe ai cani / bastano ormai gli Arcitaliani» 125. La
dimensione strapaesana rimane il dato più evidente comune a tutte
le città nuove, dove la ruralità viene realizzata per trasposizione, cioè
ruralizzando un’immagine cittadina profondamente radicata nella
storia italiana, quella della gloriosa città stato comunale, rozzamente
rivisitata dall’ideologia fascista126. Tutto ciò, che in anticipo sui tempi
si sarebbe già potuto definire come “immaginario nazionale”, era già
123
C. Malaparte, Strapaese e Stracittà, in “Il Selvaggio”, 10 novembre 1927
124
M. Maccari (sotto pseudonimo di Orco Bisorco), Gazzettino ufficiale di Strapaese,
in “Il Selvaggio”, 1 settembre 1927
125
C. Malaparte, L’arcitaliano e tutte le altre poesie, 1963, p. 19
126
L. Nuti, R. Martinelli, Le città di Strapaese. La politica di fondazione del
Ventennio, 1981, pp. 156-157
67
percepibile agli occhi dello scrittore Corrado Alvaro che in suo
libretto-reportage dall’Agro Pontino appena bonificato, pubblicato
nel 1934 dall’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, intitolato Terra
Nuova, notava con un certo lirismo che «i borghi nuovi e non ancora
in vita sembrano costruzioni di ragazzi posati su un tappeto verde;
quelli già popolati acquistano subito color di paese, riproducono
angoli di villaggi veduti altrove, e costruiti dalla frequentazione lunga
degli uomini, e che sono il paesaggio fisso della vita campestre. Chi
ricorda l’Emilia, la Romagna, il Veneto, specie il Veneto ricostruito
dopo la guerra, ne ritrova qui lo schema; il senso è lo stesso, quello
l’aspetto, e l’uomo ha reso vecchio questo paesaggio nuovo imposto
alla natura in un anno»127. E ancora: «E’ l’utopia dell’Italia di piccoli
proprietari divenuta fatto vivo: difatti in questo lembo di terra nasce
un nuovo ordine, si tenta una costituzione umana che ha più d’un
punto di contatto coi sogni di tutti i pensatori che fantasticano su uno
Stato ordinato, senza servi né padroni, la comunità che assorbe gli
individui e tuttavia non ne fa un numero»128.
127
C. Alvaro, Terra nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino, 2008, p. 38
128
Ivi, p. 40
68
Pannone girato nel 2001, un dialogo tra lo scrittore Antonio
Pennacchi e un amico librario nel suo negozio, proprio dentro uno di
questi centri commerciali di recente costruzione, uguale a tanti altri,
affollato come tutti. Pennacchi invoca, come al solito, il ritorno alla
purezza dell’architettura di fondazione, al razionalismo e al mito
fondativo, all’identità perduta della città. Il libraio indica con una
mano il panorama attorno a loro, che in fondo potrebbe essere lo
stesso di una qualunque città italiana, e gli risponde: «Anto’, questo
che vedi invece è perfettamente coerente con Latina. La Latina che
dici tu non c’è, è rimasta solo l’architettura. Latina è una produzione
Mediaset. Questa è Latina».
69
70
CAPITOLO 3
Là dove c’era l’erba ora c’è una città
71
72
1. Via Gluck
Là dove c’era l’erba ora c’è una città. Riascolto quel vecchio ritornello
e me ne accorgo. Come è andata la questione, a livello pop, era già
stato detto, mentre la trasformazione era ancora in corso, oltre
quarant’anni fa da Adriano Celentano, nel Ragazzo della via Gluck,
canzone che dichiarava lo spaesamento di chi vedeva tutto cambiare
nel breve volgere di pochi anni. Come ha spiegato l’architetto e
scrittore Gianni Biondillo, erano gli anni della ricostruzione
postbellica e tutto, da quel momento, non sarebbe stato più come
prima. Anche Celentano era lì, nel mezzo della più grande
trasformazione sociale e urbana degli ultimi tempi, e non capiva. E
come al solito, quando non si capisce si diventa nostalgici, si
vagheggia un passato bucolico. Un altro cantautore, suo coetaneo e
amico, se ne uscì con un’opinione più razionale e ironica. Giorgio
Gaber, con la sua Risposta al ragazzo della via Gluck, narrava di un
ragazzo che non trova un appartamento con un fitto bloccato in cui
poter andare a vivere con la sua ragazza, perché hanno demolito una
casa per farci un prato. Dove andrò a dormire, si chiede il ragazzo,
che ce ne facciamo dei prati se non abbiamo un tetto dove ripararci?
La storia della musica leggera, e l’immaginario collettivo, hanno
adottato Celentano, e la sua canzone è rimasta nella memoria più di
quella di Gaber. Peraltro è innegabile che fosse anche più bella, la
canzone del molleggiato. Ma la ragione ce l’aveva Gaber 129. Il
laboratorio della mutazione urbana si era già avviato dall’Ottocento e
dalla rivoluzione industriale, coi milioni di persone che dalle
campagne si spingevano verso i bordi delle città, spesso in condizioni
esplosive per l’igiene e l’equilibrio sociale, questo dapprima in
Europa e poi, solo in parte, nel nostro Paese. Ci si era, dunque, già
esercitati a pensare una città nuova, e in molti casi a realizzarla. Da
noi ci si cullava ancora con lo strapaese e la stracittà, provinciale e di
regime, con gli elogi della vita rurale. Ma il secondo dopoguerra, in
Italia come nel resto d’Europa, rappresentò una stagione ancora più
dirompente dal punto di vista dell’urbanizzazione. C’era da rimettere
in piedi un continente e con esso l’intera produzione industriale,
c’era da rimettere in moto la macchina. In Italia le migrazioni verso
l’estero o verso il Nord del Paese furono di dimensioni bibliche. C’era
129
G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, pp.15-16
73
anche da fare i conti, in prospettiva, con uno sviluppo dei mezzi di
comunicazione che avrebbe cambiato la percezione delle masse, dello
spazio e del tempo. «L’Italia si rimpicciolì, e mentre cambiava il
senso dello spazio cambiava anche la sua misura»130. Ma prima di
tutto questa gente, che voleva lavorare, uscire dalla miseria, dare un
futuro ai figli, aveva bisogno di case. E subito.
130
E. Galli Della Loggia, Ideologie, classi e costume, in V. Castronuovo (a cura di),
L’Italia contemporanea, 1976, p. 416
74
“Quello è l’oro, oggi!”. A partire dagli anni Cinquanta le città italiane
diventano teatro di un’attività edilizia che non ha precedenti nella
storia del Paese. La ricostruzione sulle macerie della guerra,
l’espansione demografica della popolazione e le forti migrazioni
interne da Sud a Nord e da campagna a città, tutto contribuiva a
creare una domanda poderosa di nuove abitazioni. Nei primi anni del
dopoguerra circa un quarto degli italiani viveva ancora in case sparse
o in piccole frazioni esterne agli ottomila comuni, spesso in situazioni
di povertà estrema131. Poi il processo di urbanizzazione trasforma il
volto della penisola, nei quindici anni che vanno dal 1955 al 1970
cambiano residenza 17 milioni di italiani. Gli spostamenti avvengono
prevalentemente dal Mezzogiorno verso il triangolo Milano-Torino-
Genova, dalle zone interne verso la fascia costiera, dai centri minori
verso le città più grandi132. Nell’immaginario collettivo, il progresso
stesso della nazione a un certo punto si identifica con l’attività
edificatoria, con la cancellazione di campi e colline e l’avanzare del
cemento, la crescita veloce di edifici e quartieri. D’altra parte, c’è una
ragione politica generale che favorisce il fenomeno. Costruire case
genera consenso politico: è un’attività che crea occupazione, sostiene
la crescita economica generale attraverso l’indotto, fa arricchire le
potenti famiglie dei costruttori e dei detentori di suoli in grado di
movimentare consistenti pacchetti di voti nelle campagne elettorali.
Il partito della Democrazia Cristiana, che si trova a detenere un
potere sovrastante nel governo del Paese, non guarda certo per il
sottile nella raccolta del consenso, tanto al centro quanto in periferia.
Ed ecco che dodici anni dopo quel film, tra i capi d’accusa che Pier
Paolo Pasolini imputava al partito democristiano, c’era appunto «la
distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia»133. Ma non dovette
servire a molto quel processo mai celebrato. Con particolare gravità
l’opera di manipolazione del territorio si accanisce da Roma in giù,
nelle regioni meridionali del Paese. L’impresa edile assicura un
mercato sicuro e lucroso, necessita di manodopera generica, si nutre
della benevolenza di politici e amministratori. Insomma il laterizio, il
foratino, quindi il blocchetto e pure il tondino del consenso
contribuiscono – dai primi anni della Repubblica – non solo alle
distorsioni dello sviluppo economico, ma anche a quelle del comando
131
P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli
anni ’50, 2001, p. 164
132
V. De Lucia, Se questa è una città, 2006, p. 73
133
P. P. Pasolini, Lettere luterane, 2009, p. 127
75
politico e dell’autorità istituzionale, in un intreccio di mancati
controlli, orrori e disastri del territorio, speculazioni, bustarelle e così
via.
134
C. Giustiniani, La casa promessa, 1981, p. 82
76
la speculazione fondiaria – l’esperienza Ina Casa si distinse
positivamente135. I dati del piano, individuati da pubblicazioni in
materia, mettono in evidenza la grande vitalità e l’impatto sulla vita
economica e sociale del Paese. Infatti, solo pochi mesi dopo
l’approvazione della legge, nell’estate del 1949 verrà aperto il primo
cantiere, dei 650 che risulteranno aperti nell’autunno dello stesso
anno. Il ritmo di costruzione della macchina dell’Ina Casa sarà
estremamente efficiente, e con la sua entrata a regime produrrà circa
2800 unità abitative a settimana con la consegna sempre settimanale
di circa 550 alloggi alle famiglie assegnatarie. Nei primi sette anni di
vita verranno investiti complessivamente 334 miliardi di lire per la
costruzione con 735.000 vani corrispondenti a 147.000 alloggi. Alla
fine dei quattordici anni di durata i vani realizzati saranno, invece, in
totale circa 2.000.000, pari a 355.000 alloggi. Il piano Ina Casa alla
sua scadenza avrà aperto 20.000 cantieri che porteranno, come era
negli intenti dei legislatori, ad impiegare la manodopera stabile di
circa 41.000 lavoratori edili all’anno, che da soli assorbivano il 10%
delle giornate-operaio dell’epoca136.
135
De Lucia, Se questa è una città, 2006, p. 80
136
P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli
anni ’50, 2001, pp. 15-18
77
sociale, ambito di formazione e vita di comunità di cittadini. Come
una sorta di isola utopica137.
Le periferie italiane proposero ai cittadini uno “stile” inconfondibile
che non si tardò a indicare proprio con il nome dell’Ina Casa.
Un’architettura “democratica” che voleva contrapporsi alla
monumentalità e simmetria dell’architettura dell’epoca fascista. Così
nacquero quartieri spesso anacronistici, quasi come se dalla
campagna quelle case non riuscissero a raggiungere la città, ma
rimanessero profondamente “paesane”. Una rilettura “rurale” del
moderno, in alcuni casi miracolosa. Come a Roma, al quartiere
Tiburtino (1949-54) di Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi. Le stesse
case che Pasolini definisce «altari della gloria popolare» in una sua
poesia138, un’architettura apparentemente “spontanea”, “casuale”, in
realtà disegnatissima in tutti i suoi particolari, inserita in un legame
stretto con la tradizione, che portava ad una reinterpretazione dei
temi razionalisti basata sulla coerenza compositiva e sulle
interpretazioni sociologiche. O come a Cesate (1950-54), un quartiere
alle porte di Milano, pensato dai migliori architetti allora disponibili
sulla piazza meneghina, come Franco Albini, lo studio BBPR, Enrico
Castiglioni, Ignazio Gardella, un complesso edilizio ordinato e
organico di nuclei unifamiliari raggruppati in gruppi di case con
spazi comunitari comuni, poi sommerso dal nulla edile che, negli
anni a venire, dalla città l’ha raggiunto e avvolto139.
137
Ivi, pp. 21-22
138
P. P. Pasolini, Le poesie, 1975, p. 339
139
G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, p. 69
140
F. Ceccarelli, Il sistema del mattone, in “La Repubblica”, 9 dicembre 2008
78
matrice cattolica che si opponesse sia al capitalismo concorrenziale
che al collettivismo comunista141.
141
P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli
anni ’50, 2001, p. 46
142
G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, p. 69
143
P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli
anni ’50, 2001, p. 28
144
Ivi, p. 204
79
3. Corviale e l’ideologia
Un’altra risposta agli stessi problemi proverà a darla, tra gli anni
Sessanta e i Settanta, un’architettura di matrice ideologica. Che non
si accontenta di riflettersi nel “popolo” ma – in un certo senso –
pretende di volerlo “ordinare”, come in un’equazione algebrica.
Guardiamo quei palazzoni di periferia, macroscopici, elefantiaci,
quelli tutti in cemento a vista. Quelli dove ogni tanto qualche troupe
televisiva va, indignata, a fare servizi d’assalto sul degrado e la
criminalità. Quelli che, a detta di molti, sono un obbrobrio, la
sconfitta dell’architettura, la fine della civiltà. E tuttavia
riconosciamo in loro una complessità, una ricerca tipologica che se
non altro li eleva da tutto un piattume edile spesso circostante, molto
più orripilante ma meno roboante.
Per esempio il Corviale (1972-82), l’edificio lungo un chilometro di
Mario Fiorentino costruito ad ovest di Roma145. Pianificato perché
potesse essere autosufficiente, un villaggio autarchico lungo come
una stecca di cemento alta nove piani, con gli appartamenti che
fanno muro chiudendo la città dispersa per aprirsi alla campagna
romana. Si nota un certo che di utopistico andato in malora. Quello
che è uscito fuori è invece semplicemente un condominio deforme
per dimensioni, un “mostro” di un’originalità un po’ sinistra. Per
questa sua assoluta stravaganza, Corviale è apparso subito
ingovernabile. Come immaginare riunioni di condominio, pulizia
delle scale, manutenzione degli apparati, assegnazione dei posti
macchina?
Per esempio le Vele di Scampia (1962-75) progettate da Franz Di
Salvo146, pensate, tra enormi corpi di fabbrica e lunghi ballatoi
sospesi, come grandi unità abitative dove centinaia di famiglie
avrebbero dovuto integrarsi e creare una comunità, grandi vie di
scorrimento e aree verdi tra le varie vele; una vera e propria città
modello. Invece ecco che i giardini sono diventati il luogo di raccolta
degli spacciatori di droga, i viali sono piste per corse clandestine, gli
androni dei palazzi luoghi di incontro di ladri e ricettatori. Una
cittadella completamente fuori dal controllo della polizia, dello Stato.
Per esempio il complesso residenziale Monte Amiata al Gallaratese
(1969-73), tirato su come un gigantesco alveare dal progetto di Carlo
145
P. O. Rossi, I. Gatti, Roma, guida all’architettura moderna (1909-2000), 2000, p.
323
146
M. Magatti, La città abbandonata: dove sono e come cambiano le periferie
italiane, 2007, p. 85
80
Aymonino nella periferia nord-ovest di Milano147, con stecche edilizie
che si piegano e si intrecciano, gallerie sospese, tipologie di
appartamenti dai tagli differenti, corti interne, potenziali ma
inespressi spazi collettivi, cercando di riprodurre la vitalità di un
autentico spazio urbano ma ottenendo a distanza di anni spazi
tristemente vuoti e livelli bassissimi di socialità. Ingredienti
etichettati da buona parte dell’opinione pubblica e della critica
sociale sotto la definizione di “quartiere-ghetto”.
Per esempio lo Zen (1969-73), quartiere di edilizia popolare su
progetto di Vittorio Gregotti a Palermo148, che ormai da anni offre
sempre lo stesso paesaggio, fatto di carcasse d’auto abbandonate,
piccoli traffici, panni stesi alle finestre, latitanti mafiosi imprendibili,
un’umanità formicolante nel dedalo delle insule, come vengono
chiamati gli alveari sui quali si affacciano gli appartamenti. Una
spirale negativa che continua da quando, all’inizio degli anni Ottanta,
le case non ancora collaudate, senza acqua né luce, furono occupate
abusivamente. Le insule vennero spartite tra vari piccoli “boss” di
quartiere che poi trattavano direttamente col Comune. Dunque è
successo che, qui come altrove, per mezzo di dolorose contrazioni,
corruzioni e risurrezioni, il “mostro” ha dovuto produrre da se stesso
leggi inedite che riuscissero ad amministrarlo.
147
A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008,
p. 99
148
F. Fava, Lo Zen di Palermo. Antropologia dell’esclusione, 2008
149
J. G. Ballard, Il Condominio, 2003, p. 44
81
loro premesse. C’è stato invece chi ha sostenuto che la responsabilità
del fallimento andava attribuita alla loro incompiutezza: gli architetti
hanno progettato macchine grandiose e ambiziose e gli
amministratori del territorio le hanno abbandonate prima che
fossero finite. Ovvio che marciscano, come esserini partoriti
prematuri, senza avere tutti gli organi interni funzionanti.
Tra i primi, l’architetto Massimiliano Fuksas: «Secondo me Brasilia,
la capitale di Niemeyer, e il palazzo lungo un chilometro di Roma
sono figli della stessa logica. Anzi della stessa utopia: dare un ordine
al mondo, trovare un modello per il mondo. Ma nessuno di quei
modelli ha mai funzionato, né Corviale né lo Zen avrebbero mai
“funzionato”, nemmeno in presenza di tutti i possibili servizi sociali e
di quartiere, di tutte le certezze organizzative e di sicurezza. Il
problema è un altro: quando qualcuno desidera “fare ordine”
fatalmente aggiunge un nuovo danno al danno preesistente»150.
È vero. Ma chi è che non desidera fare ordine? Ognuno pensa che il
mondo, senza l’intervento della propria cultura e civiltà, sia in balìa
della violenza e dell’ingiustizia. E poi, come si fa a non essere
d’accordo sul fatto che se si realizza una macchina da corsa poi
bisogna arrivare fino in fondo e non lesinare sul motore? Altrimenti
bisognerebbe spiegare come mai, a differenza del nostro Paese, le
unités d’habitation di Berlino o di Marsiglia o la stecca edilizia del
Karl Marx Hof a Vienna sono considerate monumenti, con servizi
funzionanti e tetti giardino ben curati, con residenti di diversa
estrazione sociale, spesso affermati professionisti, che lì abitano
orgogliosi. Difficile stabilire chi abbia ragione151. La certezza è che
troppo spesso buone intenzioni progettuali in Italia vengono
frustrate dalla pratica. I nuovi quartieri senza servizi e strutture non
hanno nessuna possibilità di essere come sono stati pensati.
Diventano sobborghi, luoghi di confino, a loro volta piccole città
satellite slegate dal tessuto urbano. «Noi siamo il popolo dei grandi
eroici slanci, ma poi l’ordinaria manutenzione non la vuole fare
nessuno»152.
150
P. Conti, Fuksas: Periferie rovinate dagli urbanisti di sinistra, in “Corriere della
sera”, 6 luglio 2001
151
G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, p. 47
152
Ibidem
82
dispersiva. Eppure alternativa a un’altra opposta visione: l’idea della
polverizzazione sul territorio di microvillette autonome, quella che
deriva dal vincente mito abitativo statunitense ma che può portare al
collasso urbano. «Le metropoli smisurate del terzo mondo – scrive
Biondillo – non sono fatte di macrostrutture in cemento armato, o di
grattacieli di vetro, ma di una infilata infinita di cubetti
disperatamente identici e anomici, dove la socialità viene
completamente depressa»153. Se tentassimo una lettura a grande
scala di alcune aree della nostra penisola, avremmo la dimostrazione
di come l’edilizia pubblica possa essere interpretata anche con la
chiave di due differenti strategie di sviluppo insediativo:
concentrazione e dispersione. Per accorgersi che l’intervento
pubblico ha non solo favorito una crescita urbana compatta e per
parti, ma ha anche depositato sul territorio numerosi, limitati e
differenti frammenti154.
153
Ibidem
154
P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli
anni ’50, 2001, p. 10
155
I. Calvino, La speculazione edilizia, 2000, p. 27
83
a passi svelti, che in cambio di un benessere minimo ha spesso
devastato l’anima dei luoghi e delle persone. Negli anni Cinquanta e
Sessanta si costruiscono in Italia oltre 20 milioni di vani, da
confronti con altre nazioni si rileva che il nostro è il Paese in cui più
si investe in abitazioni. Eppure, «più case si fanno più ce ne
vogliono», è questo il paradosso157. Le case ci sarebbero per tutti,
come confermano i dati del censimento. Nel 1971 ci sono in Italia 54
milioni di abitanti e oltre 63 milioni di stanze. Nel decennio 1961-71
la popolazione è cresciuta del 6,7% e il patrimonio edilizio del 33,8%.
Ma quasi un quarto del patrimonio esistente è inoccupato o
sottoutilizzato. Le case ci sarebbero per tutti, solo che costano
troppo, oppure sono lontane da dove ormai è costretta a vivere la
maggioranza degli abitanti, oppure sono seconde o terze case158.
156
I. Calvino, La speculazione edilizia – Presentazione, in “Botteghe Oscure –
quaderno XX”, autunno 1957
157
V. De Lucia, Se questa è una città, 2006, pp. 74-75
158
Ibidem
159
G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, 2009, pp. 87-88
84
Tra l’urbanizzazione popolare e pedagogica dei quartieri Ina Casa,
un’architettura da film neorealista, e l’urbanizzazione spesso
assurdamente monumentale rispetto a un’idea di socialità, di
collettività, alla Corviale per intenderci, un’architettura ideologica, da
cineforum noioso e forse pure fantozziano, alla fine ciò che si è
insinuato – e ha trionfato – è stata l’urbanizzazione individuale, il
nuovo edificato frammentato e il più delle volte pure abusivo, il paese
progettato dai geometri, «i cazzi miei fatti edilizia», per allargare,
sopraelevare, condonare, insomma un’architettura da commedia
all’italiana. Una risposta dapprima ad appannaggio della piccola
borghesia, poi sempre più ad appannaggio di tutti, perché tutti in
fondo si sentono piccolo borghesi. Tra deroghe di legge, condoni,
arrembaggi speculativi, complicità istituzionali, trasferimenti di
funzioni dallo Stato centrale alle Regioni, si arriverà a una situazione
di lassismo e abusivismo diffuso. C’è chi sostiene che il 70 per cento
della periferia romana sia abusiva, cresciuta a macchia d'olio, tra
abusivismo in grande stile, di intrepidi lottizzatori sicuri del
successivo condono, e abusivismo dei poveracci, muratori che si
tiravano su la casa di domenica, coi materiali rubati di notte nei
cantieri160. La casa è il sogno e il bisogno, e per una generazione di
italiani è stata la rinascita dalla tragedia della guerra, fino a
trasformarsi, nell’Italia del benessere, nell’assedio implacabile della
bruttezza, nella resa alla banalizzazione dei luoghi.
160
P. Zanuttini, Pasolini non abita più qui. Visita guidata nelle borgate romane con
Walter Siti, in “Il Venerdì di Repubblica”, 23 maggio 2008
85
alluminio anodizzato»161. Le recinzioni in blocchi di cemento, i leoni
all’ingresso, nel Nord. I ferri dei pilastri scoperti in cima al tetto
terrazzato e incatramato, nel Sud, in attesa di costruirci sopra,
abusivamente, magari un piano in più, al prossimo condono.
L’incasato spalmato sull’intera pianura padana. I neo-paesi di
seconde e terze case sulle Alpi o sugli Appennini. Le villettopoli che
annientano i confini tra comune e comune nel casertano. Gli interi
paesi condonati. Gli stessi tetti, gli stessi spioventi, che tu sia sulle
Prealpi o in Sardegna. Lo stesso identico sfoggio delle stesse “finiture
di pregio”. Le emulazioni fallite. Siamo ancora lì, dopotutto e
nonostante tutto, siamo al paese contadino che ha dovuto
concentrare in pochi decenni quasi due secoli di trasformazione
industriale e sociale, in più deportando mezzo Meridione, e lo ha
fatto in fretta e malamente, stravolgendo il senso di un abitare antico
e coeso, fatto di borghi, di piazze, di trattorie e caffè.
