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Luca Di Ciaccio

________

Tesi di laurea specialistica


UTOPIE DI STRAPAESE
Urbanizzazione e potere,
da Littoria a Milano Due
passando per Disneyland
- VERSIONE INTEGRALE -

Università La Sapienza di Roma


Facoltà di Scienze della Comunicazione
Corso di laurea in Editoria, Comunicazione Multimediale
e Giornalismo
Cattedra di Teorie delle società complesse
Anno Accademico: 2009/2010

Relatore: prof.ssa Giovanna Gianturco


Correlatore: prof.ssa Silvia Leonzi
2
INDICE
____________________

Introduzione p. 5

Capitolo 1
Città da immaginare p. 9

Capitolo 2
La terra nuova di regime p. 29

Capitolo 3
Là dove c’era l’erba ora c’è una città p. 71

Capitolo 4
La città dei numeri uno p. 105

Capitolo 5
Il contagio p. 167

Conclusione p. 201

Bibliografia p. 205

Credits p. 213

Ringraziamenti p. 215

3
4
INTRODUZIONE
____________________

Qualunque analisi sociopolitica legga, con chiunque esperto o amico


parli, ogni blogger specializzato che senta, da un po’ di tempo a
questa parte da tutti sento ripetere che bisogna prestare attenzione al
“territorio”, puntare le antenne sui luoghi e sulle città, sulla
concretezza dei posti dove si svolge la vita delle persone in carne ed
ossa. Ma basta capovolgere per un attimo il discorso e dagli stessi,
con identica appassionata perizia, sento ripetere che bisogna non
perdere di vista gli “immaginari”, osservare con attenzione gli spazi
mediatici, di massa e pure di nicchia, investire sulla politica e sulla
società come marketing. Quella che appare come una contraddizione
in termini mi è sembrata alla fine l’unica strettoia possibile in cui
infilarsi per analizzare e capire qualcosa di questo nostro Paese. In
fondo davvero plasmato e trasformato, nell’ultimo secolo, dal
cemento e dalla televisione. È così che ho cominciato ad accumulare,
un po’ disordinatamente, idee per questa tesi di laurea specialistica
che pur dovevo fare. Il nome della cattedra prometteva bene: teorie
delle società complesse.

La ricerca che ne è uscita, e che sarà discussa in una mattina di


gennaio 2010, è stata intitolata alle “Utopie di Strapaese”. Utopia
intesa come ricerca di una forma ideale per la città e per i suoi
abitanti, un’ambizione spesso indifferente ai destini di chi sarà
destinato a viverla. Strapaese inteso come movimento culturale
italiano di inizio Novecento e soprattutto come simbolo del ritorno
alle origini, di una sempre vagheggiata cultura nazionale nostalgica e
anti-urbana. Tutto quello che c’è attorno è un viaggio, per tappe e per
capitoli. Una tappa – nel primo capitolo – è ad Atlantide, o meglio in
una carrellata delle mille Atlantidi immaginate nella cultura umana,
dai miti greci ai propositi rivoluzionari ai film di fantascienza
contemporanei. Un’altra tappa – nel secondo capitolo – è nell’Agro
Pontino, a sud di Roma, snodo principale del progetto di bonifiche e
città costruite su diretta emanazione del regime fascista tra gli anni
Venti e Trenta. Una ulteriore tappa – nel terzo capitolo – è alla
ricerca delle impronte molteplici lasciate sul territorio italiano dalla
sfrenata ricostruzione edilizia del dopoguerra, dai piani Ina Casa a
taluni elefantiaci complessi residenziali di periferia fino al modello
polverizzato e disordinato delle villette e del cosiddetto “paese dei

5
geometri”. Una tappa centrale, e particolarmente accurata – nel
quarto capitolo – è a Milano Due, il quartiere residenziale
autosufficiente e destinato alla media-alta borghesia costruito negli
anni Settanta alla periferia di Milano dall’imprenditore Silvio
Berlusconi, e che rappresentò non una semplice edificazione
immobiliare ma una vera e propria dichiarazione culturale. Ultima
tappa – nel quinto capitolo – è nelle forme polimorfe e spesso
recintate del paesaggio urbano (e suburbano) contemporaneo: da
Celebration, città residenziale negli Stati Uniti costruita dalla Disney,
ai parchi a tema, dalle banlieue in fiamme affianco Parigi ai nuovi
quartieri della provincia italiana che sorgono accanto a centri
commerciali o outlet, a loro volta ultime città del consumo.

È un viaggio eterogeneo, articolato, pieno di curve. Con vari fili


conduttori che si incrociano e si sovrappongono. Il filo del potere e
delle forme urbane che lo esprimono: potere politico espresso da
regimi, governi, partiti, ma anche potere nelle sue forme derivanti
dai mezzi di comunicazione di massa. Il filo della forma urbana che si
fa cultura popolare, alta e bassa: film di fantascienza, bollettini
propagandistici di regime, caratterizzazioni del neorealismo e della
commedia all’italiana, opere e missioni intellettuali di Pasolini,
ballate nostalgiche di Celentano, quiz educativi della tv di Stato,
spettacoli di grande audience della tv commerciale, romanzi di
Ballard, spot elettorali e pubblicità di merendine. Il filo delle forme
architettoniche: il razionalismo, il modernismo, le unità abitative di
Le Corbusier, il modello della Garden City, il New Urbanism. Il filo
delle espressioni politiche della recente storia nazionale e del loro
rapporto con il territorio: il regime fascista, il potere democristiano
del dopoguerra, il segmento anti-moderno di certa sinistra italiana, il
berlusconismo e il leghismo. Il filo dei diversi metodi di analisi
adottati, capitolo per capitolo: ricostruzioni storiche, esempi
letterari, brevi osservazioni sul campo, interviste informali o
registrate a testimoni privilegiati, riferimenti sociologici, racconto in
prima persona.

Comunque sia, di una cosa si viene a capo: lo spazio urbano è una


metafora straordinaria della società. Uno spazio, al giorno d’oggi,
sempre più privatizzato, controllato, ripulito per settori. Insomma,
dovessi ricominciare da capo l’università farei volentieri qualche
esame di sociologia urbana in più. Ma l’ho finita oggi, per fortuna.
Probabilmente questo lavoro che ho realizzato risulterà, perlomeno

6
per certi passaggi disinvolti di linguaggio, oppure per una scarsa
chiarezza nei metodi di ricerca, poco accademico. Me ne rammarico,
io in fondo l’accademia non l’ho mai capita fino in fondo.

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8
CAPITOLO 1
Città da immaginare

È delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere


sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che
nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura.
Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.
Italo Calvino, Le città invisibili

9
10
1. Civitas, polis, communitas

Le città sono organismi. Viventi tanto quanto il mare, la terra, le


montagne. Con organi diversi per funzioni diverse, corpi che
masticano e digeriscono e producono escrementi, tonnellate di rifiuti.
La parola città deriva dal latino civitas, e si applicava all’insieme dei
cittadini che si riconoscono in istituzioni politiche e religiose comuni.
Fin dall’antichità, tanto il termine greco polis (da cui poi deriva la
parola politica, ovvero l’arte e la pratica del governo delle società
umane) quanto il latino civitas hanno indicato la città stato,
organizzazione contemporaneamente urbana e politica. Questa
ambivalenza della parola “città” comprende bene sia il luogo fisico
che i dipositivi sociali che vi agiscono, sia i modelli spaziali che la
costruiscono sia le relazioni che la fanno vivere. La città è un
organismo vivente, un organismo biologico, e non solo perché di
anno in anno cambia e muta negli edifici, cambia e muta nelle strade;
ma soprattutto perché cambia e muta nelle persone, nella propria
storia, nella sua communitas. Prima di cominciare a scrivere queste
pagine sono entrato nel Palazzo Pubblico di Siena. Sulle sue mura mi
sono fermato a osservare due affreschi dipinti da Ambrogio
Lorenzetti, in queste opere allegoriche il buono e il cattivo governo
sono rappresentati da due paesaggi contrastanti. Da un lato una città
dall’aspetto fiero e ordinato, dove le terre sono ordinatamente
coltivate e i cittadini vanno in giro sicuri e benvestiti. E dall’altro lato
una città in via d’abbandono, dove gli edifici cadono in rovina, i
delitti allignano ad ogni angolo di strada, le campagne sono in
abbandono e gli abitanti sembrano sfuggire agli invasori.
Ho pensato che gli essere umani costruiscono le città a loro
immagine e somiglianza, in un modo o nell’altro. Costruire città è
un’attività che si porta dietro tutta una sua connessa mitologia.
Difatti nell’antichità la fondazione delle città veniva sempre fatta
risalire agli dei o ai semidei, eroi eponimi che dopo la morte
assurgevano al divino. E quando gli uomini si sono messi a fondare le
città, con consapevolezza urbanistica – a partire da Ippodamo da
Mileto coi suoi comandamenti, l’urbanista greco del V secolo a.C. che
teorizzò per primo l’opportunità di costruire della città secondo
schemi planimetrici regolari1 – il primo comandamento è sempre
1
M. Torelli, Storia dell’urbanistica. Il mondo greco, 1983, p. 233

11
stato economico e politico: quello di attirare e favorire i traffici. In
altre parole, «da quando esiste la città, la pianificazione urbana e la
costruzione dei monumenti è sempre stata in mano ai sacerdoti e ai
re, ed è tuttora uno degli strumenti a disposizione di chi è al potere
per comunicare insegnamenti o ideologie ai sudditi o ai cittadini, e
per rappresentare se stesso»2. La città non è solo un posto dove la
gente abita, ma soprattutto il luogo dove le persone possono
intessere le loro relazioni, quelle economico-commerciali ma anche le
altre. Non è un caso se tutti quelli che hanno in testa l’idea di
conquistare e dominare una Nazione (o un regno, o un impero, o un
immaginario popolare, o soltanto una corporation) prima o poi si
confrontano sempre con la costruzione di città, con l’irresistibile
mania della creazione urbana.

2. Atlantide e le altre

Per costruire una città bisogna saperla immaginare, ha detto in una


recente intervista Oscar Niemeyer, architetto centenario. Intendeva,
lo spiegava bene: il problema non è progettarla, per questo ci sono i
bravi esecutori. Prima di tutto bisogna saperla pensare quando
ancora non c’è: vederla nella mente, vederla prima. Sapere come
sarà, che dolori e che gioie susciterà, come cambierà e come forse
diventerà un’altra città ancora, una città nuova da quella solo
pensata, un posto due volte diverso dal nulla di adesso. Non sono
molte le persone al mondo che sanno (che possono, che hanno il
coraggio o la condanna) di vedere prima: nella politica, nell’impresa,
nell’arte e negli affari, nello spirito del tempo. In genere, nella
disgrazia o nella gloria, fanno la storia. In genere incontrano
difficoltà, per usare un eufemismo. Suscitano speranze e spesso
paure3. Immaginare è sempre stato il prerequisito necessario al
disegnare e al costruire, quindi possiamo dare per scontato che le
utopie architettoniche siano antiche quanto le prime costruzioni
dell’uomo. Le città mesopotamiche, egiziane e indiane vennero infatti
costruite come modelli di città perfette, con le grandi strade, le
piramidi e i canali che dovevano essere dimore degli dei e degli
uomini. Ma fin dagli esordi della civiltà, le metropoli – cioè la

2
R. Scramaglia, La dimenticanza negli abitati di una periferia milanese, 1991, cit. in
A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, p. 45
3
C. De Gregorio, La strada sia lunga, in “L’Unità”, 10 marzo 2009

12
capitale non di uno Stato ma di un pezzo di mondo – erano realtà
caotiche, stratificate, pulsanti. Nella culla del Mediterraneo,
Alessandria d’Egitto, Roma, Costantinopoli furono le prime obesità
urbane del pianeta (almeno in Occidente), le prime grandi stalle di
umanità, i primi labirinti di palazzi, catapecchie, monumenti,
fontane, templi, regge, bordelli, escrementi, carri, ladri, assassini,
imperatori, scrittori, i primi spazi urbani che abbiano ospitato nelle
loro mura, fino a farle scoppiare, oltre un milione di creature.
Tuttavia, l’arte di pensare alla forma urbana perfetta, lontana dalle
angustie del mondo, è qualcosa che nasceva già con la cultura greca.

La costruzione di città ideali, abitate da società perfette, è ricorrente


nella Grecia del IV secolo avanti Cristo, e si tratta spesso di isole
lontane, ricche, in cui vige preferibilmente un sistema di tipo
socialista e autarchico, con suddivisione del lavoro e possesso
comune dei beni. Società immaginarie che vengono sempre
provvidenzialmente collocate nei luoghi meno noti, situati ai confini
del mondo e dunque anche della realtà, in cui le condizioni
ambientali sono abbastanza ricche e i governanti abbastanza saggi e
colti da costruire un mondo felice e stabile. La costruzione più
perfetta e leggendaria, allora, rimane l’isola di Atlantide, che Platone
poneva in un luogo non solo lontano e inaccessibile ma anche
passato, e oggi scomparso 4. Nei suoi due dialoghi intitolati Timeo e
Crizia il filosofo greco menziona brevemente la storia di questa
mitica isola situata «oltre le colonne d’Ercole» e che poi sprofondò
«in un singolo giorno e notte di disgrazia»5. Un mito filosofico, una
riuscita metafora, attorno alla quale sono fiorite numerose leggende.
Un utopia, si dirà poi. D’altronde il termine utopia è composto dalle
parole greche ou topos, la regione che non esiste in nessun luogo;
oppure eu topos, la regione della felicità e della perfezione. Di certo
Platone non dava importanza all’aspetto architettonico, o tantomeno
urbanistico, della sua comunità perfetta. Le cose cambiano con
l’umanesimo e il Rinascimento, dove accanto a famose opere
utopiche come l’Utopia di Tommaso Moro6 (lui, per primo, coniò
questo termine) e la Città del Sole di Tommaso Campanella7, i pittori

4
M. Cavini, Atlantide, in http://spazioinwind.libero.it/cavinimaurizio
5
Platone, Le opere. Repubblica, Timeo, Crizia, 2005
6
T. Moro, Utopia, 2007
7
T. Campanella, La città del Sole, 2006

13
dipingono città e architetture ideali e molti architetti, tra cui lo stesso
Leonardo da Vinci, aspirano a creare la città perfetta.

I problemi delle città medievali di allora erano le strade anguste e


sporche, la mancanza di una buona canalizzazione per rimuovere i
rifiuti, le mura inadeguate alla difesa dalle nuove armi da fuoco. Per
questo le città perfette del Rinascimento hanno strade ampie per
permettere l’agevole traffico dei carri, grandi canali a pianta
esagonale o pentagonale, utile sia come modello di perfezione
geometrica che come necessità pratica per permettere ai cannoni di
tirare fin sotto le mura8. Diverse “città ideali” vennero effettivamente
realizzate nel territorio italiano, e molte mantengono tuttora la tipica
pianta geometrica rinascimentale9. Pare di vedere la prospettiva
fissata nella storia da Leon Battista Alberti, architetto nato vissuto
nel XV secolo, guida per molta urbanistica che verrà. Nel suo trattato
De Re Aedificatoria del 1452 scrive: «Quando si giunge in una città,
se questa è famosa e potente, esigerà strade dritte e molto ampie,
confacenti al suo decoro e alla sua dignità. Se invece è una colonia o
una semplice piazzaforte… le vie all’interno della città non dovranno
passare in linea retta, ma piegare con ampie curve come anse di
fiume, più volte da una parte e dell’altra… perché il fatto è di grande
giovamento sia alla bellezza, sia alla pratica convenienza, sia alle
necessità di determinati momenti… infatti chi vi cammina viene
scoprendo man mano, quasi a ogni passo, nuove prospettive di
edifici… inoltre la strada la strada a curve sarà sempre ombreggiata,
anche d’estate; e d’altra parte non vi sarà casa ove non giunge la luce
del giorno: mai vi mancheranno le brezze, né vi sarà pericolo di venti
nocivi, che verrebbero subito respinti dai muri frapposti»10. Tra
ampie vedute rinascimentali e densi modelli medievali, Alberti aveva
capito che per l’urbanistica delle città non si potevano fissare
modelli: la città non può essere la creazione del Principe, se mai lo è
stata, ma è il prodotto di tanti soggetti che devono fissare regole
condivise, spazi ordinati da norme11.

Nei secoli successivi, mentre la città dei ricchi si dotava di ampi


palazzi e ampi viali (così ampi Napoleone III fece costruire i

8
F. Defferrari, Utopie urbanistiche cinematografiche, in www.parametro.it
9
E. Guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento, 1981
10
L. B. Alberti, L’architettura, 1981, p. 161
11
F. Choay, La regola e il modello, 1986

14
boulevards di Parigi, si dice, per evitare che a qualcuno venisse in
mente di metterci qualche barricata e rifare la rivoluzione), i
quartieri operai, che spesso occupavano le zone più vecchie delle
maggiori città europee, restavano luoghi affollati e malsani, privi di
sistemi fognari affidabili e sovrappopolati da persone che vivevano in
condizioni tremende. I teorici che si occupavano del miglioramento
della condizione operaia avrebbero voluto realizzare dimore popolari
che permettessero anche ai poveri di vivere in una condizione
dignitosa ed igienicamente migliore. Alcuni lo hanno fatto
veramente, e Robert Owen ne è certamente l’esempio più famoso. La
sua ottocentesca utopia, come quella di Charles Fourier, prevedeva
piccole comunità autosufficienti, nuovi paesi a dimensione umana in
contrapposizione alle condizioni disumanizzanti dei quartieri operai
cittadini. Tutta una stagione di progetti che rientrava nel filone del
socialismo utopico12. Utopie che però non ebbero fortuna: nel corso
del tempo le metropoli in espansione diventeranno sempre meno
città di uomini e sempre più città di macchine.

Intanto, all’inizio dell’Ottocento, in Europa nasce con i passages


parigini una tipologia assolutamente nuova di spazio urbano, il
transito dei centri cittadini si affolla di scintillanti vetrine all’interno
delle quali gli oggetti, la merce, assumono per la prima volta una
dimensione magica. La metropoli diviene il luogo di ricerca e di
sperimentazione delle nuove modalità di organizzazione industriale
del lavoro e del tempo libero, di nuovi dispositivi delle leggi e del
divertimento: un territorio su cui si espandono costruzioni materiali
e immateriali. Walter Benjamin parlerà di “fantasmagoria”, grazie
alla quale l’oggetto perde la sua qualità di bene per diventare sogno13.
Quello che lui chiamerà flaneur, il consumatore perditempo,
nell’analisi del sociologo Georg Simmel diventarà l’individuo blasé,
colui che in virtù della quantità di stimoli a cui è sottoposto dalla vita
nella metropoli, perfettamente in simbiosi con le esigenze
dell’economia monetaria capitalistica, arriverà a sviluppare un
atteggiamento asettico, indifferente, nei confronti delle altre persone,
delle cose, dei luoghi14. Secondo il sociologo tedesco «la vita della
piccola città, nell’antichità come nel Medioevo, imponeva al singolo
tanti limiti di movimento e di relazione all’esterno, e di indipendenza

12
A. Colombo, L’utopia: rifondazione di un’idea e di una storia, 1997
13
W. Benjamin, I passages di Parigi, 2007
14
G. Simmel, La metropoli e la dello spirito, 2005

15
e differenziazione all’interno, che l’uomo moderno vi avrebbe
l’impressione di soffocare»; quindi «oggi, in un senso sublimato e
raffinato, l’uomo metropolitano è “libero” in confronto alle piccinerie
e ai pregiudizi che limitano l’orizzonte di chi vive la città di
provincia»15. In ogni caso, la città si arricchisce delle sue strade
incantante, sebbene patrimonio per pochi borghesi, al massimo da
guardare e non toccare per tutti gli altri. Sezioni di città “protette” e
totalizzanti, delle piccole zone in cui la vita urbana concentra tutta la
propria capacità seduttiva, tenendo lontane le ombre e le paure.

Nella sociologia moderna c’è poi voluto Max Weber a spiegare che
l’istituzione della città, almeno nell’Europa continentale
settentrionale, fu questione più economica che militare16. Ciò accadde
perché ai detentori extraurbani del potere mancavano le risorse
amministrative per soddisfare, coi loro apparati, i bisogni economici
delle città, quelle stesse città che ad essi fornivano sostanziose
rendite attraverso le tasse e le dogane. Lo stesso si potrebbe dire della
Chiesa. Per questo l’autogoverno delle città medievali rappresentò il
primo passo della società borghese, che prosperava grazie al nascente
capitalismo mercantile. È per questo che «tutti i poteri feudali senza
eccezione, a cominciare dai re, hanno sempre guardato con la
massima diffidenza il loro sviluppo»17. La città – nell’analisi di Weber
– emerse come una sfera di “dominio non legittimato” che operava al
di fuori dell’autorità ecclesiastica e feudale, e per questo costituiva
una sfida alla pretesa dello Stato di detenere il monopolio
dell’autorità legittima. L’era delle città-stato ebbe vita breve ma
comunque la forza motrice della modernizzazione economica e
politica continuò a riassumersi nella stessa parola: urbanizzazione.

La città “della borghesia”, descritta a un massimo livello di sintesi,


resta quella del Manifesto del Partito Comunista. Un ritratto in dieci
righe scomponibile sia nelle sue parti sia nelle intenzioni dei suoi due
coautori, Marx ed Engels. È analisi, racconto, denuncia, ma anche
scelta di campo da conquistare e da rivoltare. Attacca così: «La
borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha
creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della
popolazione urbana in confronto a quella rurale, strappando in tal

15
Ivi, pp. 46-48
16
M. Weber, Economia e società, 1961
17
Ivi, p. 653

16
modo una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita
rurale…»18. Notevole questa istantanea con la sua caratteristica: la
vita rurale e il suo idiotismo. Notevole anche perché ci porta in
campagna, in un quadro comunitario, naturale. Nell’antitesi al vivere
urbano della società. All’urbanesimo come modo di vita, per citare –
dall’altra parte del mondo – i sociologi della Scuola di Chicago, i
quali andavano empiricamente a ficcare il naso nel ventre delle città,
dai ghetti più infidi al proletariato nomade, alle lettere degli
immigrati poveri, dove la solitudine e il degrado morale e sociale
sono l’inevitabile conseguenza del venire meno dei legami
tradizionali. La sociologia americana di quell’epoca recepiva l’idea
durkheimiana di anomia, in un mondo in cui la solidarietà si fa
problematica. Nell’ambiente urbano, scrive Robert Park nel 1915, «è
probabile la rottura dei legami locali e l’indebolimento delle
coercizioni e delle restrizioni all’interno dei gruppi primari,
responsabile dell’incremento del vizio e del crimine»19. Per far
contenti gli amanti del rigore accademico è stato Luois Wirth, nel
1928, a identificare con ottima sintesi e sulla base di una serie di
caratteristiche l’oggetto del suo argomentare, cioè la città. Primo
requisito: il numero degli abitanti. Una città, per essere tale, deve
avere tanti abitanti. Secondo requisito: la densità. Gli abitanti devono
essere concentrati in uno spazio largo ma comunque definito. Terzo
requisito: l’eterogeneità sociale. In una città gli abitanti devono
essere diversi tra loro, possibilmente dispersi e atomizzati nelle loro
relazioni20.

Un balzo in avanti, e nel 1968 il sociologo francese Henri Lefebvre,


nel suo saggio intitolato Il diritto alla città, propose l’utopia
sperimentale: ovvero l’idea che ogni bravo pianificatore urbano della
fine del XX secolo dovrebbe considerare se stesso come un utopista21.
Nel frattempo la città vive la stagione della seconda rivoluzione
urbana, diventando l’habitat privilegiato della stragrande
maggioranza degli esseri umani. Costituendo quell’esperienza urbana
che, scriverà David Harvey nel suo omonimo saggio, si muove
concretamente su tre linee ordinate, sempre più in via di

18
K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, 2005, p. 34
19
R. E. Park, La città, 1925, cit. in A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza
urbana, 2000, p. 69
20
A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, pp. 69-71
21
H. Lefebvre, Il diritto alla città, 1970

17
compressione: spazio, tempo, denaro22. Il vero decollo
dell’urbanizzazione avviene nel Ventesimo secolo, soprattutto dagli
anni Cinquanta, quando sotto la spinta della crescita della
popolazione e delle migrazioni dalle campagne, i tassi di espansione
delle città hanno iniziato ad aumentare rapidamente, prima nei paesi
industrializzati e subito dopo nei paesi in via di sviluppo. Nel 1970 il
35% della popolazione del pianete viveva nelle aree urbane, alla fine
del secondo millennio questa percentuale ha raggiunto ormai il
50%23.

3. Eterotopie occidentali

La vita umana è sempre di più vita urbana. E al suo interno nuove


tensioni si manifestano. Anche a occhio nudo è possibile rilevare
l’aumento delle diseguaglianze e dell’eterogeneità culturale della
popolazione. Il sogno-incubo dell’omologazione urbana che la città
moderna aveva cullato – con quella indifferenza un po’ distaccata del
cittadino flaneur di cui ci parlava George Simmel cento anni fa –
sembra oggi del tutto fuori tempo. Al suo posto, nella città
frammentata e illegibile, nella quale si molitplicano i punti ciechi e si
diffondono l’isolamento e la solitudine, a prevalere è quel senso di
insicurezza e paura di cui più recentemente ha scritto Bauman24.
Commenta il sociologo Mauro Magatti: «La convivenza tra diversi e
diseguali nello stesso territorio – soprattutto quando i mondi
culturali e i sistemi di interesse a cui si fa riferimento non si
incrociano mai e gli assetti istituzionali si indeboliscono – rischia di
rivelarsi una pericolosa alchimia sociale»25.

Per cogliere talune di queste implicazioni torna utile seguire il


suggerimento di Michel Foucault, il quale distingue tre grandi
passaggi storici nell’organizzazione spaziale della vita sociale26. La
prima fase, che si può far risalire fino agli esordi della modernità, è
caratterizzata da una netta prevalenza della localizzazione. Ogni

22
D. Harvey, L’esperienza urbana, 1998
23
L. Mencacci, L’eclissi dell’utopia urbana, 2009, p. 10
24
Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, 2005
25
M. Magatti (a cura di), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le
periferie italiane, 2007, p. 19
26
M. Focault, Eterotopia. Luoghi e non luoghi metropolitani, 1994

18
luogo, stabile e ben delimitato, è collocato entro una gerarchia
spaziale che coinvolge non solo la sfera terrena, ma anche quella
celeste. Un po’ come nel viaggio compiuto da Dante nella Divina
Commedia. Un’organizzazione incarnata da due figure simboliche
meglio di altre: il monaco e il contadino. La seconda fase nasce con la
modernità ed è caratterizzata dalla logica dell’estensione. Le grandi
scoperte geografiche, le revisioni delle conoscenze astronomiche,
l’avvento dei nuovi mezzi di trasporto, la diffusione dell’innovazione
economica e sociale scardinano le vecchie gerarchie e aprono nuove
possibilità. I comportamenti acquistano valore in base alla loro carica
di innovazione. L’epoca è segnata dall’emergere di nuove figure: il
viaggiatore, l’inventore, il commerciante. Comunque sia, rimane
uguale l’aspirazione all’omogeneità. La terza fase introduce una
diversa logica di spazializzazione, che Focault chiama della
“dislocazione”. Ciò che definisce questo momento è la sua capacità di
stabilire delle relazioni tra punti differenti e lontani: nessun luogo
esiste più per se stesso, ma sempre in relazione ad altro. Dunque,
ogni luogo viene continuamente dislocato, aperto, interconnesso.
All’interno di questa configurazione c’è una pluralità di logiche che
non risponde più a un disegno unitario. Figure archetipiche di questa
fase sono il pendolare, il turista, l’uomo d’affari. Secondo Focault
quest’attuale fase coincide con il passaggio dal dominio dell’utopia,
che ha caratterizzato la modernità, al prevalere dell’eterotopia. Con il
primo termine, la modernità aveva immaginato il suo futuro in un
altrove che doveva essere costruito. Un luogo ideale, una proiezione
di speranze, un’omogenizzazione forzata, e proprio per questo
irreale. Il concetto di eterotopia si muove, invece, in tutt’altra
prospettiva. Esso è orientato alla varietà e alla diversificazione, e ha a
che fare con l’esistenza di luoghi reali, effettivi e che pure
«costituiscono dei contro-luoghi, specie di utopie effettivamente
realizzate, nelle quali i luoghi reali vengono al contempo
rappresentati, contestati, sovvertiti»27. Con il concetto di eterotopia
Foucault sembra dire che lo spazio nel quale viviamo tende a
differenziarsi al proprio interno, creando una varietà di realtà ed
esperienze qualitativamente diverse, che sono sempre meno
sovrapponibili tra di loro. Le eterotopie, scrive ancora Foucault,
«sviluppano con lo spazio restante una funzione (…) esse creano un
altro spazio reale, così perfetto, così meticoloso, così ben arredato al

27
Ibidem, p. 13

19
punto da far apparire il nostro come disordinato, maldestro,
caotico»28. Così l’eterotopia riassume in sé elementi opposti: da un
lato il desiderio di sfuggire all’ordine sistemico per trovare contesti di
creatività e libertà, dall’altro il rischio di una differenziazione
funzionale, per puntare a logiche di segregazione. Tuttavia è
innegabile che la città contemporanea crea continuamente
eterotopie, luoghi sempre più specializzati e dotati di un codice
proprio, che vale solo al loro interno. Parchi di divertimento, centri
commerciali, isole pedonali, centri sociali, piazze attrezzate. Infine le
eterotopie si formano anche come luoghi in cui vengono concentrati
tutti coloro che sono inadatti rispetto alla vita contemporanea.
“Discariche” in cui collocare “vite di scarto” che non si vogliono
vedere e che non si sa come integrare: centri di permanenza per
immigrati, carceri superaffollate, ghetti urbani, campi rom, palazzi
abusivi. Si sfilaccia il tessuto connettivo del luogo, della città. La
socialità pubblica, gratuita, si rattrappisce29.

Dunque la città diventa culla di ambizioni, emulazioni, maledizioni,


immaginazioni. Per denunciare una città simbolo, i suoi modi di
vivere e le sue presunte perversioni, bisogna essere in genere degli
efficaci architetti di immagini. A volte basta un termine intonato in
un certo modo: megalopoli. Oppure un titolo da cinema diventato
una visione impressionante: giungla d’asfalto. O anche due bersagli
canonici: Babilonia, Sodoma. Alla televisione francese, recentemente,
veniva citata questa espressione per descrivere l’attacco alle Torri
Gemelle di New York: «Due oggetti nomadi scagliati contro due
oggetti sedentari». Nel loro bel saggio Occidentalismo, Ian Buruma e
Avishai Margalit analizzano prima di tutto la polemica, e gli insulti
conseguenti, contro la città occidentale: «Superbia, edifici imperiali,
secolarismo, individualismo e fascino del denaro sono elementi
associati alla scandalosa Città dell’Uomo. I miti sulla sua distruzione
esistono da quando l’uomo costruisce città nella quali si commercia,
si accumulano saperi e si vive nel benessere»30.

28
Ibidem, p. 19
29
M. Magatti (a cura di), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le
periferie italiane, 2007, pp. 21-28
30
I. Buruma, A. Margalit, Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici,
2004, p. 42

20
4. Utopie e omelettes

La tradizione utopica ha una sua storia e variegate espressioni, ma


sempre con un filo di caratteristiche che le lega nel tempo. Frutto
dell’intelletto, gli ambienti utopici sono immaginati come il risultato
dello sforzo umano, senza la partecipazione del sovrannaturale. Tutti
hanno molto in comune con l’Arcadia, l’età dell’oro o del paradiso,
sia quando è brevemente evocata, sia quando è assolutamente
distinta da essa. Spesso inventate in epoche di profonde agitazioni
sociali, opera di pensatori frustrati dal loro stretto margine di
manovra e dalla loro mancanza di potere nel mondo reale, le città
ideali rivelano i sogni di questi potenziali candidati riformatori.
L’ideatore di città ideali si augura vivamente di realizzare la propria
utopia, anche se spesso non rende esplicita questa aspirazione, e
quindi, cosciente dell’incapacità di poter agire da solo, cerca nella
maggiorparte dei casi una sorta di contratto d’associazione con un
sovrano potenzialmente intenzionato a realizzare le sue proposte31.
È scritto in ricerche sull’argomento: «Presentate come delle soluzioni
di sostituzione a delle realtà caotiche, la grande ambizione delle
utopie è sempre l’armonia, l’estensione della felicità collettiva,
realizzata attraverso i mezzi di un’efficace riorganizzazione sociale o
del progresso scientifico. Esse sono generalmente urbane (o
suburbane) e sviluppate secondo delle logiche geometriche, che
suggeriscono il dominio razionale dell’umanità sulle forze oscure
della natura. Le utopie sono presentate come delle soluzioni assolute,
delle panacee applicate non importa dove per il mondo e indifferenti
ai multipli fattori del contesto locale, siano essi storici, geografici,
culturali o altri. Esse sono generalmente fondate su un suolo vergine,
piano o artificialmente spianato. Platone fa dire a Socrate che gli
autori di un progetto di città non cominciano a lavorare senza aver
ricevuto preliminarmente un sito vergine o aver assicurato
un’operazione che sia tabula rasa. Le utopie restano disconnesse
dalle influenze del tempo, la loro rottura con il passato è sottolineata
in alcuni casi dall’adozione di un calendario, di un linguaggio o di un
vestiario differenti, ed esse non sono che in rari casi programmate
per conoscere futuri cambiamenti. Altre volte l’impiego di materiali
di costruzione trasparenti o di piante che facilitano la sorveglianza –
come nel Panopticon carcerario di Bentha, – scoraggia il

31
F. Orsini, Le utopie urbane e la forma della città, Dottorato in Progettazione
Urbana – Università degli studi Federico II Napoli, pp. 12-14

21
comportamento privato, giudicato potenzialmente antisociale.
Insulari e spesso xenofobi, nella loro applicazione pratica, i piccoli
mondi apparentemente utopici si ritrovano simbolicamente e
fisicamente preservati dalle pericolose influenze esterne, grazie
all’ausilio di barriere che possono essere sia naturali, come l’acqua o
le catene montuose, sia realizzate dagli uomini, come le fortificazioni
o le “cinture verdi”»32.

Il fondo della questione è che cittadini non interessano molto agli


inventori delle città utopiche: nel loro desiderio senza compromessi
di realizzare i loro ideali, essi se ne sbarazzano con la nonchalance di
un Lenin che adotta il proverbio popolare “Non si possono fare delle
omelettes senza rompere le uova”33. In realtà non sempre le
motivazioni e le finalità degli autori di utopie sembrano chiare, altre
volte il progetto dell’ambiente costruito sembra innovatore ma in
realtà è destinato a rinforzare solamente una struttura di potere
recentemente stabilita. Le città utopiche più che svilupparsi, al
massimo, possono riprodursi, come per clonazione. Le mille città
utopiche immaginate nella storia e nella mente degli uomini
rappresentavano un sogno di standardizzazione, puntavano nel bene
come nel male a un ammorbidimento delle differenze tra gli uomini,
all’uniformità. I creatori delle utopie storicamente hanno privilegiato
il collettivo e il lavoro, presumendo che la volontà e l’interesse
dell’individuo dovessero essere in armonia perfetta con quella del
gruppo sociale e precisamente programmate. Così le utopie spesso si
tramutano in distopie, ovvero utopie perverse in cui il sogno diventa
incubo e in cui predomina il lato rovescio, oscuro e totalitario, della
medaglia.

Due mitici conflitti hanno segnato la cultura urbanistica del


Novecento: l’assedio della città borghese, capitalistica, mercantile da
parte degli operai rivoluzionari della cintura rossa, come a dire la
metropoli della meccanica, degli schieramenti di classe e di cultura
contrapposti, la Metropolis di Fritz Lang; e l’altro assedio, planetario,
della campagna povera che accerchia e conquista la città ricca
secondo le massime di Mao o del Che Guevara, oppure secondo le
immagini reali dei flussi globali dei migranti. E sono schemi che ci
portiamo ancora dietro mentre viviamo nella metropoli del presente

32
Ivi
33
Ivi

22
e del prossimo futuro, ibrida, ambigua, in perenne mutazione dove lo
stesso concetto geografico e classista di periferia subisce infinite
eccezioni e capovolgimenti.
È strano: come ha scritto l’etnologo e antropologo francese Marc
Augé, «l’architettura è il mestiere che più di tutti deve fare i conti con
i problemi del mondo, ma al tempo stesso ne è sopraffatta»34. A suo
parere, i “grandi architetti” del Ventunesimo secolo sembrano più
affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più
importanti del pianeta (e chi potrebbe rimproverargli questa
ambizione?) che dall’idea di affrontare i problemi tecnici e sociali
causati dall’urbanizzazione mondiale. L’esempio di Le Corbusier
dovrebbe spingere alla prudenza: il maestro di tanta architettura
moderna, con il suo ideale dell’alloggio autosufficiente, il suo rifiuto
della città storica, la passione per la tabula rasa, ha fatto molti
danni35. Oggi quei testi, insieme a tanti altri sogni, hanno fatto la fine
di quei “grandi racconti” utopici di cui Jean-François Lyotard
celebrava la scomparsa36.

Nella storia, fuori dal mondo spesso consolante delle idee, la “città
del sole” di cui parlava il filosofo Tommaso Campanella ha avuto
molteplici tentativi di realizzazione, almeno in piccolissima scala,
spesso in maniera effimera. Si può risalire alle comunità dei socialisti
utopisti dell’Ottocento oppure ai giorni nostri con esempi che spesso
hanno preso ispirazione dai modelli della controcultura hippy degli
anni Sessanta e Settanta. Per esempio Christiania, in Danimarca: un
quartiere della città di Copenaghen nato negli anni Settanta e
rigorosamente autogestito secondo alcuni principi come il rifiuto
dello Stato e della violenza, l’inesistenza della proprietà privata, la
libera circolazione di droghe leggere. Oppure il caso di Arcosanti in
Arizona, negli Stati Uniti: una piccola “città esperimento” tirata su
dall’architetto italiano Paolo Soleri e da numerosi volontari a partire
dal 1970, secondo una filosofia architettonica basata sull’ecologia
ambientale e sull’alta densità abitativa, con strutture compatte a
forma di abside e strade strette e senza automobili, come nella
rappresentazione delle antiche città di strade, di pietra e di uomini,
dove le macchine non avevano ancora conquistato e formato lo
spazio. Minuscole comunità, piccole idee dove futuro e passato,

34
M. Augé, L’architecture globale, in “Le Monde”, 17 ottobre 2009
35
A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, pp. 73-85
36
J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, 1981

23
utopia e nostalgia, si mischiano in una perfettibile realtà, giacché
quello dell’avvenire è un concetto che si sposta continuamente in
avanti, come l’avvenire stesso.

5. Blade Runner

E se adesso volessi scrutare le città utopiche dei giorni nostri? Forse


non mi resterebbe che rivolgermi all’immaginario cinematografico:
può essere lo specchio di come noi uomini sogniamo la città ideale, o
forse di come percepiamo le città in cui viviamo 37. Se provo a
immaginarmi nella città di Blade Runner (Ridley Scott, 1992) mi
troverò a camminare per strade buie e affollate, dove il giorno
sembra uguale alla notte. La luce che mi colpisce dall’alto non è
quella del sole o della luna. Sono gli enormi schermi della pubblicità
digitale, dove i volti umani sembrano immagini di divinità che mi
deridono come un suddito insignificante. Nella agghiacciante città-
macchina divisa tra il sotto e il sopra, quella di Metropolis (Fritz
Lang, 1927), dove le membra della città sono costituite dagli operai
imprigionati nei sotterranei, rimarrei invece assordato dalle ruggenti
e implacabili sirene che richiamano all’ordine le masse di lavoratori,
dal ruggito delle macchine che invocavano cibo, dalla voce della città
che voleva uomini come cibo. Nella sovraffollata New York del
Quinto Elemento (Luc Besson, 1997) non potrei nemmeno
camminare nelle strade, perché i livelli inferiori della città sono
ricoperti da un unico mare di nebbia. Potrei attraversare questa città
di macchine solo con la mia macchina volante, passando dal cubicolo
del mio miniappartamento al cubicolo del mio ufficio. Senza aver
modo di volare però, perché anche in cielo sarei obbligato a seguire
strade invisibili. Nella Washington futura di Minority Report (Steven
Spielberg, 2002) dovrei considerarmi fortunato ad avere una casa
con giardino in periferia. In città potrei muovermi dentro capsule
senza finestre che viaggiano su torri di rotaie, in uno spazio urbano
che si attraversa e non si vive, con la possibilità di camminare solo
davanti ai grandi palazzi, dove le immagini azzurre degli schermi
digitali mi seguirebbero senza sosta, con sensori addestrati a leggere
la mia retina di consumatore per sapere cosa amo comprare e
consigliarmi il prossimo acquisto. In Codice 46 (Michael
Winterbottom, 2003) avrei la possibilità di entrare nelle città perfette

37
F. Defferrari, Utopie urbanistiche cinematografiche, in www.parametro.it

24
e sterili solo avendo un lasciapassare. Altrimenti c’è il fuori abitato
soltanto dai poveri e dai clandestini, temuto da chi vive nelle città ma
colorato e vivo. Se fossi catapultato nella Londra del 2027 dei Figli
degli uomini (Alfonso Cuaròn, 2006) mi troverei in un mondo dove il
cielo è lurido, le acque spesse e nessuno partorisce più bambini da
diciotto anni. I cartelloni pubblicitari sparano ovunque il nome del
miracoloso medicinale “Quietus”, kit per eutanasia fai da te, bombe
esplodono all’improvviso, immondizie tracimano senza pudore, sugli
autobus una voce femminile registrata, ferma e cortese, ripete che
“non denunciare un immigrato è reato”, i profughi sono incarcerati e
nei recinti c’è ancora spazio. Se mi inoltrassi nella Los Angeles
giardino di Demolition Man (Marco Brambilla, 2003) mi
sembrerebbe invece un ambiente di pace e tranquillità, ma potrei
scoprire che si tratta soltanto di un luogo di ricca ipocrisia, che ha
eliminato le periferie degradate nascondendo la povertà e la
disperazione nel sottosuolo. In Artificial Intelligence (Steven
Spielberg su un progetto di Stanley Kubrick, 2001) dovrei
attraversare in barca la New York del futuro, diventata come una
Venezia fatata in cui i grattacieli emergono dalle acque come isole
verticali, e tutto ciò per effetto della natura che si è rimpadronita del
mondo, grazie al catastrofico scioglimento dei ghiacci polari. Nella
città astratta, iperurbanizzata, alienante di Alphaville (Jean-Luc
Godard, 1965) il mio spirito verrebbe manipolato, come quello di
tutti gli abitanti, dal potere del computer Alpha 60 che trasforma
tutti in “alfabeti” e mutanti. Come il detective Lemmy Caution che
arriva dai “Paesi esterni” col compito di indagare su quella “capitale
del dolore”, uscendo da un corso di semantica domanderei a una
ragazza alphavilliana «Perché qui la gente ha l’aria così triste?», e lei
risponderebbe: «Perché manca l’elettricità».

Scrive Francesco Defferrari in un articolo su utopie architettoniche e


cinematografiche, dopo aver portato ad esempio vari film, tra cui
alcuni di quelli appena citati: «L’immaginario fantascientifico è
spietato, perché mostra in uno specchio limpido come gli uomini
giudicano il futuro delle moderne città votate al progresso: un
ambiente che pare non avere altro destino se non quello di diventare
sempre più alieno e disumano»38. Insomma, sembra che gli uomini
moderni possano sognare una città perfetta solo se la immaginano
completamente diversa dalle nostre città. In alternativa ciò sembra

38
Ibidem

25
fare il palo con la visione opposta propugnata dalla comunicazione di
massa, quell’iconografia idilliaca degli spot televisivi alla Mulino
Bianco, idilliaca, patinata, a tinte flou, la rassicurante utopia di noi
stessi. Forse due facce della stessa medaglia. Utopie e nostalgie si
scavalcano, come la realtà che si nutre dell’immaginario e viceversa.
Nell’attesa di trovare un compromesso tra la città macchina che tutti
temono e la città giardino che tutti sognano.

26
27
28
CAPITOLO 2
La terra nuova di regime

Ogni compagno
nei sogni affioranti alle pupille
sull’ali stellate della notte
libera una città sepolta
nel folto delle sue carni.
Pietro Ingrao, Coro per la nascita di una città

29
30
1. Fantasmi

Certe notti, dai campi attorno alla via Appia, c’è ancora qualche
vecchio colono che giura di sentirlo. Vroooom, vrooom, come un
rombo di motore in avvicinamento. Di lato agli alberi di eucalyptus
ancora superstiti, in tutti quei Borghi piantati in mezzo agli incroci
stradali, vicino ai canali e alle piantagioni di kiwi, pare di sentirlo
ingrossarsi man mano quel rumore, il ruggito di una moto in
avvicinamento, una folata di vento improvvisa, la sagoma di una
Guzzi 500. Nessuno l’ha mai vista, in verità. Ma certi vecchi, gente
che parla in romanesco e ricorda in veneto, ne sono sicuri: quello, è il
fantasma del Duce39. Un altro poco di strada, moto o non moto, e si
arriva al centro della città. A Latina. Nel mezzo della piazza del
Popolo, dove c'è quella specie di fontana con un’enorme palla al
centro, anche lì nelle notti di temporale a qualcuno pare di udire dei
rumori sinistri. Lì sotto in effetti qualcosa c’è: un camion tutto intero,
sepolto. C’è affondato il 17 dicembre 1932, in un pomeriggio di
pioggia. Fervevano i lavori, la mattina dopo doveva essere tutto
finito. Il camion era carico di pietrame. Prima affondò da una parte,
con la ruota motrice. Poi, a forza di farlo girare per tirarlo fuori,
affondò pure l'altra. Provarono a tirarlo su prima con le braccia, poi
con le macchine, ma niente: la piccola voragine di fango lo
risucchiava. Siccome non c’era tempo da perdere decisero di scavare
un po’ intorno e seppellirlo lì. Sopra ci misero altro pietrame, e
l’asfalto. Il camion sta ancora là sotto, insieme alle pietre e al gattino
dell’autista, che non era voluto scendere, spaventato dal rombo dei
motori e della gente che stava intorno. Miagolava, finché non è stato
ricoperto40. L’indomani sarebbe stato il grande giorno: quello
dell'inaugurazione della città. Di Littoria. Il Duce avrebbe parlato dal
balcone, lì sopra la piazza, e proclamato alla folla osannante che
«l’aratro traccia il solco, ma è la spada che lo difende»41, manifesto di
un'epoca.

Raccontano le cronache dell’allora regime che solo la città di Latina,


fu creata dal nulla in 232 giorni, dopo che sessantamila uomini

39
A. Pennacchi, Palude, 2000, pp. 10-13
40
Ivi, p. 87
41
B. Mussolini, Scritti e discorsi IV, 1934, p. 153

31
avevano portato via la terra a carrettate e l’acqua coi secchi, e seimila
persone almeno erano morte, quasi tutte di malaria. Fu la prima
delle “città di bonifica” realizzate all’interno del piano di bonifica
integrale delle paludi pontine. “Un deserto paludoso-malarico” lo
definivano i geografi. Fu un’opera immensa: dal 1926 al 1937, per
bonificare l’area che si trova a sud di Roma, grande 240 chilometri,
delimitata ad ovest e sud dal mar Tirreno, a est dai primi rilievi
appenninici dei monti Lepini ed Ausoni, a nord dal medio corso del
fiume Astura e dai primi rilievi dei Colli Albani, furono impiegate ben
18.548.000 giornate-operaio su un’ampiezza di 80.000 ettari. Oltre
al prosciugamento delle paludi, alla costruzione dei canali, ci fu
l’azione di disboscamento delle foreste e la costruzione dei nuovi
centri, che sorgevano man mano sui nuovi territori42. Littoria (poi
chiamata Latina dopo la seconda guerra mondiale, dal 1946) fu il
primo, nel 1932, e divenne il capoluogo della nuova provincia.
Seguirono i comuni di Sabaudia nel 1933, Pontinia nel 1934, Aprilia
nel 1936, Pomezia nel 1939, insieme ad altre tredici borgate rurali di
più piccole dimensioni.

In effetti, ogni volta che si passa da queste parti, è facile farsi venire il
pensiero che se non fosse stato per lui forse oggi non l’avrebbe fatta
ancora nessuno, questa benedetta bonifica. Sicché adesso ci sarebbe
toccato di ammirare Berlusconi sulla poltroncina bianca di “Porta a
porta” a spiegarci perché e percome il precedente regime comunista
l’avesse trascurata e adesso ci pensa lui a risolvere il problema. Altro
che Ponte sullo Stretto e monnezza di Napoli.
Ci sono passato decine di volte per l’Agro Pontino, ogni volta butto
l’occhio su quei cartelli che indicano i borghi dai nomi di trincea del
‘15/18 – Borgo Sabotino, Borgo Piave, Borgo Isonzo eccetera – mi
tornano in mente pure quei vecchi compagni di classe un po’
camerati che quando si litigava sul fascismo a un certo punto, per
stanchezza, se ne uscivano sempre con l’argomento che non ammette
repliche: “Vabbe’, il Duce qui e là avrà pure sbagliato e la guerra
l’abbiamo persa, ma volete mettere la bonifica dell’Agro Pontino?”.
Eh figuriamoci, a questo punto – come mi disse una volta un mio
vecchio professore delle medie – non valeva la pena sacrificare
vent’anni di suffragio universale maschile e libertà politica; non
valeva la pena di scontare un po’ di embargo internazionale, di

42
P. Incardona, P.G. Subiaco, La palude cancellata. Cenni storici sull’Agro Pontino,
2005

32
allearsi coi franchisti e i nazisti, importare le leggi razziali, morire a
milioni su un po’ di fronti in tutto il mondo, combattere un’ultima
disperata guerra civile contro il proprio stesso popolo, collaborare
con un invasore folle e invasato, pur di aver bonificato, una volta per
sempre, l’Agro Pontino?

2. Idee anti-urbane

L’Italia che si affacciava al Novecento era una nazione rurale, dedita


ad attività prettamente agricole. Quasi tutte le pianure, soprattutto
nel centro-sud, erano completamente abbandonate da secoli. Erano
almeno sette od ottocento anni che la gente si era ritirata tutta sopra i
monti: prima per la difesa dalle invasioni, poi per i latifondi e la
malaria43. In molti casi, soprattutto vicino alle coste, la pianura
italiana era un deserto spesso lasciato a vecchie fortificazioni e
pericolose paludi, oppure incolto o malcoltivato in maniera estensiva
e latifondista. La rivoluzione urbana era rimasta un fenomeno
marginale. La struttura urbana alle soglie del ‘900 è ancora
scarsamente industriale, da qui il suo sesto posto nella scala dei paesi
“sviluppati”. Al 1901 l’Italia è un paese fondamentalmente agricolo,
l’unico dato sulla popolazione residente dentro le grandi città è di 101
abitanti su 1000, seguita dalla Russia con 49 e preceduta dalla Gran
Bretagna con 328. Dal primo censimento nazionale del Novecento,
tenutosi nel 1901, si rileva che solo undici Comuni Italiani avevano
più di 100mila abitanti e che la loro popolazione complessiva
ammontava a 3.206.354 unità. Tra questi Napoli aveva il primo posto
con 564mila abitanti, seguita da Milano e Roma rispettivamente con
491mila e 463 mila. Dal 1871 al 1911 la popolazione nei 10 comuni
superiori a 100mila abitanti era quasi raddoppiata passando da
2.492.193 a 4.398.794, con un aumento del 77% contro il 29% di
tutto il regno, mentre per quel che concerne l’addensamento nei
comuni questo era ripartito in massima parte nei centri urbani. Dopo
la prima guerra mondiale l’Italia contava 18 comuni con popolazione
superiore ai 100mila abitanti contro gli 11 del periodo precedente,
per una popolazione complessiva di 5.363.000 abitanti, pari al 138
per mille dell’intera popolazione del paese, contro il 101 precedente 44.
I primi studi demografici sulle realtà urbane nazionali già

43
E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, 1962
44
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 45

33
riportavano casi di particolare disagio, ad esempio le pessime
condizioni di vita con famiglie di dieci o più persone stipate in una
sola stanza, oppure lo stupore sul rapporto tra nati e morti coi
secondi che superano i primi, tuttavia si può dire che in generale
ancora in quel tempo le città italiane vivevano un periodo di relativa
stabilità, se messe a confronto con quanto accadeva
contemporaneamente in ogni simile città francese o inglese o
tedesca.

Una certa idea anti-urbana dell’Italia cominciava a farsi sentire.


Giorgio Mortara, massimo studioso di economia e statistica
dell’epoca, nel 1907 conclude il suo lavoro confessando di ritenere il
processo di immigrazione nelle città un processo «non necessario,
anzi transitorio», determinato dalla rapida trasformazione dei mezzi
di produzione45. L’urbanizzazione liquidata in due parole, come una
qualunque moda passeggera. Strano, no? Più che una svista
stupefacente, il segnale di una corrente di pensiero destinata a
imprimersi nella cultura nazionale. Semplicemente quella di andare
controtempo rispetto al tempo che viviamo, rimanere sulla soglia di
una modernità che ovviamente ci appare confusa e corrotta, una
tentazione cui resistere, alle forze che spingono opporre il modello
puro e innocente del passato incorrotto. Insomma, nel nostro Paese il
fenomeno urbano veniva ancora considerato di scarsa rilevanza,
come di fatto era, ma se ne immaginavano ben poco gli sviluppi, e
questo è testimoniato dai quasi inesistenti istituti di rilevamento dati,
che verranno incrementati e poi creati dal regime fascista per ovvi
motivi di controllo. Gli studi sulla città, sul suo senso, la sua
complessità, erano assai rari e i pochi circolanti venivano dall’estero.
Le considerazioni di sociologi come Weber o Simmel, che ponevano
la città in termini problematici o come parametro di lettura della
storia, erano pressoché sconosciuti. In uno studio di Mortara del
1912 che paventava “l’incubo dello spopolamento” per l’Italia del
ventesimo secolo si comincia a riconoscere un certo legame tra
politica e problemi urbani, quando si associa il decremento
demografico alla penetrazione della propaganda socialista. «La
pittura a cupe tinte degli svantaggi di numerose famiglie e
l’esaltazione dei benefici che derivano dalla mancanza, o scarsezza, di
prole, agiscono potentemente sull’incolta folla, capace bensì di
profondi affetti e di sublimi sacrifici ma impreparata alla

45
G. Mortara, Lo sviluppo delle grandi città italiane, 1907

34
comprensione dei doveri più modesti, e facile preda a cupidigie basse
e materiali, spinta com’è, per la vaga cognizione di teorie
socialistiche, ad eccessive o premature rivendicazioni di diritti»46. E
si sa che i grossi agglomerati urbani sono considerati terreno ideale
per fare entrare in gioco interessi e aspettative di nuovi soggetti
politici e sociali. La metropoli diventa l’epicentro da cui parte il
contagio della modernità.

Molti filoni culturali denunciavano in quegli stessi anni, e con


sempre più accanimento dopo il trauma della prima guerra
mondiale, la “decadenza” e la “degenerazione” delle società europee
dell’epoca borghese e industriale. E naturalmente, tra i simboli del
moderno su cui puntare il dito, c’era la città. Il best-seller
intellettuale che andava forte nella Germania reduce dalla sconfitta
bellica e orfana del vecchio impero era Il tramonto dell’Occidente di
Oswald Spengler. Nell’opera dominava la paura del numero, del
prevalere della quantità sulla qualità, e quindi il rifiuto categorico
della democrazia come regime politico delle masse, le quali
costituivano il vero spauracchio dell’establishment e dei ceti colti di
inizio Novecento47. Il primo palcoscenico delle masse era stato quasi
sempre la città, in particolare la metropoli figlia di quell’urbanesimo
industriale paragonato ad un nuovo morbo dilagante. Poco
importava che le dimensioni della città fossero davvero quelle di una
metropoli, contava semmai la percezione che se ne aveva48. È
sull’antitesi netta tra città e campagna – o meglio fra “metropoli
cosmopolita” e “provincia” – che Sprengler costruì la sua teoria
ciclica delle civiltà. Nel momento in cui la grande città diventava
“cosmopoli”, scriveva il filosofo tedesco, «l’uomo della civiltà, che era
stato formato spiritualmente dalla campagna, diviene proprietà e
strumento della sua stessa creatura, della città, e infine ad essa viene
sacrificato»49. Entrando nella metropoli cosmopolita l’uomo perdeva
il contatto con la terra e diventava preda di quel denaro che da
sempre regolava ogni aspetto della dimensione urbana, comprese le
relazioni interpersonali. Quella che si andava a paventare, e a
produrre, era ritenuta una vera e propria degenerazione

46
G. Mortara, L’incubo dello spopolamento e l’Italia, 1912, p. 48
47
O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, 1981
48
D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in
“Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, p. 2
49
Ivi, p. 793

35
antropologica. La Kultur, caratterizzata da una forma di
comprensione organica ed empatica della vita come destino, si
irrigidisce in una Zivilization fredda ed esangue, che porta a
concepire il mondo come un insieme di nessi casuali e meccanici.
Una dicotomia che ricorda quella famosa tra Gemeinschaft e
Gesellschaft, dovuta a Ferdinand Tonnies già sul finire del secolo
precedente, ovvero da una parte una comunità fondata sul
sentimento di appartenenza e sulla partecipazione spontanea,
dall’altra parte una società basata sulla razionalità e sugli aridi
rapporti di scambio50.
Questi temi saranno destinati a riaffiorare e tornare, sotto varie
forme sia benigne che maligne, quasi ossessivamente, nella cultura
del Novecento: la servitù dell’uomo contemporaneo, la dissacrazione
della persona, la responsabilità delle macchine, la violazione della
natura. Ciò che è moderno non coincide più con ciò che è umano51.
Non solo. Gli anni Venti e Trenta rappresentano, per la prima volta,
un’epoca in cui va in crisi l’idea stessa di modernità, di progresso.
Crolla l’ideale positivista legato allo sviluppo industriale che
sembrava garantire alla società una prosperità illimitata nello spazio
e nel tempo. Il moderno inizia a fare paura. Il linguaggio delle
possibili utopie fiduciose nella tecnica e nel progresso prendeva a
ripiegarsi sulle nostalgie verso quei valori e quelle radici che paiono
abbandonati. Dopo la grande guerra, e dopo la rivoluzione d’ottobre,
cominciò a farsi sempre più largo la sensazione che contro l’anarchia
e la disgregazione dei vecchi assetti sociali e delle vecchie gerarchie
politiche e morali fosse ormai quasi impossibile trovare adeguate
contromisure che proteggessero l’esistente e addomesticassero il
“nuovo che avanzava”, fascinoso e minaccioso al tempo stesso.

3. Mistica fascista

Quando il regime fascista prende il potere di città non ne vuole


proprio sentir parlare. Il Duce, nato come socialista di provincia e
finito come dittatore fanatico della romanità, non aveva dubbi: lui
era per la ruralizzazione e il primo nemico da abbattere era
l’urbanesimo. Era quella la fonte di ogni male: la gente lasciava le
campagne dove aveva lavorato in pace e per benino, ognuno per

50
F. Tonnies, Comunità e società, 1979
51
P. Rossi, Naufragi senza spettatori. L’idea di progresso, 1995, p. 94

36
conto suo, senza dare fastidio a nessuno, e veniva in città, soprattutto
ad ammassarsi nei quartieri operai, a fare gli scioperati, o i
disoccupati. E magari pure a bere nelle osterie, finendo per parlare di
politica. “Altro che urbanesimo” disse in sostanza Mussolini, “tutti in
campagna” e fece pure chiudere le osterie. Venticinquemila in tutta
Italia. E in quelle poche che restarono aperte fece attaccare un
cartello con tanto di marca da bollo: “Qui non si parla di politica”52.
Un discorso che, come si è visto, si inserisce nel mutato clima
culturale e psicologico dell’Europa a cavallo tra guerre mondiali e
totalitarismi. Quando la presunta razionalità delle élite al potere
viene fagocitata dall’irrazionalità delle masse guidate da élite escluse
dal potere. La diffusione dell’igienismo sociale – ovvero la
“ripulitura” delle sacche di marginalità, povertà, devianza rispetto
all’ordine costituito – quale presunto rimedio all’enorme, e a tratti
incontrollabile, crescita di molti centri urbani costituiva un segnale
in tal senso53.

La storiografia ha fino ad oggi individuato nel cosiddetto “discorso


dell’Ascensione”, pronunciato da Mussolini alla Camera dei Deputati
nella seduta del 26 maggio 1927, l’avvio ufficiale della lotta
all’urbanesimo54. Che questo discorso fosse importate per l’intera
futura linea politica adottata dal regime lo ammise lo stesso Duce del
fascismo, dichiarando già in apertura che la terza parte del suo
intervento avrebbe indicato «le direttive politiche generali attuali e
future dello Stato». Nella prima parte Mussolini esaminò la
«situazione del popolo italiano dal punto di vista della salute fisica e
della razza», mentre nella seconda valutò il complessivo «assetto
amministrativo della nazione». Un lungo monologo fatto di annunci,
preannunci, inviti, richiami, programmi, bilanci, fino a delineare
qualche intenzionalità e scelta precisa, «perché ho molte cose da dire,
e oggi è una di quelle giornate in cui io prendo la nazione e la metto
di fronte a se stessa».
Le considerazioni relative all’urbanesimo facevano seguito a quelle
relative alla situazione demografica dell’Italia. Menzionava l’imposta
sui celibi appena istituita, la quale costituiva un primo avvertimento
agli italiani, «una frustrata demografica alla nazione». Soprattutto

52
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 29
53
G. Zucconi, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti 1885-1942,
1989
54
B. Mussolini, Discorso dell’Ascensione, 1927

37
affermava con forza un principio che ribadirà più volte negli anni
successivi: il numero è forza, politica e militare, ossia una nazione
occupa un posto di rilievo nel consesso internazionale anche in
misura della quantità di popolazione, possibilmente giovane e sana,
che la abita. Passando in rassegna gli indici di natalità e mortalità dei
vari paesi confinanti, si soffermava allarmato sulla situazione
italiana. Questa non era ancora disperata né irrecuperabile, ma vi
erano a suo avviso sintomi preoccupanti che andavano affrontati.
Molte regioni d’Italia erano scese al di sotto del 27 per mille, per quel
che riguardava l’indice di natalità. Tra quelle positivamente in
controtendenza, spiccava la Basilicata, una delle regioni più povere
del Paese ma al contempo una delle più prolifiche, ed era
quest’ultimo aspetto ad entusiasmare il Duce. Il quale poneva come
traguardo demografico per la metà del secolo quello dei sessanta
milioni di abitanti. La causa principale del decremento demografico
in atto, apparentemente inarrestabile, era individuata chiaramente e
senza ombra di dubbi nell’urbanesimo. Affermava Mussolini nel suo
discorso alla Camera: «Ma voi credete che, quando parlo della
ruralizzazione dell’Italia, io ne parli per amore delle belle frasi che
detesto? Ma no! Io sono il clinico che non trascura i sintomi e questi
sono sintomi che ci devono fare seriamente riflettere. E a che cosa
conducono queste considerazioni? 1) Che l’urbanesimo industriale
porta alla sterilità le popolazioni. 2) Che altrettanto fa la piccola
proprietà rurale. Aggiungete a queste due cause di ordine economico
la infinita vigliaccheria morale delle classi cosiddette superiori della
società. Se si diminuisce, signori, non si fa l’impero, si diventa una
colonia […]. Vi spiegherete quindi che io aiuti l’agricoltura, che mi
proclami rurale; vi spiegherete che io non voglia industrie intorno a
Roma; vi spiegherete quindi come io non ammetta in Italia che le
industrie sane, le quali industrie sane sono quelle che trovano da
lavorare nell’agricoltura e nel mare»55.

Insomma, Mussolini attribuisce alla “civiltà contemporanea” il grave


difetto di ridurre l’incremento demografico, l’ordinario ordine sociale
e di conseguenza la potenza della nazione. Dunque la lotta
all’urbanesimo si affiancava al lancio della campagna demografica, e
di questa l’antiurbanesimo rappresentava un aspetto complementare
e per certi versi supplementare, diciamo una sorta di effetto
collaterale. Nella pubblicistica fascista, quando ci si riferiva alla

55
Ivi, p. 23

38
legislazione pro-natalista varata dal regime, si dava abbastanza per
scontato il nesso automatico, come di causa-effetto, tra urbanesimo e
denatalità. In realtà la letteratura precedente, e diciamo meno
irreggimentata, nonché molti studi più recenti, confermano come
non in tutti i casi esista un collegamento così meccanico tra
urbanizzazione e decremento della natalità, tra crescita urbana e
limitazione volontaria delle nascite. Il ruolo che la città assume nel
processo di modificazione dei comportamenti demografici non è
legato infatti agli effetti meccanici dell’inurbamento ma dipende da
un delicato intreccio tra mobilità, età media della popolazione,
speranza di vita, riduzione della fecondità. Indubbiamente il livello di
reddito, i livelli sociali e culturali, hanno generalmente una
correlazione negativa con il livello di fertilità. Chi studia di più e chi
guadagna meglio spesso poi fa meno figli. Ma è sbagliato pensare che
il trasferirsi tutti in città, finché non sia provocato o accompagnato
da un adeguato sviluppo produttivo, comporti repentini cambiamenti
per le masse, né della situazione economica né della collocazione
sociale, né tantomeno della mentalità e delle consuetudini familiari.
Per esempio, dove ci sono più giovani, e comunque un maggior
numero di soggetti in età attiva, i tassi di natalità saranno comunque
più alti, indipendentemente dal trovarsi in città o in campagna 56.
Tuttavia questo ragionamento può valere nella primissima fase
dell’inurbamento, che pressappoco era quella in cui ci si trovava sul
finire degli anni Venti, mentre Mussolini pronunciava il suo famoso
discorso dell’Ascensione. In realtà gli effetti all’epoca temuti si
sarebbero poi realmente verificati nel medio-lungo termine.
Per alcuni studiosi l’antiurbanesimo fascista sarebbe da intendersi
come un capitolo della più generale politica demografica e pro-
natalista lanciata da Mussolini in quella fase del regime. In altre
parole, politica antiurbana sarebbe un modo diverso per dire politica
antimigratoria. “Tutti in campagna” continuavano a ripetersi, “questa
è la vera mistica fascista”. Ma il più delle volte la gente, lì in
campagna, ce la tenevano con la forza, anche se continuava a
scappare da tutte le parti verso le città57. Dovevano costruire l’uomo
nuovo – secondo la mistica fascista – e lo dovevano fare con le buone
o con le cattive. Per spostarsi da campagna e città e viceversa in
alcuni casi ci voleva l’autorizzazione, una specie di passaporto.

56
D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in
“Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, p. 5
57
A. Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, 1976

39
A tale proposito, nel dicembre 1928 viene varato un disegno di legge
contro l’urbanesimo. Il provvedimento scaturiva dalla necessità di
dare una risposta al progressivo aumento della popolazione residente
nei centri urbani, e per comprovarlo si faceva notare che nei soli 92
capoluoghi di provincia vivevano ben 10 milioni di individui, pari al
25% della popolazione nazionale. I pericoli venivano indicati
soprattutto nella corruzione della “sanità fisica e morale della stirpe”.
Senza varare regole assolute, si concedeva ai Prefetti la facoltà di
emanare ordinanze sul numero e sugli spostamenti migratori interni
della popolazione. L’approccio generico del provvedimento, che
aveva più che altro natura di “monito” o “richiamo”, è dovuto anche
al fatto che non vi fu in generale un’accoglienza favorevole. Negli
ambienti industriali si ebbero reazioni negative, seppur mascherate
da semplice cautela e perplessità. Il fatto che riuscissero a filtrare
persino la stampa ufficiale del regime induce a pensare che l’entità
del disagio alla base di queste reazioni critiche fosse consistente.
Diffuso era il timore che si potessero ingabbiare movimenti di uomini
e cose che avevano un’utilità sia sotto il profilo economico-
industriale sia sotto il profilo politico del prestigio di governare città
in crescita58.
Senz’altro non si può ignorare il momento storico in cui la campagna
contro le grandi città e l’urbanesimo fu lanciata. Si era in piena “crisi
da rivalutazione della moneta” e l’appello reiterato dalla propaganda
alla “ruralità” era anche un tentativo di alleggerimento delle
conseguenze negative del processo deflattivo (dall’aumento del costo
di produzione alla disoccupazione, specie nel Sud). Protezionismo,
interventismo statale e concentrazione industriale: erano queste le
grandi linee di una strategia che mirava a stabilizzare – gli operai
nelle fabbriche, i contadini nei campi e i disoccupati nei cantieri – la
società italiana. E c’era un’altra questione aperta: quella del rapporto
con la borghesia. È chiaro che alla lenta urbanizzazione dell’Italia
corrisponde – pari pari – una lenta formazione di una matura classe
borghese, come avviene nelle altre nazioni europee.
Dietro la proclamazione dell’antiurbanesimo c’erano anche
motivazioni di ordine pubblico, legate al controllo del territorio ai
movimenti della popolazione che vi risiedeva. Ciò che più si temeva,
negli ambienti di regime, era che una crescita senza freni delle città,

58
D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in
“Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, pp. 11-12

40
soprattutto se dovuta allo sviluppo industriale, avrebbe comportato
la perdita di un controllo politico e sociale del territorio che il
fascismo faticosamente andava costruendo. Mussolini si fidava delle
masse rurali, secondo lui ancora da “fascistizzare”, ma guardava con
immutato sospetto la popolazione di città, e ancor più quella
proletaria, che sentiva, a pelle, irriducibilmente aliena.

Nello stesso tempo in cui si esaltava l’antiurbanesimo, veniva dato il


via libera alla creazione di 19 nuove province del regno.
Un’innovazione basata sulla necessità di “meglio ripartire la
popolazione” e di frenare l’esodo dalle campagne e dai piccoli centri
verso le grandi città59. Un motivo centrale di questo esodo era
individuato dallo stesso Mussolini nella monotonia della vita di
provincia. L’accorpamento e la dotazione di nuovi strumenti
decisionali connessi alla promozione al rango di provincia
costituivano in primo luogo una gratificazione psicologica per
l’abitante del piccolo centro, per il cittadino comune (che tale
cominciava a sentirsi: cittadino) oltre che per i notabilati locali,
modificandone innanzitutto l’auto-percezione. La presenza diretta e
costante di autorità rappresentative dello Stato centrale rendevano
possibili soluzioni immediate e concrete a richieste e problemi che
nascevano sul territorio. O almeno questa era la speranza che si dava
alle popolazioni locali con la creazione delle province. È in tal senso
che va letta la motivazione che venne addotta dal capo del governo:
«Questi centri provinciali, abbandonati a se stessi, producevano
un’umanità che finiva per annoiarsi, e correva verso le grandi città,
dove ci sono tutte quelle cose piacevoli e stupide che incantano
coloro che appaiono nuovi alla vita»60.

Certo, con questa affermazione la posizione di Mussolini risultava


meno ideologica di quanto a prima vista apparisse. Non che nelle sue
posizioni non riecheggiassero già temi spengleriani, ma appartenenti
più in generale al clima culturale dell’epoca. Rurale è – secondo il già
citato Tramonto dell’occidente – mettere «radici nel suolo stesso che
si è coltivato» e «l’anima dell’uomo scopre un’anima nel paesaggio; si
annuncia un nuovo sentire, una nuova connessione dell’esistenza con
la terra»61. A conferma di queste letture e influenze culturali di marca

59
Ivi, p. 5
60
B. Mussolini, Discorso dell’Ascensione, 1927
61
O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, 1981, p. 634

41
germanica si può vedere la recensione che Mussolini dedicò nel 1928
al libro di Richard Korherr, Regresso delle nascite: morte dei popoli,
e che poi uscì come prefazione alla traduzione italiana. «La metropoli
cresce attirando verso di sé la popolazione della campagna – scriveva
Mussolini – la quale però appena inurbata diventa al pari della
preesistente popolazione infeconda. Si fa il deserto nei campi; ma
quando il deserto estende le sue plaghe abbandonate e bruciate la
metropoli è presa alla gola: né i suoi commerci, né le sue industrie né
i suoi oceani di pietre e di cemento armato possono ristabilire
l’equilibrio irreparabilmente spezzato: è la catastrofe»62. Sul finire
degli anni Venti il pensiero politico di Mussolini si impregnò di molti
di questi temi e umori, e dalla cultura tedesca il Duce del fascismo
trasse non pochi elementi per alimentare la propria visione della
società contemporanea e dell’intera storia mondiale. Tra questi,
l’avversione alla metropoli e, in generale, alla civiltà urbana e
industriale63. Non si trattò certamente di un trapianto di idee
interamente nuove, quanto semmai della conferma autorevole di tesi
e concezioni che Mussolini già si era formato autonomamente,
seguendo un proprio percorso in cui avevano influito sia l’origine
provinciale e piccolo-borghese sia il tipo di socialismo assorbito in
gioventù, nonché altre letture giovanili, da Nietzche a Gustave Le
Bon, il quale gli sarà utile nel fornirgli alibi teorici indicandogli la
strada per penetrare “l’anima delle folle”64.

Influenze e alibi culturali a parte, nel capo del fascismo agivano


prima di tutto considerazioni di ordine pratico. L’avversione contro
l’urbanesimo non era indiscriminata e totalmente accecata da
un’ideologia antimodernista, pure se questa si faceva sentire di fronte
a una modernità che minacciava di scardinare i costumi morali e
sessuali tradizionali, e quindi “liberare” e maturare in qualche misura
una società civile italiana. Nostalgie paesane non mancavano nei
fratelli Mussolini, sia Benito che Arnaldo. Quest’ultimo deve essere
menzionato perché la sua influenza sulle decisioni del fratello era
importante, senz’altro era tra le persone cui il Duce prestava
maggiore attenzione65. In una ricerca di Danilo Breschi sul tema di

62
B. Mussolini in R. Korherr, Regresso delle nascite: morte dei popoli, 1928, pp. 209-
216
63
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp. 73-85
64
G. Le Bon, Psicologia delle folle, 2004
65
R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1926-1936, 1974, pp. 303-304

42
“Fascismo e antiurbanesimo”, pubblicata dalla rivista Storia e futuro,
si trovano molti materiali che ricostruiscono questo rapporto 66. In
un’editoriale sul Popolo d’Italia del 29 dicembre 1928, dunque a
pochi giorni di distanza dalla promulgazione della prima legge anti-
urbana, Arnaldo precisava i termini entro i quali si muoveva la
politica ruralista del governo fascista: definiva «pericolosi e
denigratori» gli attacchi di quegli «ultramoderni intenti a dimostrare
che la politica rurale è un regresso nella vita civile», un modo per
«arenare nei campi il corso della modernità». Invece «noi ci
chiediamo prima di tutto: le città che sono affollate in modo
inverosimile nel dopoguerra, che cosa hanno guadagnato in fatto di
civiltà e che cosa hanno acquisito per la storia?»67. Arnaldo cita i
sobborghi malfamati di Londra, New York e le sue “follie
borsistiche”, Parigi città regina della “corruzione dei costumi”,
Berlino affogata nel “cemento armato”, Mosca e la sua “miseria”,
Vienna ancora città dei “divertimenti” anche se ormai priva del suo
impero. In generale, quindi, da «queste capitali non viene dunque la
luce per il genere umano», afferma Arnaldo. Insomma, «non è detto
che l’agglomerato affini la sensibilità e migliori la razza, è vero
precisamente il contrario». Come si vede però, il fratello del Duce
faceva riferimento alle metropoli, alle «città giganti, piene di esigenze
materiali, di null’altro perplesse e preoccupate che di uno sciopero
dei trasporti, di una epidemia infettiva, della mancanza di
approvvigionamenti». È in questo tipo di città che «la vita diventa
arida, il carattere dei più si fa nevrastenico»68. L’alternativa non era
però individuata nel ripudio di qualsiasi centro urbano e nella fuga
indiscriminata dalle città.
Significativa conferma in tal senso è una lettera che Arnaldo scrive al
fratello il 10 maggio 1927, dunque poche settimane prima del
discorso dell’Ascensione. Relazionando sulla situazione fascista
milanese, che languiva per leadership e iniziative, Arnaldo osserva:
«Certamente, se qui non si prende quota, entro dieci anni Milano
sarà un grosso borgo e per moltissime ragioni – soprattutto di forze
economiche – ciò sarebbe gran male ed è un gravissimo errore non

66
D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in
“Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005
67
A. Mussolini, La città, in “Il Popolo d’Italia”, 29 dicembre 1928
68
Ibidem

43
cercare di evitarlo. Non dimentichiamo che Milano concorre per la
sesta parte a formare il bilancio dello Stato»69.

Arnaldo – come racconta Breschi70 – mostrava quindi di non perdere


di vista le contingenze storico-economiche, di non trascurare le
esigenze reali a vantaggio di pure e semplicistiche reazioni
ideologiche antimoderne. La posizione sua e del fratello nei confronti
dell’urbanesimo era dunque più complessa. L’obiettivo principale era
impedire l’elefantiasi metropolitana, secondo una preoccupazione
che era già diffusa in America e nel resto d’Europa tra fine Ottocento
e inizio Novecento. Certo, nei suoi scritti e articoli Arnaldo Mussolini
evocava anche piccoli borghi rurali e semi-rurali, come la Barga del
poeta Giovanni Pascoli. Erano quindi ben presenti accenti che
potremmo definire “strapaesani”, proprio in quella misura in cui si
coglieva “l’italianità” nella tradizione municipale, nelle piccole realtà
di provincia, compresi i borghi rurali, da cui erano scaturite
esperienze artistiche e intellettuali di assoluta grandezza, tali da
essere esportate fuori dalla penisola, nel mondo intero. Anche realtà
urbane più grandi e complesse, come poteva essere la Firenze di fine
Quattrocento, erano assai lontane dalle metropoli europee affollate
fino all’inverosimile, necrotizzanti e alienanti e tutt’altro che fonti di
creatività e crescita dell’individualità in armonia con le leggi della
comunità che abitava entro le mura. Insomma, la grande città dei
Medici era da considerare più “a misura d’uomo”71.
Questa era la visione dell’urbanesimo che aveva il fratello del Duce e
che il Duce stesso condivideva almeno in parte, perlomeno
associandoci quel senso pratico e di opportunità che
contraddistingueva l’animale politico dal semplice studioso di scienze
agrarie. Secondo Arnaldo, mancava anzitutto un impero coloniale
capace di soddisfare quell’aumento del livello medio dei consumi che
tutti – anche gli esperti – addebitavano alle città di dimensioni
medio-grandi. Addirittura il fratello del Duce rovesciava il rapporto
città-campagna, almeno nei termini in cui questo si era configurato
all’indomani della rivoluzione industriale. La città in funzione della
campagna: questo pare in filigrana il pensiero di Arnaldo Mussolini e
del pragmatico urbanesimo fascista, o quanto meno l’auspicio. Il

69
D. Susmel (a cura di), Carteggio Arnaldo-Benito Mussolini, 1954, p.85
70
D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in
“Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, p. 7
71
A. Mussolini, La città, in “Il Popolo d’Italia”, 29 dicembre 1928

44
modello di società vagheggiato dai due Mussolini era una campagna
che sapesse trasmettere alla città uno stile di vita austero, sobrio,
incline al rispetto delle gerarchie sociali e delle tradizioni culturali. In
linea con quelli che effettivamente furono i provvedimenti di legge
del regime, l’idea di fondo dello studioso fratello del dittatore era che
la distribuzione della popolazione non mutasse, se non nel senso di
un ripopolamento di certe zone su cui incombeva una vera e propria
emorragia demografica, come quelle montane. Sia Arnaldo che
Benito nutrivano una visione del rapporto città-campagna non molto
diversa dalla teoria corporativa che sosteneva l’articolazione di una
società si base gerarchica e funzionalista. Non a caso, quindi,
rimandava ad una divisione dei ruoli: città del mare, città
dell’interno. Negli anni Trenta, con il varo delle cosiddette “città
nuove” e delle “città autarchiche”, si assisterà allo sviluppo di questa
visione “corporativistica” dell’insediamento umano sul territorio
nazionale.

Erano dunque varie e stratificate le motivazioni che nutrivano


l’avversione nei confronti delle grandi città. Molte venivano agitate
anche nelle aule parlamentari del regime. In particolare da esponenti
della vecchia classe dirigente pre-fascista che si era fatta
fiancheggiatrice del regime mussoliniano. Era un’ala conservatrice,
prevalentemente legata al mondo agrario o a un patriziato urbano,
concorde nel ridimensionare un proletariato che minacciava di
addensarsi e crescere. Proviamo a soffermarci un attimo su questo
tipo di retorica anti-urbana, dai toni spesso paternalistici, prendendo
ad esempio (sempre citato dal lavoro storiografico di Breschi)
qualche discorso di Arturo Marescalchi, uno dei protagonisti della
battaglia che in Senato si conduceva contro l’urbanesimo ancor
prima che il Duce ne facesse una bandiera ideologica del regime 72.
Importante possidente agrario piemontese, deputato liberal-
conservatore da lungo tempo, tenuto in grande considerazione fino
alla nomina a sottosegretario all’Agricoltura dal 1929 al 1935. Eccolo
nell’interpretazione di un refrain già ascoltato e che abbonderà nella
pubblicistica degli anni Trenta, dove alla salubre e patriottica vita di
campagna si contrappone la corrotta e corruttrice vita di città. «Le
sappiamo le lusinghe della città: i comodi tram che si sostituiscono
all’igienica camminata, i teatri, tutti i divertimenti più a portata.

72
D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in
“Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, pp. 14-15

45
Belle cose! Ma esse ti invitano a sprecare danaro che invece tu sai
risparmiare per comprarti il pezzo di terra e la casetta; essi ti
corrompono l’animo, ti tolgono la serenità e i tuoi sonni tranquilli e
riposanti, e le gioie pure della tua famiglia… La maggior paga che
prendi ti va tutta appunto in quelli che ti sembrano i nuovi comodi e
gli ambiti divertimenti; ti va nelle maggiori pigioni che paghi per
abitare un quarto piano in piccole stanze dove i tuoi figlioli cercano
invano lo spazio per correre, e l’erba, le piante per giocare; ti va nel
maggiorato prezzo cui sei costretto a pagare ogni più modesto
ortaggio e ogni altro cibo. Fa conto, e a fine anno ti troverai con
minori avanzi e con minor salute. E penserai con nostalgia ai tuoi
campi, alla vita libera, all’aria sana, e rimpiangerai di aver lasciato la
tua dimora della campagna semplice, l’aria di pace e di tranquillità…
Contadino, non lasciarti sedurre da false teorie. Tieniti alla tua terra,
buona madre di tutti»73.
Insomma, Marescalchi pretendeva di dire al contadino quale fosse e
dovesse essere la “giusta aspirazione”, coltivata da “mille e mille
anni”: «diventare padrone di un pezzo di terra e di una casetta che
serva a sostentare e ad albergare la tua famiglia»74. Nonostante siano
passati già cento anni dalla rivoluzione industriale e la cultura
disponga di una considerevole mole di studi su questo fenomeno, in
Italia l’uomo che si “inurba” è paragonato a una stupida farfalla,
abbagliata dalla luce sfolgorante della città, e che in quella luce
rischia di bruciarsi le ali. La politica governativa di
“sbracciantizzazione”, lanciata nel 1929, assecondava questa visione
del mondo, cercando di aumentare la stabilità sociale nelle campagne
mediante l’aumento del numero dei mezzadri, dei coloni parziari e
dei compartecipanti.

Nel frattempo il regime fascista cominciava a godere di una certa


solidità tecnica, le voci di dissenso erano state messe fuorilegge, e
tuttavia mancava la sostanza della “rivoluzione” fascista. Occorreva
qualcosa di “grande” che funzionasse da centro focale del regime,
qualcosa in cui potersi riconoscere, che galvanizzasse le masse. Il
regime era cresciuto senza una propria ideologia, anzi si era detto
contrario alla sua individuazione e applicazione, aveva bisogno di
una forza numerica per disegni imperialistici ancora oscuri, doveva
tenere sotto controllo la vita delle città industriali, dare un sollievo

73
A. Marescalchi, Una parola amica al contadino, in “Il Traguardo”, 1930
74
Ibidem

46
agli effetti della crisi monetaria internazionale sempre più acuta.
Ognuno di questi elementi spingeva verso una grossa scelta che
orientasse l’attenzione comune; e la scelta fu quasi condizionata:
ruralità. Oppure, pragmaticamente: urbanizzazione rurale. È a
questo punto che Mussolini sente il bisogno concreto di una maglia
culturale e teorica che leghi le sue operazioni mostrandole come parti
di un unico insieme. Una missione che contribuisca a celebrare
presso un’opinione pubblica esacerbata le virtù taumaturgiche del
capo del regime. Così lui tenta di coinvolgere ogni alta gerarchia dello
Stato nel suo disegno per la grande bonifica. Scrive più volte al
ministero del Tesoro chiedendo aiuti e disponibilità finanziarie,
riceve esperti agrari e ingegneri idraulici. Di città il regime non ne
voleva sapere, eppure ora si mette a fondarle.

4. Bonifiche e borghi

Quindi il Duce di città non ne voleva. Solo borghi di campagna,


niente città. Non erano previste, almeno in questa plaga che il
fascismo stava redimendo, e che doveva plasmare a sua immagine e
somiglianza. L’Agro Redento – là dove prima stava l’inferno delle
paludi pontine – doveva esserne l’emblema, il monumento
millenario del regime. Da un punto di vista propagandistico la zona si
rivelò un’ottima scelta: per la vicinanza con Roma, la capitale, e per
la vicenda ormai leggendaria degli innumerevoli tentativi di
trasformazione falliti. Tentativi di bonifica miseramente arenati ci
furono fin dai tempi dei Cesari e dei papi. Nei secoli le paludi erano
diventate un posto infido abitato da radi contadini e pastori, spesso
uccisi dalla malaria. Nel suo Viaggio in Italia il poeta tedesco Goethe
descrisse le paludi pontine come «l’angolo più selvaggio e
affascinante d’Europa»75. Di bonifiche ne cominciarono a parlare e a
realizzare anche i governi dello stato unitario, di matrice liberale
riformista, dalla fine dell’Ottocento a prima dell’avvento del
fascismo. Quasi sempre furono fatte nelle zone della Val Padana, su
iniziativa dei privati e con sfondo di redditività76. Nei primi anni del
regime, tra il 1925 e il 1931, vennero avviati interventi di “bonifica
integrale” da parte di privati e consorzi di proprietari dei terreni, con
sovvenzionamento dello Stato in varie zone paludose-malariche della

75
J.W. Goethe, Viaggio in Italia, 2006, p. 136
76
M. Rossi Doria (a cura di), Le bonifiche in Italia dal ‘700 a oggi, 1984

47
penisola, soprattutto al Nord ma anche nel pontino. L’ideologia alla
base di questi interventi era in linea con quella dei precedenti governi
di matrice liberale: modernizzare e bonificare le terre, coi soldi dello
Stato, per poi darle ai privati che le potessero far fruttare. Tra la fine
degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, una volta trovati fondi
economici sufficienti e consolidata la politica del regime,
l’impostazione ideologica cambia radicalmente. Quel che occorre non
è solo la bonifica e lo sfruttamento proprietario dei terreni, ma un
piano sociale e politico di ruralizzazione che coinvolga le masse
agricole e i contadini. Non basta solo bonificare, a vantaggio di
latifondisti e capitalisti, bensì ruralizzare, anche al fine di realizzare
una vera e propria redistribuzione delle terre. E i maggiori sforzi si
concentrano sulle paludi pontine a sud di Roma. Nel febbraio 1931
Mussolini mette l’operazione Agro Pontino nelle mani dell’Opera
Nazionale Combattenti comandata dal conte Valentino Orsolini
Cencelli, e lì ha inizio la seconda fase. Cencelli entra in campo con la
frusta: deve bonificare e dare le terre ai contadini, la “ruralizzazione”
che ha ordinato il Duce. La bonifica idraulica rimane formalmente
competenza degli appositi Consorzi, che l’avevano avviata in quelle
zone fin dal 1926. All’Onc tocca invece carta bianca per realizzare la
bonifica agraria, la trasformazione fondiaria, la colonizzazione e la
messa in coltura e in valore di tutti i terreni. Già nel 1928 il governo
aveva cambiato decisamente l’impostazione della bonifica: da un
accordo coi privati latifondisti a un approccio decisamente statalista.
Tutti i terreni improduttivi o abbandonati furono espropriati di circa
due terzi, in alcuni casi superando le resistenze dei proprietari, alcuni
restii alla bonifica. Da secoli i terreni paludosi-malarici pontini erano
proprietà di importanti famiglie nobiliari romane, in particolare i
Caetani. Le paludi, senza toccarle né vederle, davano loro comunque
una discreta rendita, grazie ai mercanti di campagna e ai diritti di
pascolo. Dal suo arrivo l’Onc diventa nell’Agro Pontino il braccio
armato della ruralizzazione: accelerazione dei lavori, espropri e
appoderamenti a rotta di collo su 70mila ettari, frazionati in unità
produttive di estensione medio-piccola con promessa di vendita ai
coloni che già sono pronti ad arrivare da altre zone del Paese77. Ma
questo cambio di marcia non fu una decisione unanimemente
accettata e applaudita. Tutt’altro. Le polemiche e le resistenze interne
allo stesso regime e al blocco di interessi socio-economici che lo
sosteneva furono moltissime e feroci. Al di là delle lotte di potere

77
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, pp. 216-220

48
sottotraccia, lo scontro vedeva in campo da una parte il blocco
agrario e i consorzi dei proprietari, stretti attorno al Ministero
dell’Agricoltura, favorevoli a una capitalizzazione dei terreni
bonificati a vantaggio dei grandi possidenti fondiari, dall’altra parte
l’Onc di Cencelli che perseguiva un obiettivo politico di
modellizzazione sociale delle terre bonificate attraverso
l’assegnazione di queste a contadini e piccoli proprietari ex novo, da
una mano statale. La linea dell’Onc fu quella che si impose in buona
parte della bonifica pontina – sotto la già esaminata parola d’ordine
di “ruralizzazione” – determinando la particolarità di questo
“esperimento sociale di regime”78. I “segni urbani” costituiti dai
borghi, dai poderi, dal reticolo delle strade poderali e dalle città,
testimoniano questa lotta tra opposte visioni. Talmente che il
“fasciocomunista” scrittore Antonio Pennacchi può arrivare a
sostenere – con un’equazione che a taluni apparirà spericolata – che
«quello avrà pure fatto le guerre, ma togliere la terra ai grandi
proprietari e darla ai contadini è una riforma di struttura
marxianamente intesa, è rivoluzione. Qui l’hanno fatta»79.

C’è qualche storico che sostiene che solo uno Stato forte, quale era
indiscutibilmente il regime fascista all’apice del suo dominio, poteva
essere in grado di bonificare le paludi pontine, sia per gli enormi
interessi che si andavano a toccare, sia per gli ancor più enormi
sacrifici umani che si andavano ad imporre: masse di operai
bonificatori e, dopo, di coloni, sottoposte a migrazioni, malaria, duro
lavoro e stenti. Con problemi, oltretutto, di governabilità di questi
flussi e di vero e proprio ordine pubblico. Eppure c’è un fatto storico
su cui quasi tutti concordano: ed è quel certo pressapochismo ed
improvvisazione che avrebbe caratterizzato gli interventi messi in
atto. In particolare sarebbe mancata la pianificazione generale
dell’urbanizzazione di questo territorio, sarebbe mancato a priori un
modello progettuale compiuto, determinando nei fatti gravi guasti e
diseconomie80. Riassume infatti Pennacchi, nei panni un po’ dello
scrittore un po’ dello storico: «Si sarebbe andati avanti dalla sera alla
mattina. Mo’ intanto leviamo l’acqua e poi si vede; anzi, mo’ facciamo
i borghi; anzi no: facciamo una città, Littoria; ma perché solo una?
Fàmone un’altra, Sabaudia; anzi un’altra ancora, Pontinia, e via di

78
Ivi, pp. 265-266
79
Ivi, p. 220
80
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 69

49
questo passo»81. A pensarci bene emerge sempre una delle tipiche
attitudini nazionali: a proclami roboanti seguono realizzazioni
confuse o quantomeno rassicuranti. Non è importante cosa proponi,
se vincere la partita, o se prometti un milione di posti di lavoro, o se
vuoi bonificare una palude, e nemmeno è importante se riesci a
raggiungere il tuo obiettivo, quello che importa è la strada che scegli,
la proclamazione dei tuoi intenti. Tuttavia se si tratta di analizzare un
fenomeno va tenuto conto che una cosa sono i dati di fatto, altra cosa
sono i giudizi storici. Il giudizio storico è un’altra cosa: è la
“comprensione” del fatto, l’individuazione degli elementi e delle
dinamiche che lo hanno prodotto, la sua contestualizzazione e la sua
comparazione a quanto, eventualmente, nelle stesse condizioni è
stato fatto altrove. Dunque, nonostante le frenate e le accelerazioni,
quello dell’Agro Pontino lo si può definire come un progetto con una
sua coerenza storica, geo-fisica e sociale, figlia del regime fascista ma
allo stesso tempo perfettamente in linea con molti filoni culturali di
quello che potremmo chiamare il paesaggio anti-urbano dell’Italia.

Da qualche parte bisognava pur cominciare. Fu necessario per prima


cosa preparare una completa rete di canali collettori che, aiutati da
impianti idrovori, portassero verso il mare le acque superflue,
infliggendo in questo modo un colpo durissimo alla malaria. Il piano
di bonifica fu condotto dall’Onc sulla base di uno studio già
approntato nel 1918 dal Genio Civile di Roma, che a suo tempo però
era rimasto lettera morta per quanto riguardava il miglioramento dei
terreni sotto l’aspetto agrario e idraulico, soprattutto a causa delle
resistenze dei proprietari. L’impasse fu superato grazie alla facoltà di
esproprio concessa dalla legge di regime e alla determinazione di
Cencelli a partire dal suo insediamento nel 1931. Il problema della
sistemazione agraria della zona si presentava difficile per la completa
assenza di una tradizione agricola e per la stessa natura dei terreni,
che ancora non avevano rivelato le loro capacità produttive82. Ma non
c’era tempo da perdere. Dopo la bonifica idraulica e il
prosciugamento delle paludi era partita, quasi assieme, la cosiddetta
bonifica integrale. Le terre andavano messe subito a coltura. E già nel
’31 cominciarono ad arrivare dal Veneto i primi coloni. L’Atlantide
bonificata di regime cominciava velocemente a prendere forma.

81
Ivi, p. 201
82
L. Nuti, R. Martinelli, Le città di Strapaese. La politica di fondazione del Ventennio,
1981, p. 27

50
Strade, ponti, canali, case coloniche, appezzamenti, dissodamenti,
dicioccamenti, porcili, magazzini, migliaia di operai “pionieri” in
baraccamenti di legno. Una selva di poderi spuntava giorno dopo
giorno, come funghi. Nel mezzo bisognava tirare su i primi
embrionali centri di urbanizzazione: i borghi. Inizialmente i borghi
dell’Agro Pontino – Borgo Faiti, San Michele, Isonzo, Grappa,
Sabotino, Bainsizza, Montello, Podgora, Piave, Carso – sono solo
centri di servizio. Non li hanno concepiti gli architetti, ma i tecnici
dell’Onc. Sono centri di servizio collocati all’interno della maglia di
terreni e poderi in cui è stato diviso l’Agro appena bonificato,
affinché possano essere facilmente raggiunti dai coloni in bicicletta o
coi carri, ma anche a piedi, da una distanza massima di 3-4
chilometri. Non hanno la minima presunzione o idea – ancora – di
una qualsivoglia forma urbis. Sono prevalentemente collocati
all’incrocio di strade e sorgono, spesso, sullo stesso sito che aveva
ospitato i “villaggi operai”, ovvero i baraccamenti che avevano dato
asilo alle migliaia di operai utilizzati per i lavori di scavo dei canali e
bonifica idraulica. Ci sono quattro case in tutto: la chiesa, la
canonica, la dispensa (una specie di bottega generica dove trovare dai
farmaci di base ai generi alimentari fino alle attrezzature agricole e di
ferramenta), l’ambulatorio, la sede e i magazzini dell’Opera. In alcuni
casi c’è anche la caserma dei carabinieri. Ma fin dall’arrivo dei coloni
arrivano, al seguito stesso, commercianti privati ed artigiani che
aprono nei borghi osterie, botteghe di fabbro e tutto quello che
serve83. Così i borghi diventano in breve tempo parte essenziale e
fondante del paesaggio urbano pontino. Non è il caso di mettersi ad
approfondire se nel mezzo di questa opera fascistissima c’entrerà
qualcosa il modello “prassi-teoria-prassi” tanto caro al leninismo, ma
c’è da dire che l’Onc dimostra un notevole pragmatismo pratico e
teorico – seppure fedele a una matrice ideologica e urbana fondante
– nelle sue realizzazioni in terra pontina. Nei borghi si vanno
aggiungendo edifici come la Chiesa, la Casa del Fascio, il campo
sportivo, l’ufficio postale, il cinema, gli spazi per il dopolavoro.
Inoltre tutti sono serviti di energia elettrica, fognature, acqua
potabile. Il cambio di direzione è suggellato anche da un imprimatur
chiaramente politico: così, su impulso dell’Onc, tutti i vecchi borghi
vengono ribattezzati con nomi che onorino i gloriosi fatti della
Grande Guerra del ‘15/’18. Così negli anni seguenti, in particolare tra

83
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 138

51
il 1933 e il 1935 sorge una seconda generazione di borghi – Borgo
Pasubio, Montello, Vodice, Hermada, Montenero, il secondo Carso
eccetera – concepita in maniera più articolata. L’architettura degli
edifici è riconducibile a uno stile rurale ma ormai moderno, «né
ruraleggiante né tardofloreale come la prima generazione, è un rurale
razionale, anche se non razionalista. Punta all’efficacia e
all’efficienza; è roba di campagna, con la copertura a tetto, a capriate
di legno e senza decorazioni, ma deve essere fatta bene e deve
funzionare»84. C’è infine tutto quello che serve perché la comunità
che vi gravita attorno possa farne il fulcro e lo snodo di tutte le sue
relazioni: economiche, sociali, sanitarie, interpersonali e di
intrattenimento, civili e religiose, affettive e politiche ma sempre
sotto la rigida cappa autoritaria del regime. Insomma emerge in
maniera sempre più scientifica un “problema-città”, il quale – per
dirla con Pierotti, «esiste quando la creazione di un nuovo
insediamento ha come scopo esclusivo o prevalente la costituzione di
un nuovo organismo urbano, pensato nelle sue esclusive articolazioni
costruttive e funzionali»85.