5. Pasolini e il miracolo
161
G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, pp. 19-22
162
G. Sapelli, L’Italia inafferrabile, 1989, p. 21
163
G. Crainz, Autobiografia di una repubblica, 2009, p. 74
86
massa. Insomma, quello che sarebbe successo è che una “cultura”
avrebbe distrutto e sostituito l’altra. Una mutazione irreversibile,
destinata a non fare retromarcia anche quando poi la fase di sviluppo
economico muterà di segno in fasi di crisi e di austerità.
Per capire se e come tutto questo è accaduto forse bisognerebbe
riprendere in mano le parole, cercare di aggrapparsi a qualche
definizione. Di cosa si parla, per esempio, quando si parla di cultura?
Con il termine “cultura” si intenderà il «complesso dei modi di vita,
degli usi, dei costumi, delle strutture e organizzazioni famigliari e
sociali, delle credenze, dello spirito, delle conoscenze e delle
concezioni dei valori che si trovano in un aggregato sociale»164.
Cultura, dunque, nel senso di «vasta gamma di usi caratteristici di
una data società, dalle sue modalità di produzione materiale alle sue
abitudini alimentari, codici di abbigliamento, celebrazioni, rituali»
come sostengono Forgacs e Lumley165.
164
T. Tentori, Antropologia culturale, 1977, citato in M. Morcellini, Lo spettacolo del
consumo. Televisione e cultura di massa nella legittimazione sociale, 1986, p. 99
165
D. Forgacs, R. Lumley, Cultural Consumption 1940s to 1990s, 1996, p. 2
166
G. Biondillo, Pasolini. Il corpo delle città, 2001, p. 33
87
spiegare o descrivere quel cambiamento culturale avvenuto tra le
città e il potere e le masse. E allo stesso tempo per capire da dove
passa l’eterno mito nazionale del sapere nostalgico, la modernità
plasmata sul ricordo dei bei tempi andati.
Pasolini attribuiva grande importanza all’urbanizzazione della
società italiana e alla scomparsa delle tradizioni contadine: «Il
mondo contadino, dopo circa quattordicimila anni di vita, è finito
praticamente di colpo»167. I valori del villaggio o delle prime borgate
erano stati sostituiti da un “livellamento” culturale, dell’”edonismo di
massa”. Tutti i valori profondi delle classi popolari erano stati ridotti
a un unico modello culturale: «Decidere se sognare una Ferrari o una
Porsche […] con la pretesa che siano “libere”»168. Questo «passaggio
da un’epoca umana a un’altra, dovuto all’avvento del consumismo e
del suo edonismo di massa […] ha costituito, soprattutto in Italia,
una vera e propria rivoluzione antropologica»169. Questa «nuova
forma del potere, il potere dei consumi» era ben più influente ed
efficace di «qualsiasi altro precedente potere al mondo»170. Il
medium più importante in questa dislocazione di potere e di
assimilazione culturale era costituito dalla televisione, insieme
all’urbanizzazione e alle politiche di pianificazione di diversi governi
italiani. Quando si arriva a metà degli anni Settanta, l’ideologia
consumistica aveva prevalso su tutte le altre ideologie e sottoculture
esistenti, comprese quelle legate alla chiesa e alla sinistra. Le teorie
pasoliniane ebbero un enorme impatto sulle analisi del tempo della
società italiana, fino a essere considerate assiomi che non
necessitavano di ulteriori dimostrazioni. Si sostenne che lo scrittore
– al quale vennero spesso attribuiti poteri profetici dalla sinistra
nazionale e, in seguito, anche da un certo conservatorismo di destra
– avesse individuato una tendenza della società italiana. Questo è
indubbio.
167
P. P. Pasolini, Scritti corsari, 2009, p. 35
168
Ivi, pp.47-48
169
Ivi, p. 131
170
P.P. Pasolini, Lettere Luterane, 2009, p. 33
88
popolare con la cultura contadina, con il dialetto e, spesso, con tratti
somatici, vitalità e vivacità. Franco Fortini, uno dei critici più severi
del poeta dal punto di vista politico, lo accusò di identificare «il
popolo» con «l’ignoranza e la pura vitalità»171. In fondo in molti
sostengono ragionevolmente che anche l’esistenza di una cultura
popolare “vitale” e autonoma prima dell’arrivo devastante del
consumismo televisivo è difficile da dimostrare. Una critica efficace
alla visione pasoliniana su livellamento e consumismo è quella dello
storico inglese John Foot. A suo dire, «l’uso che Pasolini e quelli che
hanno fatto proprie queste idee fanno del concetto di cultura è
meccanicistico e semplicistico. Nessun tipo di cultura è
semplicemente annullato o rimpiazzato da altri. Le culture si
adattano, si modellano, si modificano nel tempo e nello spazio. Il
concetto di un lineare “sopraggiungere” della cultura di massa e la
conseguente scomparsa improvvisa della “cultura popolare
tradizionale” non riesce a cogliere né la complessità né la ricchezza
del processo».172 In altre parole, come sostiene Forgacs, «i mutamenti
nel consumo culturale, come quello risultante dall’avvento della
televisione, non avvengono come semplice sostituzione o
sradicamento del vecchio da parte del nuovo ma tendono a
coinvolgere una serie di adattamenti degli schemi e rituali
esistenti»173.
171
F. Fortini, Attraverso Pasolini, 1993, p. 11
172
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 35
173
D. Forgacs, R. Lumley, Cultural Consumption 1940s to 1990s, 1996, p. 281
174
A. Portelli, The Battle of Valle Giulia. Oral History and the Art of Dialogue, 1997
89
popolazione. Secondo Stearns, la società consumistica «coinvolge un
numero spropositato di persone che scommettono una parte
significativa della propria identità personale e della propria ricerca di
significato, persino della propria soddisfazione emotiva, sulla ricerca
e l’acquisto di beni. È questo l’aspetto più difficile ma, allo stesso
tempo, essenziale da definire. Significa che la gente inizia a
interpretare il tempo impiegato nella ricerca di articoli di consumo
come una parte importante della propria vita e non solo come un
male necessario nella lotta per la sopravvivenza»175. Portelli ha
individuato i cambiamenti verificatisi nella classe operaia dopo gli
anni Sessanta come un momento nel quale «il consumo diventa
importante quanto la produzione»176. Ma il consumismo aveva anche
un effetto liberatorio, creando spazio per la ribellione contro regole
sociali conservatrici e stantie. Come non vedere un aspetto
liberatorio nelle storie dei ragazzi che si facevano «crescere i capelli
sopra le orecchie» o delle ragazze che andavano a ballare da sole e si
truccavano, mentre i benpensanti dai sagrati delle parrocchie o dalle
sezioni di partiti anche comunisti inveivano contro questo tipo di
mode “consumiste” e “americanizzate”. Una simile analisi può essere
applicata a diversi tipi di beni di consumo che allora andavano in
voga. L’auto e lo scooter permettevano ai giovani e alle famiglie di
motorizzarsi e diventare mobili, anche individualmente. Il frigorifero
e la lavatrice cambiavano in modo radicale gli equilibri del lavoro
domestico nelle famiglie. La moda del prêt-à-porter permetteva alle
donne di scegliersi da sole i propri vestiti, per la prima volta177. Ci
sono, comunque, alcuni intellettuali – uno di questi è Umberto Eco 178
– che pongono obiezioni ai critici “apocalittici” della cultura di
massa, per la loro prospettiva semplicistica e unidimensionale che
ignorava le opportunità di cambiamento che essa forniva. Il
livellamento poteva anche avere conseguenze positive, come per
esempio l’eliminazione di “differenze di casta”179. Tuttavia,
175
P. Stearns, Stages of Consumeris. Recent work on the Issues of Periodization, in
“Journal of Modern History”, 1997, p. 105, citato in J. Foot, Milano dopo il miracolo.
Biografia di una città, 2001, p. 46
176
A. Portelli, The Death of Luigi Trastulli and Other stories. Formand Meaning in
Oral History, 1997, p. 97, citato in J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una
città, 2001, p. 47
177
Ibidem
178
U. Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di
massa, 1993, pp. 29-64
179
L. Gallino, Dizionario di sociologia, 1993, p. 200
90
consumismo significava anche la corsa al prossimo acquisto e una
serie di limitazioni su comportamenti e stili. Cambia anche lo
sguardo del potere sulla società, basta poco ad accorgersi che per
ottenere il consenso non basta più la reale diffusione della ricchezza,
bensì attraverso «la possibilità di accedere ad essa o ai suoi simboli:
l’auto, gli altri beni di consumo durevoli, il televisore»180. Per la
maggiorparte degli intellettuali italiani degli anni Sessanta e per gli
storici, d’allora in poi, però, l’avvento del consumismo rappresentò
un processo devastante che la “gente” avrebbe ingoiato in modo
passivo e acritico.
6. Il mondo perduto
180
R. De Felice, Nazione e sviluppo: un nodo non sciolto, in Storia dell’Italia
repubblicana, vol. 2, 1995, p. 838
181
P. P. Pasolini, Scritti corsari, 2009, p. 22
182
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 36
183
P. P. Pasolini, Canzonissima (con rossore), in “Il Tempo”, 1 novembre 1969
91
io alla tua età camminavo per la periferia di una città (Bologna,
Roma, Napoli), ciò che quella periferia mi diceva era: qui abitano i
poveri e la vita che vi si svolge è povera. Ma i poveri sono operai. E gli
operai sono diversi da voi borghesi. […] se invece tu ora cammini per
una periferia, tale periferia ti dirà “qui non c’è più spirito popolare”.
Contadini e operai sono “altrove”, anche se materialmente abitano
ancora qui»184. Se dunque per Pasolini la polemica linguistica è la
metafora culturale e politica della trasformazione, la forma urbis ne
è la metafora poetica. La scomparsa delle lucciole dalle campagne è
vista come il simbolo della scomparsa dei cari vecchi valori della
società contadina e paleoindustriale. La borgata è il punto di
osservazione della trasformazione, essendo al contempo luogo
causato dalle trasformazioni della società da parte del capitalismo ma
anche luogo dove ancora i valori borghesi non hanno senso. La città
della transizione diventa una città senza confini dove l’osservatore,
parafrasando il vecchio Spengler, «riconosce esattamente l’epoca in
cui la fase di una crescenza organica è terminata e in cui comincia un
ammucchiamento inorganico e quindi illimitato, che oltrepassa ogni
orizzonte»185. Allo sguardo di Pasolini le borgate – nate negli ultimi
anni del regime fascista dalle deportazioni di abitanti proletari di
interi quartieri del vecchio centro storico romano che furono
sventrati e ripuliti dalle “ruspe di regime” – «persistono
stilisticamente e psicologicamente come “isole”». Molte di esse sono
state abbattute per essere sostituite dalle nuove borgate post-
belliche. «Ma qual è il criterio stilistico, sociologico e umano di
queste nuove abitazioni? Lo stesso. Siamo sempre alla nozione di
campo di concentramento». Lo stesso motivo ossessivo di file e
gruppi di case che si ripetono, due, cinque, dieci volte, sempre uguali
a se stesse, dal nord al sud del Paese. Dunque il cambiamento di
regime non ha cambiato la metodologia d’intervento sulla periferia,
infatti «le borgate democristiane sono identiche a quelle fasciste
perché è identico il rapporto che si istituisce tra Stato e “poveri”:
rapporto autoritario e paternalistico, profondamente inumano nella
sua mistificazione religiosa»186. E quando Pasolini si ritrova a
camminare anche per Sabaudia, proprio una di quelle “città nuove”
del fascismo, scopre che col passare degli anni ha assunto un aspetto
184
P. P. Pasolini, Lettere luterane, 2009, pp. 57-58
185
O. Spengler, Il declino dell’occidente, 1922, in F. Choay, La città: utopie e realtà,
1973, p. 435
186
P. P. Pasolini, Viaggio per Roma e dintorni, in “Vie nuove”, 24 maggio 1958, p. 15
92
tra il metafisico e il realistico estremamente affascinante. Al suo
vedere la follia fascista, nonostante tutto, non è riuscita a incidere
nemmeno lontanamente nella realtà dell’Italia di allora: «Sicché
Sabaudia, benché ordinata dal regime secondo criteri di carattere
razionalistico, estetizzante, accademico, non trova le sue radici nel
Regime che l’ha ordinata, ma trova le sue radici in quella realtà che il
fascismo ha dominato tirannicamente ma non è riuscita a scalfire.
Dunque è la realtà dell’Italia provinciale, rustica, paleoindustriale,
ecc. ecc. che ha prodotto Sabaudia e non il fascismo». Ora invece,
secondo Pasolini, succede l’esatto opposto, e lui può affermare che «il
vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che
sta distruggendo l’Italia»187.
187
P. P. Pasolini, Lettere 1955-1975, 1988. p. CXLII, citato in G. Biondillo, Pasolini. Il
corpo delle città, 2001, pp. 92-94
188
A. Pascale, Qui dobbiamo fare qualcosa. Si, ma cosa?, 2009, pp. 112-113
93
Quello che si sente evocare, di nuovo, è una specie di mondo perduto.
Ma sarà esistito davvero? In molti casi, ciò che è evocato non è
nemmeno il mondo di una società industriale dove grandi masse di
persone lavorano nelle fabbriche durante il giorno, ma una comunità
di tipo rurale. Vari storici e studiosi sono soliti paragonare la
leggendaria città perduta di un tempo a quella odierna o a quella che
sembrava prospettarsi già negli anni Sessanta e Settanta. A questo
proposito è utile prendere spunti dalla carrellata che svolge John
Foot su quello che a suo parere è stato il “mito della classe operaia”
nella Milano che del boom economico fu la cosiddetta “capitale
morale”189. Per esempio citando il regista Ermanno Olmi, secondo cui
il quartiere meneghino della Bovisa, classica e quasi leggendaria
roccaforte operaia dalle case di ringhiera, era «il proseguimento
urbano del borgo contadino», dove «la casa era una comunità», e
una «fiumana di operai» lo attraversava regolarmente a certe ore del
giorno190. Ciò che molte ricerche definivano come una cultura
comune acquisita nel tempo a livello di massa, lavorando nei
medesimi luoghi di produzione e vivendo quindi i medesimi rapporti
di produzione e sociali. La nostalgia è spesso circoscritta al ricordo
del quartiere. Una persona intervistata durante un progetto di ricerca
sulla periferia milanese lamenta il venir meno dello spirito
comunitario: «Una volta c’era il quartiere, c’era un gruppo di persone
che si ritrovavano sempre». Oppure: «La periferia non è più quella di
una volta». La sensazione a volte è circoscritta a livello di caseggiato
ed è vissuta in contrasto con un presente nel quale donne e bambini
«non possono restare in cortile, fermarsi a chiacchierare sulle scale e
sugli androni, non vengono più usati le cantine e i solai, terre di
nessuno». Invece oggi c’è freddezza, «ognuno pensa a sé», la città
sembra essersi trasformata da «luogo di incontro a luogo di scontro
culturale perduto». Lo stesso discorso si potrebbe riferire alla
classica piazza di paese, dove prima o poi ci si incontra tutti. Messo
così, quel “mondo perduto” sembrerebbe più vicino alle brulicanti
strade di una città non industriale come Napoli, che curiosamente è
sempre stata l’eterna metafora del “bel paese” visto così come se lo
immaginano i turisti stranieri meno esperti. Comunque sia, il ruolo
prevalente della strada nella vita comunitaria – come scrive Foot – è
un aspetto più consono a questo tipo di area urbana o semirurale che
alle città industriali dove tempo e spazio sono (o erano) scanditi dal
189
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, pp. 38-40
190
E. Olmi, Quella mia Bovisa fatta di orti e civiltà, in “La Repubblica”, 27 aprile 1999
94
ritmo della sirena della fabbrica. In poche parole, «la visione della
città è positiva quando è premoderna, una non-città, la negazione di
se stessa»191.
191
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 39
192
G. Moncalvo, Milano No, Elle, Milano, 1977
193
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 40
95
Di sicuro toccavano un punto dolente tra i pieni e i vuoti, tra
l’integrazione delle masse e la banale vita quotidiana.
Tutto cambiò quando alle città in espansione, come corpi sempre più
obesi e nervosi e famelici, spuntarono le antenne. Una foresta di
antenne si moltiplicò sui tetti delle case, come evidente segno
esteriore di consumo e benessere, gli enormi ripetitori della Rai, da
collina a collina, divennero il simbolo del potere della televisione.
Quelle foreste di antenne contraddistinsero paesaggi e fotografie da
un certo periodo in avanti. Nelle aree urbane cominciarono a sorgere
anche negozi di televisori, con gli apparecchi accesi esposti nelle
vetrine. I passanti si fermavano a guardare certi programmi, senza
audio, attraverso la vetrina, e spesso, a specifici orari, si formava un
crocchio di persone. Nel 1963 Pasolini, in riferimento al fenomeno
delle antenne, diede sfogo alla sua feroce ironia. «Sai cosa mi sembra
l’Italia? Un tugurio i cui proprietari son riusciti a comprarsi la
televisione e i vicini, vedendo l’antenna, dicono, come pronunciando
il capoverso di una legge, “Sono ricchi! Stanno bene!”»194. In quegli
stessi anni quasi tutti i quotidiani italiani inviavano cronisti per
svolgere inchieste sugli immigrati più poveri delle grandi città. Molti
scrivevano articoli commoventi, all’interno dei quali tuttavia
prevaleva un’immagine ricorrente: quella del televisore, anche nella
più povera delle baracche. Questa immagine, rimandata dalle
fotografie e dalle storie popolari d’Italia forniva una prova decisiva
dell’importanza della televisione per gli immigrati meno abbienti e
per il sottoproletariato delle metropoli italiane. Il libro di Guido
Crainz sul boom, uno dei primi tentativi accademici di storia del
miracolo economico, prende spunto da questa immagine definendola
un “mito”. Crainz cita un critico contemporaneo che scrive: «Il
discorso del televisore nella baracca è uno di quegli argomenti che
ispirano particolarmente l’insopportabile genia dei chiacchieroni
ferroviari»195. Tuttavia l’immagine coglie un aspetto particolare del
consumismo durante il boom: l’ago della bilancia dei consumi si
sposta dai generi di prima necessità verso i beni durevoli, e il
194
P.P. Pasolini (a cura di M. Gallinucci), Interviste corsare sulla politica e sulla vita
1955-1975, 1995, p. 58
195
G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni, 1996, p.
132
96
televisore, magari acquistato a rate, effettivamente faceva la parte del
leone. Vedere le foto dei tuguri o delle povere casette appena
imbiancate con la loro brava antenna sopra può essere una prova a
favore di conclusioni pasoliniane sul livellamento culturale, ma tutto
ciò rappresentava pure una forma significativa di liberazione e un
salto di status anche per le famiglie più povere. Numerosi sociologi
hanno definito questa tendenza una “distorsione” dei modelli di
consumo, ma questo presuppone che ci sia un modello “normale”
(generalmente associato ad altre nazioni, come la Gran Bretagna o la
Francia) al quale il consumo dovrebbe attenersi. Ci troviamo ancora
una volta di fronte al “caso italiano” con le sue presunte diversità
rispetto alla “norma”.
196
A. Grasso, La televisione a Milano, in A. Ferrari, G. Giusto (a cura di), Milano città
della Radiotelevisione 1945-1958, 2000, p. 59
197
G. Bosio, L’intellettuale rovesciato, 1975 citato in J. Foot , Milano dopo il miracolo.
Biografia di una città, 2001, p. 42
198
P. P. Pasolini, Scritti corsari, 2009, p. 23
199
P. P. Pasolini, Lettere luterane, 2009, pp. 182-288
97
mille sottili e complesse maniere. Innanzitutto, l’urbanizzazione
dell’Italia era sia un riflesso sia una conseguenza della diffusione
della televisione. «La tv creò e reinventò la città, e la sua
propagazione non coincise con la formazione di fasce suburbane,
come in Inghilterra o negli Stati Uniti, ma con l’urbanizzazione e
l’industrializzazione»200. Inoltre, la tv contribuì a rafforzare
l’espansione economica del dopoguerra: basti pensare alla forza
trainante delle prime pubblicità in bianco e nero racchiuse ogni sera
in Carosello, o al telequiz Lascia o raddoppia che portava milioni e
milioni di spettatori a incollarsi davanti ai televisori, e ovviamente a
comprarseli. I primi anni della televisione sono ancora ancorati a una
fase “collettiva”: gli apparecchi in circolazione sono ancora pochi, gli
spettatori si riuniscono nei bar o nelle poche case già dotate di
televisore. Già pochi anni dopo, all’inizio dei Sessanta, gli apparecchi
privati, casa per casa, prendono il sopravvento.
200
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 126
201
A. Grasso, Storia della televisione italiana, 1992, p. 22
98
nel libro di Foot a proposito di alcuni quartieri milanesi nei primi
anni Sessanta. Interessanti sono i dati sulla Comasina. Iniziato nel
1953 e completato nel 1958-60, con i suoi 83 palazzi per un totale di
11mila vani, divenne il più grande progetto di edilizia popolare in
Italia. Insediamento modernista e “futurista” sui confini nord-ovest
della città, fu anche il primo quartiere “autosufficiente” d’Italia. La
pianificazione della zona era basata su sottopassaggi pedonali,
lunghe balconate in cemento armato e una chiesa da fantascienza. A
parere degli urbanisti, la costruzione di chiese, centri sociali, negozi e
bar avrebbe permesso al nuovo quartiere Comasina di svilupparsi in
una comunità. In realtà le divisioni fra le varie tipologie di abitanti
furono subito nette: famiglie di microzone più “rispettabili”,
immigrati del Meridione, gruppi di sfrattati e baraccati202. Ebbene,
alla Comasina nel 1962 il 90 per cento delle famiglie aveva comprato
un televisore, una delle percentuali più alte tra i dati disponibili
dell’epoca. Evidentemente tra loro c’erano anche quelli più poveri o
quelli che ancora stavano in baracca203. A Milano, e in particolare nei
quartieri periferici, la priorità della tv rispetto agli altri beni di
consumo fondamentali, e il suo ruolo di fulcro attorno a cui
ruotavano le attività del tempo libero, dunque erano già dati per
scontati. L’isolamento stesso della Comasina rispetto al centro della
città – con tutte le sue attrazioni scintillanti, i cinema, le sale da ballo
e i teatri – ha sicuramente contribuito a questo successo. Ne
conseguiva che anche la fase della visione collettiva era ormai
conclusa: i sondaggi dell’epoca si imbattevano in bar deserti, ormai
ognuno guardava la tv a casa propria. C’è da registrare che la
Comasina divenne il classico “ghetto”, svuotato di giorno e pieno di
sera, ma desolato e senza luoghi di aggregazione sociale spontanea
non ufficiali, anche se annoverava tre centri sociali e una chiesa con
strutture sportive. Vuol dire che a quanto si era guadagnato in
termini di “privacy” e di “liberazione” dagli aspetti oppressivi della
vita di cortile o di piazza di paese, oltre che in termini di qualità degli
alloggi per buona parte dei residenti, si contrapponeva l’assenza di
una comunità e il mancato rapporto con la città. Tuttavia, gran parte
degli abitanti della Comasina sembrava contenta di pagare quel
“prezzo”. Molti (ma non tutti) avevano barattato le forme tradizionali
di integrazione urbana (la “collettività”) con altri valori: privacy,
status, un salotto spazioso. Per molti, la vita di famiglia aveva
202
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 62
203
Ivi, p. 43
99
soppiantato le altre forme di rapporti sociali 204. Ben presto anche il
resto dell’Italia avrebbe raggiunto gli standard delle periferie
milanesi. Nel 1965 il 43 per cento degli italiani guardava la tv tutti i
giorni, il 17 per cento da due a quattro volte alla settimana e il 10 per
cento solo una volta. Una persona su cinque non la guardava mai.