5. Littoria

Partivano nelle tradotte. Famiglie intere. Con gli attrezzi e le


masserizie – poche, trattandosi di gente povera in canna – oche,
galline, maiali, qualcuno anche il somaro. Tutti dentro i vagoni
merci. Alla stazione di Cisterna, in primo tempo, e poi a quella di
Littoria Scalo, trovavano i camion che li prendevano e poi li
scaricavano a destinazione: ogni famiglia nel podere assegnato. La
selezione delle famiglie coloniche destinate a popolare
definitivamente le zone di nuova bonifica spettò al Commissariato
per le migrazioni interne. Funzionari governativi furono inviati nelle
varie province della pianura padana, dove centinaia di famiglie
avevano manifestato il desiderio di migrare. Quasi tutti ex mezzadri o
fittavoli, rovinati fin nel poco che avevano dalla crisi del ’29 o della
politica monetaria “quota 90” del regime, abituati a vivere in
condizioni assai disagiate. Le prime famiglie giunte nell’Agro per le
aziende dell’Onc, negli ultimi giorni dell’ottobre 1932, provenivano
84
Ivi, p. 226
85
P. Pierotti, Le non-città della ragione, in R. Martinelli, L. Nuti (a cura di), Le città di
fondazione. Atti del 2°convegno internazionale di storia urbanistica, Lucca, 1978, p.
120

52
dalle province di Rovigo, Padova, Treviso, Verona e Vicenza86.
L’appoderamento venne fatto sulla base di un’unità poderale media
di 20 ettari, ma tenendo conto della diversa fertilità dei terreni. Su un
lato perimetrale era collocato il casale, fornito di stalla, pozzo, fienili,
forno, concimaia, locali di abitazione su due piani. Questi poderi
erano posti a coppia, sulla strada, e ogni 250 metri, mediamente, ce
n’era una coppia87. In ogni podere era sistemata una sola famiglia
colonica. Questa infrastruttura in cui si privilegiava il modello
“individuale”, cioè basato su una gestione familiare, comportò una
spesa sensibilmente maggiore da parte dell’Onc ma fu preferita
perché meglio rispondente al criterio generale dell’operazione
“bonifica”: legare alla terra, alla piccola proprietà, un discreto
numero di diseredati, e al contempo quello di evitare il più possibile
rapporti stretti tra famiglie. Arrivano col contratto a mezzadria, ma il
Duce aveva formalmente promesso che col tempo sarebbero
diventati proprietari del loro podere. Questa è la ruralizzazione che
lui vuole: costruzione di una nuova classe di contadini piccoli
proprietari (ed anche ex combattenti) che sia la base sociale granitica
– lo “zoccolo duro” – del fascismo. Una vera e propria opera di
costruzione, anzi potremmo dire di eugenetica, sociale. Come scrive
Mariani, nel suo Fascismo e città nuove, «la campagna, sanata
dall’insidia dei conflitti di classe, si realizza come il polo positivo in
opposizione alla città e alla fabbrica, che sono invece le sedi nelle
quali si forma e si riproduce la tensione sociale. La prolificità, la
laboriosità, la vita “sana” che sarebbero state tipiche del mondo
contadino diventano capisaldi del progetto fascista di
riorganizzazione della nazione»88. Perfino i gatti furono
certosinamente importati: nelle paludi in via di bonifica era pieno di
topi, così fecero arrivare un paio di camion da Roma, riempiti di gatti
presi al laccio tra il Pantheon e i Fori, tra le gattare che urlavano
contrariate, e li liberarono lì, a Borgo Grappa89. I primi tempi non
furono affatto facili: alcuni coloni furono ricacciati indietro perché
ritenuti incapaci o disturbatori, molti di loro non avevano la
necessaria cultura agraria, altri pativano la scarsa produttività di
molti terreni appena bonificati, qualcuno addirittura azzardò degli

86
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 157
87
L. Nuti, R. Martinelli, Le città di Strapaese. La politica di fondazione del Ventennio,
1981, pp. 28-29
88
Mariani, Fascismo e città nuove, pag. 82
89
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 220

53
scioperi. Ma il sistema di controllo autoritario e la stessa immagine
politica del regime non potevano permettere di sgarrare.

A un certo punto cominciarono a tirare su delle vere e proprie città.


L’idea venne originariamente al conte Cencelli, che comandava da
proconsole l’Opera Combattenti e la bonifica delle paludi pontine.
Quando nel giugno del 1932 invitò il Duce per la posa della prima
pietra della “città di Littoria” però quello non la prese affatto bene. E
lo prova una sua “velina” urgente in cui proibiva di dare risalto alla
notizia: «Tutta quella retorica a proposito di Littoria, semplice
comune e niente affatto città, est in assoluto contrasto colla politica
antiurbanistica del Regime. Stop. Anche la cerimonia della posa della
prima pietra est un reliquiato di altri tempi. Stop. Non tornare più
sull’argomento»90. Giù nell’Agro Pontino però i lavori procedevano a
tamburo battente, e si andava avanti con le imprese e con gli appalti.
L’architetto Oriolo Frezzotti, col suo piano regolatore approvato da
Marcello Piacentini, sforna una sull’altro gli edifici del centro: il
Municipio, la sede dell’Onc, la caserma della milizia e dei carabinieri,
la sede della Direzione Agricola, del Monte dei Paschi di Siena,
dell’Onc e delle associazioni combattentistiche, l’albergo, il cinema, la
chiesa, l’ospedale, il palazzo delle Poste, la stazione ferroviaria. Il
centro non era destinato ad essere abitato dai coloni, ma sarebbe
stato sede di pubblici servizi, di impiegati, di mediamente benestanti.
Già mentre Littoria era in costruzione, lo venne a sapere la stampa
estera e la notizia rimbalzò in tutto il mondo. “Questi fanno le città”
dicevano ammirati. Cominciarono a venire a guardare perfino
dall’America e dalla Russia. Tanto che lo stesso Mussolini rinunciò ai
suoi dubbi e non esitò a cavalcare l’operazione91. Un articolo di G.C.
Napolitano nella Gazzetta del Popolo del 17 dicembre 1932 rileva il
senso dell’intervento e la sua apparente contraddizione con la
politica anti-urbana del regime: «Il contrario di uno di quegli enormi
paesi che ho visto in Sicilia, borgatone di sessanta, settantamila
anime, abitate quasi interamente da contadini, che raggiungono i
campi ogni giorno, e ogni sera li lasciano per il paese. Gli abitanti di
Littoria, invece, abiteranno sulla terra, e verranno nel centro
cittadino solo quando ne avranno voglia, o necessità. Il podere contro
il latifondo. Una città contro l’urbanesimo»92.

90
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp. 141-142
91
Ivi, p. 141
92
Ivi, p. 90

54
Nel giro di sei mesi, il 18 dicembre 1932, Mussolini viene ad
inaugurare Littoria, la prima “città nuova” sorta nella zona delle ex
paludi. In quella occasione preannuncia la costruzione di altre 4500
case da aggiungere alle 500 esistenti e un aumento fino a 40-50mila
abitanti, che si aggiungeranno ai 10mila presenti. Agli occhi di quelli
che arrivavano ad abitarci o solo a rimirarla Littoria si presentava
con i tipici canoni dell’architettura razionalista allora in voga. Senza
orpelli estetici ma anche senza le grandiosità che poi si vedranno, per
esempio, nella cittadella romana dell’Eur. La forma della città era
ottagonale, con vie che si snodano attorno alle due piazze centrali,
quelle ora chiamate piazza del Popolo e piazza della Libertà. Una
rigorosità architettonica che, qui come altrove, sarà ingoiata
dall’espansione informe e a macchia d’olio del boom edilizio del
secondo dopoguerra, senza alcun ordine.

Quanta gente abitava e poi abiterà nella prima città nuova di regime?
Gli abitanti il giorno dell’inaugurazione sono 6.308 (oltre a 11.492
temporanei) e si prevedeva che sarebbero aumentati a 15mila circa
l’anno successivo, con l’estensione della bonifica e la costruzione di
nuove case. Nel 1934 Littoria viene elevata a capoluogo della nuova
provincia, l’anno successivo la previsione del numero di abitanti è
portata a 50mila, l’area urbana a 170 ettari di cui 150 per la
residenza. Al censimento del 1936 la popolazione residente assomma
a 19.654 unità. Da allora rimarrà pressoché stazionaria, e solo dopo
la guerra l’incremento riprenderà, specialmente alla fine degli anni
Cinquanta (nel 1951 i residenti saranno 35.187), e poi in maniera
sempre costante (all’ultimo censimento, datato 2001, risulta una
popolazione di 107.898 abitanti). Ma Littoria, ormai ribattezzata
Latina, dopo la guerra è diventata nel frattempo un centro per
l’industria leggera. Lo sfasciarsi della struttura agraria, e il
cambiamento funzionale con il connesso boom edilizio hanno reso
pressoché irriconoscibile perfino il centro cittadino93.
Alla fondazione della città, i primi abitanti furono immigrati italiani
originari del nord-est dell’Italia, come nei borghi del territorio
pontino e nei comuni limitrofi istituiti con la bonifica,
principalmente coloni dell’Onc. Combattenti ed artigiani, che diedero
vita a quella che si chiama “comunità veneto-pontina”. Accanto ad

93
V. Cotesta, Modernità e tradizione. Integrazione sociale e identità culturale in una
città nuova. Il caso Latina, Milano, 1988

55
essi inoltre la città di Latina vide presenti fin dal primo popolamento
anche contributi da altre regioni d'Italia, soprattutto dal Lazio
(principalmente da Roma e dalla adiacente area Lepina), dalle
Marche e dall'Umbria, i cui emigrati furono addetti perlopiù
all'artigianato, alla prima debole industria, al settore impiegatizio ed
a ruoli vari negli enti pubblici e della bonifica e della colonizzazione.
A partire dal dopoguerra, il crescente sviluppo industriale (dovuto
anche, in seguito, ai finanziamenti erogati dalla Cassa del
Mezzogiorno) finirà per attrarre persone e famiglie da tutta Italia, in
gran parte meridionale: dal resto della provincia (anche dal sud-
pontino), dalla Ciociaria, da Roma, dalla Campania, dalla Sicilia.
Inoltre l'operatività, fino agli anni '60 e '70, di un grande centro di
smistamento profughi nazionale porterà alla costituzione, in città, di
consistenti presenze di esuli dalmati e giuliani, nonché di espulsi
italiani dall'Algeria e dall'Egitto e in misura superiore dalla Libia.
Poi, dagli anni '90, saranno presenti anche qui diverse comunità di
immigrati: in particolare vi saranno indiani, pakistani, nordafricani
impiegati prevalentemente in piccole attività commerciali e come
operai nelle industrie; rumeni, polacchi e moldavi (che formano la
comunità più numerosa) impiegati soprattutto nell'edilizia e
nell'assistenza agli anziani; infine persone originarie dell'Africa
subsahariana e dell'area del Golfo di Guinea, impiegate nel settore
agricolo.
L’evoluzione, ovviamente, è stata anche linguistica: la varietà di
contributi alla parlata locale è stata piuttosto ampia e ha subito varie
modificazioni nel corso dei decenni. Le originali parlate
settentrionali (veneto, friulano e emiliano) dei primi abitanti del ceto
contadino ed artigiano sono sostanzialmente scomparse nella città
ma sopravvivono, anche se debolmente, nei borghi, o a livello
familiare. Al contrario il romanesco, presente dalla fondazione nel
solo capoluogo, e dovuto alla principale provenienza del ceto
dirigenziale e impiegatizio della nuova città, ha avuto una prima
espansione nel dopoguerra e una seconda, più forte, negli anni
Settanta, a seguito della quale è divenuto la parlata comune della
città94.

In quello stesso soleggiato mattino di dicembre, di fronte alla piazza


stracolma di operai e coloni in camicia nera, Mussolini non si ferma:
annuncia la costruzione di altre città nell’Agro Pontino, altro che

94
Aa. Vv., Latina, in it.wikipedia.org

56
“cerimonie e reliquiari di altri tempi”. Negli anni a venire, in tempi
celeri, sarebbero venute Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia. La
notizia fece fracasso dappertutto. Perfino Le Corbusier scrisse al
Duce, e si fece raccomandare dal governo francese, perché gliene
facessero progettare almeno una, pure gratis. Ma non c’è stato
verso95. Si preferì un’architettura autarchica, senza guizzi
d’avanguardia, povera e compilativa, tranne nel caso – esteticamente
più affascinante – di Sabaudia.
Alla fine è stato calcolato che il regime fascista ne costruì circa 150 di
città, tra grandi e piccole, in tutta Italia: Istria, Friuli, Sardegna,
Campania, Puglia, Sicilia, oltre al più famoso Agro Pontino, in soli
dieci anni, dal ’32 al ’43. Generalmente all’interno di piani di
ruralizzazione agraria o industrializzazione specializzata96.
Riconoscibili da qualche costante architettonica, una su tutte: la torre
littoria. Ha cominciato Frezzotti a Littoria, appunto, con la torre del
Comune. Poi Sabaudia, Pontinia e così via, con queste torri più alte
del campanile della chiesa. L’idea, evidentemente, era di ricollegarsi
all’età dei Comuni medievali: la torre municipale, come segno del
potere comunitario e laico, primo su tutti gli altri, pure su quello
religioso. Il segno dello Stato. Una visione estetica e politica che nel
corso dell’evoluzione del regime è destinata a cambiare. Difatti, nelle
“città nuove” degli ultimi anni del regime (ad esempio Carbonia in
Sardegna, anno 1938) le “torri littorie” non sono più le torri
campanarie del Comune ma quelle della Casa del Fascio, sede del
partito unico di regime. Il fascismo si fa Stato etico, corporativo e
centralizzato, e anche l’ideologia urbanistica si radicalizza97.

Alla visione dei posteri l’Agro Pontino passa come una delle prime
esperienze di pianificazione del territorio in Italia, tuttavia solo molto
parzialmente si può considerare sotto questa veste. Si può parlare
infatti di pianificazione idraulica, nel senso che un piano per la
“bonifica idraulica” e il convogliamento delle acque fu realmente
predisposto, ma mancò completamente una pianificazione che
congiungesse razionalmente ogni punto sparso in cui si realizzava
l’intervento. Mancò la previsione del comune di Littoria; dopo averlo
realizzato Mussolini annunciò la costruzione di Pontinia e Sabaudia
senza conoscerne preventivamente l’ubicazione, in seguito nacquero

95
N. Ajello, Le Corbusier e il viaggio in Italia, in “La Repubblica”, 9 dicembre 2007
96
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 31
97
Ivi, p. 34

57
Aprilia e Pomezia, e la scelta della loro localizzazione derivò da un
frettoloso sopralluogo dei tecnici dell’Onc. La medesima cosa vale per
il tratto stradale, che al di là dell’asse di scorrimento centrale,
realizzato per motivi tecnici e secondo vecchi piani precedenti, fu
improntato di volta in volta al seguito della localizzazione dei centri
rurali. Insomma, l’ideologia c’era ma una pianificazione degna di
questo nome non ci fu. Ci fu la volontà di Mussolini che inaugurando
un centro fissava lì per lì la data di inaugurazione di quello
successivo, poco badando se per rispettare i tempi della sua
“pianificazione” le maestranze dovevano lavorare anche di notte e i
podestà incollare le ultime mattonelle dei balconi qualche minuto
prima che arrivasse il Duce. Ma se era possibile anche facendo doppi
turni98.

6. Sentirsi pionieri

Sta di fatto che in mezzo a una rovente propaganda antiurbana il


regime realizzò la costruzione di cinque “città nuove”, mascherate da
centri rurali che hanno una funzione di controllo sulla vita dei
lavoratori. Nelle città nuove risiedeva soltanto una massa di piccoli e
medi burocrati di Stato che amministrava il lavoro degli immigrati
coatti ma “scelti” per formare la “nuova società italiana”. Mettiamola
così: quello voleva ruralizzare, ma per poter ruralizzare ha
urbanizzato99. Ha perseguito l’obiettivo di “nazional-massificare” le
masse100, dirigerle, egemonizzarle e controllarle, ma per farlo ha
dovuto tenere i suoi “nuovi italiani” isolati, a distanza di sicurezza,
protetti da insediamenti sparsi e abitudini patriarcali101. Non esistono
indagini complete sulla vita di vaste comunità italiane durante il
fascismo, ma da qualche stralcio di relazione di funzionari
governativi emerge la particolare condizione di precarietà in cui
versava la maggiorparte dei coloni pontini nei primi anni. E se questa
delle ex paludi è sempre menzionata come la migliore e più
emblematica delle esperienze, non sarà difficile farsi un’idea di cosa
fosse nelle altre regioni italiane la vita delle campagne.

98
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 69
99
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 149
100
G. L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, 1982
101
D. Ghirardo, K. Forster, I modelli delle città di fondazione in epoca fascista, in
Storia d’Italia. Annali 8. Insediamenti e territorio, Torino, 1985

58
Chiaramente, il carattere dominante in Agro Pontino è
l’autoritarismo più palese, con il quale vengono imposti tutti i
rapporti tra le alte gerarchie, i coloni e i ceti medi residenti nelle città
nuove. Praticamente si tratta di almeno tre categorie sociali fisse e
assolutamente non comunicanti tra loro: i gerarchi dell’Onc, dei
sindacati, del partito che risiedevano a Roma e raramente a Littoria; i
piccoli funzionari di queste organizzazioni decentrati con le loro
famiglie nelle città nuove; i coloni sparpagliati nei poderi e nei piccoli
borghi. Tra loro – come riporta Mariani nella sua ricerca
sull’argomento – non esiste nessuno scambio sociale, né matrimoni,
né parentele, né occasioni in cui intrecciare una relazione anche
casuale. I rapporti tra funzionari e coloni sono particolarmente
improntati a una profonda diffidenza e intolleranza, alimentate
anche dalla rete di informatori e delatori tipica della vita sotto ogni
regime. «I coloni invidiano la vita dei funzionari, il loro “fare niente”
negli uffici e il loro tenore di vita; i funzionari trovano inconcepibile il
disinteresse del colono per il suo podere e la sua smania
“consumistica”»102. D’altra parte l’Agro Pontino è ormai diventato un
enorme campo di lavoro dove ognuno ha un numero di
riconoscimento e un “lasciapassare per l’interno”, «tutti gli operai
che lavorano nell’Agro Pontino devono essere provvisti di questa
tessera e la mancanza di essa rappresenta un motivo per il
rimpatrio», in più ogni colono è oppurtunatamente schedato in
merito al suo comportamento morale, politico e religioso103.

Nonostante ciò nell’Agro Pontino, in particolare nelle campagne e nei


borghi, gli abitanti riescono a costruire una comunità e il suo senso.
C’è da notare che mentre quasi tutta la letteratura storiografica
sull’argomento insiste sulla versione delle totali condizioni di
isolamento e asocialità dei coloni nell’area pontina104, le
testimonianze dirette, riportate anche da vari volumi, raccontano di
una socializzazione informale ben riuscita, grazie alla comunanza di
origini di molti coloni veneti e all’esistenza di svariati luoghi di
aggregazione, comprese sale da ballo e osterie105. A chi credere? Di

102
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp.166-167
103
S. Nannini, Le migrazioni e la colonizzazione, in “Le conquiste della terra”,
dicembre 1935, pag. 93
104
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 166
105
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 132

59
certo risulta troppo facile cavarsela dicendo “comunità” e basta. In
realtà sui concetti delimitativi ed i caratteri stessi che andrebbero
rigorosamente riscontrati prima di poter parlare a pieno titolo di
“comunità” gli antropologi e i sociologi non sembrano essersi messi
d’accordo. Per Mia Fuller, un’antropologa americana che nei suoi
studi si interessa proprio di fascismo e colonizzazione, «quando si
dice “comunità”, oggi si intende significare un gruppo che abbia
almeno un tratto in comune; ne basta uno, per esempio “gay”, oppure
“chi ha tale caratteristica genetica. Ovvero queste persone possono
non avere null’altro che le leghi, ma forse hanno o vogliono avere una
presenza politica. Nell’altro caso – quello di un quartiere, di una
cittadina, o di una classe sociale ed economica – c’è la massima
concentrazione di ambiguità, come se la parola “comunità” togliesse
le divisioni interne, le differenze di potere, di opportunità ecc. In
antropologia, grazie a Victor Turner, parliamo anche della
“communitas”, come “sentimento della comunità”, quale hanno ad
esempio i pellegrini che vivono e subiscono assieme il loro
pellegrinaggio. Quindi qualcosa di più limitato ed anche più preciso
nel tempo: esiste per un periodo breve e definito, e fra un gruppo che
è “gruppo” per quella occasione e basta. Poi ci sono le “imagined
communities” di Benedict Anderson che sono le nazioni, e anche
questo è uno strumento utile ma non esaustivo»106.

Nella “terra nuova” di regime la communitas si crea, e pure con un


forte senso di identità e di appartenenza. Scrive Pennacchi, nipote e
figlio di coloni veneti migrati a Borgo Piave, raccontando della
riscoperta di un forte senso di religiosità che in molti casi non era
presente nelle terre d’origine dei coloni pontini, che in molti hanno
operato una vera “riscrittura” della propria storia, personale e
familiare: «Eravamo i disperati. Quelli che non avevano niente da
perdere. Quelli che avevano, probabilmente, le peggio storiacce sui
pedigree. E qui ci siamo rifatti una verginità. Ci siamo riscritti la
storia. Guai quindi, per esempio, a chi diceva una parolaccia in casa
mia»107. Probabilmente la verità sta nel mezzo: stretti tra la volontà
isolazionista e dirigistica del regime e la politica degli interventi
diretti del partito nella vita dei suoi cittadini (basti pensare ai balilla,
alle varie organizzazioni giovanili e corporative, eccetera), i coloni

106
M. Fuller, cit. in A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce,
2009, p. 131
107
A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 143

60
sono riusciti a costruirsi da soli i loro spazi comunitari. Sembrerà una
battuta, ma a quei tempi la televisione non esisteva, non era ancora
nata e diventata il nuovo focolare domestico, altrimenti – chissà – la
presunta volontà isolazionista avrebbe avuto lavoro più facile.
Comunque sia, è il morbido potere del vissuto quotidiano che plasma
un territorio e chi lo vive: «L’uomo, – come raccontavano certe
apologetiche cronache di regime – metro per metro, metterà un
ordine familiare e umano, stabilendo le sue consuetudini di vita, il
geranio e la margherita davanti alla casa, e l’aiuola su cui disegna con
la ghiaia bianca le sue scritte di Evviva la Stella e il Fascio»108. Ma
non mancano i momenti di passaggio che hanno formato la
communitas: il “pellegrinaggio” di partenza, quello che li ha portati
dal deserto e dalla miseria delle terre d’origine alla “terra promessa”
del regime, ma anche – una decina d’anni dopo – il passaggio della
guerra per quasi sei mesi, dal gennaio al giugno del 1944, del fronte
Anzio-Nettuno, col suo carico di pene e sofferenze. In alcuni casi,
specialmente in taluni borghi, tracce di queste comunità originarie
rimangono strutturate ancora oggi, mentre nei comuni cittadini il
vortice dello sviluppo economico e dei flussi migratori ha portato una
situazione molto più stratificata.

Nonostante tutto, c’è generalmente nelle ex paludi un vago senso di


utopia, non intesa come “utopia fascista” – forse anche quella – ma
soprattutto il recupero di ricordi utopici ottocenteschi di comunità
appartate e perfette, come punti di origine di una nuova società.
Questa intenzione non è mai manifestata in maniera palese, né tra gli
scritti né tra i tanti discorsi, ma dall’assemblaggio dei punti salienti
dell’intera realizzazione esce l’immagine di un organismo con
particolari parentele, che a qualcuno può addirittura far venire in
mente l’idea del falansterio di Fourier. Mettiamoci ad osservare, per
esempio, la planimetria di una delle città nuove, come l’affascinante
Sabaudia, ma anche la ben più banale Pomezia o le altre, e vediamo
che si basa su un sistema geometricamente chiuso, come una specie
di borgo medievale. C’è sempre un nucleo centrale in cui sono
raccolte le “funzioni sociali”: comune, chiesa, casa del fascio,
associazioni combattentistiche, dopolavoro, scuola elementare, casa
del balilla, caserma della milizia e dei carabinieri, poste e telegrafo,
mercato, ospedale. A raggiera intorno al nucleo (città nuova) una
serie di “borghi” equidistanti dal centro comprensivi di chiesa,

108
C. Alvaro, Terra nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino, 2008, p. 21

61
scuola, poste, armadio farmaceutico. Tra il centro e i borghi una serie
di unità produttive costituite dai poderi che forniscono la materia
prima, di trasformazione e di scambio. I caratteri fondamentali di
questa “comunità” dovrebbero essere: il lavoro, la moralità, il
numero chiuso, in espansione ma come frutto della comunità stessa,
la mutualità dell’impegno, infatti i coloni devono prestare la loro
opera per interventi che riguardano l’intero nucleo, il recupero
sociale dei componenti “salvati” dalla crisi generata dall’urbanesimo,
un recupero che avviene grazie all’osservanza di rigide regole di vita.
Il momento di massima concentrazione resta il lavoro agricolo, il
ritorno alla “terra”109.
Tentativi di questo tipo non erano inediti, anzi ricordano cose già
avvenute nell’Inghilterra industriale e nell’America di fine Ottocento,
dove però il carattere religioso impregnava quasi tutte le iniziative
del genere. In ogni caso non si ricorda che esperienze simili abbiano
avuto successo. Anche nelle città utopiche di Owen gli operai
fuggivano dopo un po’ di tempo e comunque, se restavano per
convenienza, boicottavano sistematicamente l’apparato che li
ospitava. Nelle Paludi Pontine il caso diventa un po’ più paradossale:
il colono pontino non è come l’operaio di New Lanark, non ha mai
visto né immaginato l’inferno suburbano delle periferie industriali, è
già nato e cresciuto sulla “terra” o al massimo in una delle tante città
rurali italiane, quindi per lui la vita “insana” della città è una
grossissima tentazione e non certo un mostro da evitare. E però il
colono pontino, a differenza dell’operaio di qualche falansterio, non
può fuggire, così quello che gli rimane da fare è agire passivamente o
trascorrere la sua vita per mezzo di espedienti. La propaganda del
regime gli dice che lui sarà l’uomo nuovo della nazione e che da lui
nascerà la nuova razza, ma guardandosi intorno vede più che altro
tipi laceri e miseri come lui, allora quel che rimane da fare è
“reinventarsi” una propria memoria, basata sul senso di identità e su
una gratitudine, quasi “sentimentale” rispetto a quel fascismo che
tutto ciò ha permeato110.
Nel frattempo, le autorità e la propaganda ufficiale continuano a
sostenere che in Agro Pontino si realizza la «prima grande esperienza
in grande stile di un popolamento selezionato, esperienza che non ha
mancato di sollevare gli interessi degli studiosi di eugenetica»111. Solo
che gli studiosi di eugenetica – in quel periodo pericolosamente in

109
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp. 170-173
110
Ivi

62
voga – rimarranno molto delusi dalla riuscita dell’esperimento,
primo perché non ci fu nessuna selezione se non di tipo politico,
secondo perché la prolificità dei coloni appena giunti sul posto ebbe
un brusco arresto112.

Ora, la voglia di creare una sorta di “villaggio utopico” è tutt’altro che


campata in aria. Gli indizi ci sono, a cominciare dall’abolizione delle
classi con l’istituzione delle corporazioni stabilita del regime, ed è
plausibile pensare che Mussolini, mirando a una forte espansione
imperialista, cercasse un metodo di trasformazione sociale da usare
in situazioni successive, e in questo l’Agro Pontino assume un
considerevole valore sperimentale. Uno delle parole d’ordine della
politica del regime e della sua opera di modellizzazione sociale era la
“piccola proprietà”. La piccola proprietà che era già stata uno dei
cardini di una soluzione teorica di “riforma sociale” destinata a
essere ripresa a più ripetizioni e in salse diverse: quella di Frédéric Le
Play a metà dell’Ottocento. Una riforma che mirava all’abolizione
della lotta di classe, all’introduzione di un nuovo “ordine morale” di
tipo cattolico, al ripristino della centralità dell’istituto della famiglia,
a sua volta sottoposto all’autorità sociale113. Questo progettò ebbe una
vastissima eco nell’Europa industriale e intrigò anche quelli che mai
si sarebbero detti reazionari. Di certo, fu sempre utilizzato
parzialmente e – guardacaso – sempre con finalità antiurbane e
reazionarie. Uno degli strumenti per la realizzazione di questo ordine
suburbano e morale era, secondo Le Play, la “casa con giardino”.
Nella casa individuale si ricostruisce la famiglia e l’autorità paterna,
nella cura del piccolo orto si ricompone il perduto senso della
proprietà, nei due elementi – casa e orto – rinasce la morale. Fu
questo l’alibi teorico, funzionale a ideologie diverse nel tempo e nello
spazio, per le operazioni di “colonizzazione suburbana” riservate alla
piccola borghesia114.

Sta di fatto che, da un certo momento in poi, l’Agro è diventata


un’opera “da mantenere”, anche in senso finanziario, ad ogni costo.
Un’opera che assume un carattere quasi esclusivamente politico per

111
S. Nannini, Le migrazioni e la colonizzazione, in “Le conquiste della terra”,
dicembre 1935, p. 93
112
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 167
113
F. Le Play, Famiglia e sviluppo sociale, 1981
114
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp. 172 - 173

63
l’estero e ideologico per l’interno. La propaganda del regime
all’interno del Paese si basava su un largo impiego di immagini
fotografiche accuratamente selezionate, presente un’esaltazione
anche fisica del ruolo del capo, ecco Mussolini a mensa con gli
operai, Mussolini a torso nudo che trebbia il grano, Mussolini sul
trattore che traccia il solco del perimetro di Aprilia – poi uno dice il
presidente operaio – il tutto a corredo di centinaia di articoli
ovviamente d’elogio ma sempre molto generici115: mai si trova un
pezzo pertinente sull’architettura delle città nuove, sulla loro
struttura, non diciamo su eventuali difetti dell’organizzazione ma
perlomeno su suggerimenti da parte dei coloni, anzi le famiglie
coloniche sembrano scomparire dall’orizzonte della visibilità, come
mute comparse sulla scena116. A conti fatti, si trattava comunque di
un successo del regime. Pure il socialista Sandro Pertini non si
trattenne dall’ammettere che negli anni Trenta «Mussolini progettò
la bonifica e riuscì a far crescere il grano dove prima c’erano paludi e
malaria. Fu una grande opera, sarebbe disonesto negarlo. Ricordo
che il mio amico Treves era preoccupato: Sandro, mi diceva, se
questo continua così siamo fregati»117. Molta era anche l’attenzione
dell’estero: l’anti-urbanesimo in chiave italiana interessava a molti.
D’altronde il momento coincideva con la fase in cui in tutto il mondo
capitalistico si accentuava la ricerca pratica e teorica su criteri che
fossero una via di mezzo tra liberismo e pianificazione, sulla linea
tracciata dai piani regionali agricoli e industriali della Gran Bretagna
e della Germania, dai centri urbani minerari della Ruhr, delle nuove
città industriali in Unione Sovietica, primi passi verso il
decentramento urbano.

Passi che si affrettano anche nel regime italiano, col passare del
tempo. Alla fine degli anni Trenta si parla di borgate suburbane con
tutti i servizi della città, quartieri autonomi ubicati a qualche decina
di chilometri fuori dal centro urbano e ad essi collegati con mezzi di
trasporto, diametralmente all’opposto dell’esaltazione precedente
della vita rurale e delle casette con podere. Passati i tempi in cui
Pontinia veniva orgogliosamente presentata come il Comune che
«non avrà bellurie, non avrà fregi, statue, colonne; non avrà sale da
gioco, e ritrovi notturni. A Pontinia la notte si dormirà perché il

115
S. Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, 2003, p. 253
116
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 183
117
C. Gregoretti, Conversazione con Sandro Pertini, in “Epoca”, 23 marzo 1984

64
giorno si lavora e la sera si è stanchi. Non avrà vetrine scintillanti,
con cappellini per signore più o meno improvvisate, profumi e
rossetti esotici: il paese è sorto sul presupposto che nessuno
comprerebbe di codeste cianfrusaglie»118. Tra la fine degli anni
Trenta e l’inizio dei Quaranta, mentre il Paese si avvia nella
catastrofe della guerra e il regime continua a costruire alcuni villaggi
rurali nei latifondi del Meridione, non c’è dubbio che le paludi
pontine siano ormai lontanissime, come un sogno infantile, ora si
chiedono «borgate satelliti, che vogliamo spaziose e ridenti, in cui
l’operaio, il capo-officina, l’ingegnere stanno ancora a contatto di
gomito»119. Così il fascismo passa dalla terra alla borgata di periferia,
pur senza abbandonare l’ordine autoritario e patriarcale. Gli ultimi
anni del regime vedono un ritorno del fascismo nelle città con una
lunga serie di sventramenti urbani e risanamenti, oltre che con la
creazione di borgate e villaggi nelle immediate corone urbane di tutto
il paese, con la netta caratterizzazione della città divisa in centro e
periferia120. La vera data di nascita della maggior parte delle periferie
urbane in Italia è appunto riferita a questo periodo. Quelle stesse
borgate su cui, negli anni della Repubblica che verranno dopo la
guerra, uno come Pasolini si dannerà l’anima. A Roma, in seguito agli
sventramenti di vecchi quartieri nel centro storico, intere porzioni di
popolazione, spesso sottoproletaria, vengono deportate d’autorità
nelle prima periferie. Questo vuole essere lo spazio della nuova
“grande classe media”121. La soluzione prospettata contro
l’affollamento urbano è quella delle borgate e città-satellite, ovvero
spostare le città verso la campagna, far diventare la campagna uno
spazio suburbano. In testa sempre il mito campestre e paesano da
non abbandonare. Nel 1940 in un ennesimo articolo “Contro la città”
sulla rivista Critica fascista si legge: «Per sfollare le grandi metropoli
bisogna attirare in campagna anche le medie classi cittadine. Occorre
creare villaggi semirurali, situati sulle grandi arterie ferro-tramviarie,
alla periferia di una grande città, per una distanza non superiore ai
50 km e non inferiore ai 10 o ai 15, altrimenti sarebbero presto
assorbiti dall’espansione delle metropoli. Queste borgate, destinate

118
Autore ignoto, Ruralità di Pontinia, in “La Tribuna”, 20 dicembre 1934
119
A. Melis, Funzione sociale dell’urbanistica e limiti dell’urbanistica, in “Critica
Fascista”, 1 maggio 1942, p. 111
120
A. Cederna, Mussolini urbanista. Lo sventramento di Roma negli anni del
consenso, 1979, p. 85
121
R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 245

65
agli operai specializzati, ai capi tecnici, alle famiglie di impiegati e
anche di professionisti, avrebbero un duplice scopo: anzitutto di
sfollare le grandi città e far godere alle famiglie quei vantaggi che
sono proprio della vita cittadina e campestre»122.

Il Duce, comunque, aveva davvero preso a cuore l’impresa della


“terra nuova” pontina: controllava l’andamento, si faceva inviare
dispacci, interveniva sui progetti degli architetti, faceva improvvisi
sopralluoghi nei cantieri, a ogni ora del giorno. Come Berlusconi da
giovane, quando andava a controllare alle 5 di mattina che il
giardiniere avesse annaffiato l’erba dei prati a Milano Due.

7. Benvenuti a Strapaese

La città nuova fascista ormai realizzata, con l’intonaco fresco sui


muri appena tirati sù, offriva, alle soglie della guerra, agli occhi di chi
la visitava fuggevolmente e di chi veniva ad abitarla, un’immagine
che probabilmente oggi è avvertibile solo a sprazzi, a brandelli. C’è
stata la guerra, c’è stato soprattutto l’impetuoso e disordinato
sviluppo dei decenni successivi, e i mutati indirizzi produttivi: tutto si
è allargato a macchia d’olio, una macchia informe. Eppure questa
immagine resiste ancora oggi, e racchiude il cuore di tanta ideologia
italiana, non solo a Littoria poi diventata Latina. E’ l’eterna – e
trasversale – immagine dello Strapaese. Il ciclico incantesimo dello
spirito del luogo (genius loci, per dirla in latino), il mito di ciò che è
caratteristico, la vera vita di soggetti portatori di ordine e onestà.
Questa immagine è già il portato specifico del modello concettuale
che ha pianificato, progettato ed eseguito la maglia poderale, la rete
dei borghi e dei centri urbani, i criteri di selezione dei coloni, la
gestione del loro esodo e delle loro vite, insomma l’operazione Agro
Pontino nel suo complesso. Di più, essa può costituire un vero e
proprio vanto del fascismo, come fatto arci-italiano,
miracolosamente al di fuori del fervido dibattito sulla città funzionale
ed anche da ogni contatto con le parallele esperienze condotte
oltralpe. Nella città nuova si celebra, difatti, il trionfo dell’inesausta
genialità provinciale, protagonista di quella rivoluzione conformista
la cui capitale è lo Strapaese, «e Strapaese non si trova in Europa, ma
in Italia, nell’antica giovanissima Italia delle tradizioni e delle

122
C. Manetti, Contro la città, in “Critica Fascista”, 15 agosto 1940, p. 31

66
trasformazioni»123. Insomma tutto qui rimanda all’esaltazione della
cultura rurale e municipale, a Longanesi, Maccari e Malaparte, «al
vino buono e soprattutto nostrale», al genius loci e
contemporaneamente ai difetti italiani assunti come limite e come
forza, al selvaggio (allora fascista) che tira cazzotti intellettuali alla
modernità. Lo Strapaese è un movimento culturale ed artistico,
sviluppatosi in Italia dopo il 1926, di natura patriottica e a difesa del
territorio nazionale. Ma l’insegna di Strapaese, piuttosto sterile sul
piano letterario, si è trasformata nell’elemento portante della vicenda
delle città di fondazione del Ventennio e poi, sotto diverse maschere,
in tanta parte dell’architettura ideologica nazionale. «Strapaese è
stato fatto apposta per difendere a spada tratta il carattere rurale e
paesano della gente italiana; vale a dire l’espressione più genuina e
schietta della razza, l’ambiente, il clima e la mentalità ove son
custodite per istinto e per amore, le più pure tradizioni nostre.
Strapaese si è eletto baluardo contro l’invasione delle mode, del
pensiero straniero e delle civiltà moderniste, in quanto tali mode,
pensieri e civiltà minacciano di reprimere, avvelenare o distruggere
le qualità caratteristiche degli italiani, che nel travaglio
contemporaneo debbono essere l’indispensabile base e l’elemento
essenziale; come sono state, se si pensi, le impareggiabili nutrici del
genio, dell’arte e dello spirito»124. C’è un aspetto anche violento dello
Strapese e dell’arcitaliano che oggi è implicito ma allora era esplicito
e rivendicato: «Ormai l’Italia è messa bene / ve ne potete andare a
letto / ma rammentar sempre conviene / che la fortuna va presa di
petto. / Mogli briache e botti piene / a Strapaese non fanno difetto: /
qui ci sono legni per tutte le schiene / legni d’olivo benedetto. / A
raddrizzar le gambe ai cani / bastano ormai gli Arcitaliani» 125. La
dimensione strapaesana rimane il dato più evidente comune a tutte
le città nuove, dove la ruralità viene realizzata per trasposizione, cioè
ruralizzando un’immagine cittadina profondamente radicata nella
storia italiana, quella della gloriosa città stato comunale, rozzamente
rivisitata dall’ideologia fascista126. Tutto ciò, che in anticipo sui tempi
si sarebbe già potuto definire come “immaginario nazionale”, era già

123
C. Malaparte, Strapaese e Stracittà, in “Il Selvaggio”, 10 novembre 1927
124
M. Maccari (sotto pseudonimo di Orco Bisorco), Gazzettino ufficiale di Strapaese,
in “Il Selvaggio”, 1 settembre 1927
125
C. Malaparte, L’arcitaliano e tutte le altre poesie, 1963, p. 19
126
L. Nuti, R. Martinelli, Le città di Strapaese. La politica di fondazione del
Ventennio, 1981, pp. 156-157

67
percepibile agli occhi dello scrittore Corrado Alvaro che in suo
libretto-reportage dall’Agro Pontino appena bonificato, pubblicato
nel 1934 dall’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, intitolato Terra
Nuova, notava con un certo lirismo che «i borghi nuovi e non ancora
in vita sembrano costruzioni di ragazzi posati su un tappeto verde;
quelli già popolati acquistano subito color di paese, riproducono
angoli di villaggi veduti altrove, e costruiti dalla frequentazione lunga
degli uomini, e che sono il paesaggio fisso della vita campestre. Chi
ricorda l’Emilia, la Romagna, il Veneto, specie il Veneto ricostruito
dopo la guerra, ne ritrova qui lo schema; il senso è lo stesso, quello
l’aspetto, e l’uomo ha reso vecchio questo paesaggio nuovo imposto
alla natura in un anno»127. E ancora: «E’ l’utopia dell’Italia di piccoli
proprietari divenuta fatto vivo: difatti in questo lembo di terra nasce
un nuovo ordine, si tenta una costituzione umana che ha più d’un
punto di contatto coi sogni di tutti i pensatori che fantasticano su uno
Stato ordinato, senza servi né padroni, la comunità che assorbe gli
individui e tuttavia non ne fa un numero»128.

Oggi le strade dell’Agro, intorno a Latina, sono un reticolo di cardi e


decumani che si incrociano nel deserto dei campi. «La sera qui c'è
poco da fare, puoi solo annaffiare le piante», mi dice la cassiera di un
bar, in una di queste strade di pianura vagamente metafisiche, tra le
serre di pomodori e i saloni di abiti da sposa e gli stabilimenti
chimici, mentre tutt’attorno potrebbe risuonare una ballata country.
Sembra, a vederla, una versione contadina dell’idea eterna di
periferia: una modernità perennemente fuori tempo, come una
giacca da matrimonio con il cartellino del prezzo ancora attaccato
alla manica. Un certo genio del luogo si sente ancora, sarà
l'architettura di travertino e mattoni, oppure i tombini sul corso coi
littori di ghisa. A qualcuno magari non dispiacerebbe farla diventare
una specie di Disneyland del fascismo, coi pellegrinaggi, l’indotto,
sarebbero anche maturi i tempi. Le cronache dei giornali sollevano in
maniera sempre più forte il problema delle infiltrazioni criminali nel
tessuto sociale ed economico della zona. L’Agro Pontino di domenica
è un deserto con pochi alberi in cui regna un silenzio irreale. Voci dai
ristoranti prenotati per le prime comunioni e folle di auto in fila per
entrare nei centri commerciali sempre in espansione. Viene in mente
una scena di “Latina/Littoria”, documentario del regista Gianfranco

127
C. Alvaro, Terra nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino, 2008, p. 38
128
Ivi, p. 40

68
Pannone girato nel 2001, un dialogo tra lo scrittore Antonio
Pennacchi e un amico librario nel suo negozio, proprio dentro uno di
questi centri commerciali di recente costruzione, uguale a tanti altri,
affollato come tutti. Pennacchi invoca, come al solito, il ritorno alla
purezza dell’architettura di fondazione, al razionalismo e al mito
fondativo, all’identità perduta della città. Il libraio indica con una
mano il panorama attorno a loro, che in fondo potrebbe essere lo
stesso di una qualunque città italiana, e gli risponde: «Anto’, questo
che vedi invece è perfettamente coerente con Latina. La Latina che
dici tu non c’è, è rimasta solo l’architettura. Latina è una produzione
Mediaset. Questa è Latina».

69
70
CAPITOLO 3
Là dove c’era l’erba ora c’è una città

So’ tanti che vengono a fà ricerche sulle borgate,


e io je dico sempre famo a cambio…
si volete capì qualcosa delle borgate,
ce venite a stà du’ anni e io me trasferisco a casa vostra.
Walter Siti, Il contagio

71
72
1. Via Gluck

Là dove c’era l’erba ora c’è una città. Riascolto quel vecchio ritornello
e me ne accorgo. Come è andata la questione, a livello pop, era già
stato detto, mentre la trasformazione era ancora in corso, oltre
quarant’anni fa da Adriano Celentano, nel Ragazzo della via Gluck,
canzone che dichiarava lo spaesamento di chi vedeva tutto cambiare
nel breve volgere di pochi anni. Come ha spiegato l’architetto e
scrittore Gianni Biondillo, erano gli anni della ricostruzione
postbellica e tutto, da quel momento, non sarebbe stato più come
prima. Anche Celentano era lì, nel mezzo della più grande
trasformazione sociale e urbana degli ultimi tempi, e non capiva. E
come al solito, quando non si capisce si diventa nostalgici, si
vagheggia un passato bucolico. Un altro cantautore, suo coetaneo e
amico, se ne uscì con un’opinione più razionale e ironica. Giorgio
Gaber, con la sua Risposta al ragazzo della via Gluck, narrava di un
ragazzo che non trova un appartamento con un fitto bloccato in cui
poter andare a vivere con la sua ragazza, perché hanno demolito una
casa per farci un prato. Dove andrò a dormire, si chiede il ragazzo,
che ce ne facciamo dei prati se non abbiamo un tetto dove ripararci?
La storia della musica leggera, e l’immaginario collettivo, hanno
adottato Celentano, e la sua canzone è rimasta nella memoria più di
quella di Gaber. Peraltro è innegabile che fosse anche più bella, la
canzone del molleggiato. Ma la ragione ce l’aveva Gaber 129. Il
laboratorio della mutazione urbana si era già avviato dall’Ottocento e
dalla rivoluzione industriale, coi milioni di persone che dalle
campagne si spingevano verso i bordi delle città, spesso in condizioni
esplosive per l’igiene e l’equilibrio sociale, questo dapprima in
Europa e poi, solo in parte, nel nostro Paese. Ci si era, dunque, già
esercitati a pensare una città nuova, e in molti casi a realizzarla. Da
noi ci si cullava ancora con lo strapaese e la stracittà, provinciale e di
regime, con gli elogi della vita rurale. Ma il secondo dopoguerra, in
Italia come nel resto d’Europa, rappresentò una stagione ancora più
dirompente dal punto di vista dell’urbanizzazione. C’era da rimettere
in piedi un continente e con esso l’intera produzione industriale,
c’era da rimettere in moto la macchina. In Italia le migrazioni verso
l’estero o verso il Nord del Paese furono di dimensioni bibliche. C’era
129
G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, pp.15-16

73
anche da fare i conti, in prospettiva, con uno sviluppo dei mezzi di
comunicazione che avrebbe cambiato la percezione delle masse, dello
spazio e del tempo. «L’Italia si rimpicciolì, e mentre cambiava il
senso dello spazio cambiava anche la sua misura»130. Ma prima di
tutto questa gente, che voleva lavorare, uscire dalla miseria, dare un
futuro ai figli, aveva bisogno di case. E subito.

È legittimo chiedersi se il modo in cui questa fame di ricostruzione fu


appagata sia stato il migliore, ma non possiamo chiederci, con
Celentano, come mai continuassero a costruirle, quelle case. Perché
prima ancora una larga e povera fetta di popolazione viveva in tuguri,
senza servizi igienici, spesso in baracche di fortuna popolate di
migranti dalle campagne, perché i centri storici, ora così amati e
ricercatissimi dalla borghesia, erano ancora posti cupi e sovraffollati,
dove si stava in dieci in una stanza, perché le campagne, oggi
rimpiante sotto forma di agriturismi da frequentare nei weekend,
erano luoghi di fatica immane, di fame, di scorbuto, di pellagra. Si
poteva fare meglio certamente, e in alcuni casi lo si è fatto,
soprattutto nel Nord Europa, ma si poteva fare anche peggio, e
purtroppo lo si è fatto, non a caso soprattutto da noi, in Italia. Ma la
volontà che stava a capo del cambiamento epocale del territorio e
dell’urbanizzazione nazionale era, almeno in teoria, quella di dare
una risposta che risolvesse i problemi contingenti di milioni di
persone, cercando al contempo di elevare la loro socialità, di crearne
una nuova. Il tutto sulla base dell’utopia di un inarrestabile cammino
verso il progresso che avrebbe scalzato definitivamente l’arretratezza
economica insieme a tradizioni eccessivamente ancorate a uno
spazio. Quell’utopia ha una regia forte, all’inizio: lo Stato nazionale.
Qualcosa di somigliante, nelle intenzioni, a un solidarismo di matrice
socialdemocratica che portasse alla costruzione di un welfare state,
minato poi nella realtà da un’insopprimibile spinta all’individualismo
più egoista, alla cronica e – per l’appunto – strapaesana arte di
arrangiarsi.

È un crollo la scena che da inizio al film capolavoro di Francesco


Rosi, Le mani sulla città, anno 1963, con lo spregiudicatissimo
costruttore e politico napoletano che specula sui cambi di
destinazione d’uso dei terreni, poi guarda il cemento ed esclama:

130
E. Galli Della Loggia, Ideologie, classi e costume, in V. Castronuovo (a cura di),
L’Italia contemporanea, 1976, p. 416

74
“Quello è l’oro, oggi!”. A partire dagli anni Cinquanta le città italiane
diventano teatro di un’attività edilizia che non ha precedenti nella
storia del Paese. La ricostruzione sulle macerie della guerra,
l’espansione demografica della popolazione e le forti migrazioni
interne da Sud a Nord e da campagna a città, tutto contribuiva a
creare una domanda poderosa di nuove abitazioni. Nei primi anni del
dopoguerra circa un quarto degli italiani viveva ancora in case sparse
o in piccole frazioni esterne agli ottomila comuni, spesso in situazioni
di povertà estrema131. Poi il processo di urbanizzazione trasforma il
volto della penisola, nei quindici anni che vanno dal 1955 al 1970
cambiano residenza 17 milioni di italiani. Gli spostamenti avvengono
prevalentemente dal Mezzogiorno verso il triangolo Milano-Torino-
Genova, dalle zone interne verso la fascia costiera, dai centri minori
verso le città più grandi132. Nell’immaginario collettivo, il progresso
stesso della nazione a un certo punto si identifica con l’attività
edificatoria, con la cancellazione di campi e colline e l’avanzare del
cemento, la crescita veloce di edifici e quartieri. D’altra parte, c’è una
ragione politica generale che favorisce il fenomeno. Costruire case
genera consenso politico: è un’attività che crea occupazione, sostiene
la crescita economica generale attraverso l’indotto, fa arricchire le
potenti famiglie dei costruttori e dei detentori di suoli in grado di
movimentare consistenti pacchetti di voti nelle campagne elettorali.
Il partito della Democrazia Cristiana, che si trova a detenere un
potere sovrastante nel governo del Paese, non guarda certo per il
sottile nella raccolta del consenso, tanto al centro quanto in periferia.
Ed ecco che dodici anni dopo quel film, tra i capi d’accusa che Pier
Paolo Pasolini imputava al partito democristiano, c’era appunto «la
distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia»133. Ma non dovette
servire a molto quel processo mai celebrato. Con particolare gravità
l’opera di manipolazione del territorio si accanisce da Roma in giù,
nelle regioni meridionali del Paese. L’impresa edile assicura un
mercato sicuro e lucroso, necessita di manodopera generica, si nutre
della benevolenza di politici e amministratori. Insomma il laterizio, il
foratino, quindi il blocchetto e pure il tondino del consenso
contribuiscono – dai primi anni della Repubblica – non solo alle
distorsioni dello sviluppo economico, ma anche a quelle del comando

131
P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli
anni ’50, 2001, p. 164
132
V. De Lucia, Se questa è una città, 2006, p. 73
133
P. P. Pasolini, Lettere luterane, 2009, p. 127

75
politico e dell’autorità istituzionale, in un intreccio di mancati
controlli, orrori e disastri del territorio, speculazioni, bustarelle e così
via.