Consideriamo che all’epoca i programmi sull’unico canale nazionale
erano trasmessi solo di pomeriggio e di sera. A pensarci bene,
Berlusconi, o meglio l’ideologia che più tardi con le sue tv
commerciali e i suoi quartieri residenziali avrebbe rappresentato,
costituiva una realtà egemonica già all’inizio degli anni Sessanta205.
Ma cosa accadeva per strada, nei bar e nei rapporti fra le persone?
Già prima dell’arrivo della cultura di massa la situazione era
abbastanza varia e articolata. È vero che alcuni quartieri apparivano
come tipiche comunità operaie, dominate dai partiti politici, dalla
vita di strada e dai bar. Ma persino lì questo modello di tempo libero
e di vita quotidiana era limitato a certe ore della giornata e
contrassegnato da un uso del tempo differente per uomini e donne. I
quartieri più nuovi erano invece teatro di una diversa organizzazione
del tempo e delle relazioni sociali. Il tempo era essenziale e spesso
tiranno, e sicuramente ben poco ne rimaneva al pendolare-operaio
che usciva di casa alle quattro del mattino e rientrava alle nove di
sera. Altre diverse informazioni vengono da una ricerca della fine
degli anni Cinquanta su un’altra zona appena fuori Milano. Nel 1958,
un sociologo compì uno studio approfondito su un “villaggio
urbano”, uno dei tanti sorti attorno al capoluogo lombardo, dove
nessuno possedeva un televisore, anche se vi erano altri segni del
crescente consumismo, come gli scooter. Ciò nonostante, scrive
l’autore, in questo caso la “comunità” era inesistente: «la piazza è
scomparsa […] era anzi chiaro che il massimo egoismo regnava nei
reciproci rapporti, una incapacità ad accordarsi tra loro per risolvere
i propri problemi». Nonostante lo squallore, la povertà e la mancanza
di servizi basilari, gli immigrati preferivano queste cosiddette “coree”
al loro paese meridionale d’origine. Secondo il prete locale, a Milano
gli immigrati avevano «scoperto una “superamerica”». Insomma, la
televisione, almeno in termini di proprietà individuale, qualche volta
poteva anche non entrarci206. «In ogni caso – conclude Foot – è
impossibile affermare con una certa sicurezza che la preesistente vita
204
Ivi, p. 73
205
Ivi, p. 108
100
culturale semplice, idilliaca e vivace si preparava a essere spazzata
via dalle nuove forme di cultura di massa diffuse dalla tv»207.
206
L. Diena, Borgata milanese, 1963, in J. Foot , Milano dopo il miracolo. Biografia
di una città, 2001, p. 44
207
Ivi, p. 108
208
S. Gundle, L’americanizzazione del quotidiano. Televisione e consumismo
nell’Italia degli anni Cinquanta, in “Quaderni storici” n. 2, 1986, pp. 561-594
209
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 126
101
E qui torna Pasolini. La cosa bella è che molti dei suoi messaggi, dei
suoi materiali, delle sue parole li rivediamo oggi proprio grazie alla
televisione. Ritroviamo quel giovane bruno e nervoso, che si agita
seduto su una sedia in uno studio televisivo di quasi quarant’anni fa,
dove comunque «non è ammesso dire una sola parola che sia di
scandalo». Il fatto è che la modernità è spossante. Una sfida
continua. In Italia poi è arrivata così all’improvviso. Lo spavento c’è
stato, i danni sul territorio anche, basta guardare le nostre coste, le
nostre periferie. Pasolini è stato un profeta della scomparsa del
mondo contadino, del j’accuse, dell’abiura, dell’io so ma non ho le
prove. Non esistono – spiegava - equivalenze o analogie con il resto
del mondo capitalistico, questo perché «nessun Paese ha posseduto
come il nostro una tale quantità di culture “particolari e reali”, una
tale quantità di “piccole patrie”, una tale quantità di mondi dialettali:
nessun Paese, dico, in cui poi si sia avuto un così travolgente
“sviluppo”. Negli altri grandi Paesi c’erano già state in precedenza
imponenti “acculturazioni”: a cui l’ultima e definitiva, quella del
consumo, si sovrappone con una certa logica. Anche gli Stati Uniti
sono culturalmente enormemente compositi (sottoproletariati venuti
a concentrarsi caoticamente da tutto il mondo), ma in senso verticale
e, come dire, molecolare: non in senso così perfettamente geopolitico
come in Italia»210. E alla fine ha vinto Pasolini. Ha avuto ragione
anche quando aveva torto. Così viene facile arrendersi al “sapere
nostalgico”211, pensare che tutto quello che è avvenuto nella magica
cornice delle età passate ha valore, mentre il presente è sinonimo di
corruzione. Alle forze della modernità che spingono va opposto il
modello puro e innocente del passato incorrotto. Questa visione, in
genere, rischia di fare un po’ di danni. Non ci permette di ragionare
(ed esaminare) le condizioni di partenza: come si fa, infatti, a
contestare un modello ideale? Quindi facciamo fatica a immaginare
(e provare a regolare) quello che fisiologicamente si muove. Questo
sapere nostalgico tuttavia ha il pregio di piacere al grande pubblico: il
dolce paese che non dico, diceva Gozzano. Paese mio che stai sulla
collina, cantavano i Ricchi e poveri al Festival. Italia scomparsa,
dicono gli editorialisti pensosi sui giornali. Allora sì che il mondo
aveva un sapore. Non come questa modernità insapore, insalubre,
stressante, omologante.
210
P. P. Pasolini, Scritti corsari, 2009, pp. 73-74
211
A. Pascale, Qui dobbiamo fare qualcosa. Si, ma cosa?, 2009, pp. 49-50
102
Tutto l’attuale Strapaese è, magari inconsapevolmente, innanzitutto
pasoliniano. Perché Pasolini, innamorato del sottoproletariato
borgataro e del mondo contadino che aveva in testa e che gli
sembrava il tempio della premodernità antifascista, sognava nelle
lucciole il ritorno a una società superata ma migliore. Una lucciola
come quelle che sicuramente anche Celentano, cantore pop dello
Strapaese, vedeva nella sua via Gluck, e non è un caso se Pasolini lo
ha incontrato un paio di volte e avrebbe voluto girarci un film su
quella casa in mezzo al verde scomparsa 212. Una lucciola come l’idea
che la realtà dissolta possa avere ragione del mondo moderno.
212
A. Bandettini, Quel film mai nato sulla via Gluck, in “La Repubblica”, 13 gennaio
2007
213
G. Vasta, Il tempo materiale, 2009, p. 10
103
104
CAPITOLO 4
La città dei numeri uno
105
106
1. Un’utopia in vendita
Milano Due, località Segrate, un giorno di pioggia. Il paesaggio
sembra di polistirolo espanso, con abitanti di polistirolo espanso.
Guardie private al perimetro della finta città. Studi televisivi e cigni
in un laghetto solcato da un ponticello di legno altoatesino. Sui
bidoni e sui cartelli il logo del Biscione è ancora nitido, come nuovo.
Le facciate dei palazzi sono colore rosso “terra di Siena”, abbastanza
conservate, con poche scrostature. Stranite conifere garantiscono
uno sfondo sempreverde al panorama. Il clima è fresco. Durante il
tragitto per arrivare fin qui ho scrutato a lungo il paesaggio della
periferia est milanese. Vi cercavo, senza ritrovarle, le tracce di un
resoconto di viaggio che avevo letto tempo prima. Un testo che
evocava una sorta di percorso iniziatico. L’avvicinamento progressivo
a qualcosa di nuovo e al tempo stesso familiare. «Appena oltre il
Lambro ritrovi la dolce Bassa natìa con un brivido lungo e
impensato. La strada è ampia, a duplice corsia. Patetiche braide – i
cassînn – sopravvivono in un paesaggio che ancora le capisce, cioè le
comprende e le contiene. Tuttavia se ne stanno umili e pudiche in
disparte, e proprio dal loro intonaco dimesso intuisci il miracolo
imminente. Ecco infatti, oltre la curva, un rosseggiare improvviso di
case non altere ma nobili, e così improvvidamente intonate con il
tradizionale mattone lombardo che le prospettive scandinave della
nuova città non ti allarmano per nulla». Sono parole del giornalista e
scrittore Gianni Brera. Stampate in un volume che si intitola Milano
2: una città per vivere214. Pubblicato nel 1976, a quartiere quasi
ultimato e in buona parte già abitato, dalla Edilnord Centri
Residenziali. La Edilnord è la società che fa capo a tale
intraprendente e giovane imprenditore milanese, Silvio Berlusconi,
responsabile dell’operazione. Il terreno, grande circa 700mila metri
quadrati, era stato acquistato nel 1969. In meno di dieci anni e con
ingenti capitali di finanziamento una cittadella di circa diecimila
abitanti sorse dal nulla. Cammino sugli appositi sentieri, delimitati e
separati, paralleli e obliqui senza mai incontrarsi, quello per i pedoni,
quello per le biciclette, quello per le auto. Osservo le scuole, l’asilo, la
chiesa, il lago artificiale, i negozi sotto i portici, lo sporting club, le
piscine, i parcheggi sotterranei, gli alberghi, il centro congressi, i
palazzi degli uffici, gli studi Mediaset. Sulla piazza antistante il
214
Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976
107
laghetto baby sitter annoiate incrociano frotte di impiegati in pausa
pranzo, tutti a dar da mangiare ai cigni che allungano spasmodico il
collo sulle rive. So di trovarmi in un quartiere simbolo. Un bizzarro
mix tra la città ideale del rinascimento italiano e une versione
sterilizzata e un po’ kitsch del sogno suburbano americano. È facile
qui sentirsi inseguiti dall’ombra del suo creatore, quel Berlusconi che
tra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta confidò ai suoi primi
soci di impresa: «Io farò una città dove c’è tutto, dalla clinica dove si
nasce al cimitero»215.
215
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 9
216
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 58
217
G. Ruggeri, M. Guarino, Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv, 1994, p. 46
108
proposta da meditare, un suggerimento concreto per il futuro della
città». Che a sua volta riprendeva quelli pubblicati nelle inserzioni
sui giornali, come il prestigioso Corriere della sera. Insistenza sulla
novità del progetto, con toni quasi utopici («Milano 2: un nuovo
modo di costruire»; «Una proposta abitativa d’avanguardia»).
Ricorso continuo alla legittimazione fornita dai saperi tecnici
(«Soluzioni urbanistiche veramente inedite»). Abuso della retorica
del fare («Dopo tante parole finalmente un’iniziativa concreta»).
Spudorata capacità di negare ogni evidenza («Un’alternativa
all’espansione edilizia disordinata e parassitaria»). Attenzione alla
sfera di una libertà individuale e quasi ludica («Proposte abitative
per le diverse esigenze», «Il diritto di giocare»). Molto
dell’armamentario comunicativo del futuro “presidente operaio” è già
leggibile in questi frammenti.
Il progetto Milano Due rappresentava, tra la fine dei Sessanta e
l’inizio dei Settanta, nel pieno dell’era della contestazione,
l’affermazione – passo dopo passo – del paradigma dello status
symbol. Non si trattava semplicemente di complessi residenziali,
bensì della manifestazione spaziale di un nuovo stile di vita.
Berlusconi si assicurò che i residenti fossero isolati dagli aspetti
“sgradevoli” della vita cittadina: traffico, criminalità, immigrazione,
operai scioperati, la città stessa. La “nuova Milano” fu creata secondo
una serie di caratteristiche architettoniche innovative. Il quartiere
era separato in modo netto dal resto della città, delimitato da muri,
ponti, strade. Gli edifici erano per la maggiorparte orientati verso
l’interno del complesso e raramente verso il territorio circostante,
circondati da verde e con un laghetto centrale. Un efficiente sistema
di portineria e vigilanza, sia diurna che notturna, completava il
quadro della sicurezza interna. Il caso di Milano Due è
esemplificativo della ridefinizione dei canoni che sono alla base dei
processi di progettazione e costruzione dello spazio urbano, e inoltre
è simbolicamente legato alla profonda trasformazione che
caratterizza la vita culturale italiana dalla fine degli anni Settanta218.
L’eterno profumo di Strapaese si mischia alle luci seducenti della
neotelevisione. La “rivoluzione conservatrice”, ossimoro efficace per
descrivere le trasformazioni politiche che alfine ne matureranno, era
già lì. In tutto ciò, solo agli inizi, l’idea della televisione era
considerata appena un servizio aggiunto, un fringe benefit, qualcosa
di simile al frigobar e allo schermo nelle camere d’albergo, un dippiù
218
E. Bazzaco, N. Origoni, Mia Milano: quale città, in www.eddyburg.it
109
per incrementare le vendite. «Come gli mettiamo la piscina – è il
ragionamento di Berlusconi – mettiamogli anche la televisione a
circuito chiuso»219.
219
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 47
220
Ibidem, pp. 33-34
110
aiutandosi coi finanziamenti della piccola banca in cui lavorava il
padre221. Nel 1963, dopo questa modesta partenza, Berlusconi fece un
improvviso e inaspettato salto di qualità con un megacomplesso
residenziale per 4000 persone, il corrispettivo di un paese di discrete
dimensioni, in una posizione non molto promettente fuori Milano,
località Brugherio, dominata da stabilimenti industriali e chimici e
isolata dai negozi e dal resto della popolazione. Il fatto che un gruppo
di investitori fosse disposto ad affidare a un ventisettenne alle prime
armi un progetto di quella portata riflette il clima di boom edilizio
che si respirava nella Milano dei primi anni Sessanta e nel contempo
dice molto delle capacità persuasive di Berlusconi222.
Brugherio fu, per molti versi, il suo primo grande affare e definì lo
schema della sua carriera futura. Per il progetto fu assoldato un
gruppo di architetti giovanissimi, alcuni ancora studenti all’ultimo
anno di università, guidati da Guido Possa, e che in buona parte
ritroveremo nei futuri progetti edili berlusconiani223. Già allora l’idea
era quella di «offrire un ambiente e non semplicemente un
appartamento soleggiato»224. Quando il progetto fu avviato, nel 1964,
il mercato aveva iniziato a cambiare direzione e nel 1965, quando i
primi 140 appartamenti furono completati, era in una fase di stallo.
Per cercare di risollevare le vendite fu lanciata una campagna
pubblicitaria, anche con l’apertura di un punto vendita al centro di
Milano. Gli slogan pubblicitari e la persuasione del cliente, come
raccomandava sempre il capo, erano già metà dell’opera. Per
esempio, uno dei claim del progetto era: «Quando a Milano piove, a
Brugherio c’è sempre il sole!». E fa niente se non era esattamente
vero: a Brugherio c’è lo stesso clima di Milano – nebbioso, grigio e
umido – con l’aggiunta dello smog delle fabbriche225. Dopo il primo
palazzo rimasto invenduto, i soci volevano chiudere. Berlusconi
insiste. Di fronte allo stallo del mercato e alla carenza di acquirenti
privati è capace di inventarsi anche metodi di persuasione meno
ortodossi. Le sue biografie autorizzate sono ricche di aneddoti in
odore di mito. Come quella volta che, per salvarsi dal fallimento di
Brugherio, decise di puntare sul mercato dei fondi professionali.
221
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 119
222
G. Fiori, Il venditore, 2004, pp. 29-31
223
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 16
224
Ivi
225
A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, pp. 34-35
111
Così, tra raccomandazioni di vecchi amici e corteggiamenti di
segretarie, si impegnò nel convincere i dirigenti di un importante
fondo pensionistico ad acquistare un blocco di appartamenti,
aiutandosi con un’elaborata messinscena. Per la vista al cantiere di
questi potenziali salvatori dell’affare, egli mise al lavoro tutti i suoi
uomini per ripulire, rassettare e rifinire tutto ciò che potevano, in
modo che quel posto sembrasse il più finito e presentabile possibile.
Per il giorno della visita Berlusconi fece in modo che un nutrito
gruppo di suoi parenti venisse al cantiere, fingendosi clientela
interessata all’acquisto di appartamenti. Il piano sembrava
funzionare quando arrivò «una cugina un po’ scema», secondo le
parole dello stesso Berlusconi, e iniziò a salutare e abbracciare tutti i
parenti. Il volto del dirigente del fondo pensioni si rabbuiò quando
divenne ovvio che era stato raggirato. «Che strano, evidentemente
tutti i vostri clienti non fanno parte di una cerchia molto ampia, visto
che si conoscono tutti». Poi si accese una sigaretta, gettò il pacchetto
nella toilette e disse a Berlusconi: «Caro giovanotto, qui è tutto molto
bello, bucolico ma, vede, ho appena finito le sigarette, quante ore mi
ci vogliono per comprarne un altro pacchetto?»226. La visita, quel
giorno, fu un disastro totale ma Berlusconi si diede da fare per
ribaltare la situazione. Alla fine il fondo di previdenza acquisto un
discreto numero di appartamenti a Brugherio, le banche finanziatrici
concessero nuovi generosi mutui, il mercato immobiliare conobbe
una fase di ripresa. In particolare il costruttore Berlusconi fece tesoro
della lezione del pacchetto di sigarette: era necessario dare appeal
alle zone periferiche, e soprattutto servizi. Così fu anticipata la
realizzazione di alcune strutture utili, come le scuole, il campo giochi,
una manciata di negozi e il mini-market, la cui realizzazione era
prevista soltanto al termine dei lavori. Berlusconi si applicò sulla
commercializzazione dei prodotti, sulla cura dei dettagli, sui rapporti
con i clienti. Non bastava vendere case: bisognava vendere il verde, i
servizi, i negozi, la sicurezza, il divertimento dei bambini, la
signorilità227. «La novità sostanziale stava nel ribaltamento
psicologico imposto da Berlusconi alla mentalità dei suoi clienti. Fino
a quell’epoca, un quartiere periferico sembrava destinato alle fasce
meno abbienti. Lui invece ribattezzò Brugherio con lo slogan: “Un
paradiso per quattromila”. E i proprietari dei suoi mille appartamenti
226
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 24-25
227
Ibidem, pp. 28-32
112
finirono per crederci, mentre gli urbanisti scuotevano il capo
increduli»228.
228
Ibidem, pp. 31-32
229
G. Fiori, Il venditore, 2004, p. 36
230
Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, p. 24
231
A. Balducci, M. Piazza, Dal parco sud al cemento armato, 1981
113
spandono nell’aria, tutti quei soldi caduti dal cielo, una domanda
ossessiva, «da dove vengono tutti quei soldi?». Ci si ferma lì.
3. Reparto vendite
232
Ibidem
233
E. Bazzaco, N. Origoni, Mia Milano: quale città, in www.eddyburg.it
114
urbanizzazione primaria e secondaria. Queste opere sono già tutte
previste nei progetti della società perché sono un elemento che
caratterizza il tipo di intervento»234. Alcune peculiarità sembravano
allora distinguere la Edilnord da altri operatori del mercato edilizio:
un’ampia disponibilità di capitale finanziario, una crescente tendenza
verso la diversificazione delle proprie attività e, almeno a Milano
Due, una concentrazione sulle fasi iniziali (organizzazione,
progettazione) e finali (gestione) dell’operazione, delegando a
imprese esterne la fase della costruzione vera e propria235. In fondo,
Berlusconi ci tiene a non essere confuso con un banale palazzinaro.
«Chi è il palazzinaro?» gli chiedono in un’intervista. E lui: «Uno che
improvvisa il cantiere, costruisce uno stabile, ma non pensa
nemmeno al marciapiede, di cui deve incaricarsi il Comune»236.
Gli architetti che progettano Milano Due sono una piccola squadra di
giovani laureati da poco, alcuni già reduci dall’impresa di Brugherio:
Guido Possa, Enrico Hoffer, Giancarlo Ragazzi e un gruppo di esterni
che di volta in volta li affianca. Nella Edilnord, tra una
trasformazione societaria e l’altra, oltre a Silvio Berlusconi ci sono il
fratello Paolo, il suo compagno di liceo Romano Comincioli, il capo
delle relazioni esterne Vittorio Moccagatta, il giornalista Giorgio
Medail, l’eterno braccio destro Fedele Confalonieri. Berlusconi li
imbarca tutti sull’aereo e li porta a vedere le new town del nord
Europa, in Gran Bretagna, in Olanda, in Svezia 237. Grazie a interviste
rilasciate dallo stesso Berlusconi, in una vecchia biografia scritta dal
giornalista Giorgio Ferrari, oppure in un lungo colloquio registrato
nel 2000 da Paolo Guzzanti e pubblicato nove anni dopo in un suo
libro, è possibile ricostruire i passi della nascita di questa “nuova
città” direttamente dalla testimonianza del suo creatore. È lui stesso
a spiegare che «preferivo avere a disposizione degli architetti giovani,
con cui stabilire un rapporto di collaborazione fortemente interattivo,
con cui poter progettare e adattare, discutendo i problemi man mano
che affioravano»238.
Uno dei primi problemi da affrontare fu quello della circolazione
stradale. Berlusconi insisteva per avere una città senza auto, o
234
A. Balducci, M. Piazza, Dal parco sud al cemento armato, 1981
235
Ibidem
236
R. Gervaso, La mosca al naso, 1980
237
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 21
238
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 18
115
almeno una città in cui auto e pedoni non avrebbero mai dovuto
incrociarsi. Per Milano Due il suo team adottò la soluzione di tre
circuiti del tutto indipendenti per vetture, biciclette e pedoni. «Mi
venne l’idea di trattare il traffico automobilistico alla stregua di un
fiume che scorre, cioè abbassato di qualche metro rispetto al livello
delle abitazioni e attraversato da numerosi ponticelli aventi pendenze
minime, in modo da favorire il transito di pedoni e biciclette. In
questo modo diventava possibile accedere a tutti i servizi senza
incontrare neanche un’automobile. Il sogno di chiunque,
insomma»239. Un’altra questione decisiva fu quella dei servizi.
Grande rilievo venne dato alle scuole e ai loro differenti raggi
d’affluenza: brevi per gli asili, uno per ciascuna delle tre unità di
Milano Due; più estesi per le due scuole elementari e per l’unica
scuola media. Numerosi erano i parchi giochi destinati ai ragazzi
secondo le diverse età. Il progetto prevedeva inoltre un edificio
religioso, uno Sporting Club e una piazza centrale che si affacciava su
un piccolo lago artificiale. «Era necessario vivificare il quartiere.