2. I piani Ina Casa e il neorealismo

C’era un’intera nazione da ricostruire e una popolazione senza lavoro


nel dopoguerra. Anche a questo servirono i piani Ina Casa, ovvero il
più consistente piano di edilizia pubblica che fino ad allora l’Italia
avesse conosciuto. Costruire case e dare lavoro a un popolo, con una
manovalanza spesso fatta di contadini inurbati, senza competenze
edili particolari. Energicamente varati dal Parlamento nel febbraio
1949, in particolare grazie alla spinta dell’allora giovane ministro dei
Lavori Pubblici Amintore Fanfani, con lo scopo di dare un’abitazione
dignitosa e riscattabile ai lavoratori e al tempo stesso provvedere alla
mancanza di occupazione. Ebbene, i piani Ina Casa – da molta
stampa ribattezzati anche “piani Fanfani” – furono uno dei più
grandi successi della Ricostruzione: due milioni di vani, 355mila
alloggi resi disponibili in poco più di dieci anni, perdipiù senza
particolari scandali, bardature burocratiche o notizie di ruberie134. In
Italia esisteva dall’inizio del XIX secolo un’istituzione pubblica con lo
scopo di far fronte appunto al problema della casa, l’Istituto Case
Popolari, però alla fine del secondo conflitto mondiale si ritenne che
l’Icp fosse insufficiente ad affrontare il pesantissimo problema della
ricostruzione e si creò un istituto apposito: l’Ina Casa. Esso non fu
certo organizzato come un ufficio tecnico di un ente assicurativo, da
cui prendeva il nome, ma come un’originale e completa struttura
incaricata dell’attuazione di veri e propri piani di urbanizzazione
popolare. Inizialmente il progetto prevedeva una durata settennale,
ma successivamente venne prorogato fino al 1963. Per finanziarlo
furono usati i fondi dei programmi di ricostruzione europei e delle
apposite trattenute su salari, stipendi e compensi dei lavoratori.
Questa complessa struttura mobilitò un grande numero di neo-
laureati, studenti, giovani ingegneri, architetti, geometri, impresari
eccetera, a dirigere i quali fu chiamato l’affermato architetto e
docente universitario Arnaldo Foschini. Nel deprimente panorama
dell’azione pubblica in materia di edilizia – tra centinaia di enti
corporativi, leggi confuse e di breve durata, legami mai troncati con

134
C. Giustiniani, La casa promessa, 1981, p. 82

76
la speculazione fondiaria – l’esperienza Ina Casa si distinse
positivamente135. I dati del piano, individuati da pubblicazioni in
materia, mettono in evidenza la grande vitalità e l’impatto sulla vita
economica e sociale del Paese. Infatti, solo pochi mesi dopo
l’approvazione della legge, nell’estate del 1949 verrà aperto il primo
cantiere, dei 650 che risulteranno aperti nell’autunno dello stesso
anno. Il ritmo di costruzione della macchina dell’Ina Casa sarà
estremamente efficiente, e con la sua entrata a regime produrrà circa
2800 unità abitative a settimana con la consegna sempre settimanale
di circa 550 alloggi alle famiglie assegnatarie. Nei primi sette anni di
vita verranno investiti complessivamente 334 miliardi di lire per la
costruzione con 735.000 vani corrispondenti a 147.000 alloggi. Alla
fine dei quattordici anni di durata i vani realizzati saranno, invece, in
totale circa 2.000.000, pari a 355.000 alloggi. Il piano Ina Casa alla
sua scadenza avrà aperto 20.000 cantieri che porteranno, come era
negli intenti dei legislatori, ad impiegare la manodopera stabile di
circa 41.000 lavoratori edili all’anno, che da soli assorbivano il 10%
delle giornate-operaio dell’epoca136.

L’Italia fu, in buona parte, ridisegnata, con l’ausilio delle migliori


menti dell’architettura nazionale che progettarono consapevoli di
avere a disposizione un comparto edile profondamente arretrato e
artigianale. Furono costruite case isolate nei piccoli centri e sorsero
nelle grandi città i primi “quartieri” veramente moderni: a Torino, a
Milano, a Bologna, a Firenze, a Genova, a Roma, a Napoli, a Palermo,
riuscendo a offrire standard tecnici fino ad allora impensabili per
l’edilizia popolare. Quella creata coi piani Ina Casa appare a urbanisti
e architetti italiani dell’epoca la prima vera occasione di creazione
urbanistica, e i quartieri in costruzione vengono illusoriamente visti
come parti utili a contrastare un incontrollato e informe processo di
crescita urbana, composto da una miriade di singoli episodi edilizi.
Valore generale è attribuito all’unità quartiere non solo per il suo
essere un grande materiale urbano per la ricostruzione delle città
italiane, ma per essere anche, con le sue case, servizi, spazi aperti,
qualcosa di più di una parte di città in espansione: esso è unità

135
De Lucia, Se questa è una città, 2006, p. 80
136
P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli
anni ’50, 2001, pp. 15-18

77
sociale, ambito di formazione e vita di comunità di cittadini. Come
una sorta di isola utopica137.
Le periferie italiane proposero ai cittadini uno “stile” inconfondibile
che non si tardò a indicare proprio con il nome dell’Ina Casa.
Un’architettura “democratica” che voleva contrapporsi alla
monumentalità e simmetria dell’architettura dell’epoca fascista. Così
nacquero quartieri spesso anacronistici, quasi come se dalla
campagna quelle case non riuscissero a raggiungere la città, ma
rimanessero profondamente “paesane”. Una rilettura “rurale” del
moderno, in alcuni casi miracolosa. Come a Roma, al quartiere
Tiburtino (1949-54) di Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi. Le stesse
case che Pasolini definisce «altari della gloria popolare» in una sua
poesia138, un’architettura apparentemente “spontanea”, “casuale”, in
realtà disegnatissima in tutti i suoi particolari, inserita in un legame
stretto con la tradizione, che portava ad una reinterpretazione dei
temi razionalisti basata sulla coerenza compositiva e sulle
interpretazioni sociologiche. O come a Cesate (1950-54), un quartiere
alle porte di Milano, pensato dai migliori architetti allora disponibili
sulla piazza meneghina, come Franco Albini, lo studio BBPR, Enrico
Castiglioni, Ignazio Gardella, un complesso edilizio ordinato e
organico di nuclei unifamiliari raggruppati in gruppi di case con
spazi comunitari comuni, poi sommerso dal nulla edile che, negli
anni a venire, dalla città l’ha raggiunto e avvolto139.

Insomma, l’allora ministro del Lavoro riuscì prodigiosamente a


combinare San Francesco e Lord Beveridge, come a dire l’ispirazione
cristiana a favore dei poveri con il keynesismo di stampo
anglosassone che fondava il moderno Welfare State. «Intesi il piano
casa – proclamò Fanfani qualche anno dopo in Parlamento – come
un vincolo rinnovato di solidarietà, un invito ai senza tetto a
riconciliarsi con la società che li attende operosi, controllori e attori
della sua vita e del suo progresso»140. D’altronde Fanfani era un
aperto sostenitore dei modelli corporativi in economia, compresi
quelli promulgati a suo tempo dal regime fascista, intesi come una
terza via, l’espressione di un volontarismo economico con richiami di

137
Ivi, pp. 21-22
138
P. P. Pasolini, Le poesie, 1975, p. 339
139
G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, p. 69
140
F. Ceccarelli, Il sistema del mattone, in “La Repubblica”, 9 dicembre 2008

78
matrice cattolica che si opponesse sia al capitalismo concorrenziale
che al collettivismo comunista141.

Quella dei piani Ina Casa era un’architettura di matrice neorealista,


che in un certo senso voleva riflettersi nel suo popolo minuto,
dignitoso, umile, con l’ispirazione di tenere assieme una comunità
nazionale con una sensibilità che sembra insieme paternalistica e
populistica. Ripensarci oggi è come fare un salto in un passato che
pare remoto. Come scrive Gianni Biondillo nel suo Metropoli per
principianti, «l’architettura neorealista era un po’ come l’angelo della
storia: si muoveva verso il futuro con lo sguardo pietoso rivolto al
passato. Ma un passato non aulico, magniloquente, accademico.
Quello che cercava di recuperare era la ricchezza del deposito
millenario della cultura popolare, umile, quotidiana. Inconsapevole
di raccoglierne gli ultimi segni, prima della rivoluzione sociologica
del boom economico, quella della “omologazione” pasoliniana»142.
Non si può non intravedere, in operazioni del genere, anche un certo
intento pedagogico. E ciò ci porta a constatare non solo, nella gran
parte dei casi, l’interesse di quelle architetture e di quegli spazi, ma
talvolta anche il loro degrado, l’incuria alla quale sono soggetti, la
frequente scorrettezza di inconsapevoli interventi di manutenzione e
modificazione da parte di abitanti e di amministrazioni pubbliche143.
Anche Paola Di Biagi, nel suo accurato studio sull’argomento,
sostiene che «l’esperienza dell’Ina Casa attraverso una “pedagogia
del disagio” ha contribuito a rendere gli italiani un po’ più
consapevoli che una vita decente in un quartiere urbano o
metropolitano non si ottiene solo acquisendo in proprietà la casa in
cui si abita. Invece non è riuscita, attraverso una pedagogia dei
rapporti sociali e politici, a convincere gli italiani che sia possibile
partecipare tutti alla costruzione e gestione dello spazio urbano,
sicché ne risultino salvaguardate le necessità e le convenienze di tutti
o almeno di una maggioranza. E non di pochi»144.

141
P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli
anni ’50, 2001, p. 46
142
G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, p. 69
143
P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli
anni ’50, 2001, p. 28
144
Ivi, p. 204

79
3. Corviale e l’ideologia

Un’altra risposta agli stessi problemi proverà a darla, tra gli anni
Sessanta e i Settanta, un’architettura di matrice ideologica. Che non
si accontenta di riflettersi nel “popolo” ma – in un certo senso –
pretende di volerlo “ordinare”, come in un’equazione algebrica.
Guardiamo quei palazzoni di periferia, macroscopici, elefantiaci,
quelli tutti in cemento a vista. Quelli dove ogni tanto qualche troupe
televisiva va, indignata, a fare servizi d’assalto sul degrado e la
criminalità. Quelli che, a detta di molti, sono un obbrobrio, la
sconfitta dell’architettura, la fine della civiltà. E tuttavia
riconosciamo in loro una complessità, una ricerca tipologica che se
non altro li eleva da tutto un piattume edile spesso circostante, molto
più orripilante ma meno roboante.
Per esempio il Corviale (1972-82), l’edificio lungo un chilometro di
Mario Fiorentino costruito ad ovest di Roma145. Pianificato perché
potesse essere autosufficiente, un villaggio autarchico lungo come
una stecca di cemento alta nove piani, con gli appartamenti che
fanno muro chiudendo la città dispersa per aprirsi alla campagna
romana. Si nota un certo che di utopistico andato in malora. Quello
che è uscito fuori è invece semplicemente un condominio deforme
per dimensioni, un “mostro” di un’originalità un po’ sinistra. Per
questa sua assoluta stravaganza, Corviale è apparso subito
ingovernabile. Come immaginare riunioni di condominio, pulizia
delle scale, manutenzione degli apparati, assegnazione dei posti
macchina?
Per esempio le Vele di Scampia (1962-75) progettate da Franz Di
Salvo146, pensate, tra enormi corpi di fabbrica e lunghi ballatoi
sospesi, come grandi unità abitative dove centinaia di famiglie
avrebbero dovuto integrarsi e creare una comunità, grandi vie di
scorrimento e aree verdi tra le varie vele; una vera e propria città
modello. Invece ecco che i giardini sono diventati il luogo di raccolta
degli spacciatori di droga, i viali sono piste per corse clandestine, gli
androni dei palazzi luoghi di incontro di ladri e ricettatori. Una
cittadella completamente fuori dal controllo della polizia, dello Stato.
Per esempio il complesso residenziale Monte Amiata al Gallaratese
(1969-73), tirato su come un gigantesco alveare dal progetto di Carlo
145
P. O. Rossi, I. Gatti, Roma, guida all’architettura moderna (1909-2000), 2000, p.
323
146
M. Magatti, La città abbandonata: dove sono e come cambiano le periferie
italiane, 2007, p. 85

80
Aymonino nella periferia nord-ovest di Milano147, con stecche edilizie
che si piegano e si intrecciano, gallerie sospese, tipologie di
appartamenti dai tagli differenti, corti interne, potenziali ma
inespressi spazi collettivi, cercando di riprodurre la vitalità di un
autentico spazio urbano ma ottenendo a distanza di anni spazi
tristemente vuoti e livelli bassissimi di socialità. Ingredienti
etichettati da buona parte dell’opinione pubblica e della critica
sociale sotto la definizione di “quartiere-ghetto”.
Per esempio lo Zen (1969-73), quartiere di edilizia popolare su
progetto di Vittorio Gregotti a Palermo148, che ormai da anni offre
sempre lo stesso paesaggio, fatto di carcasse d’auto abbandonate,
piccoli traffici, panni stesi alle finestre, latitanti mafiosi imprendibili,
un’umanità formicolante nel dedalo delle insule, come vengono
chiamati gli alveari sui quali si affacciano gli appartamenti. Una
spirale negativa che continua da quando, all’inizio degli anni Ottanta,
le case non ancora collaudate, senza acqua né luce, furono occupate
abusivamente. Le insule vennero spartite tra vari piccoli “boss” di
quartiere che poi trattavano direttamente col Comune. Dunque è
successo che, qui come altrove, per mezzo di dolorose contrazioni,
corruzioni e risurrezioni, il “mostro” ha dovuto produrre da se stesso
leggi inedite che riuscissero ad amministrarlo.

Cos’hanno praticamente tutti questi progetti, in comune? Corviale,


Le Vele, il Gallaratese, lo Zen, tutti questi macroprogetti (e molti altri
ancora) prevedevano nuclei di servizi pubblici, asili, parchi, negozi,
scuole, fasce verdi di rispetto, campi giochi eccetera che non sono
mai stati realizzati. Anzi, molto spesso, costruiti male, di fretta, e
appena edificati venivano occupati da gente disperata alla ricerca di
un tetto. Tutto ciò inevitabilmente porta degrado. Fa cedere di
schianto i freni su cui si regge il patto sociale, come
nell’agghiacciante romanzo di Ballard sul Condominio, che a un certo
punto viene visto dai suoi abitanti come «una specie di immensa
presenza animata che incombeva su di loro e teneva lo sguardo
autoritario fisso sugli avvenimenti»149. A questo proposito si
confrontano sempre due diverse interpretazioni. C’è stato chi ha
condannato questi esperimenti architettonici “ideologici” fin dalle

147
A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008,
p. 99
148
F. Fava, Lo Zen di Palermo. Antropologia dell’esclusione, 2008
149
J. G. Ballard, Il Condominio, 2003, p. 44

81
loro premesse. C’è stato invece chi ha sostenuto che la responsabilità
del fallimento andava attribuita alla loro incompiutezza: gli architetti
hanno progettato macchine grandiose e ambiziose e gli
amministratori del territorio le hanno abbandonate prima che
fossero finite. Ovvio che marciscano, come esserini partoriti
prematuri, senza avere tutti gli organi interni funzionanti.
Tra i primi, l’architetto Massimiliano Fuksas: «Secondo me Brasilia,
la capitale di Niemeyer, e il palazzo lungo un chilometro di Roma
sono figli della stessa logica. Anzi della stessa utopia: dare un ordine
al mondo, trovare un modello per il mondo. Ma nessuno di quei
modelli ha mai funzionato, né Corviale né lo Zen avrebbero mai
“funzionato”, nemmeno in presenza di tutti i possibili servizi sociali e
di quartiere, di tutte le certezze organizzative e di sicurezza. Il
problema è un altro: quando qualcuno desidera “fare ordine”
fatalmente aggiunge un nuovo danno al danno preesistente»150.
È vero. Ma chi è che non desidera fare ordine? Ognuno pensa che il
mondo, senza l’intervento della propria cultura e civiltà, sia in balìa
della violenza e dell’ingiustizia. E poi, come si fa a non essere
d’accordo sul fatto che se si realizza una macchina da corsa poi
bisogna arrivare fino in fondo e non lesinare sul motore? Altrimenti
bisognerebbe spiegare come mai, a differenza del nostro Paese, le
unités d’habitation di Berlino o di Marsiglia o la stecca edilizia del
Karl Marx Hof a Vienna sono considerate monumenti, con servizi
funzionanti e tetti giardino ben curati, con residenti di diversa
estrazione sociale, spesso affermati professionisti, che lì abitano
orgogliosi. Difficile stabilire chi abbia ragione151. La certezza è che
troppo spesso buone intenzioni progettuali in Italia vengono
frustrate dalla pratica. I nuovi quartieri senza servizi e strutture non
hanno nessuna possibilità di essere come sono stati pensati.
Diventano sobborghi, luoghi di confino, a loro volta piccole città
satellite slegate dal tessuto urbano. «Noi siamo il popolo dei grandi
eroici slanci, ma poi l’ordinaria manutenzione non la vuole fare
nessuno»152.

Queste macrostrutture abitative rappresentano comunque il


tentativo di un’idea urbana sicuramente ideologica, elefantiaca,

150
P. Conti, Fuksas: Periferie rovinate dagli urbanisti di sinistra, in “Corriere della
sera”, 6 luglio 2001
151
G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, p. 47
152
Ibidem

82
dispersiva. Eppure alternativa a un’altra opposta visione: l’idea della
polverizzazione sul territorio di microvillette autonome, quella che
deriva dal vincente mito abitativo statunitense ma che può portare al
collasso urbano. «Le metropoli smisurate del terzo mondo – scrive
Biondillo – non sono fatte di macrostrutture in cemento armato, o di
grattacieli di vetro, ma di una infilata infinita di cubetti
disperatamente identici e anomici, dove la socialità viene
completamente depressa»153. Se tentassimo una lettura a grande
scala di alcune aree della nostra penisola, avremmo la dimostrazione
di come l’edilizia pubblica possa essere interpretata anche con la
chiave di due differenti strategie di sviluppo insediativo:
concentrazione e dispersione. Per accorgersi che l’intervento
pubblico ha non solo favorito una crescita urbana compatta e per
parti, ma ha anche depositato sul territorio numerosi, limitati e
differenti frammenti154.

4. La speculazione e la commedia all’italiana

«Quinto reagiva sempre buttandosi dall'altra parte, abbracciando


tutto quello che era nuovo, in contrasto, tutto quel che faceva
violenza, e anche adesso, lì, a scoprire l'avvento d’una classe nuova
del dopoguerra, d’imprenditori improvvisati e senza scrupoli, egli si
sentiva preso da qualcosa che somigliava ora a un interesse
scientifico (“assistiamo a un importante fenomeno sociologico, mio
caro...”) ora a un contraddittorio compiacimento estetico. La
squallida invasione del cemento aveva il volto camuso e informe
dell’uomo nuovo»155. È così che lo scrittore Italo Calvino, negli anni
Cinquanta, raccontava l’irresistibile malia della speculazione edilizia
all’italiana in un suo racconto. Il protagonista Quinto, giovane
intellettuale, lasciando in secondo piano il suo impegno, si mette in
affari, per sentirsi al passo coi tempi; così diventa socio di un
impresario di cattiva fama dedito alla speculazione edilizia,
collaborando ad ingrigire lo spettacolo paesaggistico del suo paese
sulla riviera ligure. I tempi sono quelli di «bassa marea morale»156,
per dirla ancora con Calvino, i tempi dell’industrializzazione italiana

153
Ibidem
154
P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli
anni ’50, 2001, p. 10
155
I. Calvino, La speculazione edilizia, 2000, p. 27

83
a passi svelti, che in cambio di un benessere minimo ha spesso
devastato l’anima dei luoghi e delle persone. Negli anni Cinquanta e
Sessanta si costruiscono in Italia oltre 20 milioni di vani, da
confronti con altre nazioni si rileva che il nostro è il Paese in cui più
si investe in abitazioni. Eppure, «più case si fanno più ce ne
vogliono», è questo il paradosso157. Le case ci sarebbero per tutti,
come confermano i dati del censimento. Nel 1971 ci sono in Italia 54
milioni di abitanti e oltre 63 milioni di stanze. Nel decennio 1961-71
la popolazione è cresciuta del 6,7% e il patrimonio edilizio del 33,8%.
Ma quasi un quarto del patrimonio esistente è inoccupato o
sottoutilizzato. Le case ci sarebbero per tutti, solo che costano
troppo, oppure sono lontane da dove ormai è costretta a vivere la
maggioranza degli abitanti, oppure sono seconde o terze case158.

La “riforma urbanistica” di cui ci sarebbe stato bisogno, e di cui tanto


si discusse in quegli anni, alla fine fu accantonata per l’insorgere di
un potente “blocco edilizio”. In esso si intrecciavano interessi
economico-speculativi consolidati, settori importanti del potere
politico ma anche aspirazioni e pressioni diffuse, alimentate da una
campagna di stampa che evocava paure di “nazionalizzazione della
casa” e mobilitava al tempo stesso desideri di possesso finalmente
realizzabili. Accantonata quella urbanistica così come molte altre
riforme, ciò che alla fine venne sancita fu la sostanziale assenza di
regole: finì per essere un vero e proprio modello per gli italiani,
lasciando nei modi di vita del Paese tracce ben più profonde di
quelle, pur gravissime, lasciate sul suo territorio. Tutto ciò, nel
tempo, non fa che contribuire ad allontanare gli individui dalle
istituzioni e a sfilacciare le già debili reti fiduciarie. Si stava nella
“grande trasformazione” ma senza riuscire a orientarla: l’amara
verità era che «lo sviluppo del nostro Paese non si coniuga con la
definizione di regole collettive. Il messaggio ebbe conseguenze
rilevanti in una società che conosceva allora la sua prima “opulenza”
e aveva visto al tempo stesso incrinarsi un orizzonte arcaico di
valori»159.

156
I. Calvino, La speculazione edilizia – Presentazione, in “Botteghe Oscure –
quaderno XX”, autunno 1957
157
V. De Lucia, Se questa è una città, 2006, pp. 74-75
158
Ibidem
159
G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, 2009, pp. 87-88

84
Tra l’urbanizzazione popolare e pedagogica dei quartieri Ina Casa,
un’architettura da film neorealista, e l’urbanizzazione spesso
assurdamente monumentale rispetto a un’idea di socialità, di
collettività, alla Corviale per intenderci, un’architettura ideologica, da
cineforum noioso e forse pure fantozziano, alla fine ciò che si è
insinuato – e ha trionfato – è stata l’urbanizzazione individuale, il
nuovo edificato frammentato e il più delle volte pure abusivo, il paese
progettato dai geometri, «i cazzi miei fatti edilizia», per allargare,
sopraelevare, condonare, insomma un’architettura da commedia
all’italiana. Una risposta dapprima ad appannaggio della piccola
borghesia, poi sempre più ad appannaggio di tutti, perché tutti in
fondo si sentono piccolo borghesi. Tra deroghe di legge, condoni,
arrembaggi speculativi, complicità istituzionali, trasferimenti di
funzioni dallo Stato centrale alle Regioni, si arriverà a una situazione
di lassismo e abusivismo diffuso. C’è chi sostiene che il 70 per cento
della periferia romana sia abusiva, cresciuta a macchia d'olio, tra
abusivismo in grande stile, di intrepidi lottizzatori sicuri del
successivo condono, e abusivismo dei poveracci, muratori che si
tiravano su la casa di domenica, coi materiali rubati di notte nei
cantieri160. La casa è il sogno e il bisogno, e per una generazione di
italiani è stata la rinascita dalla tragedia della guerra, fino a
trasformarsi, nell’Italia del benessere, nell’assedio implacabile della
bruttezza, nella resa alla banalizzazione dei luoghi.

Osservo le case, per curiosità e per istinto di ricerca. Le vecchie case


alle quali le antiche cornici decorative per poterci installare delle
persiane in alluminio color bronzo. Le verande improvvisate, le
superfetazioni abusive, sui tetti dei centri storici. Il nuovo edificato.
Ogni anno una nuova selva di villette a schiera, simbolo di nuove
ricchezze. Contraltare ai monumentali palazzoni stile Ina Casa anni
Cinquanta, altari decaduti della gloria popolare. Ci si inoltra nel
paese dei geometri. I serramenti di alluminio anodizzato, le
tapparelle in plastica, l'intonaco ad effetto graffiato, le
pavimentazioni in pseudocotto pseudoantico, le ringhiere in ferro
prefabbricate, le fioriere in cemento. Ascolto architetti sconsolati:
«Tutta l’Italia è costruita così, tutta. Da Trieste fino a Santa Maria di
Leuca, tutte le coste adriatiche, di regioni tradizionalmente sia di
destra che di sinistra, sono una colata di cemento armato e di

160
P. Zanuttini, Pasolini non abita più qui. Visita guidata nelle borgate romane con
Walter Siti, in “Il Venerdì di Repubblica”, 23 maggio 2008

85
alluminio anodizzato»161. Le recinzioni in blocchi di cemento, i leoni
all’ingresso, nel Nord. I ferri dei pilastri scoperti in cima al tetto
terrazzato e incatramato, nel Sud, in attesa di costruirci sopra,
abusivamente, magari un piano in più, al prossimo condono.
L’incasato spalmato sull’intera pianura padana. I neo-paesi di
seconde e terze case sulle Alpi o sugli Appennini. Le villettopoli che
annientano i confini tra comune e comune nel casertano. Gli interi
paesi condonati. Gli stessi tetti, gli stessi spioventi, che tu sia sulle
Prealpi o in Sardegna. Lo stesso identico sfoggio delle stesse “finiture
di pregio”. Le emulazioni fallite. Siamo ancora lì, dopotutto e
nonostante tutto, siamo al paese contadino che ha dovuto
concentrare in pochi decenni quasi due secoli di trasformazione
industriale e sociale, in più deportando mezzo Meridione, e lo ha
fatto in fretta e malamente, stravolgendo il senso di un abitare antico
e coeso, fatto di borghi, di piazze, di trattorie e caffè.

5. Pasolini e il miracolo

Il miracolo economico italiano trasforma il panorama urbano e


culturale del Paese. La televisione diventa una presenza permanente
nelle case degli italiani. Le automobili sostituiscono gli scooter che, a
loro volta, avevano preso il posto delle biciclette. L’ondata migratoria
da luogo a un crogiuolo di popoli, dialetti, stili di vita e consumi.
Dieci milioni di italiani si spostano da una regione all’altra. Le
campagne si spopolano sempre di più. Le spiagge si riempiono di
villeggianti. Gli ingorghi e le file sulle lunghe nuove autostrade
diventano una realtà quotidiana. I paesi del Sud si svuotano, mentre
quelli del Nord sono invasi dai nuovi arrivati. Lo sviluppo economico,
in particolare tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta,
conosce punte di particolare intensità162. Una grande trasformazione
ma anche una rottura, poiché affrontata senza limiti e contromisure
adeguate, «la fabbrica dei nuovi italiani» scriverà Giorgio Bocca in
un’inchiesta, l’inizio di un processo che darà progressivamente corpo
a «una società disunita, senza tempo né legge»163. Non sono in pochi
a identificare questo periodo con la morte delle antiche culture rurale
e operaia, popolare in genere, sotto la pressione del consumismo di

161
G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, pp. 19-22
162
G. Sapelli, L’Italia inafferrabile, 1989, p. 21
163
G. Crainz, Autobiografia di una repubblica, 2009, p. 74

86
massa. Insomma, quello che sarebbe successo è che una “cultura”
avrebbe distrutto e sostituito l’altra. Una mutazione irreversibile,
destinata a non fare retromarcia anche quando poi la fase di sviluppo
economico muterà di segno in fasi di crisi e di austerità.
Per capire se e come tutto questo è accaduto forse bisognerebbe
riprendere in mano le parole, cercare di aggrapparsi a qualche
definizione. Di cosa si parla, per esempio, quando si parla di cultura?
Con il termine “cultura” si intenderà il «complesso dei modi di vita,
degli usi, dei costumi, delle strutture e organizzazioni famigliari e
sociali, delle credenze, dello spirito, delle conoscenze e delle
concezioni dei valori che si trovano in un aggregato sociale»164.
Cultura, dunque, nel senso di «vasta gamma di usi caratteristici di
una data società, dalle sue modalità di produzione materiale alle sue
abitudini alimentari, codici di abbigliamento, celebrazioni, rituali»
come sostengono Forgacs e Lumley165.

C’è un regista, uno scrittore, un intellettuale che più di tutti,


nell’Italia degli anni Settanta, insiste ossessivamente su un punto:
era in corso in Italia un livellamento culturale. La modernità del
presente stava corrompendo la magica e finora immutabile cornice
dell’età passate. Le classi più basse erano state culturalmente
assimilate o integrate nel sistema. Le classi popolari avevano
assorbito il mito consumistico del neocapitalismo e perso ogni traccia
di autonomia culturale. Tutto questo significava egemonia, consenso,
dominio, e si intrecciava con le modificazioni urbane del Paese, con
la sua sciatteria edilizia, con le sue isole di periferie e le sue enormi
borgate ai margini delle metropoli. Si tratta di Pier Paolo Pasolini. È
lui a dare una lettura sociale della trasformazione a mutazione ormai
compiuta, in una serie di scritti freddi, se non crudeli nell’analisi, ma
nello stesso tempo malinconici e appassionati come di chi si sente
l’ultimo cantore di una società sepolta166. La critica di Pasolini alla
cultura consumistica e l’analisi della sua pervasività ebbero una
poderosa influenza fin dalla pubblicazione degli articoli,
principalmente sul prestigioso quotidiano Corriere della sera, negli
anni Settanta. Vale la pena approfondire le sue idee, i suoi pensieri
“corsari”, perché spesso contribuiscono il punto di partenza per

164
T. Tentori, Antropologia culturale, 1977, citato in M. Morcellini, Lo spettacolo del
consumo. Televisione e cultura di massa nella legittimazione sociale, 1986, p. 99
165
D. Forgacs, R. Lumley, Cultural Consumption 1940s to 1990s, 1996, p. 2
166
G. Biondillo, Pasolini. Il corpo delle città, 2001, p. 33

87
spiegare o descrivere quel cambiamento culturale avvenuto tra le
città e il potere e le masse. E allo stesso tempo per capire da dove
passa l’eterno mito nazionale del sapere nostalgico, la modernità
plasmata sul ricordo dei bei tempi andati.
Pasolini attribuiva grande importanza all’urbanizzazione della
società italiana e alla scomparsa delle tradizioni contadine: «Il
mondo contadino, dopo circa quattordicimila anni di vita, è finito
praticamente di colpo»167. I valori del villaggio o delle prime borgate
erano stati sostituiti da un “livellamento” culturale, dell’”edonismo di
massa”. Tutti i valori profondi delle classi popolari erano stati ridotti
a un unico modello culturale: «Decidere se sognare una Ferrari o una
Porsche […] con la pretesa che siano “libere”»168. Questo «passaggio
da un’epoca umana a un’altra, dovuto all’avvento del consumismo e
del suo edonismo di massa […] ha costituito, soprattutto in Italia,
una vera e propria rivoluzione antropologica»169. Questa «nuova
forma del potere, il potere dei consumi» era ben più influente ed
efficace di «qualsiasi altro precedente potere al mondo»170. Il
medium più importante in questa dislocazione di potere e di
assimilazione culturale era costituito dalla televisione, insieme
all’urbanizzazione e alle politiche di pianificazione di diversi governi
italiani. Quando si arriva a metà degli anni Settanta, l’ideologia
consumistica aveva prevalso su tutte le altre ideologie e sottoculture
esistenti, comprese quelle legate alla chiesa e alla sinistra. Le teorie
pasoliniane ebbero un enorme impatto sulle analisi del tempo della
società italiana, fino a essere considerate assiomi che non
necessitavano di ulteriori dimostrazioni. Si sostenne che lo scrittore
– al quale vennero spesso attribuiti poteri profetici dalla sinistra
nazionale e, in seguito, anche da un certo conservatorismo di destra
– avesse individuato una tendenza della società italiana. Questo è
indubbio.

Eppure per molti la risonanza che ebbe il contenuto di quegli articoli


fu esagerata, e a molti gli argomenti di Pasolini sono sembrati poco
convincenti e spesso paradossali. In primo luogo non è chiaro quale
sia il contenuto di quella “cultura popolare” che sarebbe andata
irrimediabilmente distrutta. Pasolini sembra identificare la cultura

167
P. P. Pasolini, Scritti corsari, 2009, p. 35
168
Ivi, pp.47-48
169
Ivi, p. 131
170
P.P. Pasolini, Lettere Luterane, 2009, p. 33

88
popolare con la cultura contadina, con il dialetto e, spesso, con tratti
somatici, vitalità e vivacità. Franco Fortini, uno dei critici più severi
del poeta dal punto di vista politico, lo accusò di identificare «il
popolo» con «l’ignoranza e la pura vitalità»171. In fondo in molti
sostengono ragionevolmente che anche l’esistenza di una cultura
popolare “vitale” e autonoma prima dell’arrivo devastante del
consumismo televisivo è difficile da dimostrare. Una critica efficace
alla visione pasoliniana su livellamento e consumismo è quella dello
storico inglese John Foot. A suo dire, «l’uso che Pasolini e quelli che
hanno fatto proprie queste idee fanno del concetto di cultura è
meccanicistico e semplicistico. Nessun tipo di cultura è
semplicemente annullato o rimpiazzato da altri. Le culture si
adattano, si modellano, si modificano nel tempo e nello spazio. Il
concetto di un lineare “sopraggiungere” della cultura di massa e la
conseguente scomparsa improvvisa della “cultura popolare
tradizionale” non riesce a cogliere né la complessità né la ricchezza
del processo».172 In altre parole, come sostiene Forgacs, «i mutamenti
nel consumo culturale, come quello risultante dall’avvento della
televisione, non avvengono come semplice sostituzione o
sradicamento del vecchio da parte del nuovo ma tendono a
coinvolgere una serie di adattamenti degli schemi e rituali
esistenti»173.

Va anche detto che la concezione pasoliniana della natura


totalizzante della cultura consumistica non lascia spazio alle
contraddizioni di quella cultura, alle sue opportunità, ai suoi limiti.
Queste contraddizioni sono state intelligentemente analizzate, tra gli
altri, da Alessandro Portelli. Infatti, una delle tesi centrali del suo
libro The Battle of Valle Giulia è che il consumismo non porta
necessariamente a un’accettazione passiva della cultura consumistica
nel suo complesso, ma apre nuove possibilità di resistenza e di un
impiego multiforme del tempo per fini culturali diversi 174. Consumo
non significava consumismo come unica ideologia possibile, e gli
orizzonti potevano allargarsi oltre che restringersi. Si trattava, questo
è certo, di uno stile di vita completamente nuovo, un modello, che
avrebbe dominato tutte le azioni, le speranze e i sogni di un’intera

171
F. Fortini, Attraverso Pasolini, 1993, p. 11
172
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 35
173
D. Forgacs, R. Lumley, Cultural Consumption 1940s to 1990s, 1996, p. 281
174
A. Portelli, The Battle of Valle Giulia. Oral History and the Art of Dialogue, 1997

89
popolazione. Secondo Stearns, la società consumistica «coinvolge un
numero spropositato di persone che scommettono una parte
significativa della propria identità personale e della propria ricerca di
significato, persino della propria soddisfazione emotiva, sulla ricerca
e l’acquisto di beni. È questo l’aspetto più difficile ma, allo stesso
tempo, essenziale da definire. Significa che la gente inizia a
interpretare il tempo impiegato nella ricerca di articoli di consumo
come una parte importante della propria vita e non solo come un
male necessario nella lotta per la sopravvivenza»175. Portelli ha
individuato i cambiamenti verificatisi nella classe operaia dopo gli
anni Sessanta come un momento nel quale «il consumo diventa
importante quanto la produzione»176. Ma il consumismo aveva anche
un effetto liberatorio, creando spazio per la ribellione contro regole
sociali conservatrici e stantie. Come non vedere un aspetto
liberatorio nelle storie dei ragazzi che si facevano «crescere i capelli
sopra le orecchie» o delle ragazze che andavano a ballare da sole e si
truccavano, mentre i benpensanti dai sagrati delle parrocchie o dalle
sezioni di partiti anche comunisti inveivano contro questo tipo di
mode “consumiste” e “americanizzate”. Una simile analisi può essere
applicata a diversi tipi di beni di consumo che allora andavano in
voga. L’auto e lo scooter permettevano ai giovani e alle famiglie di
motorizzarsi e diventare mobili, anche individualmente. Il frigorifero
e la lavatrice cambiavano in modo radicale gli equilibri del lavoro
domestico nelle famiglie. La moda del prêt-à-porter permetteva alle
donne di scegliersi da sole i propri vestiti, per la prima volta177. Ci
sono, comunque, alcuni intellettuali – uno di questi è Umberto Eco 178
– che pongono obiezioni ai critici “apocalittici” della cultura di
massa, per la loro prospettiva semplicistica e unidimensionale che
ignorava le opportunità di cambiamento che essa forniva. Il
livellamento poteva anche avere conseguenze positive, come per
esempio l’eliminazione di “differenze di casta”179. Tuttavia,

175
P. Stearns, Stages of Consumeris. Recent work on the Issues of Periodization, in
“Journal of Modern History”, 1997, p. 105, citato in J. Foot, Milano dopo il miracolo.
Biografia di una città, 2001, p. 46
176
A. Portelli, The Death of Luigi Trastulli and Other stories. Formand Meaning in
Oral History, 1997, p. 97, citato in J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una
città, 2001, p. 47
177
Ibidem
178
U. Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di
massa, 1993, pp. 29-64
179
L. Gallino, Dizionario di sociologia, 1993, p. 200

90
consumismo significava anche la corsa al prossimo acquisto e una
serie di limitazioni su comportamenti e stili. Cambia anche lo
sguardo del potere sulla società, basta poco ad accorgersi che per
ottenere il consenso non basta più la reale diffusione della ricchezza,
bensì attraverso «la possibilità di accedere ad essa o ai suoi simboli:
l’auto, gli altri beni di consumo durevoli, il televisore»180. Per la
maggiorparte degli intellettuali italiani degli anni Sessanta e per gli
storici, d’allora in poi, però, l’avvento del consumismo rappresentò
un processo devastante che la “gente” avrebbe ingoiato in modo
passivo e acritico.

E qui ci ritroviamo di fronte la sagoma di Pasolini, che ci fa pensare e


quasi ci zittisce. Pare di sentirlo: «Nessun centralismo fascista è
riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi.
Quello stesso Centro che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture
periferiche dalle quali era assicurata una vita propria,
sostanzialmente libera, anche alle periferie più povere e addirittura
miserabili»181. Eppure ci viene il sospetto che Pasolini esagerasse il
potere dell’ideologia consumistica quanto a capacità di soddisfare i
bisogni e i desideri del “popolo”. Sogni spropositati portano a
frustrazioni spropositate, quelli che «corrono, corrono, ma non ce la
fanno», cosa particolarmente vera per le persone giunte nelle città
negli anni del boom in cerca di lavoro, per le quali l’esperienza
dominante non era l’integrazione, bensì l’esclusione182. Il fatto è che
lui osservava tutto, i luoghi, le persone e le culture a lui familiari, le
periferie urbane, le borgate romane, la sua famiglia, i «dannati che
guardano la televisione ogni sera»183.

6. Il mondo perduto

Nel maggio del 1975, pochi mesi prima di essere ammazzato


all’Idroscalo di Ostia, Pasolini descrive la propria nitida visione dei
cambiamenti della società italiana in forma di lettera a un giovane
napoletano, una specie di trattato pedagogico-filosofico. E scrive: «Se

180
R. De Felice, Nazione e sviluppo: un nodo non sciolto, in Storia dell’Italia
repubblicana, vol. 2, 1995, p. 838
181
P. P. Pasolini, Scritti corsari, 2009, p. 22
182
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 36
183
P. P. Pasolini, Canzonissima (con rossore), in “Il Tempo”, 1 novembre 1969

91
io alla tua età camminavo per la periferia di una città (Bologna,
Roma, Napoli), ciò che quella periferia mi diceva era: qui abitano i
poveri e la vita che vi si svolge è povera. Ma i poveri sono operai. E gli
operai sono diversi da voi borghesi. […] se invece tu ora cammini per
una periferia, tale periferia ti dirà “qui non c’è più spirito popolare”.
Contadini e operai sono “altrove”, anche se materialmente abitano
ancora qui»184. Se dunque per Pasolini la polemica linguistica è la
metafora culturale e politica della trasformazione, la forma urbis ne
è la metafora poetica. La scomparsa delle lucciole dalle campagne è
vista come il simbolo della scomparsa dei cari vecchi valori della
società contadina e paleoindustriale. La borgata è il punto di
osservazione della trasformazione, essendo al contempo luogo
causato dalle trasformazioni della società da parte del capitalismo ma
anche luogo dove ancora i valori borghesi non hanno senso. La città
della transizione diventa una città senza confini dove l’osservatore,
parafrasando il vecchio Spengler, «riconosce esattamente l’epoca in
cui la fase di una crescenza organica è terminata e in cui comincia un
ammucchiamento inorganico e quindi illimitato, che oltrepassa ogni
orizzonte»185. Allo sguardo di Pasolini le borgate – nate negli ultimi
anni del regime fascista dalle deportazioni di abitanti proletari di
interi quartieri del vecchio centro storico romano che furono
sventrati e ripuliti dalle “ruspe di regime” – «persistono
stilisticamente e psicologicamente come “isole”». Molte di esse sono
state abbattute per essere sostituite dalle nuove borgate post-
belliche. «Ma qual è il criterio stilistico, sociologico e umano di
queste nuove abitazioni? Lo stesso. Siamo sempre alla nozione di
campo di concentramento». Lo stesso motivo ossessivo di file e
gruppi di case che si ripetono, due, cinque, dieci volte, sempre uguali
a se stesse, dal nord al sud del Paese. Dunque il cambiamento di
regime non ha cambiato la metodologia d’intervento sulla periferia,
infatti «le borgate democristiane sono identiche a quelle fasciste
perché è identico il rapporto che si istituisce tra Stato e “poveri”:
rapporto autoritario e paternalistico, profondamente inumano nella
sua mistificazione religiosa»186. E quando Pasolini si ritrova a
camminare anche per Sabaudia, proprio una di quelle “città nuove”
del fascismo, scopre che col passare degli anni ha assunto un aspetto

184
P. P. Pasolini, Lettere luterane, 2009, pp. 57-58
185
O. Spengler, Il declino dell’occidente, 1922, in F. Choay, La città: utopie e realtà,
1973, p. 435
186
P. P. Pasolini, Viaggio per Roma e dintorni, in “Vie nuove”, 24 maggio 1958, p. 15

92
tra il metafisico e il realistico estremamente affascinante. Al suo
vedere la follia fascista, nonostante tutto, non è riuscita a incidere
nemmeno lontanamente nella realtà dell’Italia di allora: «Sicché
Sabaudia, benché ordinata dal regime secondo criteri di carattere
razionalistico, estetizzante, accademico, non trova le sue radici nel
Regime che l’ha ordinata, ma trova le sue radici in quella realtà che il
fascismo ha dominato tirannicamente ma non è riuscita a scalfire.
Dunque è la realtà dell’Italia provinciale, rustica, paleoindustriale,
ecc. ecc. che ha prodotto Sabaudia e non il fascismo». Ora invece,
secondo Pasolini, succede l’esatto opposto, e lui può affermare che «il
vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che
sta distruggendo l’Italia»187.

A questo proposito viene in mente un aneddoto che spesso racconta


lo scrittore Antonio Pennacchi, e che ho trovato riportato in un
originale libretto di Antonio Pascale sui guai dell’Italia e i modi di
affrontarli188. Sempre a proposito di Pasolini che si lamentava
dell’arrivo della speculazione edilizia a Sabaudia. Pasolini stava
facendo dei sopralluoghi per un film sulla spiaggia e si lamentava:
non sapeva dove puntare la cinepresa. Dovunque la puntasse c’era un
abbozzo di villa in costruzione. La civiltà dei consumi stava
uccidendo un luogo bello e incantato. Un gusto barbaro avanzava.
Vero: basta andare oggi a Sabaudia e cercare di accedere al mare, è
difficilissimo. Chilometri e chilometri di case lungo la costa che ci
privano dell’ingresso al mare. Pasolini dunque fu profeta. Pennacchi
racconta questa storia inserendo però un particolare. Pasolini,
ricorda lui, aveva una villa, insieme a Moravia, proprio a Sabaudia. E
in molti a Sabaudia lo ricordano arrivare con la sua Alfa Romeo,
felice di correre lungo l’antica strada che da Roma portava fino a
Latina e poi curvare a sinistra verso Sabaudia. Chissà quante lucciole
avrà ucciso Pasolini con quelle corse notturne, dice Pennacchi. E
chissà, aggiunge, se Pasolini avrebbe provato piacere nel sapere che
gli operai di un tempo, magari arricchiti, volevano anche loro la villa
sulle dune, perché come Pasolini subivano il fascino di quei luoghi.
Anche loro desiderosi di correre come Pasolini lungo la strada. Un
problema questo, indubbiamente.

187
P. P. Pasolini, Lettere 1955-1975, 1988. p. CXLII, citato in G. Biondillo, Pasolini. Il
corpo delle città, 2001, pp. 92-94
188
A. Pascale, Qui dobbiamo fare qualcosa. Si, ma cosa?, 2009, pp. 112-113

93
Quello che si sente evocare, di nuovo, è una specie di mondo perduto.
Ma sarà esistito davvero? In molti casi, ciò che è evocato non è
nemmeno il mondo di una società industriale dove grandi masse di
persone lavorano nelle fabbriche durante il giorno, ma una comunità
di tipo rurale. Vari storici e studiosi sono soliti paragonare la
leggendaria città perduta di un tempo a quella odierna o a quella che
sembrava prospettarsi già negli anni Sessanta e Settanta. A questo
proposito è utile prendere spunti dalla carrellata che svolge John
Foot su quello che a suo parere è stato il “mito della classe operaia”
nella Milano che del boom economico fu la cosiddetta “capitale
morale”189. Per esempio citando il regista Ermanno Olmi, secondo cui
il quartiere meneghino della Bovisa, classica e quasi leggendaria
roccaforte operaia dalle case di ringhiera, era «il proseguimento
urbano del borgo contadino», dove «la casa era una comunità», e
una «fiumana di operai» lo attraversava regolarmente a certe ore del
giorno190. Ciò che molte ricerche definivano come una cultura
comune acquisita nel tempo a livello di massa, lavorando nei
medesimi luoghi di produzione e vivendo quindi i medesimi rapporti
di produzione e sociali. La nostalgia è spesso circoscritta al ricordo
del quartiere. Una persona intervistata durante un progetto di ricerca
sulla periferia milanese lamenta il venir meno dello spirito
comunitario: «Una volta c’era il quartiere, c’era un gruppo di persone
che si ritrovavano sempre». Oppure: «La periferia non è più quella di
una volta». La sensazione a volte è circoscritta a livello di caseggiato
ed è vissuta in contrasto con un presente nel quale donne e bambini
«non possono restare in cortile, fermarsi a chiacchierare sulle scale e
sugli androni, non vengono più usati le cantine e i solai, terre di
nessuno». Invece oggi c’è freddezza, «ognuno pensa a sé», la città
sembra essersi trasformata da «luogo di incontro a luogo di scontro
culturale perduto». Lo stesso discorso si potrebbe riferire alla
classica piazza di paese, dove prima o poi ci si incontra tutti. Messo
così, quel “mondo perduto” sembrerebbe più vicino alle brulicanti
strade di una città non industriale come Napoli, che curiosamente è
sempre stata l’eterna metafora del “bel paese” visto così come se lo
immaginano i turisti stranieri meno esperti. Comunque sia, il ruolo
prevalente della strada nella vita comunitaria – come scrive Foot – è
un aspetto più consono a questo tipo di area urbana o semirurale che
alle città industriali dove tempo e spazio sono (o erano) scanditi dal

189
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, pp. 38-40
190
E. Olmi, Quella mia Bovisa fatta di orti e civiltà, in “La Repubblica”, 27 aprile 1999

94
ritmo della sirena della fabbrica. In poche parole, «la visione della
città è positiva quando è premoderna, una non-città, la negazione di
se stessa»191.

A metà degli Anni Settanta, un giornalista milanese intervistò


personaggi pubblici per un libro molto critico sulla direzione che la
città stava prendendo. Fu pubblicato con il titolo Milano No, e alcuni
estratti sono stati ripubblicati nell’opera di Foot. Il richiamo alla città
mito, in questa pubblicazione, è chiarissimo, si potrebbe dire
emblematico. Un intervistato sostiene che «Milano era quasi un
paese, c’erano dei garzoni che cantavano a squarciagola in bicicletta,
c’erano venditori di tutto, un aspetto molto paesano». Per un altro, la
«Milano di allora era una cosa diversa, una grossa borgata». E
Montanelli: «Rimpiango la periferia che non è più come quella di
prima, una periferia calda, la campagna che cominciava a unirsi
veramente alla città […] e poi c’era una cultura di vita che adesso è
stata come schiacciata […] è stata la televisione a rovinare tutto»192.
C’è indubbiamente del vero in alcune descrizioni della Milano
passata e di quella odierna, come pare di risentirle per tante città
italiane, comprese quelle rintracciabili in ricerche più scientifiche,
ma in tutti questi giudizi troviamo una visione romantica del passato.
La presenza costante della nostalgia. La maggiorparte di questi studi
non tenta nemmeno di dimostrare che ci sia stata veramente una
“cultura della strada” e una “socializzazione” semplice, o che Milano
sia stata realmente “un paese”. Questi “fatti” sono dati per scontati e
immutabili. Eppure è difficile dimostrare che la situazione così
descritta corrisponda alla realtà. È indubbio che la situazione odierna
a Milano sia improntata alla mancanza di socializzazione, ma questo
non significa automaticamente che ci sia stato un processo di de-
socializzazione, vale a dire che l’attuale assenza di qualcosa non ne
dimostra la sua esistenza in un tempo passato. Insomma, «se il
passato è leggenda, come è stato possibile distruggerlo o assimilarlo?
Il fatto è che con la diffusione della cultura di massa i miti tendono a
diventare sempre più forti e difficili da contestare»193. Dunque,
Pasolini e gli altri stavano in realtà annunciando la morte di un mito,
di una rappresentazione fondata su una visione distorta e
ideologizzata della realtà, di una concezione romanzata del passato?