Ricordo che per vendere i negozi decisi di differenziare le locazioni a
seconda delle potenzialità di quel mercato per il singolo negozio, per
cui a certi negozi ho dovuto cedere anche gratuitamente i locali
perché era importante avere certi negozi, anche se non c’era un
livello di vendita da giustificarli. Avrebbe dovuto esserci anche un
grande centro diversificato per le mostre, ma il Comune non me lo
lasciò fare»240. Si decise che le costruzioni fossero di tre tipi: accanto
alle costruzioni basse a schiera, ospitanti al piano terra sotto i
“portici” i negozi, ci sarebbero state palazzine più alte, con la loro
forma ad “elle” e a “c”, poi ci sarebbero state le “torri” con
appartamenti più lussuosi, e infine altri stabili avrebbero ospitato un
hotel, un residence, palazzi di uffici. «Anche il concetto di
personalizzazione dell’appartamento – precisa Berlusconi – venne
ampliato: al cliente volevo dare la possibilità di collocare le pareti
divisorie del suo appartamento e di scegliere i materiali per i
rivestimenti interni»241. L’ambiente fu progettato valorizzando il
verde, inteso come tessuto connettivo dell’intero quartiere e
dell’arredo urbano. «Pensando a Milano Due realizzavo l’idea della
“casa di campagna in città”, di una casa che offriva molte delle
comodità proprie di una città, senza doverne sopportare il caos, lo
239
Ibidem, pp. 34-35
240
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 96
241
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 35
116
smog, la penuria di spazio. Ero convinto che Milano Due avrebbe
attratto abitanti, prima ancora che per l’accuratezza delle finiture o
per le felici soluzioni date agli appartamenti, per il fatto che
soddisfaceva il desiderio di un diverso stile di vita» 242. Milano Due
tuttavia non voleva essere una vera e propria “città-satellite”, ma
piuttosto una “città-figlia” della grande metropoli, capace di svolgere,
a differenza dei quartieri costruiti secondo i criteri dell’edilizia
popolare, un ruolo attivo. Sotto il progetto di Milano Due stava
un’ambizione smisurata. Berlusconi all’epoca disse: «Superato il
concetto del quartiere dormitorio (quello che serve unicamente al
pernottamento senza possibilità di divertimento, di comunicazione,
di relazioni sociali) e del quartiere ghetto (dove esistono attrezzature
capaci di favorire la vita comunitaria embrionale e il divertimento,
ma limitatamente alla piccola comunità residente con tutti gli
inconvenienti relativi, e cioè vita privata sotto controllo, pettegolezzo
eccetera), è stato allora pensato un quartiere “aperto” che, per la sua
particolare conformazione, consenta ai residenti di conservare la
privacy nelle zone residenziali e di instaurare nei luoghi di incontro,
appositamente concepiti, una osmosi vitale e di rinnovamento
continuo con la grande città; un quartiere cioè che, superdotato per
quanto riguarda le attrezzature commerciali, sportive, ricreative e
culturali, funga da polo d’attrazione nei confronti della città stessa,
dando vita a un flusso di scambi sconosciuto ai quartieri fino ad ora
realizzati. Un quartiere pilota che, profittando di questa prerogativa e
di altre particolari caratteristiche ambientali, possa costituire un
teatro ideale per lo sviluppo armonico della vita sociale, familiare,
individuale»243. Un progetto, dunque, che va al di là della pura e
semplice speculazione immobiliare. C’era «la voglia e l’orgoglio di
inventare una nuova formula urbanistica»244. Ma anche quella di
vendere, conquistare clienti. «Devi conoscere ciò che vendi e devi
soprattutto far capire i vantaggi che può dare a chi lo acquista.
Questo valeva soprattutto quando si dovevano vendere le case: io non
dicevo che bella casa, ma illustravo come sarebbe cambiata la vita di
chi ci fosse andato ad abitare»245. Racconterà in seguito Berlusconi:
«Ho cominciato dall’edilizia perché, finita l’università, ho creduto,
guardandomi in giro e con pochi soldi che avevo in tasca guadagnati
242
Ivi
243
Ibidem, p. 36
244
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 98
245
Ibidem, p. 159
117
quando ero studente, che quello fosse un settore che poteva dare i
profitti più alti: si costruiva a 100 e si vendeva a 200. Sono entrato
nell’edilizia, ma ho cercato di innovare. Le innovazioni sono state
molte, ne cito una per tutte: quando l’edilizia ha cominciato a
perdere i vantaggi dell’avviamento, anziché costruire case sparse
abbiamo costruito dei quartieri. Così, una volta finita la prima parte
del quartiere, c’era la possibilità di vendere anche tutto il resto,
fornendo tra l’altro dei servizi che esulavano dal concetto ristretto di
“casa”. Ed è in questo modo che abbiamo avuto successo»246.
246
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 36-37
247
Ibidem, p. 37
248
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 116
249
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 21
118
lasso di tempo consentiva a Berlusconi di finanziare le operazioni. I
primi ad acquistare a Milano Due furono dei clienti che avrebbero
voluto metter su casa a Brugherio ma che si erano trovati di fronte al
tutto esaurito. La domanda per la cittadella in costruzione a Segrate
si fece così sostenuta che l’impresa si mise ad adottare il sistema delle
“ricevute provvisorie”, vincolanti solo per il compratore e non per
l’impresa costruttrice, imponendo anche il rogito prima dell’ingresso
nell’appartamento. «Alla media borghesia bisognava dare l’idea di un
salto di qualità, anche se per noi non comportava nessuna spesa in
più. Per questo ho fatto delle case che vendevo molto prima degli
altri e a un prezzo superiore» 250. L’anno del boom fu il 1973:
Berlusconi disponeva di 30 accompagnatori e di 13 venditori. Nel
solo mese di maggio il valore degli appartamenti venduti ammontava
a 7 miliardi, di cui 1 miliardo e 700 milioni raccolto in un solo
weekend251. Per quella tipologia immobiliare, d’altronde, si trattava
quasi di un monopolio. Verso la metà degli anni Settanta si impose
però una nuova crisi del mercato. Allora, per vendere case e uffici la
Edilnord decise di ricorrere nuovamente agli investitori istituzionali
(anche di un certo livello, come la Banca d’Italia, la Ras
Assicurazioni, l’Ente Previdenziale Medici) che nei periodi di
recessione erano gli unici a potersi permettere acquisti. Grazie a
queste cessioni arrivarono a Milano Due molte famiglie affittuarie252.
Nel 1977 il mercato del frazionato riprese vigore. Furono completati il
Centro Direzionale e la piazza che si affaccia sul laghetto artificiale.
Dopo un tentativo di realizzare un piccolo polo fieristico (fu lanciata
la manifestazione “Milano Vende Moda”), la maggiorparte degli spazi
furono acquistati da grandi aziende per i loro uffici, come la Ibm. I
rendiconti di Milano Due parlavano chiaro: quel milione e
quattrocentomila metri cubi di costruzioni su 713mila metri quadrati
di superficie erano diventati un grande business 253. Alla fine del 1979,
quando tutto ormai era pressoché costruito, le abitazioni ancora
disponibili raddoppiarono di valore. Un appartamento a Milano Due
era ormai uno status symbol.
Addirittura si parlò di replicare il modello all’estero. A quanto pare,
Berlusconi cominciò a trattare il progetto di una San Paolo Due in
Brasile e perfino quello di una Teheran Due in Iran, su invito della
250
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 159-160
251
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 38-41
252
Ibidem, p. 50
253
Ibidem, pp. 50-51
119
sorella dello Scià di Persia allora ancora al potere 254. Non se ne fece
nulla, ma in compenso si tentò di replicare più vicino. Berlusconi ci
provò con Milano Tre, nel comune di Basiglio, ben più lontana dalla
vera Milano, che però non sarà affatto la fotocopia del precedente
successo. Risente di un mercato che ondeggia, della nuova legge
urbanistica Bucalossi che stabiliva un aumento degli oneri relativi
all’edificazione dei suoli, dei frequenti cicli negativi nel business
dell’immobiliare. Risente anche di un Cavaliere edilizio già
crepuscolare, quello che annoiato dai vecchi giocattoli ormai guarda
altrove, alla tv, ultima frontiera del nuovo255. Uno strumento
cresciuto proprio, inaspettatamente, sotto i portici di Milano Due.
Scriverà un biografo francese, Eugène Saccomano: «Fa lesto i suoi
conti. Tre soli piccoli minuti di pubblicità televisiva valgono il prezzo
d’un appartamento in un complesso residenziale che ci sono voluti
anni a costruire e che ha richiesto investimenti molto costosi»256.
4. Garden cities
254
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 26
255
Ibidem, pp. 30-34
256
E. Saccomano, Berlusconi: le dossier vérité, 1994, p. 63
257
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1990, p. 38
120
Abbiamo visto come molti autori, teorici ed empirici, si sono
occupati, in ogni epoca, della città e della sua, diciamo così, “visione
morale”. Mentre nel passato gli studiosi non si erano curati
dell’architettura e dell’estetica del progetto urbano, la crescita delle
maggiori città europee e nordamericane nel XIX secolo fece sorgere
le nuove professioni dell’ingegneria civile e della pianificazione
urbana. Si sa che in passato erano stati fatti molti tentativi di creare
la città perfetta, con pochissimi risultati sul piano pratico. Ma
nell’Ottocento il bisogno forzato di imprimere una pianificazione a
un’espansione delle metropoli che pareva non conoscere sosta
impresse un nuovo impeto alla progettazione urbana utopistica. I
manuali di architettura e sociologia urbana spiegano di due tendenze
concorrenti nella visione utopica della nuova città, entrambe però
concordi sul fatto che, per quanto la moderna metropoli industriale
fosse riuscita a incanalare il commercio e ad organizzare il controllo
politico, lo aveva fatto ad un costo in termini morali, spirituali, etici e
ambientali non più sopportabili258. Nella prima corrente di pensiero
viene incluso quel coro di voci appartenenti all’opinione pubblica
colta che vedeva nel modello di città classico e rinascimentale l’apice
della civiltà moderna, preoccupandosi in particolare dell’impatto che
la rivoluzione industriale poteva avere sulle occupazioni tradizionali
e le comunità locali. Sia i commentatori liberali che quelli
conservatori trovavano che vi fosse qualcosa di negativo nella città
industriale e commerciale, ma ciò che univa queste visioni
“tradizionaliste” o, già all’epoca, “nostalgiche” era la ricerca di quella
che Bruno Zevi chiamava la “città a scala umana”. Si andava così a
invocare, e progettare, un revival delle comunità civiche a bassa
densità, sotto le varie definizioni di new town e garden cities259. La
seconda corrente di pensiero è associata invece alla rivoluzione
estetica e artistica del modernismo, con il suo innamoramento per le
linee minimaliste, pulite e astratte, che doveva diventare la firma
collettiva di una nuova generazione di urbanisti ai quali la città
appariva come un luogo dalle infinite possibilità sperimentali260. Le
Corbusier ne fu il simbolo, attraverso il progetto della “città
funzionale” e con il passaggio dalla scala orizzontale a quella
verticale, espresso in modo particolare nelle unité d’habitation,
258
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, pp. 77-78
259
Ibidem, p. 78
260
Ivi
121
blocchi di torri geometricamente ordinate che sarebbero poi
diventate emblematiche dei programmi di edilizia popolare che
cominciarono a definire il paesaggio urbano delle città grandi e
piccole di tutto il mondo, a partire dagli anni Cinquanta. D’altronde
fu il suo best-seller Verso un’architettura, pubblicato nel 1923 a
contenere la famosa (o famigerata) affermazione secondo la quale,
come un aereo è una macchina fatta per volare, così «una casa è una
macchina fatta per abitare»261.
Sicuramente ciò che sembra fare al caso nostro è la prima delle due
correnti di pensiero, quella che poi sfocerà nello sviluppo del City
Beautiful Movement, del New Town Movement, del Garden City
Movement. Il suo massimo ispiratore è Ebenezer Howard, un inglese
emigrato negli Stati Uniti a ventuno anni, dove trovò lavoro come
stenografo a Chicago e si appassionò a talune letture di pensatori
spiritualisti alla Withman o utopisti alla Bellamy, e una volta tornato
in Inghilterra divenuto impiegato del tribunale di Londra. di Londra.
Non doveva essere molto indaffarato sul lavoro se nel 1898 trovò il
tempo per illustrare le sue teorie in Tomorrow, a paceful path to
real reform, opuscolo ripubblicato quattro anni dopo col titolo che lo
rese famoso, L’idea delle città giardino. Questo diventò il manifesto
di un nuovo movimento per la pianificazione, la Garden City
Association, che Howard aveva contribuito a fondare e che avrebbe
esercitato un forte influsso sulla pianificazione urbana
contemporanea in tutti i paesi anglosassoni262. Come ogni utopista
che si rispetti, alla base del suo piano c’era una big idea: salvare la
città dal congestionamento e la campagna dall’abbandono. La tesi di
Howard era piuttosto semplice: egli pensava che, tra il risiedere in
città oppure in campagna, ci fosse una terza alternativa «nella quale
tutti i vantaggi della vita cittadina più esuberante e attiva e tutte le
gioie e le bellezze della campagna si ritrovano in una perfetta
combinazione; e la certezza di poter vivere questa vita costituisce la
calamita che darà i risultati per i quali noi tutti stiamo lottando – lo
spontaneo muoversi della popolazione, dalle nostre affollate città
verso il cuore della nostra buona madre terra, fonte, insieme, di vita,
felicità, ricchezza e potere»263. La città giardino da lui immaginata
avrebbe unito i vantaggi della vita urbana ai piaceri della campagna
261
Ibidem, pp. 88-89
262
Ibidem, pp. 79-85
263
E. Howard, L’idea delle città giardino, 1962, p. 5
122
(uno slogan destinato, insomma, ad avere successo). In un certo
senso Howard – e non è il solo nella storia – non ha fiducia nelle
grandi città, e pensa che queste debbano essere divise in piccole unità
autosufficienti. Per il compianto Bruno Zevi, «come scrittore e
sognatore di nuove comunità, Howard è l’ultimo della lunga schiera
di utopisti del XIX secolo; come statista e realizzatore, è, più che un
profeta, il primo campione dell’urbanistica moderna»264. Non che lui
fosse il tipo autoritario che desiderava «muovere la gente di qua e di
là, come pedine su una scacchiera», ma era convinto che «le città
giardino fossero semplicemente i veicoli di una ricostruzione
progressista della società capitalistica che l’avrebbe resa simile a
un’associazione cooperativa di comunità affini». L’uso della metafora
della calamita voleva proprio mettere l’accento sulla sua convinzione
che, per riuscire ad affermarsi, la città giardino deve vendersi da sé,
deve essere una comunità di elezione invece che obbligatoria 265.
L’essenza della città utopistica di Howard è la comunità autonoma
tipica del villaggio feudale, collegata a un limitato sviluppo
industriale e messa in condizione di utilizzare i moderni mezzi di
trasporto per collegare l’uno con l’altro i centri urbani. Caratteristica
importante del progetto è, infatti, che questi “satelliti” fossero
collegati tramite ferrovie a una città centrale, in un insieme urbano
che Howard designava con il termine di “città sociale”. Al fine di
impedire che le città si fondessero l’una con l’altra, vi sarebbe stata,
tra un insediamento e l’altro, una cintura verde di proprietà comune,
formata da «campi, siepi e terreno boschivo»266.
Nel 1902 Howard mise alla prova le sue idee acquistando terreni a
Letchworth, un paesino a circa 35 miglia a nord di Londra e facendo
costruire un prototipo della città giardino. Poiché spesso l’urbanista
ha sentimenti totalitari, la vita nella città fu regolata
minuziosamente. Tutto era organizzato, non solo venne prescritto il
rapporto tra case e giardini, ma si vietò di aprire negozi in locali di
abitazione, si obbligò a cambiare zona agli artigiani che volevano
diventare piccoli industriali, si limitò il numero di professionisti in
ogni quartiere in modo che ognuno potesse avere abbastanza
clientela267. Nonostante tutto, il modello delle garden cities ebbe una
264
B. Zevi, Storia dell’architettura moderna. Dalle origini al 1950, 1961, p. 70
265
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 81
266
Ibidem, p. 82
267
S. Ballinetti, New town, old dream, in “Europa”, 3 aprile 2009
123
forte influenza sulle politiche urbane di vari governi, specialmente in
Nord Europa e negli Stati Uniti. Soprattutto nell’Inghilterra del
dopoguerra si svilupparono molte new town, che potremmo definire
figlie delle città giardino. Le new town seguono generalmente uno
schema urbanistico definito: al centro si trova un’area
amministrativa-commerciale, circondata interamente da quartieri
residenziali, separati a loro volta da parchi e piccole aree agricole,
caratterizzati da colorate villette a schiera con il tradizionale
giardino268. Così, da un lato le new town sono diventate dei discreti
quartieri residenziali, con gestione e prezzi da classe medio-alta, per
liberi professionisti o manager che lavorano nella vicina metropoli e
non certo per piccoli operai e agricoltori come immaginava
quell’utopista di Howard. Dall’altro verso invece le new town hanno
costituito la premessa per l’isolamento e il degrado di quartieri
periferici destinati a ceti medio-bassi, poveri o immigrati, come
quelle banlieues parigine agitate, agli inizi degli anni Duemila, dai
fuochi di un’esasperata rivolta.
268
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 83
124
l’erba»269. Negli anni del boom economico per frenare la crescita
incontrollata delle grandi città (Roma, Napoli, Milano, Torino)
vennero proposti faraonici progetti di new town da realizzare anche
in Italia. Si parlò molto della costruzione di due new town, una a
nord e una a sud di Roma, collegate alla capitale tramite due
superstrade, ma poi il progetto cadde nel vuoto270. Allo stesso modo,
negli anni Ottanta, nacque in ambito politico craxiano il progetto di
“MiTo”, presunta new town da insediare tra Milano e Torino, e lo
stesso allora premier Craxi vagheggiava “Mediterranea”, di qua e di
là del Ponte sullo Stretto, pure quello da realizzare271.
269
S. Ballinetti, New town, old dream, in “Europa”, 3 aprile 2009
270
Aa. Vv., New Town, in it.wikipedia.org
271
F. Ceccarelli, Il sistema del mattone, in “La Repubblica”, 9 dicembre 2008
272
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 110
273
R. Yates, Undici solitudini, 2009, p. 10
125
viene presentata come un’enclave della classe media,
sostanzialmente bianca, progettata per persone con poco più di
trent’anni, dove erano le donne, spesso casalinghe, a mantenere le
relazioni sociali, con un melting pot di religioni che però si arresta di
fronte alla possibile ammissione dei neri, dando adito a sentimenti
che si fondavano «non tanto sull’odio razziale quanto sulle paure di
natura economica e sociale». In questo suo studio degli anni
Cinquanta, intitolato How the New Suburbia Socialises, White
arrivava a una conclusione sul rapporto tra carattere e ambiente per
cui sarebbe il luogo a determinare il carattere di chi ci vive. Scriveva:
«Un tempo la gente odiava ammettere che il proprio comportamento
fosse determinato da qualcosa che non fosse la propria libera
volontà; questo però non vale per quelli che vivono nei sobborghi,
che hanno piena consapevolezza del potere pervasivo esercitato su di
loro dall’ambiente. Questo infatti è uno degli argomenti di cui
preferiscono parlare; e con questa crescente curiosità tutta laica
verso la psicologia, la psichiatria e la sociologia, essi discutono della
loro vita sociale usando una terminologia clinica che ci sorprende.
Ma non la vivono con disagio, perché le cose stanno così, sembra che
dicano, e il trucco non è combatterla ma comprenderla»274. È questa
la vittoria di una città chiusa, una città che non è una città, e che già
pare anticipare le tendenze future delle gated communities, dei
villaggi monoculturali e semiprivati.
274
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 111
126
tratta di comunità formate da cittadini sostanzialmente omogenei
per reddito, etnia, cultura, atteggiamenti e attese nei confronti della
vita. Evidentemente non tutto è così semplice come sui depliant
pubblicitari: ci sono dei nemici interni, come la delinquenza
giovanile, e degli agguerriti oppositori esterni che, quando si
ritengono lesi dalla privatizzazione di un bene pubblico (reti stradali,
parchi o servizi pubblici rimasti compresi nelle enclave) fanno causa
e la vincono275. Tutto richiama alle strategie difensive, dalla
militarizzazione dell’architettura degli edifici all’innalzamento di
barriere verso i settori popolati da differenti strati sociali,
dall’introflessione di spazi commerciali e di svago fino alla
trasformazione di abitazioni private in veri castelli fortificati.
275
A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008,
p. 54
276
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 112
277
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 39
127
l’Utopia di Thomas Moore è un libro che spesso Berlusconi
raccontava di regalare agli amici. Di più: lo fece direttamente
pubblicare in Italia, in cinquecento copie numerate e rilegate in oro
dalla sua prima casa editrice, nel 1978, in occasione del quinto
centenario della nascita dello scrittore. «Ancora universitario, avuto
tra le mani il libro di Thomas Moore, mi sono innamorato di Utopia e
ho incominciato a sognare di costruire un giorno una città perfetta
che si chiamasse così». Non lo diceva per scherzo. E difatti
l’intervistatore gli chiede: c’è riuscito? «Non ci sono evidentemente
riuscito, ma progettando nuove unità urbane, sia in Italia che in altri
Paesi, ho tentato sempre di avvicinarmi il più possibile a un modello
di città, un mio modello, senza colate di cemento, senza condomini
ad alveare, senza automobili, che potesse essere, per i suoi abitanti, il
teatro ideale per una vita più serena»278.
5. Milano Due
278
S. D’Anna, G. Moncalvo, Berlusconi in concert, 1994, p. 112
128
«Milano Due: operazione aria pulita». La separazione dei percorsi
pedonali e veicolari era ovviamente presentata come una soluzione
rivoluzionaria, profondamente innovativa. Nessuno ci aveva mai
pensato prima: «Milano Due è il primo esempio di città dotata di un
triplice sistema stradale completamente differenziato»279. Quella
della specializzazione funzionale dello spazio stradale era in realtà da
molto tempo un tema non solo ricorrente, ma persino banale del
dibattito urbanistico. Milano Due ne fa un’operazione sistematica e
vagamente spettacolarizzata, come si conviene alla volgarizzazione di
una soluzione che, ormai slegata da alcuna ricerca disciplinare, serve
soprattutto a costruire un’immagine di qualità, una nuance di
apprezzabile decoro280. Ho l’impressione che questa chiave di lettura
sarà una costante nella mia breve osservazione – diciamo etnografica
– di questa cittadella.
Ai lati della strada di spina, a ogni scalinata che la collega coi percorsi
ciclo-pedonali, accurati cartelli segnalano le residenze e i negozi e le
attività sociali che si trovano nei pressi. Ci sono molte panchine,
qualche cabina telefonica, genere ormai diventato vintage per i
progressi della telefonia mobile, ma qui ancora tenuta in perfetto
stato, e poi delle mappe nello stile delle mappe comunali che nelle
grandi città servono a indirizzare il turista disorientato. Ringhiere,
lampioni, pali, cancelli del quartiere sono tutti di un tipico e
compatto colore rosso, marchio cromatico di identificazione del
quartiere, come una silenziosa linea di demarcazione tra ciò che è
dentro e ciò che è fuori. La fluidificazione e soprattutto
canalizzazione dei percorsi per veicoli motorizzati avviene attraverso
rotonde e strade che innervano il quartiere come vene sottopelle, fino
ai garages posti sotto i palazzi residenziali, sotto i complessi di uffici,
sotto i prati da cui capita, all’improvviso, di vedere aprirsi delle
grandi prese d’aria. Un semiotico si soffermerebbe a riflettere sul
fatto che ogni percorso narrativo viene esplicitato, si tratta di un
ipercodifica, come avrebbe detto Eco trent’anni fa, vale a dire la
predisposizione di sceneggiature e di istruzioni per l’uso, in questo
caso relativamente ai luoghi, come del resto si confà a un posto
creato avendo bene in mente valori sia utopici sia pratici. Più
prosaicamente, mi viene in mente un vecchio monologo comico di
279
Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, p. 44
280
F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio
2001
129
Beppe Grillo, prima della sua trasformazione in guru della
contestazione politica. Raccontava di una volta che era stato a Milano
Due: «Tutto ordinato, pulito, perfetto… Entri e c’è un laghetto con un
cartello con su scritto “laghetto”, poi trovi un ponticello e c’è scritto
“ponticello”. Poi dici: “Mica mi stanno prendendo per il culo?”, e c’è
un cartello che dice “Si, ti stiamo prendendo per il culo”»281.
281
B. Grillo, Tutto il Grillo che conta: dodici anni di monologhi, polemiche, censure,
2006, p. 160
282
F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio
2001
130
un universo perfetto»283. L’omicidio di quei genitori che avevano
realizzato per loro quella utopia residenziale non rappresentava l’atto
di fondazione di una setta o un gesto rituale, ma la semplice
eliminazione dell’ultimo ostacolo da rimuovere per conquistare la
propria identità.
131
15 anni, volevo cominciare a spostarmi altrove, per i giri a Milano o
paesi limitrofi, ma a quell’età o hai un motorino per uscire da solo,
oppure devi chiamare un taxi ma costa troppo, altrimenti gli autobus
sono pochi, e alle 23 e 30 finiscono le corse… uscire fuori la sera
diventava difficile». Il fatto è che avere pochi collegamenti coi mezzi
pubblici faceva parte del gioco, era un prezzo da pagare
all’esclusività. «Milano Due è nato per essere e rimanere un
residence esclusivo, e questo significa per poche persone. Per
esempio, esisteva un progetto per prolungare la linea della
metropolitana dal centro fino a Milano Due, ma sono state fatte
proteste e alla fine non è stato realizzato. C’erano dei progetti per
aprire pub, cinema, locali di tendenza, ma sono stati tutti contestati
in quanto sarebbero stati dei mezzi di attrazione delle masse… e
come sai, spesso e volentieri, purtroppo, le masse di turisti, arrivano,
consumano, sporcano e poi se ne tornano a casa, violando la
tranquillità del posto». Andrea non gira più tanto per Milano Due,
ormai la sua vita sociale si è spostata altrove, a Milano città. Gli
chiedo se frequenta lo Sporting Club, che mi sembra ancora un punto
di ritrovo per la comunità. Dice che è vero, mi ha dato appuntamento
qui anche perché è uno dei posti centrali del quartiere, ma lui ha
smesso di frequentarlo. Una retta di 3.000 euro l’anno gli sembrava
esagerata per una palestra. «Ma anche una retta così esageratamente
alta è fatta apposta, affinché non sia una cosa accessibile a tutti». Gli
chiedo se ci sono stati, a suo avviso, dei cambiamenti nel corso degli
anni rispetto alle abitudini di chi vive nel quartiere e al tipo di gente
che ci abita. Se, insomma, Milano Due può ancora vantarsi di essere
quel paradiso di esclusività. «Purtroppo no. Quando ero piccolo,
Milano Due era un posto d’elite, frequentato ed abitato solo da
signori con la esse maiuscola. Gente benestante, raffinata, dai bei
modi, altamente cordiale. Con il passare degli anni, e con l’aumento
del benessere, a Milano Due è venuto ad abitare anche chi prima non
se lo poteva permettere. E soprattutto sono venute ad abitare
moltissime coppie giovani della nuova generazione. Queste nuovi
abitanti non hanno nulla a che vedere con lo spirito originale di
Milano Due. Spesso si tratta di persone molto arroganti, cafone,
altezzose. I classici “macellai arricchiti”, lontani anni luce dai veri
signori di Milano Due che purtroppo stanno via via scomparendo con
il passare degli anni». Non esiste più la Milano Due di una volta,
insomma. Significativo che a dirmelo sia proprio un ex bambino di
Milano Due, un ragazzo cresciuto qui, fiero di questo quartiere
“esclusivo” e, mi pare di capire, anche di chi l’ha creato. «Guarda che
132
ancora oggi, quando parlo con qualcuno e dico che abito a Milano
Due, loro si tirano giù il cappello».
133
Berlusconi e i suoi collaboratori presero alcune idee. Ma in questo
caso tutto si gioca su un piano diverso, che non è più quello
dell’architettura “alta” o della coerenza linguistica dell’oggetto: si
tratta piuttosto di un’edilizia speculativa che incorpora nel progetto
elementi eterogenei ma riconoscibili, già entrati in qualche modo in
un immaginario condiviso285. «I colori sono quelli della città, di
quando la città non era stata mangiata dal fumo delle macchine e
delle ciminiere» scrive Natalia Aspesi sul volume della Edilnord,
poco dopo aver accostato una «Milano 1 per trovarsi al centro di
tutto» a una «Milano 2 per ritrovare se stessi»286.
Un indizio significativo è che mentre le architetture di Milano Due
non erano “firmate”, ma ufficialmente affidata all’ufficio tecnico
Edilnord, la campagna per la vendita degli alloggi giocava in
compenso con forza sulla corporate identity, sulla partecipazione al
progetto di aziende i cui nomi e i cui marchi fossero riconoscibili,
come garanzia di qualità: Max Meyer e Louis de Poortere, B Ticino e
Saint Gobain.
285
F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio
2001
286
Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, pp. 32-33
134
tifo, infine leader del partito di maggioranza relativa e comandante in
capo del loro (e di tutti gli altri) governo.
135
sorveglianti (i “verdoni”, così chiamati per la caratteristica divisa
verde) non è riuscita a tenere lontana la paura degli “zingari” e dei
“ladri” neppure a Segrate. Che tipo di reati si verificano a Milano
Due? «Nella maggiorparte dei casi si tratta di furti di automobili, poi
c’è qualche scippo, qualche furto in appartamento. Da un paio d’anni
però si verificano alcuni atti di delinquenza più grossi, risultano dei
furti in appartamento di notte, mentre i proprietari stessi dormivano
in casa, addirittura qualche rapina a mano armata nei negozi». Il
sindaco di Segrate sostiene che i reati commessi nel quartiere, per
numero e per tipologia, siano inferiori a quelli di altre aree. Secondo
Pierpaolo il sindaco tutto sommato ha ragione. È chiaro che i ladri
siano invogliati a venire a rubare nelle case della zona più
benestante. Aggiungiamoci poi che qui ci si sente come abitanti di un
piccolo centro, quindi il vissuto è maggiore, le voci si spargono,
spesso si ingigantiscono. «Occhio, però. Non pensare che Milano Due
sia un ghetto per ricchi. Guarda che anche qui ci sono degli operai,
degli immigrati, forse anche dei poveri».
136
altre zone». L’Espresso puntava il dito anche sull’allarme sicurezza.
Dalla vicina stazione dei carabinieri contano 30 furti in
appartamento all’anno, altrettanti colpi tentati, qualche rapina, 20
scippi e numerosi furti d’auto. Addirittura, massima sirena d’allarme,
le signore si sarebbero organizzate per accompagnare a turno i figli a
scuola, «perché a mandarli soli non si sa mai»287.
287
G. D’Imporzano, 2009 Fuga da Milano Due, in “L’Espresso”, 5 dicembre 2009
137
condominiali e lotte all’ultimo sangue sui decimi catastali, terreno da
sempre minato. Una volta fu lo stesso Berlusconi a ricordare di
quando nella sua Milano Due fu il legislatore delle spese
condominiali, «quindi un’esperienza in cui mi sono formato proprio
in trincea, sentendo da vicino la signora Maria o il commendatore
Giuseppe che protestavano. Quando uno ha fatto la Bicamerale
sembra ridicolo, però erano problemi»288. Secondo Roberto, il vero
problema di Milano Due oggi sono il traffico e i parcheggi. Ma come,
non era la città senza auto? Il fatto, mi spiega, è che il numero dei
possessori di auto è aumentato. E c’è chi teme anche l’avvio di nuovi
progetti edificatori nei terreni circostanti rimasti vuoti. Allo stesso
tempo bisogna fare i conti con presenze ingombranti, come quella del
mega-ospedale San Raffaele, la casa di cura dove un prete
attivissimo, don Verzè, dice che l'immortalità terrena non sarà
peccato289, nel frattempo macinando sempre nuovi lotti di terreno, e
che pure fu provvidenziale per ottenere, negli anni Settanta e con
buoni agganci politici lo spostamento delle rotte dei fastidiosi aerei in
decollo da Linate290.
288
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 117-118
289
S. Rossini, Sono il bisturi di Dio. Intervista a don Luigi Verzé, in “L’Espresso”, 30
aprile 2004
290
A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, pp. 40-41
138
sembrava poco fa di camminare in un plastico, ma invece gli chiedo
se anche lui ha notato dei cambiamenti negli abitanti e nella
comunità di Milano Due, col passare degli anni. Mi dice che quando
arrivò qui con la famiglia erano contenti, perché dava l’impressione
di un paese. Anche negli aspetti potenzialmente negativi: un posto
dove ci si conosce tutti, e tutti credono di sapere tutto di tutti, con gli
immancabili pettegolezzi. Ricorda le prime riunioni di comprensorio
fatte al bar sotto i portici, oppure allo Sporting Club. Anche lui è
preso dalla nostalgia del “pioniere”, dal non riconoscere più quelli
che sono arrivati dopo e abbandonano i “valori fondanti” della
comunità. Anche lui soffre della nostalgia per “la Milano Due di una
volta”, in questo singolarmente accomunato al ragazzo poco più che
ventenne incontrato prima. «Molti altri, specialmente i nuovi arrivati
o quelli più giovani, non fanno vita di quartiere, non sentono la
comunità. Usano il quartiere come un dormitorio. Questa per me è
una cosa preoccupante: quando non ci saranno più questi comitati di
residenti, questi vecchi dirigenti, che fine farà Milano Due? Non c’è
una seconda leva. Molti si lamentano della troppa calma, ma io dico
che anche in città la sera è lo stesso mortorio». Come per tutti i
residenti di vecchia data, anche nella libreria di Roberto campeggia
una copia del volume della Edilnord, Milano 2: una città per vivere.
All’interno ci sono molte fotografie, di qualità diseguale (tra i
fotografi compare anche Paolo Berlusconi). Testi che saccheggiano il
gergo delle relazioni tecniche degli architetti e degli urbanisti.
Occasionalmente, brevi inserti letterari firmati tra gli altri da Gianni
Brera, Natalia Aspesi, Enzo Siciliano, Isa Vercelloni. Evidenzio
l’ironia del destino di molte firme “di sinistra”, sicuramente avverse
al sistema berlusconiano nei decenni successivi, che si sono ritrovate
a tessere l’elogio dell’idea berlusconiana di Suburbia degli anni
Settanta. Non potevano certo immaginare, mi dice, eppure quello che
lui ha fatto era già allora sotto gli occhi di tutti. In bene, si intende. È
irritato da quelli sono accecati dal pregiudizio politico, da quelli che
quando sentono “vivo a Milano Due” subito ti guardano male perché
odiano Berlusconi, come quelli che quando gli dici “sono di Latina”
subito fanno la faccia brutta e pensano a Mussolini.
Una cosa è chiara: Milano Due non era solo un progetto residenziale,
era una dichiarazione culturale. L’ha ben descritta il giornalista
Alexander Stille: «In un’epoca in cui gli squatter occupavano le case
come gesto di affermazione politica e in cui vi era una forte pressione
sociale perché le persone si dissociassero da tutto ciò che era
139
borghese, Milano Due era un’oasi di lusso e abbondanza
all’americana, un mondo separato rispetto al centro di Milano, dove i
cortei degli studenti di destra e di sinistra si scontravano e si
lanciavano bottiglie molotov per le strade. Milano Due era un luogo
dove un uomo poteva portare un rolex e una donna indossare una
pelliccia senza timore né vergogna. Naturalmente il denaro più
stagionato di Milano viveva ancora nella riservata eleganza dei
palazzi del centro attorno a via Manzoni o nelle vecchie ville fuori
città, ma Milano Due offriva una vita di consumismo esibizionista a
una nuova classe di manager in ascesa, dirigenti di medio e alto
livello, mediatori finanziari e pubblicitari. Nella cultura sinistrorsa
dell’epoca, Milano Due rappresentava una sorta di contro-
controcultura che anticipava la versione italiana del fenomeno
“yuppie” degli anni Ottanta»291.
140
collegati, quelli delle famiglie di Milano Due. Il canale trasmetteva
informazioni sulla vita del quartiere, vecchi documentari, programmi
realizzati per gli studenti delle scuole, rubriche di salute realizzate col
vicino ospedale San Raffaele, trasmissioni indirizzate
prevalentemente a un pubblico casalingo e femminile. Per Berlusconi
offrire un canale tv ai suoi inquilini costituiva un valore aggiunto, un
piacevole optional. Bisognava assecondare e investire sul sentimento
del “vivere bene”, ormai diventato valore di vita a tutti gli effetti. Già
da questo è possibile rintracciare le linee di fondo che guideranno la
sua politica nel futuro. La tv è uno degli attrezzi del vivere bene,
merce tra le merci, oggetto estraneo a qualsiasi processo educativo o
divulgativo293. Racconterà Berlusconi che all’inizio il progetto era
ancora più particolare: «A Milano Due è cominciata la televisione
interna, per mettere in grado le mamme di potere seguire i propri
ragazzi in tutte le situazioni. Da casa, con una televisione a circuito
chiuso, nata appunto con l’intento di fare vedere la piscina, la
palestra, il campo giochi, la scuola, era un servizio in più per una
città modello, avanzata. Milano Due, per intenderci, ha anche il
riscaldamento centralizzato, un’unica centrale garantisce il caldo a
tutto il quartiere».294 Una tv, insomma, più per guardarsi che per
guardare, nel vero senso del termine. Una vita televisiva che tende a
farsi vita quotidiana. E poi anche viceversa, ma qui il discorso si
farebbe più complicato. «Ricordo che la prima annunciatrice era la
mia vicina di casa» mi aveva raccontato Roberto, abitanti del
quartiere fin dai primi tempi. Mi era sembrata, involontariamente,
una metafora perfetta. I programmi televisivi visti come dei
contenitori, e a essere contenuti siamo proprio noi, le nostre vite
materiali e immateriali, le nostre pulsioni e i nostri desideri, consci e
inconsci.
293
V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V.
Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, p. 59
294
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 93-94
295
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 38
141
proposito, fiorirono emittenti in tutta Italia e Berlusconi iniziò a
costruire il suo impero mediatico. La sua strategia, come ha
osservato Giuseppe Fiori nella biografia Il venditore, prevedeva
quattro fasi tattiche connesse l’una all’altra. Prima fase: la pubblicità.
Berlusconi creò speciali squadre di venditori. La sua televisione
riuniva il mezzo, il messaggio e la centralità della vendita. Come ebbe
a dire, «io non vendo spazi, vendo vendite». I profitti dell’azienda
pubblicitaria di Berlusconi, Publitalia, aumentarono di 73 volte tra il
1980 e il 1984. La tv di Berlusconi «capovolse il nostro modo di
guardare la tv. Invece di interpretarla come una serie di programmi
con interruzioni pubblicitarie, Berlusconi considerava la televisione
“libera” e “privata” come un vasto territorio per la pubblicità, uno
straordinario veicolo di comunicazione commerciale»296. Seconda
fase: i programmi, soprattutto giochi a quiz, telenovelas, telefilm
americani e film, che spesso venivano cambiati secondo il volere
degli sponsor. Lo spettacolo aveva la funzione di attrarre
consumatori. Terza fase: le star, che cominciarono a comparire
personalmente negli annunci pubblicitari. Quarta fase: la sede a
Milano (il logo dell’azienda berlusconiana, il famoso Biscione, era un
simbolo di Milano e della casa automobilistica Alfa Romeo), con la
rapida estensione della copertura a tutto il Paese. TeleMilano iniziò a
trasmettere via etere, fuori dalla cittadella originaria di Milano Due,
nel 1978, in seguito all’installazione di un’antenna sul grattacielo
Pirelli297. Nel 1980 prese il nome di Canale 5, primo tassello
dell’impero Fininvest, poi Mediaset, scalando ascolti e fatturati,
modificando il costume degli italiani, le loro abitudini e i loro
consumi, il linguaggio e i loro sogni. Il negozietto sotto i portici di
Milano Due era stato abbandonato da tempo. Berlusconi e il suo
centro operativo milanese furono in grado di battere qualsiasi forma
di concorrenza, per mezzo di una controversa legislazione e di
importanti appoggi politici, come quello del Partito Socialista di
Craxi allora al governo.
296
F. Colombo, Le tra stagioni, in “Problemi dell’informazione” n. 4, 1990, p. 590
297
G. Fiori, Il venditore, 2004, pp. 91-95
142
voglia del popolo che ora si fa chiamare pubblico di intrattenersi,
divertirsi, comprare. È il primo – decisivo – avvicinamento tra
Berlusconi e l’immaginario collettivo italiano. Il feedback è palpabile,
le sue tv sono amate e seguite. Non sono mosse da istinti pedagogici,
non educano per forza gli spettatori, non ne censurano i desideri più
profondi, non promuovono ideologie di Stato ma di mercato.
Assecondano l’edonismo emergente della società italiana e il
desiderio di spettacolo298. Berlusconi alimenta quindi il proprio
successo economico insinuandosi nei luoghi, costruendoli e
promuovendoli, lì dove la vita sociale si dispiega e prende una forma.
La città di cemento prima, quella elettronica poi. Come ha scritto
Alberto Abruzzese: «Ha edificato il suo impero, speculando
alacremente e abilmente sul mattone e sull’immagine cinetelevisiva.
Sul più tradizionale strumento di costruzione del territorio fisico e
sul più avanzato strumento di comunicazione immateriale di cui si
serve la civiltà di massa. Due modi selvaggi di arricchire. Ma anche
due forme dell’abitare. Dalla centralità della casa alla centralità della
tv: è la storia della Prima Repubblica»299. È la costruzione di un
popolo. Ciò, nonostante risulti chiaro che «l’impero di Sua Emittenza
è fuorilegge», basato sull’aggiramento e la violazione delle regole300.
Allo stesso tempo egli abbatte il tempo delle morigeratezze statali in
favore di un edonismo privato e individualista. Ancora Abruzzese:
«Le emittenti private, con vecchi film o rozze sceneggiate in studio,
oroscopi o persino dibattiti politici, invadono la notte. Il tempo Rai è
vinto. La città di Stato non regge la domanda di evasione. Il cittadino
(anche se nella dimensione di avanguardia di massa) viene
sequestrato al rapporto equilibrato tra tempo di lavoro e tempo
libero. Gli spazi e gli orari tradizionali non bastano più»301.
298
V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V.
Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, pp. 61-62
299
A. Abruzzese, Elogio del tempo nuovo. Perché Berlusconi ha vinto, 1994, p. 50
300
G. Fiori, Il venditore, 2004, p. 105
301
A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, 2001, p. 121
143
metropolitana e certamente suburbana – erano espressione e
contribuirono a creare gli anni edonisti del secondo boom degli anni
Ottanta. Si tratta del periodo storico in cui l’ascesa dell’economia
dell’immagine coincide con una profonda ristrutturazione del
sistema produttivo. Aumenta la quota economica di terziario e
servizi, vanno in crisi le grandi produzioni industriali, si moltiplicano
le piccole imprese. L’abbandono della politica, il declino dai valori
collettivi, il cosiddetto riflusso nel privato non erano altro che un
riflesso. «I varietà, i telequiz, gli innumerevoli spot pubblicitari, le
fasce orarie sponsorizzate e i telefilm importati sostituivano i vecchi
punti di riferimento in declino: la chiesa, i partiti di sinistra, il
movimento sindacale, i valori di parsimonia e sacrificio» 302. Per altri
versi, Carlo Freccero ha osservato: la tv commerciale veniva a dare
un’identità alle periferie, che non trovavano risposta nelle grandi
narrazioni politiche di allora. E ha aggiunto: in una Italia dominata
dall’informazione e dalla politica il pubblico voleva divertirsi. Essere
inizialmente privi di telegiornali era un elemento di forza, non di
debolezza, di quelle televisioni303. Molti dei neoabitanti di Milano
Due furono i protagonisti del boom finanza / pubblicità / moda degli
anni Ottanta, quando Milano si scrollò di dosso la sua fosca
immagine di città industriale. La cittadella di Segrate diventerà sede
di molte aziende del gruppo economico berlusconiano, come
Publitalia, e residenza di molti suoi dipendenti, comprese alcune star
delle sue televisioni. Nel piccolo centro di produzione tv, proprio
davanti al laghetto dei cigni, vengono ancora registrate due
trasmissioni emblematiche del gruppo: il Tg4 di Emilio Fede e il
varietà satirico Striscia la notizia di Antonio Ricci. Passeggiando per
il quartiere inciampo in due ragazzini che tornano da scuola.
Indicano col dito lo studio a vetrata all'angolo della strada e
sorridono. Dentro c’è Emilio Fede e una segretaria che gli spalma del
cerone sulla faccia.
302
S. Gundle, S. Parker, The New Italian Republic, 1996, cit. in J. Foot, Milano dopo il
miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 122
303
G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, 2009, p. 134
144
artistico e organizzazione eventi e ci è anche venuto a vivere,
comprandosi un appartamento con la sua fidanzata. Lo incontro nel
suo ufficio, open space da creativo ma non troppo disordinato,
televisore acceso su un programma pomeridiano di Canale 5 dove
l’onorevole Alessandra Mussolini sbatte per terra un giornale e
strepita che lei coi video hard non c’entra niente. Chiedo a Marco da
dove viene questa attrazione per Milano Due. «Da ragazzino vivevo a
Milano città eppure già mi piaceva frequentare questo posto. All’età
di tredici/quattordici anni avevo una comitiva di amici e il nostro
punto di ritrovo era proprio il laghetto dei cigni». Conta molto, mi
sembra, la prospettiva del sogno: il sogno degli anni Ottanta, il sogno
della tv e della carriera, il sogno di un eden sereno e benestante.
«Milano Due è stata davvero di moda per qualche anno, ora si è
normalizzata, in un certo senso già appartiene al passato. Sebbene un
passato ottimamente mantenuto. L’allure borghese, la classe della
Milano da bere degli anni Ottanta, la tv e la pubblicità rampante,
quello era il mondo di riferimento di Milano Due, quel mondo che io
guardavo con desiderio già da ragazzino». Marco dice di aver scelto
di venire a vivere qui perché puoi avere tutto a portata di mano,
perché c’è silenzio e tranquillità, perché se dovesse avere un figlio c’è
un ambiente sicuro in cui farlo crescere. Le stesse caratteristiche per
cui molte persone, soprattutto giovani, odiano Milano Due. C’è
troppa calma, dicono. Io ho vissuto abbastanza nel caos del centro
città, dice Marco, per apprezzare il contrario. Nonostante ciò lui non
sta tutto il tempo dentro Milano Due. «Vado a Milano almeno due
volte al giorno, per appuntamenti e pranzi di lavoro ma anche perché
mi impongo di non farmi rinchiudere qui, di non assuefarmi. È facile
fossilizzarsi qui. Specialmente per chi, come me, ha la casa e il lavoro
a pochi metri di distanza». Mi ripete più volte questo concetto: «Per
me Milano Due è una specie di Truman Show. Vivi una realtà che
non si realizza altrove, è come stare in una bolla». Il problema è che
Milano Due sta invecchiando, aggiunge. A quanto pare c’è una
chiusura, un tappo generazionale anche qui. I prezzi troppo alti delle
case impediscono ai figli della prima generazione, o a quelli che
potrebbero esserlo, di riuscire a venire a vivere in questo quartiere.
Come se non bastassero i prezzi del mercato immobiliare, solo adesso
in leggero calo per la congiuntura economica, ci sono spese
condominiali altissime. Mi rivela che con la sua fidanzata deve
pagare circa 400 euro al mese per un appartamento di 100 metri
quadri. Gli appartamenti poi sono tutti di taglio grande, pensati per
145
le famiglie di un tempo, con due o tre figli. Poco adatti per un giovane
single o una coppia.
Insomma, è chiaro: «I giovani oggi non hanno accesso a Milano Due.
Loro, i vecchi residenti, lo hanno bloccato». Marco racconta di essere
l’unico giovane nella residenza dove abita. Si lamenta che è difficile
farsi amici in questo quartiere, creare relazioni di vicinato, quando
lui esce di casa la mattina spesso i vicini di palazzo nemmeno lo
salutano. Resiste un certo congenito snobismo, l’idea di appartenere
a una classe superiore, anche solo per il fatto di vivere qui.