191
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 39
192
G. Moncalvo, Milano No, Elle, Milano, 1977
193
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 40

95
Di sicuro toccavano un punto dolente tra i pieni e i vuoti, tra
l’integrazione delle masse e la banale vita quotidiana.

7. Va ora in onda lo Strapaese

Tutto cambiò quando alle città in espansione, come corpi sempre più
obesi e nervosi e famelici, spuntarono le antenne. Una foresta di
antenne si moltiplicò sui tetti delle case, come evidente segno
esteriore di consumo e benessere, gli enormi ripetitori della Rai, da
collina a collina, divennero il simbolo del potere della televisione.
Quelle foreste di antenne contraddistinsero paesaggi e fotografie da
un certo periodo in avanti. Nelle aree urbane cominciarono a sorgere
anche negozi di televisori, con gli apparecchi accesi esposti nelle
vetrine. I passanti si fermavano a guardare certi programmi, senza
audio, attraverso la vetrina, e spesso, a specifici orari, si formava un
crocchio di persone. Nel 1963 Pasolini, in riferimento al fenomeno
delle antenne, diede sfogo alla sua feroce ironia. «Sai cosa mi sembra
l’Italia? Un tugurio i cui proprietari son riusciti a comprarsi la
televisione e i vicini, vedendo l’antenna, dicono, come pronunciando
il capoverso di una legge, “Sono ricchi! Stanno bene!”»194. In quegli
stessi anni quasi tutti i quotidiani italiani inviavano cronisti per
svolgere inchieste sugli immigrati più poveri delle grandi città. Molti
scrivevano articoli commoventi, all’interno dei quali tuttavia
prevaleva un’immagine ricorrente: quella del televisore, anche nella
più povera delle baracche. Questa immagine, rimandata dalle
fotografie e dalle storie popolari d’Italia forniva una prova decisiva
dell’importanza della televisione per gli immigrati meno abbienti e
per il sottoproletariato delle metropoli italiane. Il libro di Guido
Crainz sul boom, uno dei primi tentativi accademici di storia del
miracolo economico, prende spunto da questa immagine definendola
un “mito”. Crainz cita un critico contemporaneo che scrive: «Il
discorso del televisore nella baracca è uno di quegli argomenti che
ispirano particolarmente l’insopportabile genia dei chiacchieroni
ferroviari»195. Tuttavia l’immagine coglie un aspetto particolare del
consumismo durante il boom: l’ago della bilancia dei consumi si
sposta dai generi di prima necessità verso i beni durevoli, e il
194
P.P. Pasolini (a cura di M. Gallinucci), Interviste corsare sulla politica e sulla vita
1955-1975, 1995, p. 58
195
G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni, 1996, p.
132

96
televisore, magari acquistato a rate, effettivamente faceva la parte del
leone. Vedere le foto dei tuguri o delle povere casette appena
imbiancate con la loro brava antenna sopra può essere una prova a
favore di conclusioni pasoliniane sul livellamento culturale, ma tutto
ciò rappresentava pure una forma significativa di liberazione e un
salto di status anche per le famiglie più povere. Numerosi sociologi
hanno definito questa tendenza una “distorsione” dei modelli di
consumo, ma questo presuppone che ci sia un modello “normale”
(generalmente associato ad altre nazioni, come la Gran Bretagna o la
Francia) al quale il consumo dovrebbe attenersi. Ci troviamo ancora
una volta di fronte al “caso italiano” con le sue presunte diversità
rispetto alla “norma”.

In parole povere la tv veniva (e viene) vista sostanzialmente come un


fenomeno negativo con alcuni positivi effetti secondari, in particolare
l’unificazione linguistica dell’Italia196. Alla televisione di Stato che, in
Italia, inizia in condizioni di monopolio le trasmissioni nel 1954, è
attribuito dagli storici e dagli studiosi della cultura un ruolo
fondamentale nella “morte” delle culture tradizionali sia contadine
che operaie. Gianni Bosio, per esempio, sostenne che il «capitalismo
organizza in tv la cultura popolare alla rovescia»197. La televisione,
secondo Pasolini, è il braccio secolare del nuovo potere, la classe
dominante che «non si accontenta più di un uomo che consuma ma
pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del
consumo»198. La soluzione di Pasolini era provocatoria, divertente,
swiftiana: abolire la televisione (e la scuola) o manifestare contro la
trasmissione di certi programmi popolari199. Eppure Pasolini non
scherzava affatto. In Italia, questa analisi è diventata una verità
riconosciuta e accettata. Il ruolo della televisione è stato ingigantito e
promosso a precursore onnipotente della cultura consumistica
borghese di massa.

Ma la televisione italiana degli esordi – la cosiddetta paleo-


televisione – costituì uno stimolo in direzione della modernità in

196
A. Grasso, La televisione a Milano, in A. Ferrari, G. Giusto (a cura di), Milano città
della Radiotelevisione 1945-1958, 2000, p. 59
197
G. Bosio, L’intellettuale rovesciato, 1975 citato in J. Foot , Milano dopo il miracolo.
Biografia di una città, 2001, p. 42
198
P. P. Pasolini, Scritti corsari, 2009, p. 23
199
P. P. Pasolini, Lettere luterane, 2009, pp. 182-288

97
mille sottili e complesse maniere. Innanzitutto, l’urbanizzazione
dell’Italia era sia un riflesso sia una conseguenza della diffusione
della televisione. «La tv creò e reinventò la città, e la sua
propagazione non coincise con la formazione di fasce suburbane,
come in Inghilterra o negli Stati Uniti, ma con l’urbanizzazione e
l’industrializzazione»200. Inoltre, la tv contribuì a rafforzare
l’espansione economica del dopoguerra: basti pensare alla forza
trainante delle prime pubblicità in bianco e nero racchiuse ogni sera
in Carosello, o al telequiz Lascia o raddoppia che portava milioni e
milioni di spettatori a incollarsi davanti ai televisori, e ovviamente a
comprarseli. I primi anni della televisione sono ancora ancorati a una
fase “collettiva”: gli apparecchi in circolazione sono ancora pochi, gli
spettatori si riuniscono nei bar o nelle poche case già dotate di
televisore. Già pochi anni dopo, all’inizio dei Sessanta, gli apparecchi
privati, casa per casa, prendono il sopravvento.

La tv ha avuto effetti contraddittori in tutti i campi: per esempio, ha


incoraggiato l’atomizzazione dell’unità familiare, ma ha anche
favorito il consumo collettivo in luoghi destinati ad altre attività. Ha
educato, ha allargato orizzonti, ma anche portato a un livellamento,
verso l’alto e verso il basso, del modo di vivere e di pensare. Ha reso
la mente schiava e libera allo stesso tempo. Ha incoraggiato il
consumismo e la sua critica. Ha avuto effetti di breve durata, e altri
che si possono percepire ancora oggi. Un impatto insomma niente
affatto lineare. Ma una cosa è certa: come ha scritto Aldo Grasso, la
televisione «ha accelerato i ritmi della vita sociale del Paese in
maniera impressionante»201. La tv comincia a splendere nei
panorami urbani, dietro le finestre dei reticolati abitativi, nel
momento stesso in cui la piazza viene meno alle sue antiche funzioni
di socializzazione “dal vivo”. La metropoli, dopo aver superato la città
storica, a sua volta viene disgregata dall’avvento dei media di massa.
Di fronte alla “scatola magica”, il dispositivo territoriale della piazza
diventa, allo stesso tempo, troppo grande per far sentire le persone a
casa loro e troppo piccolo per soddisfare le pulsioni a essere altrove.
Dalla piazza si passa alla tv, dunque.

Proviamo a vedere come l’impatto della tv influenzi la realtà di un


quartiere urbano. Possiamo prendere, ad esempio, le ricerche citate

200
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 126
201
A. Grasso, Storia della televisione italiana, 1992, p. 22

98
nel libro di Foot a proposito di alcuni quartieri milanesi nei primi
anni Sessanta. Interessanti sono i dati sulla Comasina. Iniziato nel
1953 e completato nel 1958-60, con i suoi 83 palazzi per un totale di
11mila vani, divenne il più grande progetto di edilizia popolare in
Italia. Insediamento modernista e “futurista” sui confini nord-ovest
della città, fu anche il primo quartiere “autosufficiente” d’Italia. La
pianificazione della zona era basata su sottopassaggi pedonali,
lunghe balconate in cemento armato e una chiesa da fantascienza. A
parere degli urbanisti, la costruzione di chiese, centri sociali, negozi e
bar avrebbe permesso al nuovo quartiere Comasina di svilupparsi in
una comunità. In realtà le divisioni fra le varie tipologie di abitanti
furono subito nette: famiglie di microzone più “rispettabili”,
immigrati del Meridione, gruppi di sfrattati e baraccati202. Ebbene,
alla Comasina nel 1962 il 90 per cento delle famiglie aveva comprato
un televisore, una delle percentuali più alte tra i dati disponibili
dell’epoca. Evidentemente tra loro c’erano anche quelli più poveri o
quelli che ancora stavano in baracca203. A Milano, e in particolare nei
quartieri periferici, la priorità della tv rispetto agli altri beni di
consumo fondamentali, e il suo ruolo di fulcro attorno a cui
ruotavano le attività del tempo libero, dunque erano già dati per
scontati. L’isolamento stesso della Comasina rispetto al centro della
città – con tutte le sue attrazioni scintillanti, i cinema, le sale da ballo
e i teatri – ha sicuramente contribuito a questo successo. Ne
conseguiva che anche la fase della visione collettiva era ormai
conclusa: i sondaggi dell’epoca si imbattevano in bar deserti, ormai
ognuno guardava la tv a casa propria. C’è da registrare che la
Comasina divenne il classico “ghetto”, svuotato di giorno e pieno di
sera, ma desolato e senza luoghi di aggregazione sociale spontanea
non ufficiali, anche se annoverava tre centri sociali e una chiesa con
strutture sportive. Vuol dire che a quanto si era guadagnato in
termini di “privacy” e di “liberazione” dagli aspetti oppressivi della
vita di cortile o di piazza di paese, oltre che in termini di qualità degli
alloggi per buona parte dei residenti, si contrapponeva l’assenza di
una comunità e il mancato rapporto con la città. Tuttavia, gran parte
degli abitanti della Comasina sembrava contenta di pagare quel
“prezzo”. Molti (ma non tutti) avevano barattato le forme tradizionali
di integrazione urbana (la “collettività”) con altri valori: privacy,
status, un salotto spazioso. Per molti, la vita di famiglia aveva

202
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 62
203
Ivi, p. 43

99
soppiantato le altre forme di rapporti sociali 204. Ben presto anche il
resto dell’Italia avrebbe raggiunto gli standard delle periferie
milanesi. Nel 1965 il 43 per cento degli italiani guardava la tv tutti i
giorni, il 17 per cento da due a quattro volte alla settimana e il 10 per
cento solo una volta. Una persona su cinque non la guardava mai.
Consideriamo che all’epoca i programmi sull’unico canale nazionale
erano trasmessi solo di pomeriggio e di sera. A pensarci bene,
Berlusconi, o meglio l’ideologia che più tardi con le sue tv
commerciali e i suoi quartieri residenziali avrebbe rappresentato,
costituiva una realtà egemonica già all’inizio degli anni Sessanta205.

Ma cosa accadeva per strada, nei bar e nei rapporti fra le persone?
Già prima dell’arrivo della cultura di massa la situazione era
abbastanza varia e articolata. È vero che alcuni quartieri apparivano
come tipiche comunità operaie, dominate dai partiti politici, dalla
vita di strada e dai bar. Ma persino lì questo modello di tempo libero
e di vita quotidiana era limitato a certe ore della giornata e
contrassegnato da un uso del tempo differente per uomini e donne. I
quartieri più nuovi erano invece teatro di una diversa organizzazione
del tempo e delle relazioni sociali. Il tempo era essenziale e spesso
tiranno, e sicuramente ben poco ne rimaneva al pendolare-operaio
che usciva di casa alle quattro del mattino e rientrava alle nove di
sera. Altre diverse informazioni vengono da una ricerca della fine
degli anni Cinquanta su un’altra zona appena fuori Milano. Nel 1958,
un sociologo compì uno studio approfondito su un “villaggio
urbano”, uno dei tanti sorti attorno al capoluogo lombardo, dove
nessuno possedeva un televisore, anche se vi erano altri segni del
crescente consumismo, come gli scooter. Ciò nonostante, scrive
l’autore, in questo caso la “comunità” era inesistente: «la piazza è
scomparsa […] era anzi chiaro che il massimo egoismo regnava nei
reciproci rapporti, una incapacità ad accordarsi tra loro per risolvere
i propri problemi». Nonostante lo squallore, la povertà e la mancanza
di servizi basilari, gli immigrati preferivano queste cosiddette “coree”
al loro paese meridionale d’origine. Secondo il prete locale, a Milano
gli immigrati avevano «scoperto una “superamerica”». Insomma, la
televisione, almeno in termini di proprietà individuale, qualche volta
poteva anche non entrarci206. «In ogni caso – conclude Foot – è
impossibile affermare con una certa sicurezza che la preesistente vita

204
Ivi, p. 73
205
Ivi, p. 108

100
culturale semplice, idilliaca e vivace si preparava a essere spazzata
via dalle nuove forme di cultura di massa diffuse dalla tv»207.

Un articolo di Stephen Gundle, professore inglese di Storia dei Mass


Media e profondo conoscitore della lingua e della cultura del nostro
Paese, pubblicato nel 1986, ci viene in aiuto sullo scivoloso tema delle
ripercussioni della tv in Italia. Gundle attribuisce il potere della tv a
quattro fattori principali: il predominio del mezzo di comunicazione
visivo sugli altri media; la diffusione capillare e privata dei valori del
consumismo; la coincidenza dell’arrivo della tv con il rapidissimo
decollo economico in un Paese privo di una «cultura nazionale
integrata»; infine, «la semplicità e l’immediatezza delle immagini
televisive che sembravano conformarsi perfettamente alle qualità
tradizionali di molta cultura popolare»208. Cosa c’era quindi di
urbano nella televisione e nella cultura di massa che
presumibilmente veicolava? La questione è complicata. L’elemento
urbano, nella paleo-televisione, era un’entità tutto sommato
effimera, più mitica che reale, un messaggio implicito eppure già
forte. I “tipici valori urbani” menzionati da Gundle rispecchiavano il
cambiamento di ideali introdotto dal boom del secondo dopoguerra,
ma in un modo appena percettibile: l’automobile-premio del telequiz,
l’enfatizzazione del denaro, le trasmissioni internazionali, i film
utilizzati nei notiziari, i prodotti reclamizzati da Carosello209.
Occorreva creare dal nulla un popolo di consumatori, a cui far
dimenticare i sensi di colpa delle parrocchie cattoliche e di quelle
comuniste. La tv commerciale, le Dallas americane, le magie
berlusconiane erano ancora di là da venire, come un embrione che
attende solo di svilupparsi.
Tutti argomenti importanti, ma quello che continua a girare per la
testa è altro: la costruzione di una mitica età aurea presumibilmente
distrutta dalla cultura di massa, l’imputazione alla tv di un ruolo
comodamente esagerato all’interno di questo processo.

206
L. Diena, Borgata milanese, 1963, in J. Foot , Milano dopo il miracolo. Biografia
di una città, 2001, p. 44
207
Ivi, p. 108
208
S. Gundle, L’americanizzazione del quotidiano. Televisione e consumismo
nell’Italia degli anni Cinquanta, in “Quaderni storici” n. 2, 1986, pp. 561-594
209
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 126

101
E qui torna Pasolini. La cosa bella è che molti dei suoi messaggi, dei
suoi materiali, delle sue parole li rivediamo oggi proprio grazie alla
televisione. Ritroviamo quel giovane bruno e nervoso, che si agita
seduto su una sedia in uno studio televisivo di quasi quarant’anni fa,
dove comunque «non è ammesso dire una sola parola che sia di
scandalo». Il fatto è che la modernità è spossante. Una sfida
continua. In Italia poi è arrivata così all’improvviso. Lo spavento c’è
stato, i danni sul territorio anche, basta guardare le nostre coste, le
nostre periferie. Pasolini è stato un profeta della scomparsa del
mondo contadino, del j’accuse, dell’abiura, dell’io so ma non ho le
prove. Non esistono – spiegava - equivalenze o analogie con il resto
del mondo capitalistico, questo perché «nessun Paese ha posseduto
come il nostro una tale quantità di culture “particolari e reali”, una
tale quantità di “piccole patrie”, una tale quantità di mondi dialettali:
nessun Paese, dico, in cui poi si sia avuto un così travolgente
“sviluppo”. Negli altri grandi Paesi c’erano già state in precedenza
imponenti “acculturazioni”: a cui l’ultima e definitiva, quella del
consumo, si sovrappone con una certa logica. Anche gli Stati Uniti
sono culturalmente enormemente compositi (sottoproletariati venuti
a concentrarsi caoticamente da tutto il mondo), ma in senso verticale
e, come dire, molecolare: non in senso così perfettamente geopolitico
come in Italia»210. E alla fine ha vinto Pasolini. Ha avuto ragione
anche quando aveva torto. Così viene facile arrendersi al “sapere
nostalgico”211, pensare che tutto quello che è avvenuto nella magica
cornice delle età passate ha valore, mentre il presente è sinonimo di
corruzione. Alle forze della modernità che spingono va opposto il
modello puro e innocente del passato incorrotto. Questa visione, in
genere, rischia di fare un po’ di danni. Non ci permette di ragionare
(ed esaminare) le condizioni di partenza: come si fa, infatti, a
contestare un modello ideale? Quindi facciamo fatica a immaginare
(e provare a regolare) quello che fisiologicamente si muove. Questo
sapere nostalgico tuttavia ha il pregio di piacere al grande pubblico: il
dolce paese che non dico, diceva Gozzano. Paese mio che stai sulla
collina, cantavano i Ricchi e poveri al Festival. Italia scomparsa,
dicono gli editorialisti pensosi sui giornali. Allora sì che il mondo
aveva un sapore. Non come questa modernità insapore, insalubre,
stressante, omologante.

210
P. P. Pasolini, Scritti corsari, 2009, pp. 73-74
211
A. Pascale, Qui dobbiamo fare qualcosa. Si, ma cosa?, 2009, pp. 49-50

102
Tutto l’attuale Strapaese è, magari inconsapevolmente, innanzitutto
pasoliniano. Perché Pasolini, innamorato del sottoproletariato
borgataro e del mondo contadino che aveva in testa e che gli
sembrava il tempio della premodernità antifascista, sognava nelle
lucciole il ritorno a una società superata ma migliore. Una lucciola
come quelle che sicuramente anche Celentano, cantore pop dello
Strapaese, vedeva nella sua via Gluck, e non è un caso se Pasolini lo
ha incontrato un paio di volte e avrebbe voluto girarci un film su
quella casa in mezzo al verde scomparsa 212. Una lucciola come l’idea
che la realtà dissolta possa avere ragione del mondo moderno.

Il Paese rurale, in bianco e nero, l’utopia nostalgica resisterà ancora


per anni, in televisione, nell’Intervallo. Che dovrebbe essere una
pausa, una toppa tra i programmi. Ma era come un’ipnosi. «Il ponte
a schiera d'asino di Apecchio, la valle di Visso sparsa di case chiare.
San Genesio, Gratteri, Pozza di Fassa. Le facciate di Sutri, la fontana
bianca di Matelica. Una decina di secondi a cartolina, poi la
dissolvenza e una nuova cartolina. L’eterna Italia rurale e pastorale
tirata su con le pietre grigie tagliate a mano, fatta di muri a secco
ricamati dall'edera e dal muschio, abitata solo dagli osci e dagli
etruschi, semplice, contadina, i morti che riposano nei cimiteri di
paese, la ghiaia sul fondo tra le tombe, gli scricchiolii e l’odore dei
gladioli, tra la ghiaia e le bacche dei cipressi, il cielo limpido, le rose.
Fantasmi del paesaggio, circonvenzioni della percezione nazionale. Il
pittoresco, il locale, il premoderno, il genuino. La bella Italia
semianalfabeta che per decenza ignora la grammatica. Fino a un
anno fa c'era anche Carosello, la radiografia della gioia. È rimasto
l’Intervallo, la giostra lenta dell'oblio, un presepe fabbricato dalla
televisione»213.

212
A. Bandettini, Quel film mai nato sulla via Gluck, in “La Repubblica”, 13 gennaio
2007
213
G. Vasta, Il tempo materiale, 2009, p. 10

103
104
CAPITOLO 4
La città dei numeri uno

Mi hanno ferito nella cosa che ho di più caro, l’immagine.


Silvio Berlusconi

105
106
1. Un’utopia in vendita
Milano Due, località Segrate, un giorno di pioggia. Il paesaggio
sembra di polistirolo espanso, con abitanti di polistirolo espanso.
Guardie private al perimetro della finta città. Studi televisivi e cigni
in un laghetto solcato da un ponticello di legno altoatesino. Sui
bidoni e sui cartelli il logo del Biscione è ancora nitido, come nuovo.
Le facciate dei palazzi sono colore rosso “terra di Siena”, abbastanza
conservate, con poche scrostature. Stranite conifere garantiscono
uno sfondo sempreverde al panorama. Il clima è fresco. Durante il
tragitto per arrivare fin qui ho scrutato a lungo il paesaggio della
periferia est milanese. Vi cercavo, senza ritrovarle, le tracce di un
resoconto di viaggio che avevo letto tempo prima. Un testo che
evocava una sorta di percorso iniziatico. L’avvicinamento progressivo
a qualcosa di nuovo e al tempo stesso familiare. «Appena oltre il
Lambro ritrovi la dolce Bassa natìa con un brivido lungo e
impensato. La strada è ampia, a duplice corsia. Patetiche braide – i
cassînn – sopravvivono in un paesaggio che ancora le capisce, cioè le
comprende e le contiene. Tuttavia se ne stanno umili e pudiche in
disparte, e proprio dal loro intonaco dimesso intuisci il miracolo
imminente. Ecco infatti, oltre la curva, un rosseggiare improvviso di
case non altere ma nobili, e così improvvidamente intonate con il
tradizionale mattone lombardo che le prospettive scandinave della
nuova città non ti allarmano per nulla». Sono parole del giornalista e
scrittore Gianni Brera. Stampate in un volume che si intitola Milano
2: una città per vivere214. Pubblicato nel 1976, a quartiere quasi
ultimato e in buona parte già abitato, dalla Edilnord Centri
Residenziali. La Edilnord è la società che fa capo a tale
intraprendente e giovane imprenditore milanese, Silvio Berlusconi,
responsabile dell’operazione. Il terreno, grande circa 700mila metri
quadrati, era stato acquistato nel 1969. In meno di dieci anni e con
ingenti capitali di finanziamento una cittadella di circa diecimila
abitanti sorse dal nulla. Cammino sugli appositi sentieri, delimitati e
separati, paralleli e obliqui senza mai incontrarsi, quello per i pedoni,
quello per le biciclette, quello per le auto. Osservo le scuole, l’asilo, la
chiesa, il lago artificiale, i negozi sotto i portici, lo sporting club, le
piscine, i parcheggi sotterranei, gli alberghi, il centro congressi, i
palazzi degli uffici, gli studi Mediaset. Sulla piazza antistante il

214
Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976

107
laghetto baby sitter annoiate incrociano frotte di impiegati in pausa
pranzo, tutti a dar da mangiare ai cigni che allungano spasmodico il
collo sulle rive. So di trovarmi in un quartiere simbolo. Un bizzarro
mix tra la città ideale del rinascimento italiano e une versione
sterilizzata e un po’ kitsch del sogno suburbano americano. È facile
qui sentirsi inseguiti dall’ombra del suo creatore, quel Berlusconi che
tra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta confidò ai suoi primi
soci di impresa: «Io farò una città dove c’è tutto, dalla clinica dove si
nasce al cimitero»215.

I primi anni Sessanta furono un periodo d’oro per l’edilizia a Milano.


Nel corso di un decennio circa 600.000 persone, l’equivalente della
popolazione di una grande città, si trasferirono nel capoluogo
lombardo e nei suoi dintorni216. Attorno alla periferia della città i
palazzoni residenziali crescevano come funghi. L’Italia della
Ricostruzione aveva lasciato il posto all’Italia dello sviluppo
accelerato. Il volto delle città e del territorio cambiava. Mancava,
tuttavia, un modello regolatore, una prospettiva di lungo respiro: i
pochi piani regolatori realizzati, quello di Milano era del 1953, non
sapevano opporsi alla crescita disordinata. Anzi, le connivenze tra
funzionari pubblici e immobiliaristi contavano più della legge: il
fenomeno della speculazione edilizia dilagava, anche perché la
domanda tirava. L’idea di realizzare una sorta di città satellite
destinata a ceti abbienti non aveva molti precedenti, perlomeno in
Italia. Ciò che si voleva costruire era una gemma urbanistica pensata
per la nuova borghesia delle professioni, tecnocrati e manager che
puntano all’abitazione come «parte del circuito jet – carta di credito
– club d’affari – beni in leasing»217. Un azzardo imprenditoriale. Una
visione del futuro.

Milano Due era un’utopia in vendita. Rileggo le vecchie inserzioni


pubblicitarie: «la città dei numeri uno», «una città per vivere», «la
città in campagna», «il nuovo volto della città». A distanza di oltre
trent’anni sembrava anticipare molte cose. Lo stesso volume della
Edilnord, chiunque avesse acquistato all’epoca un alloggio ne
riceveva una copia, è un collage significativo. Basterebbe lo slogan di
apertura: «Milano 2: un’esperienza completa e affascinante, una

215
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 9
216
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 58
217
G. Ruggeri, M. Guarino, Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv, 1994, p. 46

108
proposta da meditare, un suggerimento concreto per il futuro della
città». Che a sua volta riprendeva quelli pubblicati nelle inserzioni
sui giornali, come il prestigioso Corriere della sera. Insistenza sulla
novità del progetto, con toni quasi utopici («Milano 2: un nuovo
modo di costruire»; «Una proposta abitativa d’avanguardia»).
Ricorso continuo alla legittimazione fornita dai saperi tecnici
(«Soluzioni urbanistiche veramente inedite»). Abuso della retorica
del fare («Dopo tante parole finalmente un’iniziativa concreta»).
Spudorata capacità di negare ogni evidenza («Un’alternativa
all’espansione edilizia disordinata e parassitaria»). Attenzione alla
sfera di una libertà individuale e quasi ludica («Proposte abitative
per le diverse esigenze», «Il diritto di giocare»). Molto
dell’armamentario comunicativo del futuro “presidente operaio” è già
leggibile in questi frammenti.
Il progetto Milano Due rappresentava, tra la fine dei Sessanta e
l’inizio dei Settanta, nel pieno dell’era della contestazione,
l’affermazione – passo dopo passo – del paradigma dello status
symbol. Non si trattava semplicemente di complessi residenziali,
bensì della manifestazione spaziale di un nuovo stile di vita.
Berlusconi si assicurò che i residenti fossero isolati dagli aspetti
“sgradevoli” della vita cittadina: traffico, criminalità, immigrazione,
operai scioperati, la città stessa. La “nuova Milano” fu creata secondo
una serie di caratteristiche architettoniche innovative. Il quartiere
era separato in modo netto dal resto della città, delimitato da muri,
ponti, strade. Gli edifici erano per la maggiorparte orientati verso
l’interno del complesso e raramente verso il territorio circostante,
circondati da verde e con un laghetto centrale. Un efficiente sistema
di portineria e vigilanza, sia diurna che notturna, completava il
quadro della sicurezza interna. Il caso di Milano Due è
esemplificativo della ridefinizione dei canoni che sono alla base dei
processi di progettazione e costruzione dello spazio urbano, e inoltre
è simbolicamente legato alla profonda trasformazione che
caratterizza la vita culturale italiana dalla fine degli anni Settanta218.
L’eterno profumo di Strapaese si mischia alle luci seducenti della
neotelevisione. La “rivoluzione conservatrice”, ossimoro efficace per
descrivere le trasformazioni politiche che alfine ne matureranno, era
già lì. In tutto ciò, solo agli inizi, l’idea della televisione era
considerata appena un servizio aggiunto, un fringe benefit, qualcosa
di simile al frigobar e allo schermo nelle camere d’albergo, un dippiù

218
E. Bazzaco, N. Origoni, Mia Milano: quale città, in www.eddyburg.it

109
per incrementare le vendite. «Come gli mettiamo la piscina – è il
ragionamento di Berlusconi – mettiamogli anche la televisione a
circuito chiuso»219.

2. Valige di soldi e città di sogni

L’idea venne a Berlusconi mentre sorvolava con l’elicottero la


periferia e i campi ai confini di Milano. Individuò una vasta area di
proprietà del conte Leonardo Bonzi, nel comune di Segrate, a ridosso
del Parco Lambro, già lottizzata e in procinto di essere ceduta in parti
separate. L’area fu acquistata alla fine del 1968 da una nuova società,
sempre del ramo Edilnord. Il terreno acquistato aveva una forma
grosso modo rettangolare, e si pensò di insediarvi tre nuclei di edifici.
In base alla convenzione stipulata dal conte Bonzi con il Comune di
Segrate, l’impresa realizzatrice dell’insediamento avrebbe dovuto
accollarsi parte degli investimenti relativi alle infrastrutture,
attraverso il versamento di denaro o l’esecuzione di opere. Per
Berlusconi la condizione non fu un problema: lui cominciava a
pensare in grande, costruire un solo palazzo o un gruppo coordinato
di palazzi, come aveva fatto in passato, non gli conveniva più. Dal
Comune riuscì a ottenere anche una variante in base alla quale il 10
per cento della volumetria totale sarebbe stato destinato ad uffici220.
Voleva costruire una piccola nuova città, realizzare uno dei più vasti e
ambiziosi progetti residenziali del dopoguerra.

Lui, prima il “Berlusca”, detto con ironia lombarda, poi il “Dottore”,


poi il “Cavaliere”, e oggi, con deferenza, il “Presidente”, con una
scansione del suo medagliere onomastico sempre maiuscolo e in
traiettoria verticale, ad ogni trasformazione sempre cancellando le
porzioni minacciose del suo passato, già allora – agli inizi – è lo
stereotipo del self-made man, l’uomo che si è fatto da solo. Nato nel
1936 da una famiglia del ceto medio in un quartiere operaio di
Milano, cominciò a lavorare come cantante e cabarettista sulle navi
da crociera. Una volta laureato in giurisprudenza, fece il suo ingresso
nel mondo degli affari durante il boom economico. Dopo un breve
periodo in cui lavorò per altri, decise di provare a mettersi in proprio,
cercò i terreni su cui edificare e preparò un progetto edilizio,

219
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 47
220
Ibidem, pp. 33-34

110
aiutandosi coi finanziamenti della piccola banca in cui lavorava il
padre221. Nel 1963, dopo questa modesta partenza, Berlusconi fece un
improvviso e inaspettato salto di qualità con un megacomplesso
residenziale per 4000 persone, il corrispettivo di un paese di discrete
dimensioni, in una posizione non molto promettente fuori Milano,
località Brugherio, dominata da stabilimenti industriali e chimici e
isolata dai negozi e dal resto della popolazione. Il fatto che un gruppo
di investitori fosse disposto ad affidare a un ventisettenne alle prime
armi un progetto di quella portata riflette il clima di boom edilizio
che si respirava nella Milano dei primi anni Sessanta e nel contempo
dice molto delle capacità persuasive di Berlusconi222.

Brugherio fu, per molti versi, il suo primo grande affare e definì lo
schema della sua carriera futura. Per il progetto fu assoldato un
gruppo di architetti giovanissimi, alcuni ancora studenti all’ultimo
anno di università, guidati da Guido Possa, e che in buona parte
ritroveremo nei futuri progetti edili berlusconiani223. Già allora l’idea
era quella di «offrire un ambiente e non semplicemente un
appartamento soleggiato»224. Quando il progetto fu avviato, nel 1964,
il mercato aveva iniziato a cambiare direzione e nel 1965, quando i
primi 140 appartamenti furono completati, era in una fase di stallo.
Per cercare di risollevare le vendite fu lanciata una campagna
pubblicitaria, anche con l’apertura di un punto vendita al centro di
Milano. Gli slogan pubblicitari e la persuasione del cliente, come
raccomandava sempre il capo, erano già metà dell’opera. Per
esempio, uno dei claim del progetto era: «Quando a Milano piove, a
Brugherio c’è sempre il sole!». E fa niente se non era esattamente
vero: a Brugherio c’è lo stesso clima di Milano – nebbioso, grigio e
umido – con l’aggiunta dello smog delle fabbriche225. Dopo il primo
palazzo rimasto invenduto, i soci volevano chiudere. Berlusconi
insiste. Di fronte allo stallo del mercato e alla carenza di acquirenti
privati è capace di inventarsi anche metodi di persuasione meno
ortodossi. Le sue biografie autorizzate sono ricche di aneddoti in
odore di mito. Come quella volta che, per salvarsi dal fallimento di
Brugherio, decise di puntare sul mercato dei fondi professionali.

221
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 119
222
G. Fiori, Il venditore, 2004, pp. 29-31
223
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 16
224
Ivi
225
A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, pp. 34-35

111
Così, tra raccomandazioni di vecchi amici e corteggiamenti di
segretarie, si impegnò nel convincere i dirigenti di un importante
fondo pensionistico ad acquistare un blocco di appartamenti,
aiutandosi con un’elaborata messinscena. Per la vista al cantiere di
questi potenziali salvatori dell’affare, egli mise al lavoro tutti i suoi
uomini per ripulire, rassettare e rifinire tutto ciò che potevano, in
modo che quel posto sembrasse il più finito e presentabile possibile.
Per il giorno della visita Berlusconi fece in modo che un nutrito
gruppo di suoi parenti venisse al cantiere, fingendosi clientela
interessata all’acquisto di appartamenti. Il piano sembrava
funzionare quando arrivò «una cugina un po’ scema», secondo le
parole dello stesso Berlusconi, e iniziò a salutare e abbracciare tutti i
parenti. Il volto del dirigente del fondo pensioni si rabbuiò quando
divenne ovvio che era stato raggirato. «Che strano, evidentemente
tutti i vostri clienti non fanno parte di una cerchia molto ampia, visto
che si conoscono tutti». Poi si accese una sigaretta, gettò il pacchetto
nella toilette e disse a Berlusconi: «Caro giovanotto, qui è tutto molto
bello, bucolico ma, vede, ho appena finito le sigarette, quante ore mi
ci vogliono per comprarne un altro pacchetto?»226. La visita, quel
giorno, fu un disastro totale ma Berlusconi si diede da fare per
ribaltare la situazione. Alla fine il fondo di previdenza acquisto un
discreto numero di appartamenti a Brugherio, le banche finanziatrici
concessero nuovi generosi mutui, il mercato immobiliare conobbe
una fase di ripresa. In particolare il costruttore Berlusconi fece tesoro
della lezione del pacchetto di sigarette: era necessario dare appeal
alle zone periferiche, e soprattutto servizi. Così fu anticipata la
realizzazione di alcune strutture utili, come le scuole, il campo giochi,
una manciata di negozi e il mini-market, la cui realizzazione era
prevista soltanto al termine dei lavori. Berlusconi si applicò sulla
commercializzazione dei prodotti, sulla cura dei dettagli, sui rapporti
con i clienti. Non bastava vendere case: bisognava vendere il verde, i
servizi, i negozi, la sicurezza, il divertimento dei bambini, la
signorilità227. «La novità sostanziale stava nel ribaltamento
psicologico imposto da Berlusconi alla mentalità dei suoi clienti. Fino
a quell’epoca, un quartiere periferico sembrava destinato alle fasce
meno abbienti. Lui invece ribattezzò Brugherio con lo slogan: “Un
paradiso per quattromila”. E i proprietari dei suoi mille appartamenti

226
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 24-25
227
Ibidem, pp. 28-32

112
finirono per crederci, mentre gli urbanisti scuotevano il capo
increduli»228.

Così il progetto Brugherio fece di Berlusconi un importante


imprenditore immobiliare e gettò le basi per la sua impresa
successiva di maggior respiro, Milano Due. A Segrate, 712.000 metri
quadrati pagati tre miliardi di lire, un progetto residenziale di medio-
alto livello per 10mila persone229. Il volume totale edificato
ammontava a 1.709.000 metri cubi, di cui 1.282.000 per il
residenziale, 142.000 per il direzionale, 285.000 per le
attrezzature230. È interessante notare come colui che più tardi si
presenterà come un “costruttore di città” all’inizio intervenga
nell’edilizia non costruendo assolutamente nulla: compra le aree,
ottiene i permessi, fa la pubblicità e vende, ma il mestiere del
muratore lo lascia fare ad altri. Preferisce delegare questo lavoro ad
imprese specializzate. In un vecchio libro del 1981, gli architetti
Alessandro Balducci e Mario Piazza avevano ricostruito con efficacia
gli scenari in cui questa operazione si collocava: «L’interesse è
concentrato tutto sul controllo e sulla gestione degli investimenti, e i
risultati positivi delle due operazioni (Edilnord e Milano Due) sono
riscontrabili proprio sotto questo punto di vista dal fatto che
Berlusconi riesca a realizzare due interventi partendo da una
disponibilità di capitali propri praticamente nulla. La cura fin nei
minimi particolari della commercializzazione e della pubblicità non è
comparabile ad alcun altro intervento di questo tipo. Tutta l’attività è
condizionata al consolidamento e allo sfruttamento più razionale
possibile di rapporti privilegiati sia con il mondo politico che con il
mondo finanziario»231. Di certo è difficile impelagarsi nella questione
dei finanziamenti che il giovane costruttore andava rastrellando, sul
come li ottenesse, su quali itinerari tortuosi, anche attraverso banche
e società straniere, essi seguissero. La bassa cucina degli affari
immobiliari, d’altronde, era spesso alimentata da scambi di favori,
tangenti, complicità con il potere politico. Prescinderne non doveva
essere facile. Quando il discorso prende questa piega viene in mente
quella scena del Caimano, il film di Nanni Moretti, la valigia che cada
dal soffitto dell’ufficio, miliardi e miliardi di vecchie lire che si

228
Ibidem, pp. 31-32
229
G. Fiori, Il venditore, 2004, p. 36
230
Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, p. 24
231
A. Balducci, M. Piazza, Dal parco sud al cemento armato, 1981

113
spandono nell’aria, tutti quei soldi caduti dal cielo, una domanda
ossessiva, «da dove vengono tutti quei soldi?». Ci si ferma lì.

3. Reparto vendite

Le politiche urbane e il “fare città” rispecchiavano le consuetudini


nella gestione della res publica italiana, prodiga di connivenze tra
sistema politico e mondo imprenditoriale. La proliferazione di
convenzioni tra amministratori e proprietari di terreni, per esempio,
era in quegli anni un fenomeno generale nell’area milanese. Lo
schema è sempre quello: il proprietario dei terreni fa qualcosa di
pubblica utilità per il Comune e quelli del Comune gli concedono di
costruire. La “compromissione giuridica” di molte parti della
periferia operata tramite il sistema delle convenzioni aveva, di fatto,
preparato per l’immissione sul mercato fondiario, nel corso degli
anni Sessanta, una riserva di terreni sui quali avrebbero preso forma
alcune tra le più importanti speculazioni del decennio successivo 232.
Il passo successivo sarà quello di passare da un sistema di regole
definite dalla pianificazione urbanistica a quella che invece si può
definire una vera e propria “urbanistica contrattata”, frutto di
pressioni e mercanteggiamenti di potere233. Al tempo stesso, gli anni
di Milano Due erano anni di ricomposizione degli attori presenti sul
mercato immobiliare dell’area milanese. Un periodo in cui la
molteplicità e la frammentazione di iniziative e imprenditori che
avevano caratterizzato gli anni del boom lasciava il posto a un
mercato più selettivo, caratterizzato soprattutto da poche operazioni
di grande portata, promosse da alcune tra le maggiori società
immobiliari italiane. Una situazione che mutava i rapporti di forza
tra promotori, istituzioni locali, partiti politici. Fu proprio la
lottizzazione di Milano Due promossa dalla Edilnord berlusconiana a
inaugurare, nell’area milanese, un «modello di urbanizzazione a
larga scala» divenuto in seguito comune. Come annotano Piazza e
Balducci: nel negoziato con Berlusconi «il ruolo dell’amministratore
comune è del tutto subordinato all’operatore immobiliare, in pratica
le condizioni che vengono “imposte” all’Edilnord non intaccano mai
le intenzioni e i progetti della società. I patti convenzionali sono tutti
concentrati sulla realizzazione, a carico della Edilnord, di opere di

232
Ibidem
233
E. Bazzaco, N. Origoni, Mia Milano: quale città, in www.eddyburg.it

114
urbanizzazione primaria e secondaria. Queste opere sono già tutte
previste nei progetti della società perché sono un elemento che
caratterizza il tipo di intervento»234. Alcune peculiarità sembravano
allora distinguere la Edilnord da altri operatori del mercato edilizio:
un’ampia disponibilità di capitale finanziario, una crescente tendenza
verso la diversificazione delle proprie attività e, almeno a Milano
Due, una concentrazione sulle fasi iniziali (organizzazione,
progettazione) e finali (gestione) dell’operazione, delegando a
imprese esterne la fase della costruzione vera e propria235. In fondo,
Berlusconi ci tiene a non essere confuso con un banale palazzinaro.
«Chi è il palazzinaro?» gli chiedono in un’intervista. E lui: «Uno che
improvvisa il cantiere, costruisce uno stabile, ma non pensa
nemmeno al marciapiede, di cui deve incaricarsi il Comune»236.

Gli architetti che progettano Milano Due sono una piccola squadra di
giovani laureati da poco, alcuni già reduci dall’impresa di Brugherio:
Guido Possa, Enrico Hoffer, Giancarlo Ragazzi e un gruppo di esterni
che di volta in volta li affianca. Nella Edilnord, tra una
trasformazione societaria e l’altra, oltre a Silvio Berlusconi ci sono il
fratello Paolo, il suo compagno di liceo Romano Comincioli, il capo
delle relazioni esterne Vittorio Moccagatta, il giornalista Giorgio
Medail, l’eterno braccio destro Fedele Confalonieri. Berlusconi li
imbarca tutti sull’aereo e li porta a vedere le new town del nord
Europa, in Gran Bretagna, in Olanda, in Svezia 237. Grazie a interviste
rilasciate dallo stesso Berlusconi, in una vecchia biografia scritta dal
giornalista Giorgio Ferrari, oppure in un lungo colloquio registrato
nel 2000 da Paolo Guzzanti e pubblicato nove anni dopo in un suo
libro, è possibile ricostruire i passi della nascita di questa “nuova
città” direttamente dalla testimonianza del suo creatore. È lui stesso
a spiegare che «preferivo avere a disposizione degli architetti giovani,
con cui stabilire un rapporto di collaborazione fortemente interattivo,
con cui poter progettare e adattare, discutendo i problemi man mano
che affioravano»238.
Uno dei primi problemi da affrontare fu quello della circolazione
stradale. Berlusconi insisteva per avere una città senza auto, o

234
A. Balducci, M. Piazza, Dal parco sud al cemento armato, 1981
235
Ibidem
236
R. Gervaso, La mosca al naso, 1980
237
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 21
238
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 18

115
almeno una città in cui auto e pedoni non avrebbero mai dovuto
incrociarsi. Per Milano Due il suo team adottò la soluzione di tre
circuiti del tutto indipendenti per vetture, biciclette e pedoni. «Mi
venne l’idea di trattare il traffico automobilistico alla stregua di un
fiume che scorre, cioè abbassato di qualche metro rispetto al livello
delle abitazioni e attraversato da numerosi ponticelli aventi pendenze
minime, in modo da favorire il transito di pedoni e biciclette. In
questo modo diventava possibile accedere a tutti i servizi senza
incontrare neanche un’automobile. Il sogno di chiunque,
insomma»239. Un’altra questione decisiva fu quella dei servizi.
Grande rilievo venne dato alle scuole e ai loro differenti raggi
d’affluenza: brevi per gli asili, uno per ciascuna delle tre unità di
Milano Due; più estesi per le due scuole elementari e per l’unica
scuola media. Numerosi erano i parchi giochi destinati ai ragazzi
secondo le diverse età. Il progetto prevedeva inoltre un edificio
religioso, uno Sporting Club e una piazza centrale che si affacciava su
un piccolo lago artificiale. «Era necessario vivificare il quartiere.
Ricordo che per vendere i negozi decisi di differenziare le locazioni a
seconda delle potenzialità di quel mercato per il singolo negozio, per
cui a certi negozi ho dovuto cedere anche gratuitamente i locali
perché era importante avere certi negozi, anche se non c’era un
livello di vendita da giustificarli. Avrebbe dovuto esserci anche un
grande centro diversificato per le mostre, ma il Comune non me lo
lasciò fare»240. Si decise che le costruzioni fossero di tre tipi: accanto
alle costruzioni basse a schiera, ospitanti al piano terra sotto i
“portici” i negozi, ci sarebbero state palazzine più alte, con la loro
forma ad “elle” e a “c”, poi ci sarebbero state le “torri” con
appartamenti più lussuosi, e infine altri stabili avrebbero ospitato un
hotel, un residence, palazzi di uffici. «Anche il concetto di
personalizzazione dell’appartamento – precisa Berlusconi – venne
ampliato: al cliente volevo dare la possibilità di collocare le pareti
divisorie del suo appartamento e di scegliere i materiali per i
rivestimenti interni»241. L’ambiente fu progettato valorizzando il
verde, inteso come tessuto connettivo dell’intero quartiere e
dell’arredo urbano. «Pensando a Milano Due realizzavo l’idea della
“casa di campagna in città”, di una casa che offriva molte delle
comodità proprie di una città, senza doverne sopportare il caos, lo

239
Ibidem, pp. 34-35
240
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 96
241
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 35

116
smog, la penuria di spazio. Ero convinto che Milano Due avrebbe
attratto abitanti, prima ancora che per l’accuratezza delle finiture o
per le felici soluzioni date agli appartamenti, per il fatto che
soddisfaceva il desiderio di un diverso stile di vita» 242. Milano Due
tuttavia non voleva essere una vera e propria “città-satellite”, ma
piuttosto una “città-figlia” della grande metropoli, capace di svolgere,
a differenza dei quartieri costruiti secondo i criteri dell’edilizia
popolare, un ruolo attivo. Sotto il progetto di Milano Due stava
un’ambizione smisurata. Berlusconi all’epoca disse: «Superato il
concetto del quartiere dormitorio (quello che serve unicamente al
pernottamento senza possibilità di divertimento, di comunicazione,
di relazioni sociali) e del quartiere ghetto (dove esistono attrezzature
capaci di favorire la vita comunitaria embrionale e il divertimento,
ma limitatamente alla piccola comunità residente con tutti gli
inconvenienti relativi, e cioè vita privata sotto controllo, pettegolezzo
eccetera), è stato allora pensato un quartiere “aperto” che, per la sua
particolare conformazione, consenta ai residenti di conservare la
privacy nelle zone residenziali e di instaurare nei luoghi di incontro,
appositamente concepiti, una osmosi vitale e di rinnovamento
continuo con la grande città; un quartiere cioè che, superdotato per
quanto riguarda le attrezzature commerciali, sportive, ricreative e
culturali, funga da polo d’attrazione nei confronti della città stessa,
dando vita a un flusso di scambi sconosciuto ai quartieri fino ad ora
realizzati. Un quartiere pilota che, profittando di questa prerogativa e
di altre particolari caratteristiche ambientali, possa costituire un
teatro ideale per lo sviluppo armonico della vita sociale, familiare,
individuale»243. Un progetto, dunque, che va al di là della pura e
semplice speculazione immobiliare. C’era «la voglia e l’orgoglio di
inventare una nuova formula urbanistica»244. Ma anche quella di
vendere, conquistare clienti. «Devi conoscere ciò che vendi e devi
soprattutto far capire i vantaggi che può dare a chi lo acquista.
Questo valeva soprattutto quando si dovevano vendere le case: io non
dicevo che bella casa, ma illustravo come sarebbe cambiata la vita di
chi ci fosse andato ad abitare»245. Racconterà in seguito Berlusconi:
«Ho cominciato dall’edilizia perché, finita l’università, ho creduto,
guardandomi in giro e con pochi soldi che avevo in tasca guadagnati

242
Ivi
243
Ibidem, p. 36
244
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 98
245
Ibidem, p. 159

117
quando ero studente, che quello fosse un settore che poteva dare i
profitti più alti: si costruiva a 100 e si vendeva a 200. Sono entrato
nell’edilizia, ma ho cercato di innovare. Le innovazioni sono state
molte, ne cito una per tutte: quando l’edilizia ha cominciato a
perdere i vantaggi dell’avviamento, anziché costruire case sparse
abbiamo costruito dei quartieri. Così, una volta finita la prima parte
del quartiere, c’era la possibilità di vendere anche tutto il resto,
fornendo tra l’altro dei servizi che esulavano dal concetto ristretto di
“casa”. Ed è in questo modo che abbiamo avuto successo»246.