«Comunque da Milano Due sono usciti tanti ragazzi, nati e cresciuti
qui, che ora sono in molti punti chiave della classe dirigente
milanese. Io la chiamo la P2 di M2, passami il gioco di parole. In
fondo quella di Milano Due è anche una lobby. Pensa che al piano di
sopra c’era l’appartamento di Dell’Utri. La prima moglie di Paolo
Berlusconi vive ancora qui. Lo stesso presidente, Silvio, possiede una
torre di appartamenti qui, se li tiene per le diverse esigenze. Le veline
di Striscia, nel loro contratto, hanno un appartamento garantito a
Milano Due. Fede lavora qui e vive nella residenza a nord, vicino al
San Raffaele. Ogni tanto capitava di vedere Vianello giocare sul
campetto di calcio, in fondo la famosissima Casa Vianello del telefilm
esiste nella realtà ed è domiciliata qui a Milano Due». È il mondo del
sogno berlusconiano, pazientemente coltivato, butto lì. Si, mi
risponde, ma fondamentalmente è un mondo invecchiato. «Quella
che si trovava negli anni 80 era davvero una Milano rampante,
“Milano da bere” come diceva la pubblicità, e qui si respirava davvero
l’aria di un Truman Show di bella gente. La cosa è scemata. Oggi è un
po’… bho, forse come Lugano». Come dimostrazione dei meccanismi
sociali di Milano Due, si mette a spiegarmi come funziona lo Sporting
Club, quello dove ci sono palestre, piscina, campi da calcio e da
tennis, sauna, sala per giocare a burraco, insomma il vero fulcro del
bon vivre del quartiere. Ovviamente, all’insegna della vera
esclusività. Non basta iscriversi (pagando un abbonamento di circa
1.500 euro l’anno) ma occorre acquistare una quota, come una
società per azioni, e le quote sono limitate e costano 5.000 euro
cadauna. Nel tempo, dice, si è creato un commercio sottobanco di
quote, a prezzi stratosferici, in un sistema un po’ opaco che a me
ricorda quello delle licenze dei tassisti.
146
fosse un parco. Una scena che per un attimo mi evoca la ricerca della
felicità, i consumatori che premono sulle mura del quartiere felice,
che cercano l’invasione (ma il quartiere felice, sia chiaro, non
concede permessi di soggiorno a nessuno, come lo Sporting Club).
Milano Due, in fondo, attrae perché è glamour. Il glamour, per dirla
con John Berger, non può esistere senza l’invidia sociale come
emozione comune e diffusa. Lo scrittore inglese ha attirato
l’attenzione su alcuni elementi che servono a farci capire la
sottigliezza di questo album di paesaggi in apparenza così scontato,
così fuori dal tempo, eppure di successo. La società industriale
moderna si è avviata verso la democrazia, scrive, per poi fermarsi a
metà strada. Il glamour – ovvero lo stile, la classe – scaturisce da
questo: «la ricerca della felicità individuale è stata riconosciuta un
diritto universale», tuttavia la nostra situazione è tale che gli
individui si sentono impotenti304. In compenso, tutto ciò che ci
circonda è improntato alla pubblicità. E la pubblicità è il processo di
produzione del glamour. Spiega Berger: «La pubblicità parla di
relazioni sociali, non di oggetti. La sua non è una promessa di
piacere, ma di felicità. Felicità misurata dall’esterno, col metro di
giudizio degli altri. La felicità di essere invidiati è glamour. Essere
invidiati è una forma solitaria di rassicurazione»305. Ma è un sistema
così ben costruito, difficile da decifrare. «La pubblicità è, per sua
natura, nostalgica. Deve vendere il passato al futuro. Da sé non è in
grado di soddisfare gli standard che essa stessa pone. E di
conseguenza tutti i suoi riferimenti alla qualità sono vincolati alla
retrospettiva e al tradizionale. La pubblicità deve volgere a proprio
vantaggio l’educazione dello spettatore-compratore medio.
Riferimenti imprecisi o insignificanti non importa: non devono
essere comprensibili, ma semplicemente rinviare a lezioni culturali
imparate a metà»306. Rileggo le parole chiave: glamour, nostalgia,
pubblicità. Colgo una provvisoria illuminazione: Milano Due come il
Mulino Bianco di quel famoso spot degli anni Ottanta/Novanta con
la famiglia di campagna che fa colazione felice. Idea patinata,
posticcia e però indubbiamente efficace di un “ritorno alla natura”, di
un felice rinchiudersi nei confini del proprio orto, della propria
comunità. Forse Milano Due potrebbe collocarsi in una visione “di
destra”, della media borghesia rampante e poco desiderosa di
304
J. Berger, Questione di sguardi, 2007, pp. 133-150
305
Ibidem, p. 134
306
Ibidem, pp. 141-142
147
contaminazioni, in cerca di una “casa di campagna in città” e dunque
addomesticata, con tutti i confort. E invece il Mulino Bianco in una
visione “di sinistra”, di quella media borghesia pseudo-colta, disillusa
dalla politica e in cerca di un’isola di introiezione per dimenticare,
magari un casale in campagna o un agriturismo. Diceva ancora
Berger, chiudendo il cerchio, che «la pubblicità trasforma il consumo
in un surrogato di democrazia»307. Mi viene in mente che nel 1993,
alla vigilia dell’entrata in politica di Berlusconi, in allegato al
settimanale satirico Cuore, uscì una musicassetta intitolata Forza
Italia, nella quale, oltre alle canzoni Voglia di Biscione e Ritmo
politico, era presente un pezzo intitolato La vendetta del Mulino
Bianco. Ne riporto una strofa, a mio avviso particolarmente
significativa: «Il mio mulino non è proprio un mulino / sono due
camere al Tiburtino / e al mattino io mi sveglio affranto / altro che
biscotti mi ci vuole un trapianto / apro la finestra, senti che casino /
sirene, grida e squilli di telefonino / le nove del mattino, sono così
stanco / e questo non succede nel Mulino Bianco».
7. L’architetto di fiducia
307
Ibidem, p. 151
148
inventare. Perché il territorio milanese era già molto armato, dal
punto di vista delle infrastrutture, e anche presidiato da una serie di
poli urbani stratificati nel tempo, già dotati di una loro identità, di un
loro senso di appartenenza. E se io ho una comunità che non ha
senso di appartenenza quella non è una comunità, è un qualche cosa
di fluttuante, in cerca di un’identità». Il punto nodale lo mette subito
in chiaro: in quell’epoca abitare in centro era da privilegiati e
borghesi, abitare in periferia era da classe operaia o da straccioni.
C’era grande fame di abitazioni e di speranze, ma non c’erano vie di
mezzo, almeno nell’immaginario popolare. «Noi abbiamo detto: ma
se rompiamo col cliché di sviluppo, di saturazione degli isolati, nella
griglia urbana tradizionale… evidentemente si poteva fare qualche
cosa che non si poteva realizzare all’interno della città storica, ormai
saturata nelle sue parti, e questo discorso ha portato all’invenzione di
un’alternativa alla griglia urbana fatta di isole». Si mette a disegnare
su un foglio. Mi spiega il reticolato urbano, il modello tradizionale di
strade e isolati, la soluzione del modello a penisola, con i percorsi
pedonali separati, la strada di spina centrale, i ponti di
sovrapposizione, il modello insomma tanto vantato da Milano Due.
Ma da dove arrivava l’ispirazione, c’erano dei modelli architettonici
cui rifarsi? A leggere il libro promozionale della Edilnord si legge di
un pantheon di riferimenti piuttosto eclettico. Si parla dei
Neighbourdhood Unity nelle new town inglesi, delle Superquadra di
Brasilia, delle unità di vicinato francesi e dei Grand Ensembles, e
perfino dei Superblocchi sovietici. Pare di leggere il primo manifesto
dei valori di Forza Italia, che prendeva riferimenti politici a destra e a
manca, da Einaudi a don Sturzo, da Cattaneo a Gioberti, da Craxi a
Reagan. «Innanzitutto sfatiamo questo mito delle new town. Cioè noi
le new town le abbiamo studiate, abbiamo capito che cosa era stata la
loro idea, da Ebenezer Howard a tutti gli altri, siamo andati a
vederle, ma abbiamo pensato che era una battaglia persa in partenza.
Nel senso che queste città non avevano un’anima, un’identità forte, e
quindi avrebbero fatalmente fatto perno di nuovo per le possibilità di
lavoro su Londra, sulla downtown, vanificando praticamente il
discorso di decentramento. Non era quello che faceva per noi. È
maturato così nella nostra testa il concetto che la città madre è
fondamentale. In questo telaio di città policentrica, abbiamo detto,
c’è spazio anche per dei poli minori, che possono fare da filtro per
quelle esigenze che normalmente gravitavano come risposta sul
centro della città madre, provocando naturalmente tutte le
conseguenze non volute di intasamento, di sovraffollamento durante
149
il periodo diurno, e scarsa risposta in termini di servizi… Perché
questo succedeva: periferie parassitarie che intasavano città senza
più spazi liberi. Tant’è che poi succedeva che la gente non trovava
posto nelle scuole, negli asili nido, nei servizi…». Chiedo se già
all’epoca non ci fosse un fenomeno di fuga dalla città da parte delle
classi borghesi medio-alte, a cui il loro progetto si rivolgeva.
«Assolutamente no. All’epoca venire ad abitare in periferia voleva
dire una caduta di status symbol, non era assolutamente ricercata.
Infatti noi abbiamo rischiato molto con questa proposta di Milano
Due, perché nessuno era intenzionato ad abitare fuori».
O forse l’idea dello status symbol suburbano già c’era, bastava solo
sapere annusare l’aria, saperla cogliere. «In questo Berlusconi è stato
bravissimo. Lui era un giovane imprenditore con una certa
propensione al rischio, cercava qualcosa di diverso, qualcosa che
potesse rappresentare la sua consacrazione. Io lo conobbi proprio
quando lui vendette uno dei suoi primi appartamenti a mio fratello, e
io gli raccontai un po’ di mie idee sulla città… Ecco, si decise di
puntare tutto su segmenti di mercato che mai avrebbero pensato di
abitare fuori città, con delle proposte concentrate su alcuni elementi
chiave: il recupero di spazi ampi, il verde, la sicurezza… il tutto
presentato come una grande, grandissima conquista».
Sull’architettura di Milano Due i commenti dell’epoca non furono
molto generosi. Spulciando vecchie pubblicazioni d’architettura ho
ritrovato opinioni, come quella di Vercelloni, che tracciano un elogio
del quartiere, definendolo come un progetto innovativo e osservando
finanche influenze di Le Corbusier308, oppure mi sono imbattuto in
vari commenti sprezzanti o critiche affilate, come quella di Squarcina
che parla di un quartiere concepito secondo la filosofia
dell’autosegregazione309. Persino un biografo ufficiale di Berlusconi,
in un libro del 1994 per il resto assai benevolo, non si trattiene da
qualche commento dispregiativo e scrive che «di mattina per i vialetti
deserti di Milano Due ci si sente soli, e vien da rimpiangere le voci e i
rumori della metropoli»310. Ricorda Ragazzi: «Lei si immagina nel
1968, nel 1970, cosa era considerato criminale all’epoca. Era
criminale essere un’impresa privata, era criminale lavorare con le
308
V. Vercelloni, La storia del paesaggio urbano di Milano, 1988, p. 143
309
A. Schiavi, E. Squarcina, M. Malvasi, Trasformazioni territoriali in contesto
metropolitano. I casi di Settimo Milanese e di Segrate, 1999, p. 192
310
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 22
150
banche, era criminale anche avere un supermercato con gli espropri
proletari che facevano. Ricordo che anche la facoltà di Architettura
era allo sbando: i professori non riuscivano a tenere le proprie
lezioni. Alcuni architetti erano arrivati sulla soglia di abbandonare la
professione, perché in una società come la nostra si sentivano al
servizio del capitale, strumentalizzati. Quanto a noi, gli attacchi a
livello locale erano amplificati dai media che ci avevo messo al centro
dell’attenzione. Su Milano Due furono scritte numerose tesi, perlopiù
fortemente critiche. Per non parlare di certi professionisti che
tentavano di cercare eventuali scheletri nell’armadio per affondare la
barca. Svariate commissioni d’inchiesta furono nominate dalle
segreterie dei partiti. Insomma gli attacchi erano così numerosi che
la mattina aprivamo i giornali per vedere cosa si diceva su di noi quel
giorno». Ma col passare del tempo anche questo fu un test per
stabilire che Milano Due non era un quartiere qualsiasi, ma una vera
e propria comunità. «Anche oggi si verificano attacchi della stampa
per motivi pressoché politici. Ebbene, guardi i vari giornali di
quartiere, veda come di fronte a certi attacchi scatta per primi dagli
stessi abitanti la reazione di difesa. Questo vuole dire che qui c’è un
senso di appartenenza consolidato. In molti altri quartieri la gente
rimarrebbe apatica, non gliene fregherebbe niente di una critica sul
giornale».
151
all’italiana, una cittadella in teoria autosufficiente, con le scuole, i
servizi, i negozi, insomma un posto da cui un suo abitante potrebbe
non uscire mai. «Ma noi non volevamo questo. Noi volevamo che ci
fosse un rapporto con la città madre, e sarebbe stato anche assurdo
pensare il contrario vista la vicinanza e il potere di attrazione di una
città come Milano Qui noi abbiamo innestato anche un centro
direzionale, un albergo, un centro televisivo, uno spazio congressi,
apposta per favorire uno scambio con l’esterno. Per questo non ci
piacevano le new town inglesi, con le loro cinture verdi di
isolamento».
152
costruzione del quartiere fu fatta una promozione di lancio, cosicché
le parti centrali furono vendute a prezzi d’occasione, quasi da case
popolari, e vennero via subito. Il mio appartamento, quarant’anni fa,
costava 30 milioni, e certo adesso si è rivalutato molto. La famiglia di
nostri dirimpettai invece erano operai, lavoravano qui alla Rizzoli, e
sono ancora lì adesso, non hanno abbandonato. Quando poi i figli
crescono è la città madre che diventa il punto di riferimento, ovvio.
Ma senza i contenuti non si può fare qualcosa di attrattivo. Le faccio
un esempio. Quando, tre o quattro anni fa, realizzai un progetto per
un eventuale piano casa di Milano, il primo criterio fu: guai a creare
dei ghetti. Chi può arrivare al massimo a permettersi una casa con un
investimento di 300mila euro deve essere inserito, come nella città
storica, nello stesso edificio, nello stesso contesto. Bisogna mischiare
le varie famiglie, eliminare le ghettizzazioni di ali o quartieri tutti di
case popolari o convenzionate, trovare degli innesti mirati. A un certo
punto, all’epoca, quando eravamo pieni di velleità giovanili,
protestammo per questa cosa. Dicevamo: come mai nella legge 167
per le case popolari c’è la proibizione assoluta per i privati di
realizzare qualsiasi iniziativa? Così si creano ghetti, di poveri o di
ricchi che siano. Ma è vero adesso abbiamo una problematica che
allora non avevano ancora per la testa, cioè quella dell’integrazione
multietnica, e qui la situazione si fa più difficile».
153
comunità, che ha anche imparato ad autogestirsi, per esempio con il
Comitato di Comprensorio eccetera. Se lei pensa ad alcuni dettagli
che allora erano novità, come la stazione tv via cavo, oppure il
teleriscaldamento centralizzato. Qui vede il concetto di
identificazione del prodotto, cosa su cui noi puntavamo. Guardi
questa mappa dall’alto della nostra zona… qui vede la città che si
sfalda, perde la sua maglia di isolati man mano che va verso l’esterno.
Noi volevamo qualcosa di fortemente identificativo. Il contrario di
certa architettura ideologica dell’epoca. Noi abbiamo fatto l’anti-
Corviale. Cioè la suddivisione in nuclei da 100 famiglie, a loro volta
suddivisi in 3 o 4 edifici che formavano un’identità ambientale di
appartenenza, anche rispetto alle aree circostanti. L’importante è che
ci sia l’identificazione». L’architetto mi racconta che la prima
percezione dell’esistenza di un “mondo esterno” a Milano Due la
hanno gli studenti delle scuole medie del quartiere, comunali e non
private, con l’arrivo di una popolazione studentesca più diversificata.
«Non è un ghetto per ricchi, come molti dicono». La composizione
sociale inevitabilmente è cambiata, molti negozi hanno chiuso, le
giovani famiglie con figli sono diventate coppie di anziani, ma a suo
avviso la situazione demografica si sta riequilibrando. È vero che i
prezzi sono ancora alti, poco accessibili, «evidentemente è ancora un
posto molto ambito». Nella sua attività di politico ha citato più volte
l’esempio di Milano Due: non dimenticatevi che sono stato capace di
costruire dal nulla una città di diecimila abitanti che ancora funziona,
gli abbiamo sentito dire più volte. Nel 2002 fu lo stesso Berlusconi,
da capo di governo, a chiamare l’architetto Ragazzi («il suo architetto
di fiducia» scrissero i giornali) per progettare una piccola cittadella
da costruire a San Giuliano di Puglia, paese distrutto da un
terremoto311. I giornali dell’epoca parlarono di una “San Giuliano
Due”, allo stesso modo in cui etichettarono come “L’Aquila Due” i
progetti di ricostruzione a base di new town lanciati sempre dal
premier Berlusconi dopo il terremoto abruzzese del 2009312. Si arrivò
perfino a vagheggiare di un piano edilizio a base di una specie di
Milano Due in ogni capoluogo di provincia313. «Eh no, qui non sono
d’accordo» ribatte Ragazzi. «Ci vuole una collocazione nel territorio,
un’interpretazione del contesto. Bisogna sapere come collocarsi in
311
R. Bagnoli, L’architetto amico che progettò Milano 2: il premier mi ha chiamato,
ci sto lavorando, in “Corriere della sera”, 4 novembre 2002
312
Aa. Vv., Berlusconi: “Tre mie case per gli sfollati”, in www.corriere.it
313
G. Rondinelli, Riparte il piano case. “Faremo le new town”, in “Il Tempo”, 24
gennaio 2009
154
base alle caratteristiche geografiche e sociali di un sito. Milano Due è
molto milanese. Non si può prenderla e portarla così com’è a
L’Aquila o altrove».
8. Spot elettorali
Per pranzo vado nel sushi bar appena inaugurato, con visione del
laghetto dei cigni dalla vetrata. Marco, il giovane agente di
comunicazione, mi aveva accennato ai “cinesi di Milano Due”, un
vero business-case di successo: gestiscono ristoranti, comprano case
155
e locali nel quartiere, fanno ottimi affari. Ora è tutto un via-vai di
signore che si congratulano e personale Publitalia in pausa pranzo. Al
centro della piazza una specie di obelisco, opera dello scultore Filippo
Panseca, celebra il primo decennale della città, con una frase scolpita
alla base: «A perenne ricordo della costruzione di Milano Due, Silvio
Berlusconi pose». Provo a immaginarmi, su quella stessa piazzetta, in
una sera umida dell’estate del 1979, Mike Bongiorno e il Cavalier
Berlusconi, in piedi su una cassetta di legno, che arringano una folla
di pubblicitari e amministratori delegati314. Bongiorno, ingaggiato
con un contratto d’oro, fu la prima star televisiva a lasciare la
televisione di Stato. Colui che aveva lanciato il successo della tv in
Italia, “unificando il Paese più di Garibaldi” disse qualcuno, svolse
ancora un ruolo fondamentale nel passaggio al nuovo sistema,
aderendo entusiasticamente al primato della pubblicità. Anche lui
rimase stregato da Milano Due, come racconterà nella sua biografia.
Lo vide quando era ancora in costruzione e subito nella sua rubrica
sulla Domenica del Corriere scrisse di questo «modernissimo
quartiere» con «architetti lungimiranti» e con la sua «piccola tv via
cavo al servizio della comunità di cittadini»315.
Nei sotterranei poco illuminati del Jolly Hotel c’è ancora, con un
enorme tavolo a ferro di cavallo, la sala Botticelli, dove si tennero le
prime riunioni in gran riserbo sulla nascita di Forza Italia, reclutatori
e agenti Publitalia ogni settimana a rapporto da Marcello Dell’Utri316.
Qui dentro, all’inizio degli anni Novanta, si è studiato e perfezionato
il modo di estrarre da quei sogni degli italiani finora plasmati dalla tv
un elettorato. Da quell’elettorato un partito. Da quel partito un
potere. Da quel potere la sua sopravvivenza. Da quella sopravvivenza
il suo trionfo. Dopo la Città dei Numeri Uno, dopo la Televisione che
vende consumi, ecco che nasce Forza Italia, poi infine Popolo delle
Libertà. Berlusconi entrò ufficialmente in politica agli inizi del 1994,
coi vecchi partiti della Prima Repubblica spazzati via dagli scandali
della corruzione, coi suoi interessi da difendere. “Scese in campo”
con un filmato trasmesso da varie reti televisive in cui prometteva
“un nuovo miracolo italiano”, guidò il suo partito con uno stile
manageriale e manipolò il suo messaggio per adattare e modificare
314
M. Bongiorno, La versione di Mike, 2007, p. 271
315
Ibidem, p. 258
316
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 213
156
l’opinione pubblica317. Come hanno scritto Alberto De Bernardi e
Luigi Ganapini, il successo di Berlusconi come uomo politico era
anche il riflesso di una serie di cambiamenti epocali nella società
italiana e di norme culturali «in virtù delle quali il manager-
imprenditore si presenta come modello idealizzato di guida e la
società civile è concepita come un insieme di soggetti atomizzati, non
più divisi da discriminanti di classe e portatori di interessi e valori
conflittuali, ma omogeneizzati dal consumo»318. Nella scalata al
potere politico Berlusconi fece un uso specifico della sua immagine
legata a Milano, e naturalmente anche dei suoi vanti da costruttore di
città ideali. Negli opuscoli elettorali sulla vita del Cavaliere – dallo
stile rigorosamente agiografico, sorprendentemente simili a quelli di
vent’anni addietro delle Edilnord che pubblicizzavano gli
appartamenti di Milano Due – si legge di «un nuovo modo di
concepire la città, il sogno di Berlusconi urbanista». Accanto a una
luminosa foto aerea del quartiere Milano Tre si trova una didascalia
alquanto evocativa: «Qui un tempo c’era una palude». Nel maggio
2009, in una prefazione a una riedizione di questi opuscoli allegati a
Libero, il giornalista Vittorio Feltri, all’epoca direttore di quel
quotidiano, se ne esce con una formula perfetta, che potrebbe essere
ironica se non fosse che è serissima: «Dopo Milano Due, ora la
grande scommessa si chiama Italia Due»319.
317
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 122
318
A. De Bernardi, E. Ganapini, Storia d’Italia 1860-1995, 1996, p 511
319
Aa. VV. Berlusconi tale e quale, 2009
320
M. Serra, L’Amaca, in “La Repubblica”, 5 novembre 2002
157
qualche modo riconosciuti nel quartiere, forse soprattutto grazie al
potente collante costituito da una quasi totale assenza di
differenziazione sociale. Il sindaco di Segrate, Alessandro
Alessandrini, giunta di centrodestra, è anche un residente della
prima ora e, intervistato sul blog della parrocchia, dice di vedere il
futuro, oltre che il presente, di Milano Due assolutamente roseo: «Il
quartiere in questi anni si è saputo preservare in maniera
straordinaria. Il suo bello, però, è che non si è mai chiuso a riccio, ma
è sempre stato aperto alle novità anche grazie alla sua vicinanza a
Milano. Rispetto ai tempi d’oro del fortino qualche cambiamento in
peggio c’è stato. Il traffico, per esempio, è aumentato. Ma sono
aumentati anche i servizi. Soprattutto quelli pubblici. Parlo del
Centro civico e degli spazi ricavati per le associazioni. Oggi, poi,
stiamo assistendo a un ripopolamento che ha portato a un aumento
del numero dei bambini piccoli. In tanti fuggono da Milano e
approdano qui. Come biasimarli! Sapete qual è la caratteristica doc di
Milano due? Che ha mantenuto le fattezze di un paese. Le persone si
conoscono tra di loro, si salutano sulle scale e si incontrano fuori.
Non solo i ragazzi formano compagnie, anche gli adulti e gli anziani,
aiutandosi a vicenda»321. Altrettanto positivo (come potrebbe essere
altrimenti?) è il bilancio del creatore del quartiere, Silvio Berlusconi:
«Credo che Milano Due sia venuta fuori praticamente senza difetti.
Tutta la gente che ha preso appartamenti lì è stata felicissima di
viverli, pochissimi hanno lasciato, pochissimi appartamenti sono in
vendita, il prezzo è sempre stato tale da aver fatto fare un
grandissimo affare a chi ha optato per l’acquisto, i figli sono venuti su
molto bene e si sono allontanati da Milano Due soltanto quando sono
arrivati a un livello di scuola che lì non era presente»322.