Dopo le precedenti esperienze, Berlusconi si convince che qualsiasi


operazione imprenditoriale funzionava solo se la si sapeva vendere
bene. Così, nell’autunno 1969, dà avvio ai lavori di Milano Due
pensando prima di tutto ad una “vetrina” per il pubblico.
«Cominciammo con la costruzione della portineria centrale, dei
primi edifici in cui predisporre gli appartamenti campione, di un
campo giochi, di un tratto di strada attraversato da un piccolo ponte,
di un bar e di alcuni altri servizi. Ci tenevo così tanto a questa “zona
vetrina” che decisi di non dare il via alla campagna promozionale fino
a che non fosse stata completata»247. Furono comprate delle paginate
pubblicitarie sul Corriere della sera, usando lo strumento, allora
inedito, della “pubblicità redazionale”, foto e articoli sull’idilliaca vita
del quartiere, scritti con grafica e stile del tutto simili ai normali pezzi
del quotidiano. La risposta degli acquirenti fu, da subito, più che
soddisfacente. «I primi anni ero il venditore principe, per cui ero lì
vendevo io, facevo le trattative io. Stavo nel quartiere tutta la
settimana, mi occupavo personalmente di molte cose, poi seguivo
anche la parte progetti, perché c’erano questi giovani miei amici
architetti che erano bravissimi, ma amletici, assediati dai dubbi, e io
dovevo esserci»248. I prezzi, inizialmente convenienti, salirono subito.
I primi appartamenti venduti nel 1971 costavano 125mila lire al
metro quadro, ma solo due anni dopo si viaggiava sopra le 350mila, e
nel 1981, a costruzione ormai ultimata, arriveranno a 1.800.000. E
ancora di più se si comprava sulle “torri giardino”, fortilizi del lusso
con palestra, piscina, sala giochi e terrazze249. I tempi di consegna
invece erano piuttosto lunghi (due o tre anni), ma proprio questo

246
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 36-37
247
Ibidem, p. 37
248
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 116
249
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 21

118
lasso di tempo consentiva a Berlusconi di finanziare le operazioni. I
primi ad acquistare a Milano Due furono dei clienti che avrebbero
voluto metter su casa a Brugherio ma che si erano trovati di fronte al
tutto esaurito. La domanda per la cittadella in costruzione a Segrate
si fece così sostenuta che l’impresa si mise ad adottare il sistema delle
“ricevute provvisorie”, vincolanti solo per il compratore e non per
l’impresa costruttrice, imponendo anche il rogito prima dell’ingresso
nell’appartamento. «Alla media borghesia bisognava dare l’idea di un
salto di qualità, anche se per noi non comportava nessuna spesa in
più. Per questo ho fatto delle case che vendevo molto prima degli
altri e a un prezzo superiore» 250. L’anno del boom fu il 1973:
Berlusconi disponeva di 30 accompagnatori e di 13 venditori. Nel
solo mese di maggio il valore degli appartamenti venduti ammontava
a 7 miliardi, di cui 1 miliardo e 700 milioni raccolto in un solo
weekend251. Per quella tipologia immobiliare, d’altronde, si trattava
quasi di un monopolio. Verso la metà degli anni Settanta si impose
però una nuova crisi del mercato. Allora, per vendere case e uffici la
Edilnord decise di ricorrere nuovamente agli investitori istituzionali
(anche di un certo livello, come la Banca d’Italia, la Ras
Assicurazioni, l’Ente Previdenziale Medici) che nei periodi di
recessione erano gli unici a potersi permettere acquisti. Grazie a
queste cessioni arrivarono a Milano Due molte famiglie affittuarie252.
Nel 1977 il mercato del frazionato riprese vigore. Furono completati il
Centro Direzionale e la piazza che si affaccia sul laghetto artificiale.
Dopo un tentativo di realizzare un piccolo polo fieristico (fu lanciata
la manifestazione “Milano Vende Moda”), la maggiorparte degli spazi
furono acquistati da grandi aziende per i loro uffici, come la Ibm. I
rendiconti di Milano Due parlavano chiaro: quel milione e
quattrocentomila metri cubi di costruzioni su 713mila metri quadrati
di superficie erano diventati un grande business 253. Alla fine del 1979,
quando tutto ormai era pressoché costruito, le abitazioni ancora
disponibili raddoppiarono di valore. Un appartamento a Milano Due
era ormai uno status symbol.
Addirittura si parlò di replicare il modello all’estero. A quanto pare,
Berlusconi cominciò a trattare il progetto di una San Paolo Due in
Brasile e perfino quello di una Teheran Due in Iran, su invito della

250
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 159-160
251
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 38-41
252
Ibidem, p. 50
253
Ibidem, pp. 50-51

119
sorella dello Scià di Persia allora ancora al potere 254. Non se ne fece
nulla, ma in compenso si tentò di replicare più vicino. Berlusconi ci
provò con Milano Tre, nel comune di Basiglio, ben più lontana dalla
vera Milano, che però non sarà affatto la fotocopia del precedente
successo. Risente di un mercato che ondeggia, della nuova legge
urbanistica Bucalossi che stabiliva un aumento degli oneri relativi
all’edificazione dei suoli, dei frequenti cicli negativi nel business
dell’immobiliare. Risente anche di un Cavaliere edilizio già
crepuscolare, quello che annoiato dai vecchi giocattoli ormai guarda
altrove, alla tv, ultima frontiera del nuovo255. Uno strumento
cresciuto proprio, inaspettatamente, sotto i portici di Milano Due.
Scriverà un biografo francese, Eugène Saccomano: «Fa lesto i suoi
conti. Tre soli piccoli minuti di pubblicità televisiva valgono il prezzo
d’un appartamento in un complesso residenziale che ci sono voluti
anni a costruire e che ha richiesto investimenti molto costosi»256.

4. Garden cities

Gira e rigira, tra una convenzione e un mutuo, spunta sempre la


visione di quello che la città rappresenta e di come potrebbe
diventare in futuro. Quando istruiva i venditori della Edilnord che
dovevano piazzare appartamenti nella “città dei sogni” di Milano
Due, Berlusconi ripeteva ogni volta le tre regole fondamentali per
conquistare il cliente. Primo: regalare un fiore alle signore, poiché
sono sempre le mogli che decidono gli acquisti e mai i mariti.
Secondo: accendere la tv su TeleMilano, emittente di quartiere,
vantarla come un optional esclusivo che non esiste altrove. Terzo:
schiacciare al momento giusto, con sapienza scenica ed opportuno
effetto sorpresa, il pulsante che alza o abbassa le tapparelle
elettriche257. Non che bastino un telecomando e un alzapersiane
elettrico per farci entrare nel regno suburbano di Utopia, tuttavia è
innegabile come dietro la costruzione ex novo di città o pezzi di città,
esulando dai casi di pura speculazione immobiliare, ci sia un
progetto di organizzazione sociale, una visione della convivenza
umana e dell’evoluzione delle sue forme.

254
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 26
255
Ibidem, pp. 30-34
256
E. Saccomano, Berlusconi: le dossier vérité, 1994, p. 63
257
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1990, p. 38

120
Abbiamo visto come molti autori, teorici ed empirici, si sono
occupati, in ogni epoca, della città e della sua, diciamo così, “visione
morale”. Mentre nel passato gli studiosi non si erano curati
dell’architettura e dell’estetica del progetto urbano, la crescita delle
maggiori città europee e nordamericane nel XIX secolo fece sorgere
le nuove professioni dell’ingegneria civile e della pianificazione
urbana. Si sa che in passato erano stati fatti molti tentativi di creare
la città perfetta, con pochissimi risultati sul piano pratico. Ma
nell’Ottocento il bisogno forzato di imprimere una pianificazione a
un’espansione delle metropoli che pareva non conoscere sosta
impresse un nuovo impeto alla progettazione urbana utopistica. I
manuali di architettura e sociologia urbana spiegano di due tendenze
concorrenti nella visione utopica della nuova città, entrambe però
concordi sul fatto che, per quanto la moderna metropoli industriale
fosse riuscita a incanalare il commercio e ad organizzare il controllo
politico, lo aveva fatto ad un costo in termini morali, spirituali, etici e
ambientali non più sopportabili258. Nella prima corrente di pensiero
viene incluso quel coro di voci appartenenti all’opinione pubblica
colta che vedeva nel modello di città classico e rinascimentale l’apice
della civiltà moderna, preoccupandosi in particolare dell’impatto che
la rivoluzione industriale poteva avere sulle occupazioni tradizionali
e le comunità locali. Sia i commentatori liberali che quelli
conservatori trovavano che vi fosse qualcosa di negativo nella città
industriale e commerciale, ma ciò che univa queste visioni
“tradizionaliste” o, già all’epoca, “nostalgiche” era la ricerca di quella
che Bruno Zevi chiamava la “città a scala umana”. Si andava così a
invocare, e progettare, un revival delle comunità civiche a bassa
densità, sotto le varie definizioni di new town e garden cities259. La
seconda corrente di pensiero è associata invece alla rivoluzione
estetica e artistica del modernismo, con il suo innamoramento per le
linee minimaliste, pulite e astratte, che doveva diventare la firma
collettiva di una nuova generazione di urbanisti ai quali la città
appariva come un luogo dalle infinite possibilità sperimentali260. Le
Corbusier ne fu il simbolo, attraverso il progetto della “città
funzionale” e con il passaggio dalla scala orizzontale a quella
verticale, espresso in modo particolare nelle unité d’habitation,

258
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, pp. 77-78
259
Ibidem, p. 78
260
Ivi

121
blocchi di torri geometricamente ordinate che sarebbero poi
diventate emblematiche dei programmi di edilizia popolare che
cominciarono a definire il paesaggio urbano delle città grandi e
piccole di tutto il mondo, a partire dagli anni Cinquanta. D’altronde
fu il suo best-seller Verso un’architettura, pubblicato nel 1923 a
contenere la famosa (o famigerata) affermazione secondo la quale,
come un aereo è una macchina fatta per volare, così «una casa è una
macchina fatta per abitare»261.

Sicuramente ciò che sembra fare al caso nostro è la prima delle due
correnti di pensiero, quella che poi sfocerà nello sviluppo del City
Beautiful Movement, del New Town Movement, del Garden City
Movement. Il suo massimo ispiratore è Ebenezer Howard, un inglese
emigrato negli Stati Uniti a ventuno anni, dove trovò lavoro come
stenografo a Chicago e si appassionò a talune letture di pensatori
spiritualisti alla Withman o utopisti alla Bellamy, e una volta tornato
in Inghilterra divenuto impiegato del tribunale di Londra. di Londra.
Non doveva essere molto indaffarato sul lavoro se nel 1898 trovò il
tempo per illustrare le sue teorie in Tomorrow, a paceful path to
real reform, opuscolo ripubblicato quattro anni dopo col titolo che lo
rese famoso, L’idea delle città giardino. Questo diventò il manifesto
di un nuovo movimento per la pianificazione, la Garden City
Association, che Howard aveva contribuito a fondare e che avrebbe
esercitato un forte influsso sulla pianificazione urbana
contemporanea in tutti i paesi anglosassoni262. Come ogni utopista
che si rispetti, alla base del suo piano c’era una big idea: salvare la
città dal congestionamento e la campagna dall’abbandono. La tesi di
Howard era piuttosto semplice: egli pensava che, tra il risiedere in
città oppure in campagna, ci fosse una terza alternativa «nella quale
tutti i vantaggi della vita cittadina più esuberante e attiva e tutte le
gioie e le bellezze della campagna si ritrovano in una perfetta
combinazione; e la certezza di poter vivere questa vita costituisce la
calamita che darà i risultati per i quali noi tutti stiamo lottando – lo
spontaneo muoversi della popolazione, dalle nostre affollate città
verso il cuore della nostra buona madre terra, fonte, insieme, di vita,
felicità, ricchezza e potere»263. La città giardino da lui immaginata
avrebbe unito i vantaggi della vita urbana ai piaceri della campagna

261
Ibidem, pp. 88-89
262
Ibidem, pp. 79-85
263
E. Howard, L’idea delle città giardino, 1962, p. 5

122
(uno slogan destinato, insomma, ad avere successo). In un certo
senso Howard – e non è il solo nella storia – non ha fiducia nelle
grandi città, e pensa che queste debbano essere divise in piccole unità
autosufficienti. Per il compianto Bruno Zevi, «come scrittore e
sognatore di nuove comunità, Howard è l’ultimo della lunga schiera
di utopisti del XIX secolo; come statista e realizzatore, è, più che un
profeta, il primo campione dell’urbanistica moderna»264. Non che lui
fosse il tipo autoritario che desiderava «muovere la gente di qua e di
là, come pedine su una scacchiera», ma era convinto che «le città
giardino fossero semplicemente i veicoli di una ricostruzione
progressista della società capitalistica che l’avrebbe resa simile a
un’associazione cooperativa di comunità affini». L’uso della metafora
della calamita voleva proprio mettere l’accento sulla sua convinzione
che, per riuscire ad affermarsi, la città giardino deve vendersi da sé,
deve essere una comunità di elezione invece che obbligatoria 265.
L’essenza della città utopistica di Howard è la comunità autonoma
tipica del villaggio feudale, collegata a un limitato sviluppo
industriale e messa in condizione di utilizzare i moderni mezzi di
trasporto per collegare l’uno con l’altro i centri urbani. Caratteristica
importante del progetto è, infatti, che questi “satelliti” fossero
collegati tramite ferrovie a una città centrale, in un insieme urbano
che Howard designava con il termine di “città sociale”. Al fine di
impedire che le città si fondessero l’una con l’altra, vi sarebbe stata,
tra un insediamento e l’altro, una cintura verde di proprietà comune,
formata da «campi, siepi e terreno boschivo»266.

Nel 1902 Howard mise alla prova le sue idee acquistando terreni a
Letchworth, un paesino a circa 35 miglia a nord di Londra e facendo
costruire un prototipo della città giardino. Poiché spesso l’urbanista
ha sentimenti totalitari, la vita nella città fu regolata
minuziosamente. Tutto era organizzato, non solo venne prescritto il
rapporto tra case e giardini, ma si vietò di aprire negozi in locali di
abitazione, si obbligò a cambiare zona agli artigiani che volevano
diventare piccoli industriali, si limitò il numero di professionisti in
ogni quartiere in modo che ognuno potesse avere abbastanza
clientela267. Nonostante tutto, il modello delle garden cities ebbe una

264
B. Zevi, Storia dell’architettura moderna. Dalle origini al 1950, 1961, p. 70
265
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 81
266
Ibidem, p. 82
267
S. Ballinetti, New town, old dream, in “Europa”, 3 aprile 2009

123
forte influenza sulle politiche urbane di vari governi, specialmente in
Nord Europa e negli Stati Uniti. Soprattutto nell’Inghilterra del
dopoguerra si svilupparono molte new town, che potremmo definire
figlie delle città giardino. Le new town seguono generalmente uno
schema urbanistico definito: al centro si trova un’area
amministrativa-commerciale, circondata interamente da quartieri
residenziali, separati a loro volta da parchi e piccole aree agricole,
caratterizzati da colorate villette a schiera con il tradizionale
giardino268. Così, da un lato le new town sono diventate dei discreti
quartieri residenziali, con gestione e prezzi da classe medio-alta, per
liberi professionisti o manager che lavorano nella vicina metropoli e
non certo per piccoli operai e agricoltori come immaginava
quell’utopista di Howard. Dall’altro verso invece le new town hanno
costituito la premessa per l’isolamento e il degrado di quartieri
periferici destinati a ceti medio-bassi, poveri o immigrati, come
quelle banlieues parigine agitate, agli inizi degli anni Duemila, dai
fuochi di un’esasperata rivolta.

In Italia si ritrovano vecchi esempi ispirate alle città giardino. È il


caso del quartiere Montesacro a Roma, edificato a partire dagli anni
Venti lungo la via Nomentana per opera del governatorato di Roma e
dell’Istituto case popolari. Quella di creare la garden city più grande
d’Europa era un’ambizione dichiarata, ma l’espansionismo edilizio
dei decenni successivi fagocitò tutta la zona. Altro esempio molto
gettonato, sempre a Roma, è la Garbatella. Realizzazione ispirata alle
garden cities, che la grandeur mussoliniana non riuscì a stravolgere
(ma si limitò ad aumentarne la cubatura). Talmente ben disegnato,
da non aver bisogno nemmeno di un semaforo. E ora, ovviamente,
inglobato dal resto della città. Esistono anche esempi più sfortunati.
Uno è Librino, quartiere periferico di 70 mila abitanti a sud ovest
della città di Catania, pensato intorno alla metà degli anni Sessanta
come città satellite modello. Peccato che il progetto, affidato
all’architetto giapponese Kenzo Tange, non produsse l’effetto
sperato. Il risultato – si legge in un documento della direzione
ambientale del comune – è «un’autostrada con le case attorno, in cui
socializzare era complicato. Un progetto inespresso e incompiuto. Un
quartiere che però non ha abbandonato la sua peculiarità rurale e in
cui ancora oggi è possibile vedere mandrie di pecore che brucano

268
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 83

124
l’erba»269. Negli anni del boom economico per frenare la crescita
incontrollata delle grandi città (Roma, Napoli, Milano, Torino)
vennero proposti faraonici progetti di new town da realizzare anche
in Italia. Si parlò molto della costruzione di due new town, una a
nord e una a sud di Roma, collegate alla capitale tramite due
superstrade, ma poi il progetto cadde nel vuoto270. Allo stesso modo,
negli anni Ottanta, nacque in ambito politico craxiano il progetto di
“MiTo”, presunta new town da insediare tra Milano e Torino, e lo
stesso allora premier Craxi vagheggiava “Mediterranea”, di qua e di
là del Ponte sullo Stretto, pure quello da realizzare271.

La visione di Howard incontrò un terreno fertile negli Stati Uniti,


dove ci si ispirò molto alla garden city. A partire da Levittown, il
famoso grande sobborgo di Filadelfia fatto di casette con giardino,
laghetti e popolazione benestante e preferibilmente bianca. Lo studio
di Herbert Gans del 1967, che passò lì più di un anno della sua vita,
divenne uno dei classici della sociologia urbana (o forse, più
precisamente, suburbana)272. Erano gli anni Sessanta, culla di grandi
fermenti e contestazioni ma pure quelli in cui nacque il modello
dell’American way of life. Gli Stati Uniti si popolarono di una nuova
borghesia, né urbana né rurale: bravi padri di famiglia che ogni sera
tornano dai grattacieli delle metropoli alle villette prefabbricate,
mogli annoiate e premurose, abili tanto nell’allevare marmocchi
quanto nel miscelare vermut e gin, vicini ficcanaso, bambini che
scorazzano tra il vialetto d’ingresso, l’altalena e il prato tosato di
fresco. In cantina, magari, un rifugio antiatomico chiavi in mano,
conseguenza della propagandata minaccia sovietica, spaventapasseri
provvidenziale per l’ordine costituito. «Una diffusa voglia di
conformismo» per usare le parole di Richard Yates, uno dei migliori
scrittori che affondò la penna e i denti in quella realtà273. Sia Gans che
altri studiosi misero in luce quella che si potrebbe definire col
termine di “mentalità suburbana”, che doveva diventare l’autentica
identità popolare dell’America nel dopoguerra e la cui migliore
esemplificazione si trova in un altro famoso studio sociologico, quello
di William White sulla città di Park Forest, nell’Illinois. Park Forest

269
S. Ballinetti, New town, old dream, in “Europa”, 3 aprile 2009
270
Aa. Vv., New Town, in it.wikipedia.org
271
F. Ceccarelli, Il sistema del mattone, in “La Repubblica”, 9 dicembre 2008
272
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 110
273
R. Yates, Undici solitudini, 2009, p. 10

125
viene presentata come un’enclave della classe media,
sostanzialmente bianca, progettata per persone con poco più di
trent’anni, dove erano le donne, spesso casalinghe, a mantenere le
relazioni sociali, con un melting pot di religioni che però si arresta di
fronte alla possibile ammissione dei neri, dando adito a sentimenti
che si fondavano «non tanto sull’odio razziale quanto sulle paure di
natura economica e sociale». In questo suo studio degli anni
Cinquanta, intitolato How the New Suburbia Socialises, White
arrivava a una conclusione sul rapporto tra carattere e ambiente per
cui sarebbe il luogo a determinare il carattere di chi ci vive. Scriveva:
«Un tempo la gente odiava ammettere che il proprio comportamento
fosse determinato da qualcosa che non fosse la propria libera
volontà; questo però non vale per quelli che vivono nei sobborghi,
che hanno piena consapevolezza del potere pervasivo esercitato su di
loro dall’ambiente. Questo infatti è uno degli argomenti di cui
preferiscono parlare; e con questa crescente curiosità tutta laica
verso la psicologia, la psichiatria e la sociologia, essi discutono della
loro vita sociale usando una terminologia clinica che ci sorprende.
Ma non la vivono con disagio, perché le cose stanno così, sembra che
dicano, e il trucco non è combatterla ma comprenderla»274. È questa
la vittoria di una città chiusa, una città che non è una città, e che già
pare anticipare le tendenze future delle gated communities, dei
villaggi monoculturali e semiprivati.

L’idea originariamente utopica si rivolte nel suo contrario, nel fortino


assediato. Così gli Stati Uniti diventano, a partire dagli anni Ottanta,
anche la prima patria della gated communities. Letteralmente:
comunità protette da barriere. “Città private” in cui trovano rifugio (è
proprio il caso di dirlo, e infatti vengono chiamate anche “città
fortezza”) cittadini con ottime possibilità economiche, in fuga dalle
città “centrali” a causa della paura del contatto con i criminali ma
anche con i poveri, immigrati o meno. Un fenomeno destinato a una
continua crescita. In queste aree, di fatto sottratte allo spazio e alla
regolamentazione pubblici, ci sono regolamenti interni
estremamente rigidi che arrivano fino ad imporre la tinteggiatura dei
muri, la manutenzione dei prati o a vietare le corde per il bucato o le
aste per le bandiere. In molte community ogni abitante deve chiedere
l’accordo preventivo degli architetti dell’associazione prima di
ridipingere la nuova casa o di piantare alberi in giardino. In genere si

274
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 111

126
tratta di comunità formate da cittadini sostanzialmente omogenei
per reddito, etnia, cultura, atteggiamenti e attese nei confronti della
vita. Evidentemente non tutto è così semplice come sui depliant
pubblicitari: ci sono dei nemici interni, come la delinquenza
giovanile, e degli agguerriti oppositori esterni che, quando si
ritengono lesi dalla privatizzazione di un bene pubblico (reti stradali,
parchi o servizi pubblici rimasti compresi nelle enclave) fanno causa
e la vincono275. Tutto richiama alle strategie difensive, dalla
militarizzazione dell’architettura degli edifici all’innalzamento di
barriere verso i settori popolati da differenti strati sociali,
dall’introflessione di spazi commerciali e di svago fino alla
trasformazione di abitazioni private in veri castelli fortificati.

Pensare che George Simmel, appena pochi decenni prima, credeva


che gli abitanti giovani delle campagne si calassero nella folla
inebriante della metropoli, con lo scopo di fuggire dal conformismo e
dalla monotonia di quei luoghi. Difficilmente avrebbe sospettato che,
per molti milioni di americani, europei, occidentali, il confort e il
senso di sicurezza forniti dal conformismo e dalla monotonia delle
piccole città sembrassero offrire una prospettiva assai più attraente
rispetto alla pazza folla della metropoli276.

Nel giugno del 1970 il rampante costruttore Berlusconi si portò tutta


la sua banda di giovani architetti e manager in giro per il Nord
Europa, allo scopo di visitare gli hinterland di Londra, Stoccolma,
Copenaghen, e loro famose new town. Il viaggio, a quanto pare, si
rivelò una delusione: le new town straniere erano destinate a ceti
meno abbienti, erano nettamente separate dalla città, avevano una
densità abitativa troppo bassa, la presenza di servizi e negozi era
scarsa. Diverse da quello che avevano in mente. Il viaggio fruttò solo
qualche soluzione di dettaglio, come la disposizione dei vialetti per la
zona vetrina, che si ispirava ad un’ambientazione osservata a
Cambridge. «Mi resi conto – affermò Berlusconi – che Milano Due
era qualcosa di totalmente nuovo. Il che quasi mi faceva paura»277.
Ma l’ego del creatore di Milano Due non si imbarazzava certo per
paragoni impegnativi. In una delle sue benevole biografie scopro che

275
A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008,
p. 54
276
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 112
277
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 39

127
l’Utopia di Thomas Moore è un libro che spesso Berlusconi
raccontava di regalare agli amici. Di più: lo fece direttamente
pubblicare in Italia, in cinquecento copie numerate e rilegate in oro
dalla sua prima casa editrice, nel 1978, in occasione del quinto
centenario della nascita dello scrittore. «Ancora universitario, avuto
tra le mani il libro di Thomas Moore, mi sono innamorato di Utopia e
ho incominciato a sognare di costruire un giorno una città perfetta
che si chiamasse così». Non lo diceva per scherzo. E difatti
l’intervistatore gli chiede: c’è riuscito? «Non ci sono evidentemente
riuscito, ma progettando nuove unità urbane, sia in Italia che in altri
Paesi, ho tentato sempre di avvicinarmi il più possibile a un modello
di città, un mio modello, senza colate di cemento, senza condomini
ad alveare, senza automobili, che potesse essere, per i suoi abitanti, il
teatro ideale per una vita più serena»278.

5. Milano Due

L’ingresso, venendo da nord, è una piccola rotonda erbosa un po’


spellacchiata, da cui si protendono tre lampioni curvilinei, di colore
rosso, alti una decina di metri. Al centro delle due corsie di ingresso il
cartello “Milano Due”. Sulla destra l’analogo cartello con la scritta
“Milano” barrata di rosso, su cui la manina di qualche tifoso di calcio
deve aver cancellato la vocale finale, così si legge “Milan”, come la
squadra di proprietà del presidente. In realtà non esisterebbe nessun
confine amministrativo, sia di qua che di là è sempre Comune di
Segrate. La prospettiva è un lungo viale in leggera discesa, tra filari di
abeti e condomini rossastri, con ai lati un doppio sentiero
leggermente rialzato, mattoncini e lastre, pedoni da un lato, biciclette
dall’altro, come accuratamente segnalato da un altro cartello.
All’orizzonte si intravedono dei ponti. È questa la strada centrale,
indicata sulle mappe come “Strada di spina Milano Due”, che io
percorro arrivando in autobus e che molti abitanti del posto
transitano in automobile, ribassata di un paio di metri rispetto al
resto del complesso. La rete dei percorsi pedonali e ciclabili non la
attraversa a livello, ma tramite una serie di ponti. La percorribilità
pedonale del quartiere era uno degli aspetti su cui la campagna
promozionale degli anni Settanta insisteva di più, con implicazioni al
tempo stesso ecologiche e di lifestyle. «La rivincita sulle auto»,

278
S. D’Anna, G. Moncalvo, Berlusconi in concert, 1994, p. 112

128
«Milano Due: operazione aria pulita». La separazione dei percorsi
pedonali e veicolari era ovviamente presentata come una soluzione
rivoluzionaria, profondamente innovativa. Nessuno ci aveva mai
pensato prima: «Milano Due è il primo esempio di città dotata di un
triplice sistema stradale completamente differenziato»279. Quella
della specializzazione funzionale dello spazio stradale era in realtà da
molto tempo un tema non solo ricorrente, ma persino banale del
dibattito urbanistico. Milano Due ne fa un’operazione sistematica e
vagamente spettacolarizzata, come si conviene alla volgarizzazione di
una soluzione che, ormai slegata da alcuna ricerca disciplinare, serve
soprattutto a costruire un’immagine di qualità, una nuance di
apprezzabile decoro280. Ho l’impressione che questa chiave di lettura
sarà una costante nella mia breve osservazione – diciamo etnografica
– di questa cittadella.

Ai lati della strada di spina, a ogni scalinata che la collega coi percorsi
ciclo-pedonali, accurati cartelli segnalano le residenze e i negozi e le
attività sociali che si trovano nei pressi. Ci sono molte panchine,
qualche cabina telefonica, genere ormai diventato vintage per i
progressi della telefonia mobile, ma qui ancora tenuta in perfetto
stato, e poi delle mappe nello stile delle mappe comunali che nelle
grandi città servono a indirizzare il turista disorientato. Ringhiere,
lampioni, pali, cancelli del quartiere sono tutti di un tipico e
compatto colore rosso, marchio cromatico di identificazione del
quartiere, come una silenziosa linea di demarcazione tra ciò che è
dentro e ciò che è fuori. La fluidificazione e soprattutto
canalizzazione dei percorsi per veicoli motorizzati avviene attraverso
rotonde e strade che innervano il quartiere come vene sottopelle, fino
ai garages posti sotto i palazzi residenziali, sotto i complessi di uffici,
sotto i prati da cui capita, all’improvviso, di vedere aprirsi delle
grandi prese d’aria. Un semiotico si soffermerebbe a riflettere sul
fatto che ogni percorso narrativo viene esplicitato, si tratta di un
ipercodifica, come avrebbe detto Eco trent’anni fa, vale a dire la
predisposizione di sceneggiature e di istruzioni per l’uso, in questo
caso relativamente ai luoghi, come del resto si confà a un posto
creato avendo bene in mente valori sia utopici sia pratici. Più
prosaicamente, mi viene in mente un vecchio monologo comico di

279
Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, p. 44
280
F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio
2001

129
Beppe Grillo, prima della sua trasformazione in guru della
contestazione politica. Raccontava di una volta che era stato a Milano
Due: «Tutto ordinato, pulito, perfetto… Entri e c’è un laghetto con un
cartello con su scritto “laghetto”, poi trovi un ponticello e c’è scritto
“ponticello”. Poi dici: “Mica mi stanno prendendo per il culo?”, e c’è
un cartello che dice “Si, ti stiamo prendendo per il culo”»281.

Secondo i promotori dell’operazione Milano Due, a beneficiare della


separazione tra i sistemi di circolazione e di mille altri dettagli
strutturali dovevano essere soprattutto i bambini. «Una città per i
bambini», «A scuola da soli», «Il diritto di giocare». Promesse
mantenute, a quanto pare. In un quartiere chiuso, e senza il pericolo
dell’attraversamento stradale, accadeva spesso che i bambini fossero
autorizzati a uscire di casa da soli. Una delle loro mete doveva essere
sicuramente il parco giochi. Lo visito è scopro che molto è cambiato.
Il fortino degli indiani, si dice, è bruciato. Del ranch dei cowboys, del
laghetto, della pompa di benzina non restano più molte tracce. Ho
negli occhi le fotografie, molto animate, pubblicate sul volume
promozionale della Edilnord del 1976. Ora gli stessi luoghi mi
sembrano irriconoscibili. Il fatto è che Milano Due sta invecchiando.
Nel corso della mia visita incontrerò pochi bambini. Forse, per effetto
del suo stesso successo, il quartiere ha conosciuto poco ricambio di
popolazione. Un destino paradossale per un luogo in cui lo spazio dei
bambini costituiva una sorta di surrogato dello spazio pubblico e in
cui asili, scuole, parchi gioco erano forse i veri servizi offerti ai
residenti282. Sulle giostre oggi non c’è nessuno. In compenso, si
presenta ai miei ricordi la trama agghiacciante di un breve racconto
scritto da J. C. Ballard nel 1988, tradotto in italiano col titolo Un
gioco da bambini. Da parte dello scrittore inglese, una delle critiche
più destabilizzanti ai progetti architettonici che vagheggiavano di
utopie urbane. La storia è quella di un elegante e raffinato complesso
residenziale ad ovest di Londra dove, nonostante i dispositivi di
sicurezza, le telecamere, le mura di cinta, viene commessa una
terribile strage. Tutti gli abitanti adulti del residence vengono uccisi.
Nessuno vuole crederci, ma alla fine si scoprirà che gli assassini sono
i figli dei residenti, i quali «si sentivano imprigionati per sempre in

281
B. Grillo, Tutto il Grillo che conta: dodici anni di monologhi, polemiche, censure,
2006, p. 160
282
F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio
2001

130
un universo perfetto»283. L’omicidio di quei genitori che avevano
realizzato per loro quella utopia residenziale non rappresentava l’atto
di fondazione di una setta o un gesto rituale, ma la semplice
eliminazione dell’ultimo ostacolo da rimuovere per conquistare la
propria identità.

Ovviamente quella di Ballard è solo un’iperbolica metafora e il mio


un pensiero probabilmente fuori luogo. Nulla di sanguinoso o di
efferato è mai accaduto a Milano Due nei suoi oltre trent’anni di
esistenza. Anzi essa mi appare come un mondo in cui la criminalità è
stata sconfitta, non c’è neanche un angolo dove si spaccia droga, la
disoccupazione è una parola sconosciuta, l’inquinamento atmosferico
non è percepito. Impressione chiaramente superficiale. Eppure è
vero che in tutti questi anni di vita e un paio di generazioni la mappa
di questo luogo non ha lasciato fuori – come quasi sempre capita –
buchi, zone grigie, aree marginali che si siano trasformate in luoghi
anomici, ovvero quei luoghi che fatalmente finiscono per aprire le
porte al terribile antisoggetto di tutte le città e i centri residenziali
contemporanei: il degrado, l’insicurezza, infine la paura. La quale,
respinta fuori dalla porta grazie al meccanismo della costruzione di
un mondo perfetto, può sempre rientrare dalla finestra. Niente di
tutto questo, almeno in maniera eclatante, a Milano Due. I bambini
della cittadella berlusconiana sono cresciuti benissimo, a quanto
pare. Uno di questi è Andrea M., 24 anni, con lui ho appuntamento
sulla scalinata davanti lo Sporting Club, autentica istituzione della
vita sociale di quartiere. Andrea vive a Milano 2 da quando aveva due
anni. «Sono nato a Milano, ma siccome mio padre ha sempre rivolto
moltissime attenzioni nei miei confronti, in primis riguardanti il
benessere, per potermi far crescere in un ambiente con aria salubre,
con tanto verde e con poco traffico e pericoli, ci siamo trasferiti qui».
Ancora adesso vive coi genitori, lavora in un’azienda di componenti
elettronici, con il suo stipendio di mille euro al mese sarebbe difficile
trovarsi un appartamento da solo, men che meno a Milano Due.
«Questo è sempre stato un posto esclusivo e riservato, un residence
d’elite… secondo me qui chiunque si troverebbe immerso in un
paradiso, e come puoi ben immaginare in paradiso solitamente ci si
sta da dio». Da piccolo ci stava benissimo, le scuole, le giostre, i
prati, gli amici, le partite di calcetto. Arrivato all’adolescenza, mi
dice, Milano Due invece comincia a stare stretta. «Quando avevo 14,
283
J. G. Ballard, Un gioco da bambini, 2007, p. 60

131
15 anni, volevo cominciare a spostarmi altrove, per i giri a Milano o
paesi limitrofi, ma a quell’età o hai un motorino per uscire da solo,
oppure devi chiamare un taxi ma costa troppo, altrimenti gli autobus
sono pochi, e alle 23 e 30 finiscono le corse… uscire fuori la sera
diventava difficile». Il fatto è che avere pochi collegamenti coi mezzi
pubblici faceva parte del gioco, era un prezzo da pagare
all’esclusività. «Milano Due è nato per essere e rimanere un
residence esclusivo, e questo significa per poche persone. Per
esempio, esisteva un progetto per prolungare la linea della
metropolitana dal centro fino a Milano Due, ma sono state fatte
proteste e alla fine non è stato realizzato. C’erano dei progetti per
aprire pub, cinema, locali di tendenza, ma sono stati tutti contestati
in quanto sarebbero stati dei mezzi di attrazione delle masse… e
come sai, spesso e volentieri, purtroppo, le masse di turisti, arrivano,
consumano, sporcano e poi se ne tornano a casa, violando la
tranquillità del posto». Andrea non gira più tanto per Milano Due,
ormai la sua vita sociale si è spostata altrove, a Milano città. Gli
chiedo se frequenta lo Sporting Club, che mi sembra ancora un punto
di ritrovo per la comunità. Dice che è vero, mi ha dato appuntamento
qui anche perché è uno dei posti centrali del quartiere, ma lui ha
smesso di frequentarlo. Una retta di 3.000 euro l’anno gli sembrava
esagerata per una palestra. «Ma anche una retta così esageratamente
alta è fatta apposta, affinché non sia una cosa accessibile a tutti». Gli
chiedo se ci sono stati, a suo avviso, dei cambiamenti nel corso degli
anni rispetto alle abitudini di chi vive nel quartiere e al tipo di gente
che ci abita. Se, insomma, Milano Due può ancora vantarsi di essere
quel paradiso di esclusività. «Purtroppo no. Quando ero piccolo,
Milano Due era un posto d’elite, frequentato ed abitato solo da
signori con la esse maiuscola. Gente benestante, raffinata, dai bei
modi, altamente cordiale. Con il passare degli anni, e con l’aumento
del benessere, a Milano Due è venuto ad abitare anche chi prima non
se lo poteva permettere. E soprattutto sono venute ad abitare
moltissime coppie giovani della nuova generazione. Queste nuovi
abitanti non hanno nulla a che vedere con lo spirito originale di
Milano Due. Spesso si tratta di persone molto arroganti, cafone,
altezzose. I classici “macellai arricchiti”, lontani anni luce dai veri
signori di Milano Due che purtroppo stanno via via scomparendo con
il passare degli anni». Non esiste più la Milano Due di una volta,
insomma. Significativo che a dirmelo sia proprio un ex bambino di
Milano Due, un ragazzo cresciuto qui, fiero di questo quartiere
“esclusivo” e, mi pare di capire, anche di chi l’ha creato. «Guarda che

132
ancora oggi, quando parlo con qualcuno e dico che abito a Milano
Due, loro si tirano giù il cappello».

L’effetto di chiusura comunque funziona. Una volta entrati a Milano


Due non si percepisce il mondo esterno. Gli alberi, molto cresciuti,
conferiscono buona consistenza al trattamento paesaggistico. Le case
sono orientate verso l’interno del quartiere, e raramente verso
l’esterno, verso Milano o la vicina Segrate. In giro poca gente, tranne
nell’area degli uffici, ma le persone che incrocio sembrano avere
un’aria molto più rilassata, perfino sorridente, rispetto agli abitanti
che incrocio nella vicina e caotica Milano. Le strade sono pulite e
silenziose. E sembra quasi di camminare in un plastico (passatemi
l’affermazione anche se è chiaro che nessuno può mai aver
camminato in un plastico). Non incutono timore nemmeno i
sorveglianti che vigilano, per conto del complesso condominiale o
delle aziende private che hanno sede lì, sulla tranquillità del
quartiere. Praticamente una specie di utopia. Mi viene il sospetto che
anche a questo posto possa applicarsi il concetto di città espresso da
Michel Foucault, la chimera della città perfetta che suddivide gli
spazi, affida ad ognuno il suo compito, e ha utopicamente come fine
quello di analizzare e trovare uno spazio, stabilito e disciplinato, per
la persona284. Non è forse questo un caso di eterotopia pianificata,
un’enclave di eccezione che bilancia la parte dominante della città?
Gli edifici di Milano Due non sono stati costruiti né troppo alti, né
destinati esclusivamente a singole famiglie. Ogni edificio è circondato
da una zona verde, destinata a restare tale per tutto l’anno grazie alla
messa a dimora di incongrui alberi sempreverdi di montagna. Gli
edifici stessi sono costruiti con mattoni di un rassicurante colore
marrone, per differenziarli dall’ultramoderno cemento bianco,
associato al fallimento di altri progetti edilizi nella zona di Milano.
Gli edifici non sono propriamente “belli”. Si possono riconoscere
nelle costruzioni alcuni elementi e soluzioni linguistiche prese a
prestito da alcune ricerche architettoniche di punta di quegli anni,
specialmente da quelle che più si erano poste, in area lombarda, il
problema di elaborare soluzioni per una committenza “borghese”. In
parte l’originalità di Milano Due è stata “inventata” come
componente chiave del mito berlusconiano. Ad esempio, il quartiere
di Milano San Felice, anch’esso nella zona di Segrate, fu costruito ed
occupato prima di Milano Due ed è sicuramente da qui che
284
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 205

133
Berlusconi e i suoi collaboratori presero alcune idee. Ma in questo
caso tutto si gioca su un piano diverso, che non è più quello
dell’architettura “alta” o della coerenza linguistica dell’oggetto: si
tratta piuttosto di un’edilizia speculativa che incorpora nel progetto
elementi eterogenei ma riconoscibili, già entrati in qualche modo in
un immaginario condiviso285. «I colori sono quelli della città, di
quando la città non era stata mangiata dal fumo delle macchine e
delle ciminiere» scrive Natalia Aspesi sul volume della Edilnord,
poco dopo aver accostato una «Milano 1 per trovarsi al centro di
tutto» a una «Milano 2 per ritrovare se stessi»286.
Un indizio significativo è che mentre le architetture di Milano Due
non erano “firmate”, ma ufficialmente affidata all’ufficio tecnico
Edilnord, la campagna per la vendita degli alloggi giocava in
compenso con forza sulla corporate identity, sulla partecipazione al
progetto di aziende i cui nomi e i cui marchi fossero riconoscibili,
come garanzia di qualità: Max Meyer e Louis de Poortere, B Ticino e
Saint Gobain.

Le residenze in cui è diviso il quartiere hanno un’onomastica


rassicurante, a metà tra lo zodiacale e il paesaggistico, nomi come
Acquario, Andromeda, Archi, Betulle, Cedri, Fontanile, Orione,
Mestieri, Poggio, Ponti, Sassi, Spiga. In totale fanno 28 residenze,
ciascuna con propria portineria. Mi colpisce la perfetta
manutenzione del luogo, nella tenuta dei giardini, nell’ordine di
caseggiati e viali, negli accessori come cestini e segnaletica griffati col
marchio del Biscione e ancora ben conservati. Una caratteristica del
Berlusconi costruttore era proprio quella di non “uscire” dalla
propria città, ma rimanervi come “gestore dei servizi” (attrezzature
sportive, alberghi, etc.). Un paragone che, facendo le dovute tare,
viene in mente è quello con le utopie urbanistiche di ispirazione
totalitarista: il demiurgo costruttore continua a seguire e accudire gli
abitanti della sua comunità per il resto della loro vita. Mai come in
questo caso ciò è stato raggiunto, si potrebbe pensare: il Cavaliere si
inventa costruttore di città, ma anche fornitore di spettacoli per i suoi
abitanti, editore delle riviste e dei libri che possono leggere,
assicuratore per le loro polizze, impresario per le loro televisioni e i
cinema, proprietario della squadra di calcio vincente per cui fare il

285
F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio
2001
286
Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, pp. 32-33

134
tifo, infine leader del partito di maggioranza relativa e comandante in
capo del loro (e di tutti gli altri) governo.

Nel parlare con chi abita a Milano Due colpisce la percezione di un


senso di radicamento, sia pure problematico. La strategia di
“creazione di un luogo” e di organizzazione della domanda che era al
centro della campagna promozionale degli anni Settanta alla fine ha
funzionato. Mi perdo nell’intrico di viali, non distinguo più una
residenza dall’altra, una fontana da un posacenere, una persona da
un’insegna. Mi fermo al Centro Civico, un edificio a un piano dove
sono concentrare alcune funzioni pubbliche comunali: la biblioteca, il
ritrovo degli studenti, alcune associazioni. Tra queste c’è
l’Associazione Residenti. Approfitto dell’ora di apertura al pubblico
per chiedere qualche informazione. Non è difficile avvicinare
Pierpaolo C., perché il locale dell’Associazione è vuoto. Essendo alla
vigilia di un ponte festivo si prevedono poche visite. Lo affianco
mentre spolvera scaffali e recupera vecchi documenti. Mi spiega che
l’Associazione Residenti conta solo qualche centinaio di iscritti,
spesso persone anziane o di mezza età. Organizzano attività ludiche e
ricreative ma fanno anche da tramite per lamentele e problemi
rispetto al Comitato di Circondario o allo stesso Comune. Gli chiedo
di lui. È pensionato, lavorava nel settore del marketing aziendale.
Vive a Milano Due dal 1994. Prima ha vissuto molti anni a Roma, per
lavoro. Qui si trova bene, «non cambierei mai», «è come vivere in
campagna». Il fatto che a Milano Due «c’è un turnover di abitanti
inferiore ad altri quartieri» ne sarebbe la dimostrazione. Ciò che è
cambiato negli anni, mi spiega Pierpaolo, è che «Milano Due non fa
paese», molti negozi chiudono, non sa dire con che criterio un
commerciante assennato potrebbe venire ad aprire un negozio da
queste parti, oggi come oggi. Resiste un nutrito panorama di
associazioni e volontariato. «Ci sono molte associazioni. C’è la
parrocchia che organizza anche incontri e concerti, c’è lo Sporting
Club. C’è la maratona della Stramilano2 a primavera, sull’onda della
Stramilano originale, la festa dell’uva in autunno, i mercatini
dell’usato. C’è un discreto campionato di calcio. Poi ogni estate, una
volta l’anno, organizziamo la musica in piazza, chiamiamo quei
gruppi di un tempo, degli anni Sessanta, che piacciono a noi che
abbiamo quell’età». La sicurezza, un tempo prerogativa degli abitanti
del quartiere, comincia ad essere un problema. Osservando i primi
piani delle case è facile notare grate alle finestre e cassettine di
allarmi di ultima generazione. La presenza di un esiguo numero di

135
sorveglianti (i “verdoni”, così chiamati per la caratteristica divisa
verde) non è riuscita a tenere lontana la paura degli “zingari” e dei
“ladri” neppure a Segrate. Che tipo di reati si verificano a Milano
Due? «Nella maggiorparte dei casi si tratta di furti di automobili, poi
c’è qualche scippo, qualche furto in appartamento. Da un paio d’anni
però si verificano alcuni atti di delinquenza più grossi, risultano dei
furti in appartamento di notte, mentre i proprietari stessi dormivano
in casa, addirittura qualche rapina a mano armata nei negozi». Il
sindaco di Segrate sostiene che i reati commessi nel quartiere, per
numero e per tipologia, siano inferiori a quelli di altre aree. Secondo
Pierpaolo il sindaco tutto sommato ha ragione. È chiaro che i ladri
siano invogliati a venire a rubare nelle case della zona più
benestante. Aggiungiamoci poi che qui ci si sente come abitanti di un
piccolo centro, quindi il vissuto è maggiore, le voci si spargono,
spesso si ingigantiscono. «Occhio, però. Non pensare che Milano Due
sia un ghetto per ricchi. Guarda che anche qui ci sono degli operai,
degli immigrati, forse anche dei poveri».

Scorrendo alcuni dati pubblicati nel dicembre 2008 in un’inchiesta


del settimanale L’Espresso, si scopre che su 6.204 residenti di Milano
Due, si contano 350 dirigenti, 184 imprenditori, 150 ingegneri,
altrettanti medici, 700 ricchi pensionati e un solo eroico muratore. Si
scopre anche che molti starebbero vendendo le loro case per
trasferirsi in zone dove si possono avere gli stessi servizi ma a costi
più contenuti. “Fuga da Milano Due” si intitolava il pezzo, e in effetti
era piuttosto pessimista. A quanto era scritto, le agenzie immobiliari
devono fare i salti mortali per riuscire a piazzare su un mercato
fermo da anni edifici che dopo tre decenni hanno bisogno di
ristrutturazioni e che comunque costano, solo di spese condominiali,
più di 3.000 euro l’anno. Dal 1991 ad oggi, infatti, la popolazione di
Milano Due è calata di 1.048 unità e il fenomeno è in continua
progressione. È pure vero che la popolazione media invecchia e molti
figli lasciano le case dei genitori per andare a vivere altrove. In
difficoltà sono proprio le coppie di giovani, che non possono
permettersi case come quelle dove sono cresciuti e abbandonano il
villaggio dove sono nati. Resistono gli affitti a medio termine,
soprattutto a dirigenti di aziende estere che pagano 750 euro al mese
per un bilocale. «Ma anche gli stranieri sono in calo – si lamentava,
intervistata, la titolare di un’agenzia immobiliare – perché per un
trilocale ormai vecchiotto devono pagare 1700 euro al mese più le
spese. E anche loro hanno capito che è più conveniente spostarsi in

136
altre zone». L’Espresso puntava il dito anche sull’allarme sicurezza.
Dalla vicina stazione dei carabinieri contano 30 furti in
appartamento all’anno, altrettanti colpi tentati, qualche rapina, 20
scippi e numerosi furti d’auto. Addirittura, massima sirena d’allarme,
le signore si sarebbero organizzate per accompagnare a turno i figli a
scuola, «perché a mandarli soli non si sa mai»287.

Mentre sto per congedarmi dall’Associazione Residenti arriva


Roberto C., signore anziano ma dall’aria battagliera che, per prima
cosa, si tiene a sincerarsi che non sia un giornalista. Non faccio
nemmeno in tempo a citarglielo che mi dice che è ancora infuriato
per quell’articolo dell’Espresso di un anno fa, «Milano Due non è
l’inferno descritto in quel pezzo, chiaramente scritto per ragioni di
attacco politico». Dice che non è per la crisi economica che non c’è
ricambio nel quartiere, è che quelli che vivono qui spesso stanno
bene e non se ne vogliono andare, ma da un paio d’anni stanno
rientrando famiglie giovani e con figli che comprano appartamenti.
Appurate le mie intenzioni di ricerca e non bellicose comincia a
parlare con me. Roberto C. non è un semplice residente, ma un
autentico veterano di Milano Due. Abita qui dal 1972, agente di
commercio in pensione, fa parte anche lui dell’Associazione
Residenti, inoltre è vice presidente del Comitato di Comprensorio. Mi
illustra le funzioni di questo Comitato, che a quanto pare svolge le
funzioni di una specie di proconsolato della cittadella rispetto
all’autorità comunale di Segrate. Mi spiega che esiste un
Amministratore di Comprensorio, una specie di mini-sindaco,
coadiuvato da un comitato di nove persone. Ogni anno si svolge
un’assemblea generale per il rinnovo delle cariche. Inoltre, all’interno
del quartiere, ogni residenza ha il suo custode, più le guardie interne
(12 dipendono dal Comprensorio, altre sono delle aziende private).
«Una specie di autogestione, insomma». I rapporti con il Comune
sono ottimi, «l’attuale sindaco di Segrate, eletto con Forza Italia, è
pure un residente storico di Milano Due». Mi rivela che,
indicativamente, il budget del Comprensorio è così ripartito: 40% per
il verde, 40% per la vigilanza, 20% per le spese generali. Un budget
cospicuo, faccio notare, con quello che costano le spese condominiali.
Risponde che non devo dare retta a tutti quelli che si lamentano delle
spese condominiali troppo alte, a conti fatti si paga il giusto rispetto
ai servizi offerti. Mi pare di intravedere gli eterni scenari da baruffe

287
G. D’Imporzano, 2009 Fuga da Milano Due, in “L’Espresso”, 5 dicembre 2009

137
condominiali e lotte all’ultimo sangue sui decimi catastali, terreno da
sempre minato. Una volta fu lo stesso Berlusconi a ricordare di
quando nella sua Milano Due fu il legislatore delle spese
condominiali, «quindi un’esperienza in cui mi sono formato proprio
in trincea, sentendo da vicino la signora Maria o il commendatore
Giuseppe che protestavano. Quando uno ha fatto la Bicamerale
sembra ridicolo, però erano problemi»288. Secondo Roberto, il vero
problema di Milano Due oggi sono il traffico e i parcheggi. Ma come,
non era la città senza auto? Il fatto, mi spiega, è che il numero dei
possessori di auto è aumentato. E c’è chi teme anche l’avvio di nuovi
progetti edificatori nei terreni circostanti rimasti vuoti. Allo stesso
tempo bisogna fare i conti con presenze ingombranti, come quella del
mega-ospedale San Raffaele, la casa di cura dove un prete
attivissimo, don Verzè, dice che l'immortalità terrena non sarà
peccato289, nel frattempo macinando sempre nuovi lotti di terreno, e
che pure fu provvidenziale per ottenere, negli anni Settanta e con
buoni agganci politici lo spostamento delle rotte dei fastidiosi aerei in
decollo da Linate290.

La storia di Roberto è la storia di una di quelle circa duemila famiglie


(poche provenienti da Milano, molte da fuori) che nel corso degli
anni Settanta hanno decretato il successo di una delle operazioni
immobiliari più spettacolari dell’hinterland milanese. È la storia della
scelta di andare a vivere in un luogo capace di offrire servizi e qualità
dell’abitare che non sembrava possibile trovare altrove, a Milano e
dintorni. «Nel ‘72 mi sono fidato, quando sono venuto a vedere era
tutto desolato, c’era solo una residenza e un plastico di come sarebbe
dovuto essere tutto. Era una scommessa venire a vivere qui. Ma
dovevo sbrigarmi, le case andavano via velocemente, c’erano liste di
attesa lunghissime. Alla fine ha deciso mia moglie, sì in effetti aveva
ragione Berlusconi con la sua teoria di marketing. A quei tempi c’era
ancora lui in persona che girava per il quartiere, salutava i clienti,
dava ordini. Ho potuto personalizzarmi l’appartamento, scegliere
arredi e disposizione come dicevo io, questa era una cosa che mi
piaceva molto. E, alla fine, devo dire che Milano Due è venuta sù
proprio come stava in quel plastico». Vorrei dirgli che anche a me

288
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 117-118
289
S. Rossini, Sono il bisturi di Dio. Intervista a don Luigi Verzé, in “L’Espresso”, 30
aprile 2004
290
A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, pp. 40-41

138
sembrava poco fa di camminare in un plastico, ma invece gli chiedo
se anche lui ha notato dei cambiamenti negli abitanti e nella
comunità di Milano Due, col passare degli anni. Mi dice che quando
arrivò qui con la famiglia erano contenti, perché dava l’impressione
di un paese. Anche negli aspetti potenzialmente negativi: un posto
dove ci si conosce tutti, e tutti credono di sapere tutto di tutti, con gli
immancabili pettegolezzi. Ricorda le prime riunioni di comprensorio
fatte al bar sotto i portici, oppure allo Sporting Club. Anche lui è
preso dalla nostalgia del “pioniere”, dal non riconoscere più quelli
che sono arrivati dopo e abbandonano i “valori fondanti” della
comunità. Anche lui soffre della nostalgia per “la Milano Due di una
volta”, in questo singolarmente accomunato al ragazzo poco più che
ventenne incontrato prima. «Molti altri, specialmente i nuovi arrivati
o quelli più giovani, non fanno vita di quartiere, non sentono la
comunità. Usano il quartiere come un dormitorio. Questa per me è
una cosa preoccupante: quando non ci saranno più questi comitati di
residenti, questi vecchi dirigenti, che fine farà Milano Due? Non c’è
una seconda leva. Molti si lamentano della troppa calma, ma io dico
che anche in città la sera è lo stesso mortorio». Come per tutti i
residenti di vecchia data, anche nella libreria di Roberto campeggia
una copia del volume della Edilnord, Milano 2: una città per vivere.
All’interno ci sono molte fotografie, di qualità diseguale (tra i
fotografi compare anche Paolo Berlusconi). Testi che saccheggiano il
gergo delle relazioni tecniche degli architetti e degli urbanisti.
Occasionalmente, brevi inserti letterari firmati tra gli altri da Gianni
Brera, Natalia Aspesi, Enzo Siciliano, Isa Vercelloni. Evidenzio
l’ironia del destino di molte firme “di sinistra”, sicuramente avverse
al sistema berlusconiano nei decenni successivi, che si sono ritrovate
a tessere l’elogio dell’idea berlusconiana di Suburbia degli anni
Settanta. Non potevano certo immaginare, mi dice, eppure quello che
lui ha fatto era già allora sotto gli occhi di tutti. In bene, si intende. È
irritato da quelli sono accecati dal pregiudizio politico, da quelli che
quando sentono “vivo a Milano Due” subito ti guardano male perché
odiano Berlusconi, come quelli che quando gli dici “sono di Latina”
subito fanno la faccia brutta e pensano a Mussolini.

Una cosa è chiara: Milano Due non era solo un progetto residenziale,
era una dichiarazione culturale. L’ha ben descritta il giornalista
Alexander Stille: «In un’epoca in cui gli squatter occupavano le case
come gesto di affermazione politica e in cui vi era una forte pressione
sociale perché le persone si dissociassero da tutto ciò che era

139
borghese, Milano Due era un’oasi di lusso e abbondanza
all’americana, un mondo separato rispetto al centro di Milano, dove i
cortei degli studenti di destra e di sinistra si scontravano e si
lanciavano bottiglie molotov per le strade. Milano Due era un luogo
dove un uomo poteva portare un rolex e una donna indossare una
pelliccia senza timore né vergogna. Naturalmente il denaro più
stagionato di Milano viveva ancora nella riservata eleganza dei
palazzi del centro attorno a via Manzoni o nelle vecchie ville fuori
città, ma Milano Due offriva una vita di consumismo esibizionista a
una nuova classe di manager in ascesa, dirigenti di medio e alto
livello, mediatori finanziari e pubblicitari. Nella cultura sinistrorsa
dell’epoca, Milano Due rappresentava una sorta di contro-
controcultura che anticipava la versione italiana del fenomeno
“yuppie” degli anni Ottanta»291.

6. La tv e il Biscione che ti aspetta

Sotto i portici molte vetrine sono vuote da anni, colpa dell’apertura di


alcuni supermercati, colpa dei prezzi più competitivi della vicina
Milano, colpa della crisi e dei portafogli più leggeri, i generi che
resistono maggiormente, a una veloce osservazione, sono
parrucchieri e centri benessere e sportelli bancari. I rari negozi
superstiti, a quanto pare, sono stati ribattezzati Cartier dalle “sciure”
che preferiscono la vicina Esselunga per riempire i carrelli di offerte e
fare la raccolta punti292. Proprio qui, in una di queste vetrine, vide la
luce Telemilano, piccola televisione locale divenuta mano a mano
nazionale. Negli anni Settanta uno dei servizi inclusi nell’acquisto di
una casa a Milano Due era il collegamento a una televisione privata
via cavo. Da principio, si trattò di una decisione di ordine estetico: si
voleva evitare il “pugno nell’occhio” causato dalla vista della selva di
antenne individuali sui tetti dei palazzi. Viene in mente la singolare
concordanza con Pasolini, che pure riservava sprezzanti ironie alla
visione delle antenne sulle case degli italiani. Al tempo della
costruzione del quartiere la televisione privata in Italia non esisteva
ancora, ma non molto tempo dopo questa emittente locale avrebbe
costituito la rampa di lancio per l’ingresso esplosivo di Berlusconi nel
mercato televisivo. All’inizio furono appena 2600 i televisori
291
A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, p. 39
292
G. D’Imporzano, 2009 Fuga da Milano Due, in “L’Espresso”, 5 dicembre 2009

140
collegati, quelli delle famiglie di Milano Due. Il canale trasmetteva
informazioni sulla vita del quartiere, vecchi documentari, programmi
realizzati per gli studenti delle scuole, rubriche di salute realizzate col
vicino ospedale San Raffaele, trasmissioni indirizzate
prevalentemente a un pubblico casalingo e femminile. Per Berlusconi
offrire un canale tv ai suoi inquilini costituiva un valore aggiunto, un
piacevole optional. Bisognava assecondare e investire sul sentimento
del “vivere bene”, ormai diventato valore di vita a tutti gli effetti. Già
da questo è possibile rintracciare le linee di fondo che guideranno la
sua politica nel futuro. La tv è uno degli attrezzi del vivere bene,
merce tra le merci, oggetto estraneo a qualsiasi processo educativo o
divulgativo293. Racconterà Berlusconi che all’inizio il progetto era
ancora più particolare: «A Milano Due è cominciata la televisione
interna, per mettere in grado le mamme di potere seguire i propri
ragazzi in tutte le situazioni. Da casa, con una televisione a circuito
chiuso, nata appunto con l’intento di fare vedere la piscina, la
palestra, il campo giochi, la scuola, era un servizio in più per una
città modello, avanzata. Milano Due, per intenderci, ha anche il
riscaldamento centralizzato, un’unica centrale garantisce il caldo a
tutto il quartiere».294 Una tv, insomma, più per guardarsi che per
guardare, nel vero senso del termine. Una vita televisiva che tende a
farsi vita quotidiana. E poi anche viceversa, ma qui il discorso si
farebbe più complicato. «Ricordo che la prima annunciatrice era la
mia vicina di casa» mi aveva raccontato Roberto, abitanti del
quartiere fin dai primi tempi. Mi era sembrata, involontariamente,
una metafora perfetta. I programmi televisivi visti come dei
contenitori, e a essere contenuti siamo proprio noi, le nostre vite
materiali e immateriali, le nostre pulsioni e i nostri desideri, consci e
inconsci.

TeleMilano ebbe una partenza in sordina. Berlusconi all’inizio ne


diventa socio di minoranza, per una decina di milioni di lire prende il
25%. Poi rileva tutto a una lira, debiti compresi295. L’impulso alla
crescita fu dato da un’inaspettata decisione della Corte Costituzionale
nel 1976: la televisione privata era legale, purché rimanesse
nell’ambito locale. In assenza di una legislazione adeguata in

293
V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V.
Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, p. 59
294
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 93-94
295
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 38

141
proposito, fiorirono emittenti in tutta Italia e Berlusconi iniziò a
costruire il suo impero mediatico. La sua strategia, come ha
osservato Giuseppe Fiori nella biografia Il venditore, prevedeva
quattro fasi tattiche connesse l’una all’altra. Prima fase: la pubblicità.
Berlusconi creò speciali squadre di venditori. La sua televisione
riuniva il mezzo, il messaggio e la centralità della vendita. Come ebbe
a dire, «io non vendo spazi, vendo vendite». I profitti dell’azienda
pubblicitaria di Berlusconi, Publitalia, aumentarono di 73 volte tra il
1980 e il 1984. La tv di Berlusconi «capovolse il nostro modo di
guardare la tv. Invece di interpretarla come una serie di programmi
con interruzioni pubblicitarie, Berlusconi considerava la televisione
“libera” e “privata” come un vasto territorio per la pubblicità, uno
straordinario veicolo di comunicazione commerciale»296. Seconda
fase: i programmi, soprattutto giochi a quiz, telenovelas, telefilm
americani e film, che spesso venivano cambiati secondo il volere
degli sponsor. Lo spettacolo aveva la funzione di attrarre
consumatori. Terza fase: le star, che cominciarono a comparire
personalmente negli annunci pubblicitari. Quarta fase: la sede a
Milano (il logo dell’azienda berlusconiana, il famoso Biscione, era un
simbolo di Milano e della casa automobilistica Alfa Romeo), con la
rapida estensione della copertura a tutto il Paese. TeleMilano iniziò a
trasmettere via etere, fuori dalla cittadella originaria di Milano Due,
nel 1978, in seguito all’installazione di un’antenna sul grattacielo
Pirelli297. Nel 1980 prese il nome di Canale 5, primo tassello
dell’impero Fininvest, poi Mediaset, scalando ascolti e fatturati,
modificando il costume degli italiani, le loro abitudini e i loro
consumi, il linguaggio e i loro sogni. Il negozietto sotto i portici di
Milano Due era stato abbandonato da tempo. Berlusconi e il suo
centro operativo milanese furono in grado di battere qualsiasi forma
di concorrenza, per mezzo di una controversa legislazione e di
importanti appoggi politici, come quello del Partito Socialista di
Craxi allora al governo.

La logica vincente, immaginata e realizzata dal momento in cui


Berlusconi si tramuta in costruttore non più di case e città ma di
spettacoli e immaginari, sembra seguire quella logica che Walter
Benjamin indicava come tipica dell’industria culturale. Il passaggio
di ciò che era quantità in qualità. Lo sfruttamento accanito della

296
F. Colombo, Le tra stagioni, in “Problemi dell’informazione” n. 4, 1990, p. 590
297
G. Fiori, Il venditore, 2004, pp. 91-95

142
voglia del popolo che ora si fa chiamare pubblico di intrattenersi,
divertirsi, comprare. È il primo – decisivo – avvicinamento tra
Berlusconi e l’immaginario collettivo italiano. Il feedback è palpabile,
le sue tv sono amate e seguite. Non sono mosse da istinti pedagogici,
non educano per forza gli spettatori, non ne censurano i desideri più
profondi, non promuovono ideologie di Stato ma di mercato.
Assecondano l’edonismo emergente della società italiana e il
desiderio di spettacolo298. Berlusconi alimenta quindi il proprio
successo economico insinuandosi nei luoghi, costruendoli e
promuovendoli, lì dove la vita sociale si dispiega e prende una forma.
La città di cemento prima, quella elettronica poi. Come ha scritto
Alberto Abruzzese: «Ha edificato il suo impero, speculando
alacremente e abilmente sul mattone e sull’immagine cinetelevisiva.
Sul più tradizionale strumento di costruzione del territorio fisico e
sul più avanzato strumento di comunicazione immateriale di cui si
serve la civiltà di massa. Due modi selvaggi di arricchire. Ma anche
due forme dell’abitare. Dalla centralità della casa alla centralità della
tv: è la storia della Prima Repubblica»299. È la costruzione di un
popolo. Ciò, nonostante risulti chiaro che «l’impero di Sua Emittenza
è fuorilegge», basato sull’aggiramento e la violazione delle regole300.
Allo stesso tempo egli abbatte il tempo delle morigeratezze statali in
favore di un edonismo privato e individualista. Ancora Abruzzese:
«Le emittenti private, con vecchi film o rozze sceneggiate in studio,
oroscopi o persino dibattiti politici, invadono la notte. Il tempo Rai è
vinto. La città di Stato non regge la domanda di evasione. Il cittadino
(anche se nella dimensione di avanguardia di massa) viene
sequestrato al rapporto equilibrato tra tempo di lavoro e tempo
libero. Gli spazi e gli orari tradizionali non bastano più»301.

«Torna a casa in tutta fretta, c’è un biscione che ti aspetta»: è


pubblicizzata così la trasformazione di TeleMilano in Canale 5. È
molto più di uno slogan di successo, è lo zeitgeist, lo spirito del
tempo di un’Italia stanca, spaventata dalla vita pubblica e politica,
attratta dal privato, dal ritorno in famiglia, dall’individualismo. I
valori della neotelevisione – privata e soprattutto berlusconiana,

298
V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V.
Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, pp. 61-62
299
A. Abruzzese, Elogio del tempo nuovo. Perché Berlusconi ha vinto, 1994, p. 50
300
G. Fiori, Il venditore, 2004, p. 105
301
A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, 2001, p. 121

143
metropolitana e certamente suburbana – erano espressione e
contribuirono a creare gli anni edonisti del secondo boom degli anni
Ottanta. Si tratta del periodo storico in cui l’ascesa dell’economia
dell’immagine coincide con una profonda ristrutturazione del
sistema produttivo. Aumenta la quota economica di terziario e
servizi, vanno in crisi le grandi produzioni industriali, si moltiplicano
le piccole imprese. L’abbandono della politica, il declino dai valori
collettivi, il cosiddetto riflusso nel privato non erano altro che un
riflesso. «I varietà, i telequiz, gli innumerevoli spot pubblicitari, le
fasce orarie sponsorizzate e i telefilm importati sostituivano i vecchi
punti di riferimento in declino: la chiesa, i partiti di sinistra, il
movimento sindacale, i valori di parsimonia e sacrificio» 302. Per altri
versi, Carlo Freccero ha osservato: la tv commerciale veniva a dare
un’identità alle periferie, che non trovavano risposta nelle grandi
narrazioni politiche di allora. E ha aggiunto: in una Italia dominata
dall’informazione e dalla politica il pubblico voleva divertirsi. Essere
inizialmente privi di telegiornali era un elemento di forza, non di
debolezza, di quelle televisioni303. Molti dei neoabitanti di Milano
Due furono i protagonisti del boom finanza / pubblicità / moda degli
anni Ottanta, quando Milano si scrollò di dosso la sua fosca
immagine di città industriale. La cittadella di Segrate diventerà sede
di molte aziende del gruppo economico berlusconiano, come
Publitalia, e residenza di molti suoi dipendenti, comprese alcune star
delle sue televisioni. Nel piccolo centro di produzione tv, proprio
davanti al laghetto dei cigni, vengono ancora registrate due
trasmissioni emblematiche del gruppo: il Tg4 di Emilio Fede e il
varietà satirico Striscia la notizia di Antonio Ricci. Passeggiando per
il quartiere inciampo in due ragazzini che tornano da scuola.
Indicano col dito lo studio a vetrata all'angolo della strada e
sorridono. Dentro c’è Emilio Fede e una segretaria che gli spalma del
cerone sulla faccia.

In quei luccicanti anni Ottanta Marco B. è un ragazzino adolescente


che staziona davanti gli studi di Canale 5, a Milano Due: ogni giorno
vede entrare e uscire personaggi televisivi ed inizia a fermarli per
conoscerli, affascinato da quel mondo. Oggi è un professionista
34enne, a Milano Due ci lavora con la sua agenzia di management

302
S. Gundle, S. Parker, The New Italian Republic, 1996, cit. in J. Foot, Milano dopo il
miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 122
303
G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, 2009, p. 134

144
artistico e organizzazione eventi e ci è anche venuto a vivere,
comprandosi un appartamento con la sua fidanzata. Lo incontro nel
suo ufficio, open space da creativo ma non troppo disordinato,
televisore acceso su un programma pomeridiano di Canale 5 dove
l’onorevole Alessandra Mussolini sbatte per terra un giornale e
strepita che lei coi video hard non c’entra niente. Chiedo a Marco da
dove viene questa attrazione per Milano Due. «Da ragazzino vivevo a
Milano città eppure già mi piaceva frequentare questo posto. All’età
di tredici/quattordici anni avevo una comitiva di amici e il nostro
punto di ritrovo era proprio il laghetto dei cigni». Conta molto, mi
sembra, la prospettiva del sogno: il sogno degli anni Ottanta, il sogno
della tv e della carriera, il sogno di un eden sereno e benestante.
«Milano Due è stata davvero di moda per qualche anno, ora si è
normalizzata, in un certo senso già appartiene al passato. Sebbene un
passato ottimamente mantenuto. L’allure borghese, la classe della
Milano da bere degli anni Ottanta, la tv e la pubblicità rampante,
quello era il mondo di riferimento di Milano Due, quel mondo che io
guardavo con desiderio già da ragazzino». Marco dice di aver scelto
di venire a vivere qui perché puoi avere tutto a portata di mano,
perché c’è silenzio e tranquillità, perché se dovesse avere un figlio c’è
un ambiente sicuro in cui farlo crescere. Le stesse caratteristiche per
cui molte persone, soprattutto giovani, odiano Milano Due. C’è
troppa calma, dicono. Io ho vissuto abbastanza nel caos del centro
città, dice Marco, per apprezzare il contrario. Nonostante ciò lui non
sta tutto il tempo dentro Milano Due. «Vado a Milano almeno due
volte al giorno, per appuntamenti e pranzi di lavoro ma anche perché
mi impongo di non farmi rinchiudere qui, di non assuefarmi. È facile
fossilizzarsi qui. Specialmente per chi, come me, ha la casa e il lavoro
a pochi metri di distanza». Mi ripete più volte questo concetto: «Per
me Milano Due è una specie di Truman Show. Vivi una realtà che
non si realizza altrove, è come stare in una bolla». Il problema è che
Milano Due sta invecchiando, aggiunge. A quanto pare c’è una
chiusura, un tappo generazionale anche qui. I prezzi troppo alti delle
case impediscono ai figli della prima generazione, o a quelli che
potrebbero esserlo, di riuscire a venire a vivere in questo quartiere.
Come se non bastassero i prezzi del mercato immobiliare, solo adesso
in leggero calo per la congiuntura economica, ci sono spese
condominiali altissime. Mi rivela che con la sua fidanzata deve
pagare circa 400 euro al mese per un appartamento di 100 metri
quadri. Gli appartamenti poi sono tutti di taglio grande, pensati per

145
le famiglie di un tempo, con due o tre figli. Poco adatti per un giovane
single o una coppia.
Insomma, è chiaro: «I giovani oggi non hanno accesso a Milano Due.
Loro, i vecchi residenti, lo hanno bloccato». Marco racconta di essere
l’unico giovane nella residenza dove abita. Si lamenta che è difficile
farsi amici in questo quartiere, creare relazioni di vicinato, quando
lui esce di casa la mattina spesso i vicini di palazzo nemmeno lo
salutano. Resiste un certo congenito snobismo, l’idea di appartenere
a una classe superiore, anche solo per il fatto di vivere qui.
«Comunque da Milano Due sono usciti tanti ragazzi, nati e cresciuti
qui, che ora sono in molti punti chiave della classe dirigente
milanese. Io la chiamo la P2 di M2, passami il gioco di parole. In
fondo quella di Milano Due è anche una lobby. Pensa che al piano di
sopra c’era l’appartamento di Dell’Utri. La prima moglie di Paolo
Berlusconi vive ancora qui. Lo stesso presidente, Silvio, possiede una
torre di appartamenti qui, se li tiene per le diverse esigenze. Le veline
di Striscia, nel loro contratto, hanno un appartamento garantito a
Milano Due. Fede lavora qui e vive nella residenza a nord, vicino al
San Raffaele. Ogni tanto capitava di vedere Vianello giocare sul
campetto di calcio, in fondo la famosissima Casa Vianello del telefilm
esiste nella realtà ed è domiciliata qui a Milano Due». È il mondo del
sogno berlusconiano, pazientemente coltivato, butto lì. Si, mi
risponde, ma fondamentalmente è un mondo invecchiato. «Quella
che si trovava negli anni 80 era davvero una Milano rampante,
“Milano da bere” come diceva la pubblicità, e qui si respirava davvero
l’aria di un Truman Show di bella gente. La cosa è scemata. Oggi è un
po’… bho, forse come Lugano». Come dimostrazione dei meccanismi
sociali di Milano Due, si mette a spiegarmi come funziona lo Sporting
Club, quello dove ci sono palestre, piscina, campi da calcio e da
tennis, sauna, sala per giocare a burraco, insomma il vero fulcro del
bon vivre del quartiere. Ovviamente, all’insegna della vera
esclusività. Non basta iscriversi (pagando un abbonamento di circa
1.500 euro l’anno) ma occorre acquistare una quota, come una
società per azioni, e le quote sono limitate e costano 5.000 euro
cadauna. Nel tempo, dice, si è creato un commercio sottobanco di
quote, a prezzi stratosferici, in un sistema un po’ opaco che a me
ricorda quello delle licenze dei tassisti.

Marco mi racconta inoltre delle famiglie che vengono la domenica a


stendere la tovaglia del picnic nel prato di fronte a casa sua, come se

146
fosse un parco. Una scena che per un attimo mi evoca la ricerca della
felicità, i consumatori che premono sulle mura del quartiere felice,
che cercano l’invasione (ma il quartiere felice, sia chiaro, non
concede permessi di soggiorno a nessuno, come lo Sporting Club).
Milano Due, in fondo, attrae perché è glamour. Il glamour, per dirla
con John Berger, non può esistere senza l’invidia sociale come
emozione comune e diffusa. Lo scrittore inglese ha attirato
l’attenzione su alcuni elementi che servono a farci capire la
sottigliezza di questo album di paesaggi in apparenza così scontato,
così fuori dal tempo, eppure di successo. La società industriale
moderna si è avviata verso la democrazia, scrive, per poi fermarsi a
metà strada. Il glamour – ovvero lo stile, la classe – scaturisce da
questo: «la ricerca della felicità individuale è stata riconosciuta un
diritto universale», tuttavia la nostra situazione è tale che gli
individui si sentono impotenti304. In compenso, tutto ciò che ci
circonda è improntato alla pubblicità. E la pubblicità è il processo di
produzione del glamour. Spiega Berger: «La pubblicità parla di
relazioni sociali, non di oggetti. La sua non è una promessa di
piacere, ma di felicità. Felicità misurata dall’esterno, col metro di
giudizio degli altri. La felicità di essere invidiati è glamour. Essere
invidiati è una forma solitaria di rassicurazione»305. Ma è un sistema
così ben costruito, difficile da decifrare. «La pubblicità è, per sua
natura, nostalgica. Deve vendere il passato al futuro. Da sé non è in
grado di soddisfare gli standard che essa stessa pone. E di
conseguenza tutti i suoi riferimenti alla qualità sono vincolati alla
retrospettiva e al tradizionale. La pubblicità deve volgere a proprio
vantaggio l’educazione dello spettatore-compratore medio.
Riferimenti imprecisi o insignificanti non importa: non devono
essere comprensibili, ma semplicemente rinviare a lezioni culturali
imparate a metà»306. Rileggo le parole chiave: glamour, nostalgia,
pubblicità. Colgo una provvisoria illuminazione: Milano Due come il
Mulino Bianco di quel famoso spot degli anni Ottanta/Novanta con
la famiglia di campagna che fa colazione felice. Idea patinata,
posticcia e però indubbiamente efficace di un “ritorno alla natura”, di
un felice rinchiudersi nei confini del proprio orto, della propria
comunità. Forse Milano Due potrebbe collocarsi in una visione “di
destra”, della media borghesia rampante e poco desiderosa di

304
J. Berger, Questione di sguardi, 2007, pp. 133-150
305
Ibidem, p. 134
306
Ibidem, pp. 141-142

147
contaminazioni, in cerca di una “casa di campagna in città” e dunque
addomesticata, con tutti i confort. E invece il Mulino Bianco in una
visione “di sinistra”, di quella media borghesia pseudo-colta, disillusa
dalla politica e in cerca di un’isola di introiezione per dimenticare,
magari un casale in campagna o un agriturismo. Diceva ancora
Berger, chiudendo il cerchio, che «la pubblicità trasforma il consumo
in un surrogato di democrazia»307. Mi viene in mente che nel 1993,
alla vigilia dell’entrata in politica di Berlusconi, in allegato al
settimanale satirico Cuore, uscì una musicassetta intitolata Forza
Italia, nella quale, oltre alle canzoni Voglia di Biscione e Ritmo
politico, era presente un pezzo intitolato La vendetta del Mulino
Bianco. Ne riporto una strofa, a mio avviso particolarmente
significativa: «Il mio mulino non è proprio un mulino / sono due
camere al Tiburtino / e al mattino io mi sveglio affranto / altro che
biscotti mi ci vuole un trapianto / apro la finestra, senti che casino /
sirene, grida e squilli di telefonino / le nove del mattino, sono così
stanco / e questo non succede nel Mulino Bianco».

7. L’architetto di fiducia

L’architetto che ha progettato Milano Due vive e lavora ancora lì. Lo


studio Ragazzi and Partners lo trovo sotto i portici della residenza
Archi. Giancarlo Ragazzi, insieme col collega Enrico Hoffer, è il
principale progettista del centro residenziale di Segrate e di tutte le
altre imprese residenziali berlusconiane. È anche quello che per i
mondiali di calcio del ’90 realizzò l’ampliamento dello stadio
milanese di San Siro. L’ho contattato via email e lui si è detto subito
disponibile per un’intervista. Devono essere ancora molti gli studenti
che fanno ricerche o tesi su Milano Due, gli spiego che però io non
provengo da una cattedra di architettura. «Lei quanti anni ha,
ventisei? Vede, io quando ho progettato questa città di diecimila
abitanti aveva appena trent’anni, così come i miei colleghi, così come
lo stesso imprenditore Berlusconi. E abbiamo rischiato molto». Gli
chiedo com’è nata l’idea di Milano Due, negli anni Sessanta. «Noi
partivamo dall’idea secondo cui l’urbanistica del futuro sarebbe stata
un’urbanistica che prevede sul territorio delle città policentriche.
Quello che noi ci siamo detti all’epoca è che a Milano il concetto di
città policentrica era già in nuce, cioè già esisteva, non era da

307
Ibidem, p. 151

148
inventare. Perché il territorio milanese era già molto armato, dal
punto di vista delle infrastrutture, e anche presidiato da una serie di
poli urbani stratificati nel tempo, già dotati di una loro identità, di un
loro senso di appartenenza. E se io ho una comunità che non ha
senso di appartenenza quella non è una comunità, è un qualche cosa
di fluttuante, in cerca di un’identità». Il punto nodale lo mette subito
in chiaro: in quell’epoca abitare in centro era da privilegiati e
borghesi, abitare in periferia era da classe operaia o da straccioni.
C’era grande fame di abitazioni e di speranze, ma non c’erano vie di
mezzo, almeno nell’immaginario popolare. «Noi abbiamo detto: ma
se rompiamo col cliché di sviluppo, di saturazione degli isolati, nella
griglia urbana tradizionale… evidentemente si poteva fare qualche
cosa che non si poteva realizzare all’interno della città storica, ormai
saturata nelle sue parti, e questo discorso ha portato all’invenzione di
un’alternativa alla griglia urbana fatta di isole». Si mette a disegnare
su un foglio. Mi spiega il reticolato urbano, il modello tradizionale di
strade e isolati, la soluzione del modello a penisola, con i percorsi
pedonali separati, la strada di spina centrale, i ponti di
sovrapposizione, il modello insomma tanto vantato da Milano Due.
Ma da dove arrivava l’ispirazione, c’erano dei modelli architettonici
cui rifarsi? A leggere il libro promozionale della Edilnord si legge di
un pantheon di riferimenti piuttosto eclettico. Si parla dei
Neighbourdhood Unity nelle new town inglesi, delle Superquadra di
Brasilia, delle unità di vicinato francesi e dei Grand Ensembles, e
perfino dei Superblocchi sovietici. Pare di leggere il primo manifesto
dei valori di Forza Italia, che prendeva riferimenti politici a destra e a
manca, da Einaudi a don Sturzo, da Cattaneo a Gioberti, da Craxi a
Reagan. «Innanzitutto sfatiamo questo mito delle new town. Cioè noi
le new town le abbiamo studiate, abbiamo capito che cosa era stata la
loro idea, da Ebenezer Howard a tutti gli altri, siamo andati a
vederle, ma abbiamo pensato che era una battaglia persa in partenza.
Nel senso che queste città non avevano un’anima, un’identità forte, e
quindi avrebbero fatalmente fatto perno di nuovo per le possibilità di
lavoro su Londra, sulla downtown, vanificando praticamente il
discorso di decentramento. Non era quello che faceva per noi. È
maturato così nella nostra testa il concetto che la città madre è
fondamentale. In questo telaio di città policentrica, abbiamo detto,
c’è spazio anche per dei poli minori, che possono fare da filtro per
quelle esigenze che normalmente gravitavano come risposta sul
centro della città madre, provocando naturalmente tutte le
conseguenze non volute di intasamento, di sovraffollamento durante

149
il periodo diurno, e scarsa risposta in termini di servizi… Perché
questo succedeva: periferie parassitarie che intasavano città senza
più spazi liberi. Tant’è che poi succedeva che la gente non trovava
posto nelle scuole, negli asili nido, nei servizi…». Chiedo se già
all’epoca non ci fosse un fenomeno di fuga dalla città da parte delle
classi borghesi medio-alte, a cui il loro progetto si rivolgeva.
«Assolutamente no. All’epoca venire ad abitare in periferia voleva
dire una caduta di status symbol, non era assolutamente ricercata.
Infatti noi abbiamo rischiato molto con questa proposta di Milano
Due, perché nessuno era intenzionato ad abitare fuori».

O forse l’idea dello status symbol suburbano già c’era, bastava solo
sapere annusare l’aria, saperla cogliere. «In questo Berlusconi è stato
bravissimo. Lui era un giovane imprenditore con una certa
propensione al rischio, cercava qualcosa di diverso, qualcosa che
potesse rappresentare la sua consacrazione. Io lo conobbi proprio
quando lui vendette uno dei suoi primi appartamenti a mio fratello, e
io gli raccontai un po’ di mie idee sulla città… Ecco, si decise di
puntare tutto su segmenti di mercato che mai avrebbero pensato di
abitare fuori città, con delle proposte concentrate su alcuni elementi
chiave: il recupero di spazi ampi, il verde, la sicurezza… il tutto
presentato come una grande, grandissima conquista».
Sull’architettura di Milano Due i commenti dell’epoca non furono
molto generosi. Spulciando vecchie pubblicazioni d’architettura ho
ritrovato opinioni, come quella di Vercelloni, che tracciano un elogio
del quartiere, definendolo come un progetto innovativo e osservando
finanche influenze di Le Corbusier308, oppure mi sono imbattuto in
vari commenti sprezzanti o critiche affilate, come quella di Squarcina
che parla di un quartiere concepito secondo la filosofia
dell’autosegregazione309. Persino un biografo ufficiale di Berlusconi,
in un libro del 1994 per il resto assai benevolo, non si trattiene da
qualche commento dispregiativo e scrive che «di mattina per i vialetti
deserti di Milano Due ci si sente soli, e vien da rimpiangere le voci e i
rumori della metropoli»310. Ricorda Ragazzi: «Lei si immagina nel
1968, nel 1970, cosa era considerato criminale all’epoca. Era
criminale essere un’impresa privata, era criminale lavorare con le

308
V. Vercelloni, La storia del paesaggio urbano di Milano, 1988, p. 143
309
A. Schiavi, E. Squarcina, M. Malvasi, Trasformazioni territoriali in contesto
metropolitano. I casi di Settimo Milanese e di Segrate, 1999, p. 192
310
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 22

150
banche, era criminale anche avere un supermercato con gli espropri
proletari che facevano. Ricordo che anche la facoltà di Architettura
era allo sbando: i professori non riuscivano a tenere le proprie
lezioni. Alcuni architetti erano arrivati sulla soglia di abbandonare la
professione, perché in una società come la nostra si sentivano al
servizio del capitale, strumentalizzati. Quanto a noi, gli attacchi a
livello locale erano amplificati dai media che ci avevo messo al centro
dell’attenzione. Su Milano Due furono scritte numerose tesi, perlopiù
fortemente critiche. Per non parlare di certi professionisti che
tentavano di cercare eventuali scheletri nell’armadio per affondare la
barca. Svariate commissioni d’inchiesta furono nominate dalle
segreterie dei partiti. Insomma gli attacchi erano così numerosi che
la mattina aprivamo i giornali per vedere cosa si diceva su di noi quel
giorno». Ma col passare del tempo anche questo fu un test per
stabilire che Milano Due non era un quartiere qualsiasi, ma una vera
e propria comunità. «Anche oggi si verificano attacchi della stampa
per motivi pressoché politici. Ebbene, guardi i vari giornali di
quartiere, veda come di fronte a certi attacchi scatta per primi dagli
stessi abitanti la reazione di difesa. Questo vuole dire che qui c’è un
senso di appartenenza consolidato. In molti altri quartieri la gente
rimarrebbe apatica, non gliene fregherebbe niente di una critica sul
giornale».

Berlusconi, mi dice, era fissato con le rifiniture. «Non ho più lavorato


con un committente. Era fissato per il verde, per il tipo di alberi da
impiantare, per le rifiniture nelle case, per il mantenimento della
qualità del tempo. Tutto doveva essere preciso, a posto. Appena un
condominio era terminato, si procedeva a recintarlo con eleganti
palizzate in legno che lo separavano dalle parti ancora in costruzione.
Se nel corso del tempo Milano Due non è stata abbandonata dall’alta
borghesia lo si deve anche al fatto che Berlusconi non ha
abbandonato Milano Due. Ad esempio con la costante opera di
manutenzione che prima era assicurata dalla Edilnord. Operazione
dai costi contenuti ma molto efficace sul piano dell’immagine. Qui se
un rubinetto perdeva, otto anni dopo, era ancora compito nostro
aggiustarlo». C’era dialettica tra committente e architetti? «C’era un
confronto continuo e lui comunque sapeva darci fiducia. Ricordo, per
esempio, la fatica che facemmo per convincere Berlusconi ad
abbandonare le tinte pastello usate nelle precedenti realizzazioni e ad
optare per il rosso mattone e il marrone». Gli chiedo se l’auspicio di
chi ha progettato Milano Due fosse quello di una gated community

151
all’italiana, una cittadella in teoria autosufficiente, con le scuole, i
servizi, i negozi, insomma un posto da cui un suo abitante potrebbe
non uscire mai. «Ma noi non volevamo questo. Noi volevamo che ci
fosse un rapporto con la città madre, e sarebbe stato anche assurdo
pensare il contrario vista la vicinanza e il potere di attrazione di una
città come Milano Qui noi abbiamo innestato anche un centro
direzionale, un albergo, un centro televisivo, uno spazio congressi,
apposta per favorire uno scambio con l’esterno. Per questo non ci
piacevano le new town inglesi, con le loro cinture verdi di
isolamento».

A distanza di quarant’anni dalla posa della prima pietra, se c’è


qualcosa che a Milano Due funziona è la manutenzione. Ma si sa che
in economia non esistono pasti gratis, e se c’è una cosa di cui quasi
tutti i condomini si lamentano sono le spese troppo alte. Mi viene da
dire a Ragazzi che è facile realizzare l’utopia di Milano Due
perfettamente manutenuta per chi se la può permettere, sarebbe più
difficile forse una Milano Due per ceti medio-bassi, una Milano Due
di case popolari. «Questi sono temi sostanziali. I redattori di una
rivista di architettura svedese un paio di anni fa vennero a
intervistarmi perché volevano sapere come era stata organizzata la
manutenzione di Milano Due. Facevano il confronto con altre new
town come quelle che hanno loro, che sono molto degradate, e
volevano capire cosa c’era di diverso nel nostro discorso. Ed è molto
semplice. Noi partiamo da una situazione che è sotto gli occhi di
tutti: l’ente pubblico non ha mai disponibilità economica per
garantire un livello manutentivo delle parti pubbliche nel territorio.
Per cui noi abbiamo dato il minimo di legge di attrezzature pubbliche
da manutenere, e ci siamo invece accollati privatamente, attraverso il
comprensorio pagato dai condomini, la manutenzione di aree che
sono a destinazione pubblica, come parchi gioco, parcheggi, strade
da asfaltare. Apparentemente qualcuno dice che c’è una valanga di
spese condominiali. Ma non è del tutto vero, se spalmiamo il carico
sui grandi numeri del quartiere e facciamo un raffronto coi servizi
offerti. Qui abbiamo pensato pure a una vigilanza sempre attiva, che
se uno rimane bloccato in ascensore il sabato sera, quando non c’è
nessuno, viene ad aprire». Mi rimane il dubbio su dove vadano tutti
gli abitanti di Milano Due il sabato sera, ma insisto sull’altro punto.
Una Milano Due per i poveri, detto brutalmente, non sarebbe
possibile? «Allora, lei deve sapere che Milano Due ha pressoché un
terzo degli abitanti che sono cosiddetti “poveri”. Al tempo della

152
costruzione del quartiere fu fatta una promozione di lancio, cosicché
le parti centrali furono vendute a prezzi d’occasione, quasi da case
popolari, e vennero via subito. Il mio appartamento, quarant’anni fa,
costava 30 milioni, e certo adesso si è rivalutato molto. La famiglia di
nostri dirimpettai invece erano operai, lavoravano qui alla Rizzoli, e
sono ancora lì adesso, non hanno abbandonato. Quando poi i figli
crescono è la città madre che diventa il punto di riferimento, ovvio.
Ma senza i contenuti non si può fare qualcosa di attrattivo. Le faccio
un esempio. Quando, tre o quattro anni fa, realizzai un progetto per
un eventuale piano casa di Milano, il primo criterio fu: guai a creare
dei ghetti. Chi può arrivare al massimo a permettersi una casa con un
investimento di 300mila euro deve essere inserito, come nella città
storica, nello stesso edificio, nello stesso contesto. Bisogna mischiare
le varie famiglie, eliminare le ghettizzazioni di ali o quartieri tutti di
case popolari o convenzionate, trovare degli innesti mirati. A un certo
punto, all’epoca, quando eravamo pieni di velleità giovanili,
protestammo per questa cosa. Dicevamo: come mai nella legge 167
per le case popolari c’è la proibizione assoluta per i privati di
realizzare qualsiasi iniziativa? Così si creano ghetti, di poveri o di
ricchi che siano. Ma è vero adesso abbiamo una problematica che
allora non avevano ancora per la testa, cioè quella dell’integrazione
multietnica, e qui la situazione si fa più difficile».

Ragazzi mi fa l’esempio della chiesa del quartiere. «Noi realizzammo


una chiesa pluriconfessionale, ma non è mica partita. Perché ognuno
difende il suo orto, gli islamici la loro moschea, che sta qui vicino a
Segrate e ogni tanto finisce sui giornali, i cattolici la loro chiesa. Si, ci
sono rapporti di collaborazione però noi pensavamo fosse possibile
qualcosa di più. Se lei va nella chiesa di Milano Due vedrà che ci sono
pareti per creare spazi modulabili di preghiera, pluriconfessionali,
d’altronde allora eravamo anche in una situazione di post-concilio
ecumenico che favoriva questo tipo di interpretazione. Però adesso
qualcosa è cambiato, sono un po’ tutti quanti sulla difensiva. Per
esempio prima non appariva il simbolo della croce fuori dalla chiesa,
non a casa la chiesa era dedicata a Dio Padre, non c’erano santi,
proprio per cercare di fare un unico luogo di partecipazione religiosa,
mentre il sacerdote attuale ha insistito per metterla a tutti i costi, e
ben visibile». La croce fuori la chiesa, oltre che simbolo di una
riscossa identitarista, sembra suggerire anche altro: la comunità, una
volta ambientata, imprime il suo segno sul luogo, lo adatta alle sue
esigenze, anche al di là delle intenzioni. «Sicuramente si è creata una

153
comunità, che ha anche imparato ad autogestirsi, per esempio con il
Comitato di Comprensorio eccetera. Se lei pensa ad alcuni dettagli
che allora erano novità, come la stazione tv via cavo, oppure il
teleriscaldamento centralizzato. Qui vede il concetto di
identificazione del prodotto, cosa su cui noi puntavamo. Guardi
questa mappa dall’alto della nostra zona… qui vede la città che si
sfalda, perde la sua maglia di isolati man mano che va verso l’esterno.
Noi volevamo qualcosa di fortemente identificativo. Il contrario di
certa architettura ideologica dell’epoca. Noi abbiamo fatto l’anti-
Corviale. Cioè la suddivisione in nuclei da 100 famiglie, a loro volta
suddivisi in 3 o 4 edifici che formavano un’identità ambientale di
appartenenza, anche rispetto alle aree circostanti. L’importante è che
ci sia l’identificazione». L’architetto mi racconta che la prima
percezione dell’esistenza di un “mondo esterno” a Milano Due la
hanno gli studenti delle scuole medie del quartiere, comunali e non
private, con l’arrivo di una popolazione studentesca più diversificata.
«Non è un ghetto per ricchi, come molti dicono». La composizione
sociale inevitabilmente è cambiata, molti negozi hanno chiuso, le
giovani famiglie con figli sono diventate coppie di anziani, ma a suo
avviso la situazione demografica si sta riequilibrando. È vero che i
prezzi sono ancora alti, poco accessibili, «evidentemente è ancora un
posto molto ambito». Nella sua attività di politico ha citato più volte
l’esempio di Milano Due: non dimenticatevi che sono stato capace di
costruire dal nulla una città di diecimila abitanti che ancora funziona,
gli abbiamo sentito dire più volte. Nel 2002 fu lo stesso Berlusconi,
da capo di governo, a chiamare l’architetto Ragazzi («il suo architetto
di fiducia» scrissero i giornali) per progettare una piccola cittadella
da costruire a San Giuliano di Puglia, paese distrutto da un
terremoto311. I giornali dell’epoca parlarono di una “San Giuliano
Due”, allo stesso modo in cui etichettarono come “L’Aquila Due” i
progetti di ricostruzione a base di new town lanciati sempre dal
premier Berlusconi dopo il terremoto abruzzese del 2009312. Si arrivò
perfino a vagheggiare di un piano edilizio a base di una specie di
Milano Due in ogni capoluogo di provincia313. «Eh no, qui non sono
d’accordo» ribatte Ragazzi. «Ci vuole una collocazione nel territorio,
un’interpretazione del contesto. Bisogna sapere come collocarsi in
311
R. Bagnoli, L’architetto amico che progettò Milano 2: il premier mi ha chiamato,
ci sto lavorando, in “Corriere della sera”, 4 novembre 2002
312
Aa. Vv., Berlusconi: “Tre mie case per gli sfollati”, in www.corriere.it
313
G. Rondinelli, Riparte il piano case. “Faremo le new town”, in “Il Tempo”, 24
gennaio 2009

154
base alle caratteristiche geografiche e sociali di un sito. Milano Due è
molto milanese. Non si può prenderla e portarla così com’è a
L’Aquila o altrove».

Se negli anni Ottanta Milano Due rappresentava l’immagine di una


Milano rampante, del sogno berlusconiano ricco e televisivo, che
immagine ha la Milano Due di oggi? «Un modo di abitare tranquillo,
normale e al tempo stesso eccezionale. Il palcoscenico non è garanzia
di un’opera di qualità, bisogna che la costruiscano gli attori. Però il
palcoscenico conta e qui l’abbiamo realizzato bene. Abbiamo centrato
il prodotto». Come vede Milano Due tra altri trent’anni? «Dipende da
vari fattori. In primis dalla mobilità del lavoro, dall’instabilità che
porta un sistema di mercato del lavoro che si gioca su un territorio
più ampio. Inoltre c’è il problema della sicurezza, che oggi è
percepito con molta più apprensione. Poi sarà molto importante
l’evoluzione del concetto di famiglia. Però bisogna dire che i nostri
appartamenti qui sono modulari, flessibili, possono essere ridisegnati
e nuovamente suddivisi». Dovesse progettarla oggi come la
disegnerebbe? «Sarebbe diverso, anche nel tipo di utenza.
Bisognerebbe capire che cosa sono in grado di dare gli attuali
insediamenti, quelli che portano nella downtown di Milano una
massa enorme di potenziali utenti. Se questa massa enorme non
trova soddisfazione, ritornerebbe d’attualità quello che abbiamo
proposto quarant’anni fa, un modello opposto a quello
superconcentrato…». Mentre ci salutiamo l’architetto Ragazzi insiste
per mostrarmi una cartina del mondo del National Geographic, su
cui con dei grafici a barre altissime è spiegato l’aumento della
popolazione mondiale nelle grandi città, specialmente in Asia, da qui
al 2050. Questa è la mia ossessione mi dice, come se tutto quello di
cui finora avevamo parlato non contasse più, è un fenomeno
inarrestabile, lei ci deve meditare, anche io su questo ci sto sbattendo
la testa.

8. Spot elettorali

Per pranzo vado nel sushi bar appena inaugurato, con visione del
laghetto dei cigni dalla vetrata. Marco, il giovane agente di
comunicazione, mi aveva accennato ai “cinesi di Milano Due”, un
vero business-case di successo: gestiscono ristoranti, comprano case

155
e locali nel quartiere, fanno ottimi affari. Ora è tutto un via-vai di
signore che si congratulano e personale Publitalia in pausa pranzo. Al
centro della piazza una specie di obelisco, opera dello scultore Filippo
Panseca, celebra il primo decennale della città, con una frase scolpita
alla base: «A perenne ricordo della costruzione di Milano Due, Silvio
Berlusconi pose». Provo a immaginarmi, su quella stessa piazzetta, in
una sera umida dell’estate del 1979, Mike Bongiorno e il Cavalier
Berlusconi, in piedi su una cassetta di legno, che arringano una folla
di pubblicitari e amministratori delegati314. Bongiorno, ingaggiato
con un contratto d’oro, fu la prima star televisiva a lasciare la
televisione di Stato. Colui che aveva lanciato il successo della tv in
Italia, “unificando il Paese più di Garibaldi” disse qualcuno, svolse
ancora un ruolo fondamentale nel passaggio al nuovo sistema,
aderendo entusiasticamente al primato della pubblicità. Anche lui
rimase stregato da Milano Due, come racconterà nella sua biografia.
Lo vide quando era ancora in costruzione e subito nella sua rubrica
sulla Domenica del Corriere scrisse di questo «modernissimo
quartiere» con «architetti lungimiranti» e con la sua «piccola tv via
cavo al servizio della comunità di cittadini»315.

Nei sotterranei poco illuminati del Jolly Hotel c’è ancora, con un
enorme tavolo a ferro di cavallo, la sala Botticelli, dove si tennero le
prime riunioni in gran riserbo sulla nascita di Forza Italia, reclutatori
e agenti Publitalia ogni settimana a rapporto da Marcello Dell’Utri316.
Qui dentro, all’inizio degli anni Novanta, si è studiato e perfezionato
il modo di estrarre da quei sogni degli italiani finora plasmati dalla tv
un elettorato. Da quell’elettorato un partito. Da quel partito un
potere. Da quel potere la sua sopravvivenza. Da quella sopravvivenza
il suo trionfo. Dopo la Città dei Numeri Uno, dopo la Televisione che
vende consumi, ecco che nasce Forza Italia, poi infine Popolo delle
Libertà. Berlusconi entrò ufficialmente in politica agli inizi del 1994,
coi vecchi partiti della Prima Repubblica spazzati via dagli scandali
della corruzione, coi suoi interessi da difendere. “Scese in campo”
con un filmato trasmesso da varie reti televisive in cui prometteva
“un nuovo miracolo italiano”, guidò il suo partito con uno stile
manageriale e manipolò il suo messaggio per adattare e modificare

314
M. Bongiorno, La versione di Mike, 2007, p. 271
315
Ibidem, p. 258
316
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 213

156
l’opinione pubblica317. Come hanno scritto Alberto De Bernardi e
Luigi Ganapini, il successo di Berlusconi come uomo politico era
anche il riflesso di una serie di cambiamenti epocali nella società
italiana e di norme culturali «in virtù delle quali il manager-
imprenditore si presenta come modello idealizzato di guida e la
società civile è concepita come un insieme di soggetti atomizzati, non
più divisi da discriminanti di classe e portatori di interessi e valori
conflittuali, ma omogeneizzati dal consumo»318. Nella scalata al
potere politico Berlusconi fece un uso specifico della sua immagine
legata a Milano, e naturalmente anche dei suoi vanti da costruttore di
città ideali. Negli opuscoli elettorali sulla vita del Cavaliere – dallo
stile rigorosamente agiografico, sorprendentemente simili a quelli di
vent’anni addietro delle Edilnord che pubblicizzavano gli
appartamenti di Milano Due – si legge di «un nuovo modo di
concepire la città, il sogno di Berlusconi urbanista». Accanto a una
luminosa foto aerea del quartiere Milano Tre si trova una didascalia
alquanto evocativa: «Qui un tempo c’era una palude». Nel maggio
2009, in una prefazione a una riedizione di questi opuscoli allegati a
Libero, il giornalista Vittorio Feltri, all’epoca direttore di quel
quotidiano, se ne esce con una formula perfetta, che potrebbe essere
ironica se non fosse che è serissima: «Dopo Milano Due, ora la
grande scommessa si chiama Italia Due»319.