Emblematico un suo discorso del 1989 ai giovani appena usciti da un
master nelle sue aziende, con modalità comunicative che abbiamo
imparato a conoscere: «Quando sono giù di morale, mi metto le mani
in tasca e la mattina vado a passeggiare a Milano 2. Ricordo quante
persone avevo contro: li avevo contro tutti, ma proprio tutti. C’era la
macchina politica e burocratica perfetta per impedire, per proibire,
per ritardare, per ostacolare. C’erano i Pretori comunisti, la
Prefettura, i sindacalisti, i Verdi di allora, la signora Bonomi
Bolchini, i giornali della Rizzoli, quelli degli aerei con le loro rotte di
decollo e di atterraggio e il frastuono dei motori. Nonostante tutto
321
A. Ferrari, Milano Due, che futuro?, in www.parrocchiadiopadre.it
322
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 89
158
questo, nonostante l’efficienza di questa macchina che avevo contro,
sono riuscito a costruire una città di diecimila abitanti. È stato
difficile, ma senza abnegazione non si può fare nulla. Bisogna
mettercela proprio tutta»323.
9. Lo Strapaese al governo
159
mediatizzazione del territorio a opera dello sviluppo tecnologico si
sono spinti a lacerare ogni trama della modernità. Là dove a “fare
società” non è più né il cittadino né il telespettatore ma il
consumatore individuale. Come abbiamo visto, Berlusconi col suo
sogno di Suburbia coglie i passaggi dell’immaginario collettivo
italiano, insinuandosi nei luoghi, nei territori. Il passaggio dalla
centralità della casa alla centralità della tv, dalla città di mattoni alla
città elettronica (sebbene ancora pre-internet). Poi il passaggio dalla
città di Stato alla città privata, dalla città sociale alla città individuale.
La tv aveva iniziato già da anni a splendere nei reticoli abitativi delle
città, dei paesi e delle prime periferie urbane d’Italia, l’altro
passaggio decisivo, quello dalla socializzazione della piazza alla
socializzazione offerta dalla tv era già avvenuto. Sebbene a costo di
uno scontro tra interessi corporativi, capitali culturali ma anche
generazioni. Come scrive Vincenzo Susca «le culture della piazza –
che sono anche quelle del libro e dei conflitti fisici, dell’autorità e del
popolo, della religione e dell’arte – non hanno mai cessato di
resistere alle culture dei media»325. Le mura delle città e delle case si
fanno limiti valicabili attraverso i viaggi concessi dalle nuove dimore
mediatiche. In fondo, le origini della televisione, prima dei colori,
prima del bianco e nero, erano già inscritte nella storia della
metropoli ottocentesca, dei suoi linguaggi, del suo “vissuto”. Basta
citare Simmel: «La base psicologica su cui si erge il tipo delle
individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, che
è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni
esteriori e interiori»326. Difatti, nella seconda metà del Novecento, lo
schermo televisivo si salda direttamente all’immaginario collettivo
nel momento in cui si apre allo «spettacolo del consumo»327. Come
avevano fatto le Grandi Esposizioni Universali nell’Ottocento, la
televisione mette in vetrina costumi, merci e sogni collettivi, consente
all’uomo qualunque di sapere tutto di tutti, di vivere «oltre il senso
del luogo»328. Così, nell’eterno Strapaese italiano, si può
ragionevolmente arrivare ad affermare che «la vera esperienza
metropolitana, in Italia, l’immaginario collettivo la consuma e
325
V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V.
Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, p. 33
326
G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, 2001, p. 36
327
M. Morcellini, Lo spettacolo del consumo. Televisione e cultura di massa nella
legittimazione sociale, 1986
328
J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul
comportamento sociale, 1995
160
produce attraverso la televisione»329. In tutto ciò serviva qualcuno
che facesse saltare le vecchie serrature. Per questo Berlusconi,
emerso tra strati sociali resi già omogenei dalla sensibilità televisiva,
è apparso – già parecchio tempo prima della sua formale entrata in
politica – un “liberatore” per alcuni e un “invasore” per altri. Anche
perché «ha fatto da catalizzatore di una socializzazione incompiuta,
di un processo di modernizzazione che in Italia non ha reso possibile
il trapasso da una società pre-televisiva a una società televisiva»330.
329
A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, 2001, p. 226
330
Ibidem, p. 34
331
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 126
161
trascolorata del Maradogal – provincia sudamericana creata, tra
barocco e grottesco, dalla penna dell’ingegner Carlo Emilio Gadda –
per comprendere il successo di Milano Due. Sopra le villette,
l’aspirazione alla tranquillità, sotto “l’orrido garbuglio”, i pasticci, la
solitudine dell’hidalgo-ingegnere Putibutirro»332. Assistiamo, per
dirla con Silverstone, alla «suburbanizzazione della sfera pubblica»,
una dimensione che mette in gioco molto ambiti: la sfera politica, la
sfera collettiva, i mezzi di comunicazione, lo stile di vita. L’ambiente
del suburbio «mette in luce la qualità peculiare della cultura
moderna negando la tradizionale differenza tra natura e cultura,
fondendole». E la televisione, sempre lei, si adatta perfettamente alla
realtà suburbana. Fino alla politica: «la politica nei sobborghi, e dei
sobborghi, è ancora prevalentemente una politica casalinga di
interessi privati, conformismo ed esclusione condotta all’interno di
strutture politiche che sono, in genere, scarsamente riconosciute e
tantomeno contestate»333. Non a caso il successo edilizio di Milano
Due non è centrato tanto sullo scenario metropolitano bensì su
quello suburbano. Ha ragione il sociologo Aldo Bonomi quando dice
che l’anima di Berlusconi, ora che è diventato leader dello
schieramento politico di centrodestra e capo del governo, va ricercata
in quella “città infinita” del Settentrione, rappresentata dal territorio
lombardo e oltre, dove il modello è il capannone, la casa con giardino
e garage e l’immancabile nanetto di Biancaneve. «Basta aver
percorso l’autostrada Torino-Trieste per capire i punti di riferimento
dei nuovi soggetti. Il paesaggio è dato dai capannoni attorniati da
villette con i nanetti nel giardino e la Bmw nel garage sotto casa.
Questo è il modello. Il vero simbolo del berlusconismo non è la
televisione, ma è il capannone e la villetta con i nanetti nel giardino.
Ecco l’anima profonda del berlusconismo»334. Come sosteneva
Tommaso Labranca in un suo volumetto di qualche anno fa
sull’estetica del pecoreccio italiano, «non possiamo non dirci
brianzoli»335, perché la Brianza è prima di tutto un luogo dell’anima,
ebbene, forse parte di questa «comunità immaginaria brianzola» si è
332
J. Bufalini, Decoro borghese ossessione milanese, in “L’Unità”, 17 settembre 2009
333
R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, 2000, pp. 90-134
334
A. Bonomi, Il chiunque e la moltitudine, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è
Berlusconi, 2004, p. 247
335
T. Labranca, Estasi del pecoreccio, 1995
162
formata grazie (anche) a Berlusconi e al suo “corpo elettronico”,
tradizionale e moderno al tempo stesso336.
336
F. Boni, Il superleader. Fenomenologia mediatica di Silvio Berlusconi, 2008, pp.
43-45
337
J. Bufalini, Decoro borghese ossessione milanese, in “L’Unità”, 17 settembre 2009
338
A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, p. 406
163
svizzere»339. La questione è più banale e più complicata al tempo
stesso.
339
G. Ruggeri, M. Guarino, Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv, 1994
340
C. Galli, Volontà di potenza, in “La Repubblica”, 17 ottobre 2009
341
A. Cazzullo, L’Italia de noantri, 2009, p. 124
164
165
166
CAPITOLO 5
Il contagio
167
168
1. Celebration, provincia di Disneyland
Alla fine degli anni Ottanta, nella sede della Disney Corporation in
California, si tenne un’importante riunione in cui vennero proiettate
delle diapositive riguardanti uno studio sui consumatori
appositamente realizzato per la grande azienda mondiale, leader nei
settori dell’intrattenimento, dello spettacolo e dei giochi per
l’infanzia. La ricerca, che riassumeva i risultati di diciotto indagini di
mercato annuali consecutive realizzate dalla ditta Yankelovich,
conteneva uno schizzo sommario del cambio di atteggiamento dei
figli del “baby boom” rispetto al “netto rifiuto” del “sistema di valori
tradizionali” che avevano espresso solo vent’anni prima. «In questo
paese – vi si leggeva – si sta sviluppando un clima sociale
interamente nuovo». Si parlava di «nuovo approccio alla vita, che
chiameremo Neotradizionalismo» che non rifiuta a priori tutto ciò
che è stato, come era «tipico dei protagonisti della “Me Generation”»,
ma piuttosto arriva a una sintesi tra i valori di sicurezza e
responsabilità tipici del conformismo anni Cinquanta e le libertà
individuali e di scelta successivamente imposte. Insomma, «i
consumatori sembrano alla ricerca di un punto di equilibrio, di un
bilanciamento tra gli opposti». Un testimone di quella riunione
raccontò com’era presentata la relazione: «Si vedeva la foto di un
caminetto vittoriano con sopra una sveglia Braun. I
neotradizionalisti, si deduceva, sceglierebbero sì una stanza vecchio
stile, ma non comprerebbero mai un orologio vittoriano, ovviamente
a molla e con ogni probabilità impreciso. Sceglierebbero senz’altro un
orologio tedesco di ultima generazione. I neotradizionalisti
metterebbero tubazioni e cucine moderne nelle loro case vecchio
stile, laddove un tradizionalista integrale restaurerebbe un vero
bagno vittoriano con tanto di vasca con le zampe da grifone, e un
modernista troverebbe semplicemente impossibile vivere in una casa
vittoriana»342. In quegli stessi anni gli “ingegneri dell’immaginario”
della Disney commissionarono al maggiore ufficio di consulenze
immobiliari degli States uno studio di mercato sulla proprietà
immobiliare, in vista un nuovo insediamento abitativo. Il team aveva
consultato anche un gruppo di futurologi riguardo alle «preferenze
dei consumatori negli anni Novanta e all’inizio del nuovo secolo»,
342
A. Ross, Celebration. La città perfetta, 2001, p. 45
169
aveva condotto ricerche di mercato presso i visitatori dei parchi a
tema, diffuso tra gli azionisti un questionario con domande relative a
che tipo di comunità, stile di vita e prodotti avrebbero voluto trovare
in una nuova città. I risultati di tutte queste indagini confluirono nel
disegnare il profilo finale della città come un posto di «vecchie case
con giocattoli nuovi»343.
343
Ibidem, p. 46
170
in esso «l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se questo è
necessario»344. Parole illuminanti. Certamente pochi sanno che Walt
Disney – illustratore, disegnatore e poi imprenditore – era
ossessionato in maniera via via più crescente dall’idea di realizzare la
città del domani che, diceva, «influenzi le generazioni future:
realizzarla è un’occasione unica nella vita di chiunque»345.
La prima spinta la diede nell’estate del 1955, inaugurando in un
sobborgo di Los Angeles la prima delle sue Disneyland. L’azzardo era
grande: l’azienda voleva espandersi dai cartoni animati e dai film e
programmi tv, dimostrando di saper fare qualcosa di “reale”. E il
successo fu enorme: nel più grande e costoso parco divertimenti
dell’epoca gente da tutto il mondo faceva la coda per vedere il castello
della Bella Addormentata, la giostra con le tazze da tè di Alice nel
paese delle meraviglie e il veliero dei pirati di Peter Pan. Disneyland
per prima ha rivelato il concetto, l’essenza del neo-turismo, un
turismo che va a visitare ciò che non esiste. A Disneyland niente era
lasciato al caso: l’esperienza perfetta del turista nel lunapark senza
borseggiatori, senza sporcizia e senza incidenti, in un’Esposizione
Universale permanente dell’intrattenimento, era coordinata dietro le
quinte da una macchina complessa. Centinaia di dipendenti e un
gruppo di una dozzina di società controllate dalla Disney stessa, si
occupavano di tutto: dalla creazione delle attrazioni dei singoli parchi
all’arredo degli hotel fino alla manutenzione delle strade e dei veicoli
di trasporto e ai servizi di polizia346.
Era però l’idea del parco come una comunità autosufficiente che
affascinava Disney. La possibilità di coniugare nostalgia e futurismo,
progresso tecnologico e ordine sociale. Trattare le persone come
pupazzi. Perché non trasformare, come poi avrebbe sognato il New
Urbanism trent’anni dopo e raccontato il film The Truman Show alla
fine del secolo, la vita delle persone in un vero e proprio spettacolo?
Nella sua mente il secondo megaresort della Disney, quello che sarà
inaugurato nel 1971, cinque anni dopo la sua morte, nel sud della
Florida, col nome di Walt Disney World, doveva chiamarci
semplicemente Epcot. Un nome che, nel progetto originario, era la
sigla per Experimental Prototype Community of Tomorrow, il
prototipo di comunità sperimentale per il domani. Qualcosa di molto
344
W. Siti, Il canto del diavolo, 2009, p. 88
345
A. Dini, Non solo cartoon, in “Diario”, maggio 2009
346
Ivi
171
differente, insomma, da quella che sarà la sua effettiva realizzazione:
non un parco divertimenti ma una città del futuro. L’obiettivo di Walt
Disney era creare una vera e propria comunità lavorativa di 20mila
abitanti in cui le grandi corporation statunitensi avrebbero potuto
aggiornare e mostrare le nuove tecnologie per l’American way of life.
Un’utopia incarnata, per di più al di fuori della legge comune al resto
del Paese. Il progetto prevedeva, infatti, che nessuno degli abitanti
fosse proprietario della sua casa, in modo tale che non potesse
legalmente votare e quindi che la Disney avesse le mani libere per
amministrare la comunità senza che questa potesse eleggere
rappresentanti non desiderati. Le regole del gioco sarebbero state
semplici e chiare: cittadini come clienti e dipendenti, tutti impiegati;
niente pensionati, niente disoccupati e nullafacenti a ingolfare le
strade. Un luogo dove l’ordine regnasse sovrano e le utopie
tecnologiche potessero venire elaborate e sperimentate. Epcot
avrebbe dovuto essere costruita intorno al suo sistema di trasporto,
con una pianta circolare su più livelli e due grandi assi di
scorrimento. In mezzo un mega centro congressi di almeno trenta
piani. Poi le aree residenziali e quelle per lo shopping, coperte da
un’enorme tettoia per garantire protezione dal caldo, dal freddo e
dalla pioggia. Quindi la cintura verde e infine la periferia
residenziale, collegata tramite piccoli vagoncini da quattro posti su
rotaie, i people mover, sempre in movimento. La monorotaia, invece,
avrebbe portato ogni giorno gli impiegati al lavoro e i turisti
all’aeroporto. Auto e camion, banditi dalla vita pubblica, sarebbero
stati confinati nei livelli sotterranei, attraverso un tortuoso sistema di
gallerie347.
Il vecchio Disney era ossessionato, fin sul suo letto di morte, dalla
creazione di questa utopia urbana, autosufficiente e dolcemente
autoritaria. Per innalzare davvero, tra gli uomini in carne ed ossa, «il
paese più felice del mondo».348 È questo il punto in cui Paperino e
Topolino mostrano il loro lato oscuro, come l’ha definito lo scrittore
Walter Siti: «dove la beata fiducia nell’onnipotenza dell’estro diventa
convinzione di possedere in proprio le chiavi della felicità universale;
dove un crocevia di convivenze tende alla sordità asettica del plastico
e del prototipo, come se il mondo per essere felice dovesse ridursi
alla parodia di se stesso»349. Nel 1955, all’inaugurazione, fu posta una
347
Ivi
348
W. Siti, Il canto del diavolo, 2009, p. 89
349
Ivi
172
targa all’ingresso di Disneyland: «qui tu lasci il presente per entrare
nel mondo di ieri, di domani, della fantasia» 350. La cosa più
sorprendente, oggi, è che il modello di città modulare sognata da
Disney si avvicina ai progetti di molte comunità pensate dal
Rinascimento urbano europeo, il movimento architettonico che dagli
anni Novanta immagina di costruire città ecosostenibili in cui le auto
siano bandite e dove la qualità della vita sia garantita dal verde
pubblico, dalle strutture comuni, dalla disponibilità di sistemi
elettrici di trasporto351.
350
Ivi
351
A. Dini, Non solo cartoon, in “Diario”, maggio 2009
173
parte della propria libertà352. A vedere qualche foto, Celebration ha
poco dei bozzetti futuristici dello zio Walt, e piuttosto sembra avere
una vaga rassomiglianza con Milano Due. Ricalca gli stereotipi della
vecchia pubblicità americana, modello anni Cinquanta, rivela
qualcosa di non lontano dalle esperienze tipo Second Life su internet,
la possibilità di costruirsi mondi. Dal punto di vista architettonico,
Celebration è figlia di quello zelante movimento di pianificazione
urbanistica che è il New Urbanism: il quale ha dichiarato guerra allo
sviluppo caotico delle periferie cittadine e si è incaricato di creare
un’alternativa basata su vincoli sociali e comunitarismo
tradizionale353. Lo scrittore e docente universitario Andrew Ross ha
passato un interno anno a Celebration e da questa sua esperienza di
“osservatore partecipante” ha tratto un corposo volume sulla “città
perfetta”. Una città – spiega – che sarebbe sbagliato immaginare
come una linda versione umana di Topolinia, ma che col passare
degli anni ha assunto tutte le dinamiche e le contraddizioni di
qualsiasi comunità urbana: dalle frizioni sociali fino alla nascita di
aree-ghetto e al verificarsi di episodi di corruzione nei pubblici uffici.
352
E. De Pascale, Celebration città perfetta. Tra Topolinia e il Truman Show, in
http://www.webgol.it
353
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, pp. 92-95
354
A. Ross, Celebration. La città perfetta, 2001
174
commercialismo di massa. Celebration viene progettata per gente
così355. La magia del sogno si è persa ed è rimasta solo l’ossessione
per il controllo. Come spesso accade nella vita.
355
Ibidem, pp. 46-47
356
J. G. Ballard, Il Condominio, 2003
357
J. G. Ballard, Un gioco da bambini, 2007
358
J. G. Ballard, Cocaine Nights, 2008
359
J. G. Ballard, SuperCannes, 2002
360
E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a
Ballard, 2005, pp. 179-182
175
difenderlo e preservarlo. Le comunità nascono per difenderlo e
preservarlo. Come ha spiegato Emiliano Ilardi nel suo saggio su
“romanzo, media e metropoli” «le comunità nascono per difesa e si
fondano sulla paura». Sono stati l’Illuminismo e la Rivoluzione
francese a mettere in mezze le pretese di poter conciliare individuo e
comunità, mercato e valori, libertà e uguaglianza, con il loro Stato
che si arrogava il diritto di legiferare per la collettività intera, con il
loro utopico spazio pubblico cittadino universalmente accessibile che
trasformava la comunità da strumento di difesa in valore universale e
dunque, da un certo punto di vista, in un’imposizione, perché
obbligava a condividere uno spazio aperto a tutti, indifferentemente.
Basta ora eliminare quel “a tutti” con “esclusivamente agli abitanti (o
proprietari” di questo spazio” che il gioco è fatto361.
361
Ibidem, p. 181
362
A. Ross, Celebration. La città perfetta, 2001, p. 268
176
mira a una nicchia di consumatori per irretirli e conquistarli tramite
un’efficace campagna promozionale.
363
Ibidem, pp. 268-270
364
J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, 2009
177
Crimine o violenza psicopatica come unici fattori di imprevedibilità
nelle società occidentali tecnologizzate. Ballard suggerisce, in tempi
di ossessioni securitarie, che la paura non sia soltanto una delle
possibili forme del potere, collante delle moderne eterotopie, ma
anche un’esigenza dell’individuo per potersi sentire parte di una
comunità365.
3. Megalopoli e banlieu
365
E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a
Ballard, 2005, p. 187
366
L. Mencacci, L’eclisse dell’utopia urbana, 2009, pp. 56-57
178
l’unità dell’intero spazio terrestre diventa pensabile e in cui si
rafforzano le grandi reti multinazionali, si amplifica il clamore dei
particolarismi, di coloro che vogliono restare soli a casa loro o di
coloro che vogliono ritrovare una patria, come se il conservatorismo
degli uni e il messianismo degli altri fossero condannati a parlare lo
stesso linguaggio: quello della terra e delle radici» 367. Il fuoco della
banlieue sembra così il versante oscuro in cui si raffrontano le
recinzioni dei residence e dei condomini che impongono il limite
invalicabile di una società, che esclude chi non può permettersela.
Come ha affermato il sociologo Alan Touraine noi viviamo il
passaggio da una società verticale che avevamo preso l’abitudine di
chiamare una società divisa in classi, con gente che stava in alto e
gente che stava in basso, a una società orizzontale dove l’importante
è sapere se si è al centro o in periferia che è la zona della grande
incertezza e delle tensioni, in cui le persone non sanno se finiranno
per far parte degli “in” o degli “out”368.
179
passo con la crescita dell’insicurezza ontologica, strutturale. Un
fenomeno che va di pari passo con il declino della modernità “solida”
– quella legata alla solidarietà pubblica che assicurava una
protezione collettiva contro le disavventure individuali e alla
solidarietà privata, sindacale o professionale, che con una continua
negoziazione teneva lontani i rischi del mercato del lavoro – e con il
passaggio alla modernità “liquida”370. Per dirla con le parole di
Bauman, «non lo stare insieme ma l’evitarsi e lo stare separati sono
diventate le principali strategie per sopravvivere nelle megalopoli
contemporanee. Non è più questione di amare o di odiare il
prossimo: tenerlo a distanza risolve il dilemma e rende superflua la
scelta»371.
370
A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008,
p. 39
371
Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, 2001, p. 55
372
M. Davis, Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, 2008
180
o con le cattive, al percorso originario, l’unico che ci era concesso
seguire fin dall’inizio.
373
W. Siti, Il canto del diavolo, 2009, p. 199
181
Qualcuno disegna la nuova utopia di una collettività di individui in
costante e reciproca comunicazione, grazie ai miracoli delle reti
tecnologiche, senza quei vincoli di prossimità che avevano costretto i
loro predecessori ad ammassarsi nei centri urbani. Una città a rete,
senza centro, in grado di proliferare all’infinito, sequenza di
comunità virtuali. Certo che i dati, per dirne una, sulla situazione del
traffico in aree metropolitane sempre più suburbanizzate sembrano
smentire questa idilliaca e futuribile idea, almeno al momento.
Antitesi di questa utopica città a rete è invece la profezia di
un’umanità urbanizzata, dove peraltro la più abnorme parte di
questa crescita urbana interessa i paesi “in via di sviluppo”, con flussi
migratori sempre crescenti attratti dalla prospettiva dei miraggi
urbani. Sarebbe facile cullarsi nell’idea snobisticamente
occidentocentrica del buon selvaggio che va lasciato nel suo mite
sviluppo rurale, nella sua povertà di benessere e desideri. Tuttavia,
per dirla brutalmente, anche loro vogliono la macchina e il
frigorifero, come noi374.
4. Outlet
374
A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, pp. 108-111
182
troppo angusti, dove ognuno sta per conto proprio o si pigia in un
ammasso indistinto, che è la stessa cosa»375.
375
A. Cazzullo, Outlet Italia, 2007, p. 4
376
A. Scurati, Il piccolo paradiso: l’outlet di Serravalle Scrivia, in “La Stampa”, 10
ottobre 2006
377
M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, 1993
183
casi si può anzi sostenere che posti come questi siano iperluoghi, o
comunque luoghi vissuti a tutti gli effetti. Per gli studiosi del genere è
un dibattito aperto.
378
A. Scurati, Il piccolo paradiso: l’outlet di Serravalle Scrivia, in “La Stampa”, 10
ottobre 2006
379
G. Paolucci, La seduzione dell’entertainment. Consumo e leisure nello shopping
contemporaneo, in G. Amendola (a cura di), La città vetrina. I luoghi del commercio e
le nuove forme del consumo, 2006, p. 72
184
all’afa estiva380, idea in verità già praticata da molti pensionati ma ora
anche dai loro nipoti. Chiusi per ferie gli asili, tagliate o
ridimensionate le assistenze domiciliari per la terza età o le colonie
estive per l’infanzia, semideserti gli oratori o altri luoghi di
aggregazione popolare, sembra che a prendersi cura delle famiglie
operaie o della bassa-media borghesia, dalla culla alla tomba,
provveda l’ultima istituzione trionfante: lo shopping.
185
sociale tutto diverso, fatto di province, paesi e centri cittadini che ora
languono. Uno sviluppo che non sembra conoscere limiti. In alcune
città italiane, attualmente, intere zone suburbane e insediamenti di
nuova edificazione prendono il nome dai loro centri commerciali,
mentre aumenta la tendenza a delegare alle società private l’incarico
di costruire luoghi di socialità pubblica per nuovi quartieri all’interno
di parchi e strutture commerciali. Un’ulteriore spinta in questo senso
la darà la costruzione, già progettata in molte città, dei nuovi “stadi”,
dove però i campi di calcio occuperanno solo una piccola parte di
nuovi quartieri misti a insediamenti commerciali per migliaia di
abitanti. Già oggi basta osservare la ricca e operosa Lombardia, che
vista dall’alto, dal cielo sopra Milano, appare come un’immensa
gettata di stradoni e case, capannoni e villette, che si arrampica fino
alle Prealpi. Basta osservare il nastro d’asfalto del Grande Raccordo
Anulare che gira attorno a Roma, ormai diventato un grande centro
commerciale senza soluzioni di continuità, dove le cosiddette “nuove
centralità” che avrebbero dovuto dare qualità, spazi pubblici e servizi
alle nuove periferie sono diventate semplicemente grandi ipermercati
intorno ai quali si addossano quartieri residenziali sonnacchiosi,
icone di una vita monotona e senza tempo. Di quelli che, direbbe J.
G. Ballard, per risvegliarsi in un mondo più carico di passioni,
sognano solo la violenza382. E in effetti è proprio ciò che spesso
avviene, e di cui leggiamo tutti i giorni sui giornali. «La gente si
annoia. Si annoia a morte. E quando la gente si annoia tutto è
possibile: una nuova religione, il Quarto Reich. Sarebbero disposti ad
adorare un simbolo matematico o un buco nel terreno»383.
Si chiede il sociologo urbano Massimo Ilardi: «D’altra parte, che altro
può fare il mercato sul territorio se non costruire outlet, centri
commerciali ed enclave residenziali? E che altro può usare per
governarli, non avendo a disposizione valori, ideologie o utopie per
risolvere i conflitti, se non un controllo sempre più asfissiante,
sempre più intensificato dalla sorveglianza di guardie armate,
dall’installazione di telecamere o dall’innalzamento di muri?»384.
5. Periferie
382
M. Ilardi, L’abisso e la chiacchiera, in M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di),
Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra ha perso Roma, 2009, p. 11
383
J. G. Ballard, Regno a venire, 2006, p. 222
384
M. Ilardi, L’abisso e la chiacchiera, in M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di),
Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra ha perso Roma, 2009, p. 11
186
Dev’essere forse la rivincita delle periferie, quella cui stiamo
assistendo? Dopo decenni passati a confrontare due opposti modelli
in parte utopici, due soluzioni entrambe accusate di fallimento, da un
lato quella dei palazzoni popolari e degli edifici modello, dall’altro
lato quella delle villette monofamiliari e delle enormi distese
suburbane. Dopo anni in cui è ronzato per la testa, specialmente di
molti italiani, un Ramazzotti d’annata, quello che cantava «nato ai
bordi di periferia/ dove i tram non vanno avanti più/ dove l’aria è
popolare/ è più facile sognare». Le metropoli del mondo assumono
sempre più una struttura a cerchi concentrici, senza barriere ma
separati dai recinti invisibili del reddito, dello status, di chi non
riesce a tenere il passo. Centri sottovuoto, periferie in espansione.
Secondo calcoli di pochi anni fa, su quasi 57 milioni di abitanti in
Italia circa 31 milioni (cioè il 55%) vivono in un contesto
metropolitano e di questi circa la metà (quasi16 milioni, cioè il 28%)
vivono nelle fasce metropolitane. Potendo tranquillamente dedurre
che almeno un terzo e forse più (dato sicuramente incrementato negli
ultimi anni) vive nelle aree periurbane385.
Insomma, è dalla periferia che bisogna ricominciare per capire
qualcosa della realtà urbana corrente, e pure del nostro Paese. In
pochi hanno indagato la periferia italiana dopo le ricerche di
Ferrarotti e i racconti di Pasolini. Molti sono stati anche
successivamente quelli che ne hanno scritto e parlato, ma assai meno
quelli che l’hanno davvero frequentata. Ci sarebbe, oggi, qualche
domanda da farsi. Dopo la crescita della città continua e della
metropoli diffusa che ha colonizzato ogni angolo di territorio e di
paesaggio, che cos’è che definisce oggi un luogo come periferia? La
condizione spaziale? L’espansione edilizia? L’estetica? La cultura e gli
stili di vita? Le relazioni sociali386?
“Area urbana ben definita” è il termine tecnico di periferia, ma
persino sulla sua applicazione a una singola città non c’è accordo: la
periferia continua a spostarsi. Si può affermare (e lo si è fatto) che il
concetto stesso di periferia sia privo di senso nel contesto
dell’urbanizzazione estesa e dei modelli territoriali in costante
mutamento che caratterizzano molte zone d’Italia, in particolare
nelle aree metropolitane e diffusamente nel Nord. Anche l’idea di
385
G. Martinotti, A. Melis, Recenti tendenze demografiche negli insediamenti urbani
italiani, in A. Mazzette (a cura di), La città che cambia, 2003, p. 160
386
M. Ilardi, L’abisso e la chiacchiera, in M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di),
Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra ha perso Roma, 2009, p. 9
187
periferia è affiancata dai suoi miti “nostalgici”. Primo fra tutti quello
della “vecchia periferia”, ovvero il tradizionale e leggendario
quartiere operaio novecentesco, dove casa e lavoro avevano un
legame stretto, dove esisteva una comunità. Visione stranamente
smentita da altre ricerche di quell’epoca, le quali a loro volta
deprecavano l’alienazione dei quartieri operai e rimandavano alla
nostalgia di un altro tempo passato, spesso quello della città pre-
industriale e delle zone rurali.
387
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 162
388
Ibidem, pp. 162-163
188
città. Ma questo non può essere un motivo per escludere che ci
possano essere modelli diversi, o che sia il centro a non riuscire a
stare al passo dei nuovi e multiformi modelli urbani389. Così capita
che le più importanti città italiane, aspiranti al rango di metropoli,
vengano accusate, al tempo stesso, sia di non essere riuscite a
diventare un altro tipo di città, generalmente definita “metropoli
moderna”, sia di avere perso le peculiarità di paese/città/comunità
che sarebbero emerse durante certe fasi dello sviluppo industriale,
presunte “epoche d’oro” che però hanno il difetto di variare di epoca
in epoca. Certo, è innegabile che esistano problemi nelle condizioni
di vita delle nostre periferie urbane. Nuove generazioni di cittadini
continuano a galleggiare in quartieri trascurati, spazi pubblici
dimenticati, rotonde d’asfalto, in un nulla di identità sociale e vita
collettiva che nulla è riuscito a mutare negli ultimi tre o quattro
decenni, nemmeno l’addobbo contemporaneo delle antenne
paraboliche appese ai balconi.
Come ha mostrato Carlo Freccero, una delle menti più lucide della
televisione italiana, è stata la televisione commerciale dell’evo
moderno a scoprire e portare alla ribalta “la periferia”. «Mi piace
pensare all’audience – ha scritto qualche anno fa – come alla
periferia di una grande città. È il centro che identifica la città. Nel
centro si trovano i monumenti, i reperti storici, ma anche i luoghi di
aggregazione e di socializzazione. Nel centro si costruiscono la
cultura e la moda. Nel centro si danno appuntamento gli opinion-
leader. La sera il centro è scintillante di luci, di insegne, di vita. Ma
basta allontanarsi dal centro per vedere quelle luci affievolirsi, farsi
sottotono, confondersi con la nebbia in cui sono immerse le cose. È la
periferia. Qui le luci della strada sono fioche e giallastre, ma un’altra
luce filtra attraverso i vetri delle finestre. È la luce lattiginosa della
televisione. La televisione è la colonna sonora della periferia. È
l’audience profonda che inevitabilmente livella i palinsesti»390. La
neo-tv di natura commerciale, quella che italianamente è stata
berlusconiana, secondo Freccero, ha dato espressione e identità alle
periferie delle società democratiche, a una massa informe emarginata
del centro politico e culturale. Le ha conferito un potere simbolico,
pur continuando a tenerla sotto scacco. L’audience ai tempi del
389
Ibidem, p 164
390
C. Freccero, L’audience come periferia, in A. Grasso, M. Scaglioni, Che cos’è la
televisione, 2003, pp. 478-479
189
suburbano è questo: «il passaggio dal potere del Sovrano al potere
della periferia, dalla Storia politica alla microstoria del quotidiano,
dalla cultura attiva delle élite alla massa passiva dei consumatori
senza cultura»391. Fino a tradursi, politicamente, in una potenziale
“dittatura della maggioranza”.
Ai giorni d’oggi, la sera, lontani oppure vicini dalle città, in una gated
community o in un palazzone di borgata, ci si abitua a relazioni senza
empatia. Non c’è solo la televisione, almeno: si sta in contatto con la
chat, con Msn, con Facebook, coi siti web. Alla rete internet l’accesso
è consentito a tutti. Di questo passo è come se internet stesse
sostituendo la metropoli in quanto fucina di incontri illimitati,
imprevedibili e anche indesiderati, però dietro la protezione di uno
schermo, senza che il corpo fisico entri mai in gioco. Qui ci si può
anche incontrare e ibridare con negri, ebrei, islamici, omosessuali,
maniaci, fondamentalisti, hooligans, ravers, teppisti, satanisti,
hackers… l’importante è che non vengano a disturbare sotto casa.
Ecco dunque la ricetta per i nuovi spazi urbani: accesso illimitato sul
piano virtuale ma fortemente limitato sul piano materiale392.
Per l’architetto Stefano Boeri e per altri studiosi che hanno iniziato a
considerare in maniera più approfondita questi scenari urbani, non
siamo di fronte a uno sviluppo caotico ma a uno scenario
strettamente legato ai cambiamenti sociali, familiari e culturali
dell’Italia nell’ultima parte del Novecento. «Un paese ricco in termini
di scelte individuali delle famiglie, dei piccoli operatori immobiliari,
dei singoli investitori, ma povero e arretrato nelle attrezzature
collettive, si è finalmente costruito un territorio a sua immagine e
somiglianza»393. Le “nuove” periferie, dunque, non coincidono con
quelle di Pasolini oggi reclamizzate dai media, neppure con quelle
degli anni Settanta in cerca di riscatto sociale, né con talune
espressioni underground degli anni Novanta, come quelle intraviste
in alcuni centro sociali. Oggi periferia è semplicemente “ciò che sta
fuori”, oltre, luoghi in attesa disperante, luoghi senza più nemmeno
tracce di una solidarietà sociale.
391
I. Dominijanni, La periferia al potere. Intervista a Carlo Freccero, in “Il
Manifesto”, 10 aprile 2004
392
E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a
Ballard, 2005, p. 182
393
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, pp. 176-177
190
Ho riletto, prima di finire di scrivere queste pagine, Il contagio di
Walter Siti. Il più potente affresco letterario e di analisi sociologica
della realtà italiana, a partire da uno specifico punto di osservazione:
le borgate romane. Romanzo di corruzioni, di amori, di cocaina, di
sesso venduto e negato. In una storia e in un percorso narrativo dove
non ci sono più alibi, niente o nessuno da salvare. Non la leggendaria
vitalità popolare, esaltata in tanti libri e film, non il professore
protagonista del romanzo che in questa vitalità presunta ha provato a
rigenerarsi, non la politica indaffarata nella sopravvivenza di
interessi spiccioli, non le ideologie contemporanee, troppo
impegnate a simulare paradisi inesistenti. Proprio le periferie di
Roma, quelle borgate ridotte a indifferenziata poltiglia, si fanno
metafora.
Viene da pensare a uno dei maestri della sociologia italiana, Franco
Ferrarotti, che, intervistato recentemente in un libro sulle periferie
romane, ha dichiarato che già negli anni Sessanta e Settanta in cui
svolgeva le sue ricerche erano chiare due cose. La prima era che «il
baraccato era un aspirante borghese», non a casa oggi alcune di
quelle stesse borgate indagate allora sono abitate «dal poliziotto, dal
palazzinaro di mezza tacca, dall’impiegato; l’uno contro l’altro
ferocemente schierati, con cani da guardia, fili spinati. Un po’ come
allora seppure tutto è diverso. E non a caso ci sono ripulse nei
confronti degli immigrati». La seconda è la differenza abissale tra le
periferie di molte metropoli mondiali, per esempio americane, e
quelle italiane, romana in particolare: «lì, prendiamo ad esempio Los
Angeles o San Diego, la classe borghese, la classe agiata va nella
suburbia (è una vecchia tradizione anglosassone), la periferia lì è
abitata da quelli che da noi abitano il centro»394.
Tornando al Contagio, Siti sostiene che «il mondo sta diventando
un’immensa borgata». In altre parole, l’appassionata analisi di
Pasolini, vecchia di trent’anni, andrebbe rovesciata: «non sono le
borgate che si stanno imborghesendo, ma è la borghesia che si sta (se
così si può dire) “imborgatando”»395. Le periferie non sono altro che
«una sterminata sala d’attesa, una folla brulicante alla fermata delle
astronavi». Perché «le borgate sono il nostro domani ma il domani
non si deciderà in borgata; qui è l’arsenale del futuro ma gli ingegneri
394
M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di), Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra
ha perso Roma, 2009, p. 104
395
W. Siti, Il contagio, 2008, p. 313
191
abitano nelle acropoli»396. E sicuramente c’è del vero in questa analisi
dura e perfino dolorosa. Ed è una delle poche certezze quando –
come adesso, scrivendo – si arriva quasi al punto in cui bisognerebbe
tirare delle conclusioni. Disorientato ma, allo stesso tempo, immerso
fino al collo nel meccanismo.
6. Strapaese 2.0
396
Ibidem, p. 336
192
impauriti, che passano la gran parte del loro tempo in casa, con
scarsi ed episodici contatti con il mondo circostante»397.
397
I. Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, 2009, pp. 71-72
398
Ibidem, p. 69
399
Ibidem, p. 70
400
F. Erbani, Noi urbanisti abbiamo fallito, in “La Repubblica”, 10 dicembre 2009
193
tuttavia, in questa fase, non hanno la minima possibilità di accesso
alle case che si costruiscono. Insomma, il nostro Paese si è
ulteriormente urbanizzato «in modo ampio, rapido, violento»401.
Ancora una volta, come s’era detto negli anni del boom, siamo al
devastante motto del «più case si fanno più ce ne vogliono». Non c’è,
infatti, corrispondenza con la domanda immobiliare, poiché nel
frattempo di edilizia popolare o a prezzi contenuti, per esempio, se ne
è fatta pochissima. Ci sono ragioni che solo in parte si possono
ricondurre a una “domanda sociale”, dovuta alla smania italiana di
investire “nel mattone” e comprare case di proprietà per i figli. In
molti comunque ci hanno guadagnato: gli immobiliaristi, le banche,
il circuito finanziario che ha materializzato nell’edilizia i flussi di
denaro facendo da traino per la crescita economica, fino a che la
“bolla” non è esplosa con l’arrivo della crisi, gli enti locali che si sono
finanziati in “autonomia” grazie a tasse sugli immobili e oneri sulle
licenze urbanistiche, impresari, proprietari di terreni, fino a una
manodopera sfruttatissima e malpagata su cui hanno contato molti
immigrati di basso ceto. In tutto questo, però, tanto si è perduto e
consumato: il territorio, l’ambiente, con l’arrivo della crisi anche lo
sviluppo e i risparmi, più a lungo termine i legami di comunità, i
luoghi e i rapporti sociali402.
401
I. Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, 2009, p. 70
402
Ibidem, pp. 70-71
194
prerogative rispetto all’estensione dei capoluoghi. Semmai si vanno
diffondendo conglomerati regionali, come nel caso di Milano e della
Lombardia ma anche nell’area napoletana o nella zona attorno a
Venezia. In secondo luogo, l’Italia dispone di una ricca tradizione in
termini di radicamento culturale, socialità diffusa, infrastrutture
istituzionali. «Un paese di compaesani» come lo ha definito, con una
formula felice, il sociologo Paolo Segatti403. Una grande miniera di
culture locali, reticoli associativi e relazionali. Rimane forse come
unico sfregio a questo panorama quello di certi quartieroni periferici
“alieni” costruiti negli anni Settanta, usando pratiche architettoniche
mutuate da altre culture. In terzo luogo, bisogna tenere conto del
processo di periferizzazione del nostro Paese rispetto alle dinamiche
più centrali e veloci del nostro tempo. L’Italia insomma rimane
indietro, cresce a ritmi meno veloci, impantana perfino la sua qualità
della vita. Tante ragioni per descrivere il peso di quella che è l’altra
faccia della medaglia, forse ormai predominante, e cioè una
“inadeguatezza localistica” del nostro Paese404. Come spiega Mauro
Magatti, «in un tempo che abbiamo visto essere segnato dalla
mobilità e della comunicazione, l’Italia resta un Paese dove ci si
muove troppo poco, ci si confronta troppo poco, dove il grado di
integrazione culturale è ancora molto basso, dove si tende a
proteggere gli interessi locali già costituiti»405.
Osservando tutto da un altro versante, compresi i processi sociali e i
cambiamenti degli ultimi vent’anni, è inutile però fare finta di niente.
Ciò che è successo in primo luogo in Italia è che il sentire sociale, i
sentimenti prima ancora degli interessi, ha visssuto “l’esperienza
dell’apocalisse culturale”. Come spiegò l’antropologo De Martino
l’apocalisse culturale si esperisce nel momento in cui viene meno
“l’abituale”. Sono venuti meno, nell’ambito di una transizione
accelerata, vari elementi prima abituali: la fabbrica, ovvero il luogo di
lavoro dove si tessevano relazioni sociali; il paese o il quartiere, dove
si esprimeva una certa forma di abitare e di socializzare. È venuta
meno la dimensione comunitaria, in cui fondamentalmente vivere in
quel paese significava avere come punti di riferimento il sindaco, il
maresciallo dei carabinieri, la maestra elementare, il direttore della
banca eccetera: simboli di una comunità locale nella quale appariva
403
Ibidem, p. 69
404
M. Magatti, La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie
italiane, 2007, pp. 37-40
405
Ibidem, p. 40
195
piacevole rinchiudersi e vivere. Un modello idealtipico di
riferimento, non esente da distorsioni e violenze al suo interno.
Eppure, in questo vuoto è facile capire che le uniche passioni di
mobilitazione diventano quelle dell’interesse e del benessere406.
406
A. Bonomi, Il chiunque e la moltitudine, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è
Berlusconi, 2004, pp. 250-252
407
F. Merlo, Faq Italia, 2009, pp. 45-46
196
e a sinistra, ma con la stessa deprecatio temporum di allora, forse
più moralista ancora». Al fondo c’è un’idea falsificata, mitizzata, del
passato, del “vecchio mondo” agricolo e operaio, di un albero degli
zoccoli più che altro fantasticato. Il tutto per evitare di elaborare un
piano strategico per il presente, di affrontare il Paese maggioritario e
forse banale con cui abbiamo a che fare, che dietro i rimpianti per “il
gusto pieno della vita” – come diceva un vecchio spot pubblicitario –
usa (e abusa di) tutti i prodotti della modernità. Che si ritrova,
nonostante tutto, con quartieri finti, piazze vuote e outlet pieni.
408
A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, 2008, p 26
197
condominio e dal quartiere fatto di operai e impiegati. Quello con cui
abbiamo a che fare, più che un problema di strapotere televisivo, è un
problema di sapere sociale, territoriale, anche se oggi tutto sembra
pura virtualità dell’apparire409.
Radici e cause di questo fenomeno stanno nei cambiamenti del
tessuto economico iniziati fin dagli anni Ottanta, nella
terziarizzazione accelerata, nel manifestarsi della perdita di
egemonia della vecchia “classe operaia”, nella crisi che investiva il
tessuto di artigiani e piccole imprese, in molti casi schiacciate dalla
nuova concorrenza globale, dell’Est Europa e della Cina. Nel
conseguente profilarsi di un nuovo idolo, quello di un individualismo
proprietario, essenzialmente antisociale. Inoltre radici e cause vanno
cercate anche nell’esplosione dei flussi immigratori verso il nostro
Paese, non sempre facili da gestire nel giro di pochi anni, il più delle
volte gli stessi che avevano avuto modo di allenarsi alla nostra esibita
ricchezza, grazie alle loro antenne paraboliche puntate verso di noi
dall’altra parte del Mediterraneo.
A tutto ciò, a migliaia di soggetti “spaesati”, “orfani”, “stressati” – per
usare le definizioni di Bonomi – bisognava dare una risposta, anche
se apparentemente di basso profilo. «Uno ha detto loro: “Vi do io
quello che manca, l’identità, e il vostro riscatto inizierà sottolineando
che siete lombardi”. È una risposta brutale, ma attraverso questo tipo
di strategia è stato dato un “paese” a tanti spaesati. Berlusconi invece
ha dato una “casa” a molti “sfollati”. La casa non è altro che
l’ipermercato o il capannone»410.
409
Ibidem, pp. 7-8
410
Ibidem, p. 53
198
comunità”, intesa come espressione della domanda insoddisfatta di
identità e di senso. Nel momento in cui scricchiola il progetto della
modernità societaria, il richiamo alla comunità può offrire una nuova
leva per la produzione di significati411. Comunità contro società?
Basta un niente, pare, e ci ritroviamo a centovent’anni fa, oppure
all’inizio di questa tesi.
411
Z. Bauman, Voglia di comunità, 2002
412
A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, 2008, p 53
413
G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2008, p. 112
199
200
CONCLUSIONE
______________________
Ora, se c’è una cosa che in queste pagine è stata accertata è che la
città del Ventesimo secolo è stata la più formidabile opera di
riscrittura del territorio da quando esiste la civiltà occidentale. Oggi
la città contemporanea sembra assumere sempre più le
caratteristiche di città infinita, dove si intersecano culture
tradizionali in cerca di sopravvivenza, non luoghi dell’ipermodernità,
centri commerciali, grandi hub di scambio di reti globali. Mentre la
città medievale e moderna i confini li erigeva tra sé e l’esterno, tra
centro e periferia, ora l’espansione urbana illimitata moltiplica
201
divisioni e barriere culturali ed economiche all’interno della città
stessa. Da luogo dell’utopia che si organizzava in grandi partiti o
movimenti di trasformazione, la città diviene ora luogo di
un’eterotopia negativa, composta da una convivenza forzata tra pezzi
tra loro isolati, non dotati di rappresentanza e di rappresentazione.
202
Cosa promette, dunque, il nuovo secolo (ormai nemmeno più tanto
nuovo)? Promette le utopie dell’agorà digitale e del villaggio globale
in rete? Oppure promette la distopia della città fortezza in cui si
rinchiudono minoranze spaventate di individui? O i centri di
detenzione in cui rinchiudere i settori più indesiderabili della
società? O quella della città ridotte a parco giochi e a supermercato,
per esercitare una cittadinanza globale fondata sul consumo, da cui
tenere esclusi tre quarti della popolazione mondiale. Tali utopie e
distopie, forse, non sono altro che prototipi immaginari. Ma abbiamo
verificato che è proprio attraverso l’immaginario che passa, in buona
parte, la nostra capacità di rapportarci al futuro. Per ora ci tocca
sperimentare pezzetti di utopie e pezzetti di distopie, frammenti di
immaginario e impressioni del futuro, in quella che è la nostra vita di
tutti i giorni.
203
204
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CREDITS
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