Mi sono segnato una definizione di Milano Due opera di Michele


Serra: «Lustra e asettica, funzionale e smemorata, comoda e post-
italiana»320. Che comunque l’operazione Milano Due, intesa non
soltanto come speculazione immobiliare ma come “creazione di un
luogo”, sia riuscita appare evidente. Oggi il quartiere è anche dotato
dei suoi strumenti di comunicazione: da un lato c’è Milano 2 Notizie,
il mensile dell’Associazione Residenti, pieno di informazioni e
lamentele sulla vita concreta delle residenze; dall’altro lato è molto
frequentato, in particolare da giovani, il gruppo web di Facebook su
Milano Due, invece pieno di nostalgici amarcord di quando i bambini
andavano da soli a scuola, le mamme facevano la spesa sotto casa,
ovunque c’erano biciclette a disposizione dei residenti, nel bar dei
Portici era facile incontrare personaggi famosi ecc. In molti si sono in

317
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 122
318
A. De Bernardi, E. Ganapini, Storia d’Italia 1860-1995, 1996, p 511
319
Aa. VV. Berlusconi tale e quale, 2009
320
M. Serra, L’Amaca, in “La Repubblica”, 5 novembre 2002

157
qualche modo riconosciuti nel quartiere, forse soprattutto grazie al
potente collante costituito da una quasi totale assenza di
differenziazione sociale. Il sindaco di Segrate, Alessandro
Alessandrini, giunta di centrodestra, è anche un residente della
prima ora e, intervistato sul blog della parrocchia, dice di vedere il
futuro, oltre che il presente, di Milano Due assolutamente roseo: «Il
quartiere in questi anni si è saputo preservare in maniera
straordinaria. Il suo bello, però, è che non si è mai chiuso a riccio, ma
è sempre stato aperto alle novità anche grazie alla sua vicinanza a
Milano. Rispetto ai tempi d’oro del fortino qualche cambiamento in
peggio c’è stato. Il traffico, per esempio, è aumentato. Ma sono
aumentati anche i servizi. Soprattutto quelli pubblici. Parlo del
Centro civico e degli spazi ricavati per le associazioni. Oggi, poi,
stiamo assistendo a un ripopolamento che ha portato a un aumento
del numero dei bambini piccoli. In tanti fuggono da Milano e
approdano qui. Come biasimarli! Sapete qual è la caratteristica doc di
Milano due? Che ha mantenuto le fattezze di un paese. Le persone si
conoscono tra di loro, si salutano sulle scale e si incontrano fuori.
Non solo i ragazzi formano compagnie, anche gli adulti e gli anziani,
aiutandosi a vicenda»321. Altrettanto positivo (come potrebbe essere
altrimenti?) è il bilancio del creatore del quartiere, Silvio Berlusconi:
«Credo che Milano Due sia venuta fuori praticamente senza difetti.
Tutta la gente che ha preso appartamenti lì è stata felicissima di
viverli, pochissimi hanno lasciato, pochissimi appartamenti sono in
vendita, il prezzo è sempre stato tale da aver fatto fare un
grandissimo affare a chi ha optato per l’acquisto, i figli sono venuti su
molto bene e si sono allontanati da Milano Due soltanto quando sono
arrivati a un livello di scuola che lì non era presente»322.
Emblematico un suo discorso del 1989 ai giovani appena usciti da un
master nelle sue aziende, con modalità comunicative che abbiamo
imparato a conoscere: «Quando sono giù di morale, mi metto le mani
in tasca e la mattina vado a passeggiare a Milano 2. Ricordo quante
persone avevo contro: li avevo contro tutti, ma proprio tutti. C’era la
macchina politica e burocratica perfetta per impedire, per proibire,
per ritardare, per ostacolare. C’erano i Pretori comunisti, la
Prefettura, i sindacalisti, i Verdi di allora, la signora Bonomi
Bolchini, i giornali della Rizzoli, quelli degli aerei con le loro rotte di
decollo e di atterraggio e il frastuono dei motori. Nonostante tutto

321
A. Ferrari, Milano Due, che futuro?, in www.parrocchiadiopadre.it
322
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 89

158
questo, nonostante l’efficienza di questa macchina che avevo contro,
sono riuscito a costruire una città di diecimila abitanti. È stato
difficile, ma senza abnegazione non si può fare nulla. Bisogna
mettercela proprio tutta»323.

Non tutti gli abitanti di Milano Due si sono in seguito riconosciuti


nelle scelte politiche di Berlusconi, né si sono tutti sentiti “milanesi
alla seconda”. Ma il ricordo che conservano di Milano Due rimane
spesso positivo: positivo come può essere il vivere in una società
apparentemente priva di contrasti e differenze. Certo, non è un
american-style garden suburb, come ha scritto The Economist. Non
è neppure uno spazio rigidamente chiuso e protetto, una gated
community all’italiana, come tante se ne stanno diffondendo pure nel
nostro Paese in questo inizio di millennio. Come hanno scritto De
Pieri e Scrivano in un’inchiesta sul Manifesto, ciò che differenzia
Milano Due, che rende questo luogo a suo modo paradigmatico, è il
salto di scala dell’intera operazione, non soltanto quella edilizia e
immobiliare. Milano Due è il simbolo di una strategia di
comunicazione in cui le scelte architettoniche e progettuali risultano
soltanto la parte di un tutto e i cui tempi sono enormemente
dilatati324. Lasciandomi alle spalle Milano Due mi ripeto che è
importante capire attraverso quali strade il potere, politico ed
economico, tenta di costruire oggi le sue forme di legittimazione, di
appiattire e sopire i possibili contrasti sociali e ideologici.

9. Lo Strapaese al governo

Se la metropoli è stata il medium principale, nonché la metafora più


efficace dell’esperienza moderna, e se la televisione ne ha rilanciato
la potenza comunicativa nella fase tardo-moderna, allora la new town
berlusconiana dove si colloca? Sicuramente sulla stessa linea
dell’urbanistica anti-urbana all’italiana, lungo lo stesso sentiero su
cui abbiamo trovato i borghi littori del Duce e le lucciole scomparse
di Pasolini, il canto della via Gluck di Celentano e l’ideologia
pubblicitaria del Mulino Bianco. A ogni tappa, però sempre alzando
la posta. Fino ad arrivare lì dove i processi di smaterializzazione e
323
S. D’Anna, G. Moncalvo, Berlusconi in concert, 1994, p. 316
324
F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio
2001

159
mediatizzazione del territorio a opera dello sviluppo tecnologico si
sono spinti a lacerare ogni trama della modernità. Là dove a “fare
società” non è più né il cittadino né il telespettatore ma il
consumatore individuale. Come abbiamo visto, Berlusconi col suo
sogno di Suburbia coglie i passaggi dell’immaginario collettivo
italiano, insinuandosi nei luoghi, nei territori. Il passaggio dalla
centralità della casa alla centralità della tv, dalla città di mattoni alla
città elettronica (sebbene ancora pre-internet). Poi il passaggio dalla
città di Stato alla città privata, dalla città sociale alla città individuale.
La tv aveva iniziato già da anni a splendere nei reticoli abitativi delle
città, dei paesi e delle prime periferie urbane d’Italia, l’altro
passaggio decisivo, quello dalla socializzazione della piazza alla
socializzazione offerta dalla tv era già avvenuto. Sebbene a costo di
uno scontro tra interessi corporativi, capitali culturali ma anche
generazioni. Come scrive Vincenzo Susca «le culture della piazza –
che sono anche quelle del libro e dei conflitti fisici, dell’autorità e del
popolo, della religione e dell’arte – non hanno mai cessato di
resistere alle culture dei media»325. Le mura delle città e delle case si
fanno limiti valicabili attraverso i viaggi concessi dalle nuove dimore
mediatiche. In fondo, le origini della televisione, prima dei colori,
prima del bianco e nero, erano già inscritte nella storia della
metropoli ottocentesca, dei suoi linguaggi, del suo “vissuto”. Basta
citare Simmel: «La base psicologica su cui si erge il tipo delle
individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, che
è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni
esteriori e interiori»326. Difatti, nella seconda metà del Novecento, lo
schermo televisivo si salda direttamente all’immaginario collettivo
nel momento in cui si apre allo «spettacolo del consumo»327. Come
avevano fatto le Grandi Esposizioni Universali nell’Ottocento, la
televisione mette in vetrina costumi, merci e sogni collettivi, consente
all’uomo qualunque di sapere tutto di tutti, di vivere «oltre il senso
del luogo»328. Così, nell’eterno Strapaese italiano, si può
ragionevolmente arrivare ad affermare che «la vera esperienza
metropolitana, in Italia, l’immaginario collettivo la consuma e
325
V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V.
Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, p. 33
326
G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, 2001, p. 36
327
M. Morcellini, Lo spettacolo del consumo. Televisione e cultura di massa nella
legittimazione sociale, 1986
328
J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul
comportamento sociale, 1995

160
produce attraverso la televisione»329. In tutto ciò serviva qualcuno
che facesse saltare le vecchie serrature. Per questo Berlusconi,
emerso tra strati sociali resi già omogenei dalla sensibilità televisiva,
è apparso – già parecchio tempo prima della sua formale entrata in
politica – un “liberatore” per alcuni e un “invasore” per altri. Anche
perché «ha fatto da catalizzatore di una socializzazione incompiuta,
di un processo di modernizzazione che in Italia non ha reso possibile
il trapasso da una società pre-televisiva a una società televisiva»330.

Cosa c’è quindi di urbano nella televisione e nella cultura di massa


che presumibilmente ha veicolato? La questione è complicata.
Naturalmente la cultura di massa è sempre stata in un certo senso
moderna, e le città italiane hanno man mano costituito dei centri
naturali di industrializzazione, consumo e modernità. Tuttavia il
mosaico urbano e il mutevole panorama cittadino non si riflettevano
nelle prime emissioni televisive, nel castigato bianco e nero della
prima Rai di Stato, che invece si limitava a programmi educativi,
rappresentazioni teatrali, telequiz girati negli studi o in provincia.
Quella provincia che – territorialmente, e non solo – costituiva (e
costituisce) buona parte del Paese. L’elemento “urbano” che stiamo
cercando era un’entità molto più effimera, più ideologica che
concreta, più mitica che reale. I “tipici valori urbani” menzionati da
John Foot rispecchiavano il cambiamento di ideali introdotto dal
boom economico del secondo dopoguerra, ma in modo appena
percettibile. Legando lo sviluppo dei media a quello della formazione
delle “comunità immaginate” nazionali. Più tardi la tv privata, la tv di
Berlusconi, è stata “americana” in un modo molto più evidente di
prima. In un crogiolo di eccessi urbani, glamour e consumismo, fece
della “modernità” una virtù331. Una modernità, però, sempre ancora a
valori e decori tradizionali, a rassicuranti ancoraggi paesani, come
l’ossimoro delle “case di campagna in città” di Milano Due ci insegna.
Una convivenza tutta italiana di ipermodernità e nostalgia.

Così non si può sottovalutare Milano Due, ennesima incarnazione,


perfino gradevole e riuscita, dello Strapaese italiano, pure nella sua
versione americaneggiante. Forse, come ha scritto recentemente
L’Unità, «bisognerebbe scomodare il Gran Lombardo, la Brianza

329
A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, 2001, p. 226
330
Ibidem, p. 34
331
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 126

161
trascolorata del Maradogal – provincia sudamericana creata, tra
barocco e grottesco, dalla penna dell’ingegner Carlo Emilio Gadda –
per comprendere il successo di Milano Due. Sopra le villette,
l’aspirazione alla tranquillità, sotto “l’orrido garbuglio”, i pasticci, la
solitudine dell’hidalgo-ingegnere Putibutirro»332. Assistiamo, per
dirla con Silverstone, alla «suburbanizzazione della sfera pubblica»,
una dimensione che mette in gioco molto ambiti: la sfera politica, la
sfera collettiva, i mezzi di comunicazione, lo stile di vita. L’ambiente
del suburbio «mette in luce la qualità peculiare della cultura
moderna negando la tradizionale differenza tra natura e cultura,
fondendole». E la televisione, sempre lei, si adatta perfettamente alla
realtà suburbana. Fino alla politica: «la politica nei sobborghi, e dei
sobborghi, è ancora prevalentemente una politica casalinga di
interessi privati, conformismo ed esclusione condotta all’interno di
strutture politiche che sono, in genere, scarsamente riconosciute e
tantomeno contestate»333. Non a caso il successo edilizio di Milano
Due non è centrato tanto sullo scenario metropolitano bensì su
quello suburbano. Ha ragione il sociologo Aldo Bonomi quando dice
che l’anima di Berlusconi, ora che è diventato leader dello
schieramento politico di centrodestra e capo del governo, va ricercata
in quella “città infinita” del Settentrione, rappresentata dal territorio
lombardo e oltre, dove il modello è il capannone, la casa con giardino
e garage e l’immancabile nanetto di Biancaneve. «Basta aver
percorso l’autostrada Torino-Trieste per capire i punti di riferimento
dei nuovi soggetti. Il paesaggio è dato dai capannoni attorniati da
villette con i nanetti nel giardino e la Bmw nel garage sotto casa.
Questo è il modello. Il vero simbolo del berlusconismo non è la
televisione, ma è il capannone e la villetta con i nanetti nel giardino.
Ecco l’anima profonda del berlusconismo»334. Come sosteneva
Tommaso Labranca in un suo volumetto di qualche anno fa
sull’estetica del pecoreccio italiano, «non possiamo non dirci
brianzoli»335, perché la Brianza è prima di tutto un luogo dell’anima,
ebbene, forse parte di questa «comunità immaginaria brianzola» si è

332
J. Bufalini, Decoro borghese ossessione milanese, in “L’Unità”, 17 settembre 2009
333
R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, 2000, pp. 90-134
334
A. Bonomi, Il chiunque e la moltitudine, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è
Berlusconi, 2004, p. 247
335
T. Labranca, Estasi del pecoreccio, 1995

162
formata grazie (anche) a Berlusconi e al suo “corpo elettronico”,
tradizionale e moderno al tempo stesso336.

«Agli architetti italiani dell’epoca non piaceva – ha spiegato,


intervistato dall’Unità, Fulvio Irace, storico dell’architettura al
Politecnico di Milano – quell’idea neoconservatrice di anti-città. I
laghetti, la chiesa, il centro sportivo, la selezione forte dei gruppi
sociali e non la condivisione che si crea in un quartiere urbano». È
l’ideale del sobborgo americano dove il capofamiglia la sera si rifugia
e, chiudendo la porta, si lascia alle spalle lo stress, il traffico, ma
anche la vitalità, i rumori, le attività del mondo urbano. E trova la
moglie ad aspettarlo, con i bambini stanchi ma felici. L’idea di
Milano Due e Milano Tre è esattamente la stessa, secondo Irace,
«solo che Berlusconi la interpreta a un livello più popolare, ma
progettata da buoni architetti»337. Un’incarnazione, tra tante, del
sogno borghese. Ma pure un’espressione azzeccata della mutazione
dei tempi, della capacità di sentire l’aria che tira. Quando alcuni
ricercatori dell’università di Los Angeles iniziarono nell’anno 1968 ad
intervistare le matricole, gli studenti indicarono l’«acquisire una
filosofia di vita» come la priorità numero uno della propria
istruzione, mentre «ottenere un buon posto di lavoro e fare soldi» si
trova sul fondo della classifica. Nei venticinque anni seguenti quei
valori furono letteralmente invertiti: «fare soldi» schizzò in vetta e
«acquisire una filosofia di vita» sprofondò negli abissi della
classifica. Inoltre i ricercatori furono sorpresi dalla scoperta di una
forte correlazione tra la quantità di televisione che gli studenti
guardavano e l’espressione di priorità materialistiche338.

Un errore da evitare nell’avvicinarsi a Milano Due è quello di


considerare Silvio Berlusconi e il quartiere da lui costruito come due
sinonimi. Una trappola in cui cade sia la letteratura di segno
beatificante, come certi opuscoli elettorali o biografie accomodanti,
sia la letteratura di segno decisamente opposto, che riduce il tutto a
una «scandalosa speculazione finanziaria» di un «palazzinaro
coperto da prestanome e coi capitali di anonime finanziarie

336
F. Boni, Il superleader. Fenomenologia mediatica di Silvio Berlusconi, 2008, pp.
43-45
337
J. Bufalini, Decoro borghese ossessione milanese, in “L’Unità”, 17 settembre 2009
338
A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, p. 406

163
svizzere»339. La questione è più banale e più complicata al tempo
stesso.

Certamente c’è qualcosa che richiama l’ideologia politica del


berlusconismo, ma anche del leghismo degli ultimi anni.
Innanzitutto il non vergognarsi più del proprio decoro borghese, il
non dissimulare più quel sentimento di diffidenza che fa alzare gli
steccati. Riemerge così la dicotomia tra fuori e dentro, tra amici e
nemici. Come nel discorso politico: da una parte si propone
l’immagine di una società omogenea, coesa, sostanzialmente
pacificata, dove non esistono conflitti né di classe né di interessi, con
una sfera pubblico-sociale anestetizzata; dall’altro lato si propaganda
una visione della politica come combattimento contro estranei o
nemici, come energia che emana da un popolo in rapporto diretto col
suo leader, senza intrusioni di poteri terzi340. Ma non basta.
Certamente c’è il collegamento complesso con la retorica anti-urbana
e le creazioni di città e borghi nel ventennio fascista, in un contesto
del tutto diverso ma con la simile ambizione di voler assecondare la
propaganda e plasmare nuovi soggetti sociali attraverso la creazione
di un territorio. Volendo azzardare un parallelo: lì uno Stato che si fa
Impresa, qui un’Impresa che si fa Stato. Forse riassumibile
nell’opinione che «a differenza di Mussolini, Berlusconi non ha mai
preteso di trasformare gli italiani, lui ha aderito agli italiani, e
aderendo a noi ci ha cambiati più di quanto abbia potuto
l’indottrinamento del regime»341. Ma ancora non basta. Certamente
c’è il cerchio del pensiero antiurbano che sempre avvolge l’Italia,
l’idea di base di un ritorno alla cultura campagnola e contadina, il
rilancio del genius loci, insomma lo Strapaese riveduto e corretto
che, paradossalmente, unisce l’estetica berlusconiana di Milano Due
con la retorica di regime dei borghi dell’Agro Pontino, con il padano
premoderno Celentano cresciuto nella via Gluck, con l’abuso del
ruralismo populista e decadente di Pasolini. È tanto, ma non
abbastanza. Perché alla fine anche Milano Due è un pezzo di città,
che riflette solo in parte le logiche di chi l’ha promossa e finisce per
portare le tracce di una stratificazione complessa di culture,
aspirazioni, vissuti.

339
G. Ruggeri, M. Guarino, Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv, 1994
340
C. Galli, Volontà di potenza, in “La Repubblica”, 17 ottobre 2009
341
A. Cazzullo, L’Italia de noantri, 2009, p. 124

164
165
166
CAPITOLO 5
Il contagio

Come è possibile che tutti cominciamo


come degli originali e finiamo come delle copie?
Clifford Geertz, Interpretazione di culture

167
168
1. Celebration, provincia di Disneyland

Alla fine degli anni Ottanta, nella sede della Disney Corporation in
California, si tenne un’importante riunione in cui vennero proiettate
delle diapositive riguardanti uno studio sui consumatori
appositamente realizzato per la grande azienda mondiale, leader nei
settori dell’intrattenimento, dello spettacolo e dei giochi per
l’infanzia. La ricerca, che riassumeva i risultati di diciotto indagini di
mercato annuali consecutive realizzate dalla ditta Yankelovich,
conteneva uno schizzo sommario del cambio di atteggiamento dei
figli del “baby boom” rispetto al “netto rifiuto” del “sistema di valori
tradizionali” che avevano espresso solo vent’anni prima. «In questo
paese – vi si leggeva – si sta sviluppando un clima sociale
interamente nuovo». Si parlava di «nuovo approccio alla vita, che
chiameremo Neotradizionalismo» che non rifiuta a priori tutto ciò
che è stato, come era «tipico dei protagonisti della “Me Generation”»,
ma piuttosto arriva a una sintesi tra i valori di sicurezza e
responsabilità tipici del conformismo anni Cinquanta e le libertà
individuali e di scelta successivamente imposte. Insomma, «i
consumatori sembrano alla ricerca di un punto di equilibrio, di un
bilanciamento tra gli opposti». Un testimone di quella riunione
raccontò com’era presentata la relazione: «Si vedeva la foto di un
caminetto vittoriano con sopra una sveglia Braun. I
neotradizionalisti, si deduceva, sceglierebbero sì una stanza vecchio
stile, ma non comprerebbero mai un orologio vittoriano, ovviamente
a molla e con ogni probabilità impreciso. Sceglierebbero senz’altro un
orologio tedesco di ultima generazione. I neotradizionalisti
metterebbero tubazioni e cucine moderne nelle loro case vecchio
stile, laddove un tradizionalista integrale restaurerebbe un vero
bagno vittoriano con tanto di vasca con le zampe da grifone, e un
modernista troverebbe semplicemente impossibile vivere in una casa
vittoriana»342. In quegli stessi anni gli “ingegneri dell’immaginario”
della Disney commissionarono al maggiore ufficio di consulenze
immobiliari degli States uno studio di mercato sulla proprietà
immobiliare, in vista un nuovo insediamento abitativo. Il team aveva
consultato anche un gruppo di futurologi riguardo alle «preferenze
dei consumatori negli anni Novanta e all’inizio del nuovo secolo»,
342
A. Ross, Celebration. La città perfetta, 2001, p. 45

169
aveva condotto ricerche di mercato presso i visitatori dei parchi a
tema, diffuso tra gli azionisti un questionario con domande relative a
che tipo di comunità, stile di vita e prodotti avrebbero voluto trovare
in una nuova città. I risultati di tutte queste indagini confluirono nel
disegnare il profilo finale della città come un posto di «vecchie case
con giocattoli nuovi»343.

Sulle pareti della sala riunioni troneggiano i ritratti del fondatore, lo


zio Walt, colui che aveva disegnato a matita e poi su celluloide la città
dei topi e quella dei paperi e molte altre ancora, e su di esse aveva
costruito il suo grande impero aziendale dell’immaginario americano
e occidentale. Le sue massime vengono riprodotte sulle grandi mura
della sede della Walt Disney Company. «If you can dream it, you can
do it». «It requires people to make the dream a reality». «It’s a kind
of fun, to make the impossible». Già mentre commissionava indagini
di mercato a immobiliaristi e futurologi, la Disney Corporation si era
meritata sul campo la definizione di essere una delle maggiori
promotrici dell’architettura postmoderna, a cominciare dal suo
primo parco divertimenti di Arnheim, Los Angeles, ribattezzato
Disneyland. E negli anni Settanta trapiantando e ampliando la sua
esperienza a Orlando, in Florida, con DisneyWorld. E ancora
replicando questo modello dozzine di volte, in tutto il mondo. Per
non parlare dell’ulteriore settore di espansione dei mega-alberghi,
lanciato negli anni Ottanta, progettati dai più importanti architetti
contemporanei. Le Disneyland sono tuttora le destinazioni turistiche
più popolari del pianeta: in meno di cinquant’anni sono state visitate
da centinaia di milioni di spettatori paganti.

È curioso che il primo cortometraggio con Topolino e Gambadilegno


(Building a Building, del 1933) sia ambientato sulle impalcature
barcollanti di un grattacielo. Gli intellettuali europei degli anni
Trenta furono affascinati dalla capacità disneyana di inventare un
mondo alternativo, fantasmagoria e allegra sarabanda che aboliva il
dolore e rendeva superfluo il rancore storico. Ma insieme avvertivano
il pericolo di un immaginario utopico e totalizzante, dove l’umano
non serviva più. Benjamin, nel suo saggio su Mickey Mouse,
constatava ammirato che i film di Disney «provocano una
frantumazione terapeutica dell’inconscio», ma notava con angoscia
che «in un mondo del genere non vale la pena fare esperienza» e che

343
Ibidem, p. 46

170
in esso «l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se questo è
necessario»344. Parole illuminanti. Certamente pochi sanno che Walt
Disney – illustratore, disegnatore e poi imprenditore – era
ossessionato in maniera via via più crescente dall’idea di realizzare la
città del domani che, diceva, «influenzi le generazioni future:
realizzarla è un’occasione unica nella vita di chiunque»345.
La prima spinta la diede nell’estate del 1955, inaugurando in un
sobborgo di Los Angeles la prima delle sue Disneyland. L’azzardo era
grande: l’azienda voleva espandersi dai cartoni animati e dai film e
programmi tv, dimostrando di saper fare qualcosa di “reale”. E il
successo fu enorme: nel più grande e costoso parco divertimenti
dell’epoca gente da tutto il mondo faceva la coda per vedere il castello
della Bella Addormentata, la giostra con le tazze da tè di Alice nel
paese delle meraviglie e il veliero dei pirati di Peter Pan. Disneyland
per prima ha rivelato il concetto, l’essenza del neo-turismo, un
turismo che va a visitare ciò che non esiste. A Disneyland niente era
lasciato al caso: l’esperienza perfetta del turista nel lunapark senza
borseggiatori, senza sporcizia e senza incidenti, in un’Esposizione
Universale permanente dell’intrattenimento, era coordinata dietro le
quinte da una macchina complessa. Centinaia di dipendenti e un
gruppo di una dozzina di società controllate dalla Disney stessa, si
occupavano di tutto: dalla creazione delle attrazioni dei singoli parchi
all’arredo degli hotel fino alla manutenzione delle strade e dei veicoli
di trasporto e ai servizi di polizia346.

Era però l’idea del parco come una comunità autosufficiente che
affascinava Disney. La possibilità di coniugare nostalgia e futurismo,
progresso tecnologico e ordine sociale. Trattare le persone come
pupazzi. Perché non trasformare, come poi avrebbe sognato il New
Urbanism trent’anni dopo e raccontato il film The Truman Show alla
fine del secolo, la vita delle persone in un vero e proprio spettacolo?
Nella sua mente il secondo megaresort della Disney, quello che sarà
inaugurato nel 1971, cinque anni dopo la sua morte, nel sud della
Florida, col nome di Walt Disney World, doveva chiamarci
semplicemente Epcot. Un nome che, nel progetto originario, era la
sigla per Experimental Prototype Community of Tomorrow, il
prototipo di comunità sperimentale per il domani. Qualcosa di molto

344
W. Siti, Il canto del diavolo, 2009, p. 88
345
A. Dini, Non solo cartoon, in “Diario”, maggio 2009
346
Ivi

171
differente, insomma, da quella che sarà la sua effettiva realizzazione:
non un parco divertimenti ma una città del futuro. L’obiettivo di Walt
Disney era creare una vera e propria comunità lavorativa di 20mila
abitanti in cui le grandi corporation statunitensi avrebbero potuto
aggiornare e mostrare le nuove tecnologie per l’American way of life.
Un’utopia incarnata, per di più al di fuori della legge comune al resto
del Paese. Il progetto prevedeva, infatti, che nessuno degli abitanti
fosse proprietario della sua casa, in modo tale che non potesse
legalmente votare e quindi che la Disney avesse le mani libere per
amministrare la comunità senza che questa potesse eleggere
rappresentanti non desiderati. Le regole del gioco sarebbero state
semplici e chiare: cittadini come clienti e dipendenti, tutti impiegati;
niente pensionati, niente disoccupati e nullafacenti a ingolfare le
strade. Un luogo dove l’ordine regnasse sovrano e le utopie
tecnologiche potessero venire elaborate e sperimentate. Epcot
avrebbe dovuto essere costruita intorno al suo sistema di trasporto,
con una pianta circolare su più livelli e due grandi assi di
scorrimento. In mezzo un mega centro congressi di almeno trenta
piani. Poi le aree residenziali e quelle per lo shopping, coperte da
un’enorme tettoia per garantire protezione dal caldo, dal freddo e
dalla pioggia. Quindi la cintura verde e infine la periferia
residenziale, collegata tramite piccoli vagoncini da quattro posti su
rotaie, i people mover, sempre in movimento. La monorotaia, invece,
avrebbe portato ogni giorno gli impiegati al lavoro e i turisti
all’aeroporto. Auto e camion, banditi dalla vita pubblica, sarebbero
stati confinati nei livelli sotterranei, attraverso un tortuoso sistema di
gallerie347.
Il vecchio Disney era ossessionato, fin sul suo letto di morte, dalla
creazione di questa utopia urbana, autosufficiente e dolcemente
autoritaria. Per innalzare davvero, tra gli uomini in carne ed ossa, «il
paese più felice del mondo».348 È questo il punto in cui Paperino e
Topolino mostrano il loro lato oscuro, come l’ha definito lo scrittore
Walter Siti: «dove la beata fiducia nell’onnipotenza dell’estro diventa
convinzione di possedere in proprio le chiavi della felicità universale;
dove un crocevia di convivenze tende alla sordità asettica del plastico
e del prototipo, come se il mondo per essere felice dovesse ridursi
alla parodia di se stesso»349. Nel 1955, all’inaugurazione, fu posta una

347
Ivi
348
W. Siti, Il canto del diavolo, 2009, p. 89
349
Ivi

172
targa all’ingresso di Disneyland: «qui tu lasci il presente per entrare
nel mondo di ieri, di domani, della fantasia» 350. La cosa più
sorprendente, oggi, è che il modello di città modulare sognata da
Disney si avvicina ai progetti di molte comunità pensate dal
Rinascimento urbano europeo, il movimento architettonico che dagli
anni Novanta immagina di costruire città ecosostenibili in cui le auto
siano bandite e dove la qualità della vita sia garantita dal verde
pubblico, dalle strutture comuni, dalla disponibilità di sistemi
elettrici di trasporto351.

Dopo le utopie visionarie del fondatore, dopo il florido business dei


suoi eredi e amministratori, dopo le ricerche di mercato di fine anni
Ottanta, qualcosa fu effettivamente realizzato. È la new town
chiamata Celebration: un paese edificato nel 1996 bonificando un
territorio paludoso nella contea di Osceola, in Florida, e all’inizio
amministrato direttamente dalla Disney Corporation. Un progetto
meno ambizioso delle originali visioni disneyane, con le solite villette
a schiera con giardinetto, un centro urbano studiato a tavolino. Ma
altrettanto claustrofobico. Celebration si sviluppa su una zona di
27.500 acri a forma di mezzaluna, fra laghetti, campi da golf e foreste
tropicali in miniatura, in mezzo al paesaggio dei motel, degli outlet,
delle catene di negozi cheap, di quel commercio che si mette sulla
scia delle folle di turisti che sciamano verso il vicino parco di
Disneyworld. In Celebration sono state costruite abitazioni
progettate secondo sei differenti stili architettonici: classico,
vittoriano, coloniale, costiero, mediterraneo e francese. Quando si
acquista una casa si può scegliere fra questi modelli a seconda delle
diverse zone abitate. La distanza massima tra gli immobili non può
superare i nove metri e nelle strade possono circolare solo automobili
elettriche. La città è controllata da un efficace sistema di vigilanza,
con telecamere e reti a fibra ottica. Ci sono regole accurate: anche
tenere il volume della tv troppo alto disturbando i vicini può essere
una causa di espulsione dalla cittadina. In Celebration la Disney ha
cercato di ricreare una vera comunità. Una comunità che deve essere
chiusa, non potendo superare le 20.000 unità per non mettere in
crisi l’ordine e l’equilibrio del progetto. Una comunità in cui gli
abitanti sono costretti, in cambio della sicurezza, a rinunciare a una

350
Ivi
351
A. Dini, Non solo cartoon, in “Diario”, maggio 2009

173
parte della propria libertà352. A vedere qualche foto, Celebration ha
poco dei bozzetti futuristici dello zio Walt, e piuttosto sembra avere
una vaga rassomiglianza con Milano Due. Ricalca gli stereotipi della
vecchia pubblicità americana, modello anni Cinquanta, rivela
qualcosa di non lontano dalle esperienze tipo Second Life su internet,
la possibilità di costruirsi mondi. Dal punto di vista architettonico,
Celebration è figlia di quello zelante movimento di pianificazione
urbanistica che è il New Urbanism: il quale ha dichiarato guerra allo
sviluppo caotico delle periferie cittadine e si è incaricato di creare
un’alternativa basata su vincoli sociali e comunitarismo
tradizionale353. Lo scrittore e docente universitario Andrew Ross ha
passato un interno anno a Celebration e da questa sua esperienza di
“osservatore partecipante” ha tratto un corposo volume sulla “città
perfetta”. Una città – spiega – che sarebbe sbagliato immaginare
come una linda versione umana di Topolinia, ma che col passare
degli anni ha assunto tutte le dinamiche e le contraddizioni di
qualsiasi comunità urbana: dalle frizioni sociali fino alla nascita di
aree-ghetto e al verificarsi di episodi di corruzione nei pubblici uffici.

«I “nuovi pionieri” di Celebration – ha scritto Ross – sono fuggiti


dalla desolazione dei panorami suburbani, attirati dalla possibilità di
riconnettersi tra loro nella rinascita di un progetto collettivo»354. Il
richiamo è quello che nel mio percorso di questo libro ho già visto e
riconosciuto in tante esperienze: ritrovare una fantomatica età delle
quiete, della sicurezza, della stabilità, quando la società non era
ancora minacciata dai pericoli della modernità. La nostalgia per la
“vita tranquilla” di un tempo, un passato rivestito da una sorta di
verginità rifatta, coi suoi topos sempre uguali a loro stessi: i vicini di
casa amichevoli, i bambini che giocavano per strada, i quartieri sicuri
da ladri e spacciatori, la campagna non troppo lontana. Così, da
quelle lungimiranti ricerche di mercato di fine anni Ottanta,
emergeva la «doppia identità dei sostenitori del
neotradizionalismo»: da un lato sensibili alla possibilità di
liberazione e protezione individuale delle nuove tecnologie e alle
sirene del marketing delle merci, dall’altro lato altrettanto affamati di
roba autentica, originale, apparentemente immune al

352
E. De Pascale, Celebration città perfetta. Tra Topolinia e il Truman Show, in
http://www.webgol.it
353
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, pp. 92-95
354
A. Ross, Celebration. La città perfetta, 2001

174
commercialismo di massa. Celebration viene progettata per gente
così355. La magia del sogno si è persa ed è rimasta solo l’ossessione
per il controllo. Come spesso accade nella vita.

2. Condomìni e altre ossessioni

Vengono in mente le ambientazioni dei migliori romanzi di Ballard.


Il grattacielo londinese, come nuovo spazio dell’abitare urbano, in
Condominio356. Il Pangbourne Village, centro residenziale costruito
fuori Londra, come spazio dell’abitare extra-urbano, in Un gioco da
bambini357. Estrella de Mar, il villaggio residenziale costruito sulla
Costa del Sol spagnola e ultima residenza di ricchi baby pensionati
inglesi e tedeschi, come esempio di società del tempo libero, in
Cocaine Nights358. Infine Eden-Olympia, il parco tecnologico del
superlavoro sulla Costa Azzurra, come esempio di società dei nuovi
lavori post-fordisti, in SuperCannes359. Quattro spazi, un’unica
forma: la fortezza. Una fortezza con telecamere e guardie private
proprio come i centri commerciali o i parchi tematici. È il
supermercato che finalmente si fa abitazione, casa accogliente e
sicura. La categoria sociale che descrive Ballard nei suoi racconti è
quella dei nuovi ricchi, contenti di constatare come il mercato si è
sostituito allo Stato nel governo dello spazio urbano. Finalmente
nessuno è più obbligato a pensare di dover progettare e governare
globalmente una città secondo valori universali. Finalmente si può
ripartire da zero, tentare di creare la comunità perfetta. In fondo non
è difficile: basta alzare un bel muro e proteggere le entrate con
telecamere e guardie private360.

Il segreto di una comunità sta nell’accesso controllato. In fondo non è


stato così fin dalle origini dell’uomo? La comunità nasceva, agli
albori della storia, delimitando e proteggendo uno spazio che a sua
volta era pubblico solo in quanto tutti avevano la responsabilità di

355
Ibidem, pp. 46-47
356
J. G. Ballard, Il Condominio, 2003
357
J. G. Ballard, Un gioco da bambini, 2007
358
J. G. Ballard, Cocaine Nights, 2008
359
J. G. Ballard, SuperCannes, 2002
360
E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a
Ballard, 2005, pp. 179-182

175
difenderlo e preservarlo. Le comunità nascono per difenderlo e
preservarlo. Come ha spiegato Emiliano Ilardi nel suo saggio su
“romanzo, media e metropoli” «le comunità nascono per difesa e si
fondano sulla paura». Sono stati l’Illuminismo e la Rivoluzione
francese a mettere in mezze le pretese di poter conciliare individuo e
comunità, mercato e valori, libertà e uguaglianza, con il loro Stato
che si arrogava il diritto di legiferare per la collettività intera, con il
loro utopico spazio pubblico cittadino universalmente accessibile che
trasformava la comunità da strumento di difesa in valore universale e
dunque, da un certo punto di vista, in un’imposizione, perché
obbligava a condividere uno spazio aperto a tutti, indifferentemente.
Basta ora eliminare quel “a tutti” con “esclusivamente agli abitanti (o
proprietari” di questo spazio” che il gioco è fatto361.

D’altronde, negli ultimi trent’anni, la “comunità” è diventata un vero


e proprio fattore di competizione del mercato residenziale, e ogni
ditta di sviluppo territoriale la inserisce nel pacchetto di optional
dell’insediamento che desidera vendere. I clienti possono così
scegliere di comprare casa all’interno di una comunità “forte”,
naturalmente a caro prezzo. Accade così che lo spirito comunitario
assume il valore di una risorsa terapeutica acquistabile solo da coloro
che, fra tutti i gruppi sociali, probabilmente hanno meno bisogno
delle sue virtù corroboranti. Per esempio – come ha notato Ross nel
suo soggiorno nella cittadella della Florida – i pianificatori di
Celebration si proponevano di surclassare gli avversari mettendo sul
mercato una nuovissima versione deluxe di pacchetto comunitario
“chiavi in mano”, differente sia dal “modello enclave fortificata” sia
dal “modello villaggio vacanze”. La domanda di questo bene prezioso
tende a mantenersi alta per la diffusa percezione che il senso
comunitario sia ormai un po’ dappertutto una specie in via
d’estinzione, e più che mai nell’aridità dei quartieri suburbani.
«Trasferitevi in una città vera, dice l’adagio, e vedrete come si
trasforma la vostra vita sociale»362. L’evoluzione rovescia le
prospettive. Nelle utopie storicamente realizzate la comunità era un
obiettivo intenzionale condiviso da individui legati dalla comune
fedeltà a certe convinzioni. Negli insediamenti pianificati di oggi,
invece, il termine è innanzitutto parte di un lessico di mercato che

361
Ibidem, p. 181
362
A. Ross, Celebration. La città perfetta, 2001, p. 268

176
mira a una nicchia di consumatori per irretirli e conquistarli tramite
un’efficace campagna promozionale.

Quando, quarantacinque anni fa, Herbert Gans, di professione


sociologo, andò a Levittown, vicino Philadelphia, uno dei suoi
obiettivi era capire se fosse davvero il posto in cui si vive a fare la
differenza. I quartieri suburbani erano già diventati il bersaglio
preferito di molti critici, secondo cui essi stavano trasformando la
gente in automi sociali, con effetti disastrosi sulla salute della
democrazia. Gans nel suo studio provò a rovesciare questi stereotipi,
secondo lui figli di un intellettualismo elitario urbano. L’ambiente
residenziale, secondo Gans, aveva un effetto trascurabile sulla vita
comunitaria. Tanto più i sobborghi suburbani di quel tempo
rappresentavano anche l’aspirazione a una vita migliore per molte
famiglie di ceto medio-basso363. Al giorno d’oggi il nesso, per quanto
difficile da documentare, viene assunto ormai come un dato di fatto:
gli schemi abitativi e stradali determinano la personalità civica. Ma
sarà poi vero che le brutte case producono cattivi cittadini? Che i
residence isolati producono invece cittadini egoisti? Forse che molti
sociologi sono ancora sentimentalmente attaccati al best-seller del
1961 di Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città364, e alle sue
visioni rosee della vita di strada a misura d’uomo? La risposta, in
ultima analisi, può dipendere da ciò che si intende per cittadinanza.
La cittadinanza attiva è una cosa che si impara, dagli altri e mano a
mano, certamente parecchio tempo dopo averne sentito parlare sui
banchi di scuola. Ed è molto importante l’uso che se ne fa: se per
difendere i propri privilegi oppure per migliorare la situazione altrui.

Qui tornano, come un incubo, i romanzi di Ballard. Essi ci pongono


di fronte a un paradosso: l’ossessione per la sicurezza e per
l’ottimizzazione del tempo spinge l’individuo a rinchiudersi nelle
gated communities, a eliminare la casualità dalla sua vita, a ridurre
drasticamente i rapporti sociali. Una volta raggiunta la sicurezza
assoluta, però, l’individuo perde il senso del vivere nel mondo,
scomparsa la paura scompare anche l’unico fondamento della
comunità, ed egli si ritrova con una libertà potenzialmente illimitata
ma concretamente rischiosa tra le quattro mura della città prigione.
Ed è allora che in quelle storie prende il sopravvento il crimine.

363
Ibidem, pp. 268-270
364
J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, 2009

177
Crimine o violenza psicopatica come unici fattori di imprevedibilità
nelle società occidentali tecnologizzate. Ballard suggerisce, in tempi
di ossessioni securitarie, che la paura non sia soltanto una delle
possibili forme del potere, collante delle moderne eterotopie, ma
anche un’esigenza dell’individuo per potersi sentire parte di una
comunità365.

3. Megalopoli e banlieu

Nell’autunno del 2005 Parigi, una delle metropoli più


rappresentative di un’Europa che ormai ha smesso di amare se
stessa, ha assistito impotente al rogo delle sue periferie, e con quelle
anche all’irreversibile crisi del suo laboratorio “laico” di cittadinanza
multietnica. Ogni notte, per circa due mesi, nelle banlieue vennero
bruciate le macchine e gli autobus, gli unici mezzi capaci di mettere
in collegamento gli stessi autori di tali gesti con il mondo del lavoro.
Macchine dei propri vicini, di qualche amico o parente. Macchine che
rappresentavano l’unico mezzo capace di collegare i loro quartieri
dormitorio al posto di lavoro, quando c’è, o al centro commerciale,
quando si può. Furono bruciate le scuole e gli asili, i parchi giochi e le
palestre, i negozi e i bar. Tutte quelle strutture frequentate dai loro
stessi familiari, spesso gestite da conoscenti, e che dovrebbero
contribuire, sebbene in forma drammaticamente insufficiente, a
migliorare quell’ambiente urbano366. La periferia bruciava se stessa.
Dalle “lotte urbane” dei proletari che non avevano da perdere altro
che le loro catene, come diceva Marx, ma che avevano molte speranze
di migliorare le loro condizioni economiche, lavorative ed
esistenziali, si è passati alle “violenze urbane” di persone che non
hanno speranze né ambizioni. In un villaggio globale sempre più
urbano e mediatico quelle immagini assunsero un’importanza
paradigmatica, eppure da molti vennero liquidati come un atto di
teppismo metropolitano, l’ultimo atto di una cittadinanza nichilista.
Ma il territorio che bruciava poteva tornare ad essere, nelle
intenzioni di quei ragazzi, il territorio fertile per un nuovo
radicamento. Come ha scritto Marc Augé, «viviamo in un’epoca
paradossale anche sotto questo aspetto. Nel momento stesso in cui

365
E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a
Ballard, 2005, p. 187
366
L. Mencacci, L’eclisse dell’utopia urbana, 2009, pp. 56-57

178
l’unità dell’intero spazio terrestre diventa pensabile e in cui si
rafforzano le grandi reti multinazionali, si amplifica il clamore dei
particolarismi, di coloro che vogliono restare soli a casa loro o di
coloro che vogliono ritrovare una patria, come se il conservatorismo
degli uni e il messianismo degli altri fossero condannati a parlare lo
stesso linguaggio: quello della terra e delle radici» 367. Il fuoco della
banlieue sembra così il versante oscuro in cui si raffrontano le
recinzioni dei residence e dei condomini che impongono il limite
invalicabile di una società, che esclude chi non può permettersela.
Come ha affermato il sociologo Alan Touraine noi viviamo il
passaggio da una società verticale che avevamo preso l’abitudine di
chiamare una società divisa in classi, con gente che stava in alto e
gente che stava in basso, a una società orizzontale dove l’importante
è sapere se si è al centro o in periferia che è la zona della grande
incertezza e delle tensioni, in cui le persone non sanno se finiranno
per far parte degli “in” o degli “out”368.

Alcune rilevanti trasformazioni macrosociali che investono la società


occidentale hanno un rapporto con il crescere dell’insicurezza
urbana: la disoccupazione strutturale, la trasformazione del sistema
produttivo che tende a polverizzare e precarizzare il lavoro,
l’incremento delle migrazioni internazionali, la polarizzazione tra
una minoranza relativamente benestante e una maggioranza povera
o impoverita, la crisi del welfare state e della stessa politica che
ritrova nel “mercato della paura” un espediente per rimettersi al
centro della scena. Insieme ad altri fattori psicosociali eterogenei,
come l’individualismo, il narcisismo, la crisi della fiducia. I concetti
di rischio e sicurezza assumono un’importanza sempre maggiore. A
maggior ragione se il più delle volte ciò che conta è la loro percezione
prima che la loro realtà, percezione a sua volta facilmente solleticata
e ingigantita dai mezzi di comunicazione. Il conflitto, più o meno
silenzioso, che si riproduce nei vari contesti del mondo è
tendenzialmente quello tra zone di povertà vs zone di enclave per
benestanti369. La richiesta di sicurezza è cresciuta, nel tempo, di pari
367
M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, 1993, p.
37
368
A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008,
p. 60
369
F. Montanari, Limiti, sprawls, esplosioni, edges e bordi: quello che fa oggi la città,
in G. Marrone, I. Pezzini (a cura di), Linguaggi della città. Senso e metropoli II, 2008,
p. 212

179
passo con la crescita dell’insicurezza ontologica, strutturale. Un
fenomeno che va di pari passo con il declino della modernità “solida”
– quella legata alla solidarietà pubblica che assicurava una
protezione collettiva contro le disavventure individuali e alla
solidarietà privata, sindacale o professionale, che con una continua
negoziazione teneva lontani i rischi del mercato del lavoro – e con il
passaggio alla modernità “liquida”370. Per dirla con le parole di
Bauman, «non lo stare insieme ma l’evitarsi e lo stare separati sono
diventate le principali strategie per sopravvivere nelle megalopoli
contemporanee. Non è più questione di amare o di odiare il
prossimo: tenerlo a distanza risolve il dilemma e rende superflua la
scelta»371.

Quelle mura, che un tempo difendevano la città da pericoli esterni e


sconosciuti, ora vengono innalzate all’interno della stessa città per
prevenire rischi interni e sconosciuti. In tal senso interessante appare
lo studio di Mike Davis, Città di quarzo, basato sull'osservazione
delle trasformazioni dell’habitat urbano di una megalopoli in
continua espansione come Los Angeles. Davis ha evidenziato come la
città si stia dissolvendo in una geografia di “comunità chiuse” e
“fortificazioni urbane”, emergenti da uno spazio pubblico
destrutturato e reso inabitabile. In essa i grandi mall suburbani e i
megastore diventano gli unici luoghi dove una comunità urbana
eterodiretta possa continuare a celebrare quel rito ormai privo di
reale significato dell’incontro. Davis parla di una complessiva logica
di «militarizzazione della vita cittadina» che caratterizzerebbe
l’urbanistica contemporanea, soprattutto americana. Inserendosi in
un ampio dibattito, quello sulla natura pubblica o privata degli
spazi372. Girovagare senza meta, disegnare il proprio percorso
affidandosi agli automatismi psichici, alla casualità delle sensazioni o
alle ossessioni personali come facevano surrealisti e flaneurs e
drifters postmoderni è un privilegio che non ci è più concesso. È
impossibile perdersi nelle metropoli descritte da Davis, dove c’è
sempre una telecamera, un muro, una guardia privata, un immigrato,
un poliziotto o un membro di una gang che ci riportano, con le buone

370
A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008,
p. 39
371
Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, 2001, p. 55
372
M. Davis, Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, 2008

180
o con le cattive, al percorso originario, l’unico che ci era concesso
seguire fin dall’inizio.

In questi ultimi decenni sono stati coniati dagli urbanisti e dagli


studiosi di pianificazione territoriale numerosi termini, dotati di
sfumature e connotazioni diverse, per definire il fenomeno della
sempre più sfumata definizione del limite urbano. Sprawl, città
estesa, città diffusa, città arcipelago, città esplosa, città continua,
città di città. Come sempre non è la forma a essere rilevante, sono le
forze concrete, in atto, espresse da essa. I dati delle Nazioni Unite
degli anni Duemila continuano a segnalare una crescita delle
popolazioni urbane in tutto il mondo sviluppato e soprattutto in via
di sviluppo. Alla svolta del millennio, proliferano le immense
megalopoli, soprattutto quelle in espansione della Cina e del sud-est
asiatico. Si consolidano le città destinate al turismo di massa,
quartieri di grandi capitali europee oppure città d’arte come Firenze
o Venezia, convertite in souvenir di loro stesse. Comincia il fenomeno
della gentrification, la riconquista dei centri urbani ritornati alla
moda da parte delle classi medio-alte. Chi non ha mezzi rimane
dov’è, nelle periferie rimaste prese in mezzo tra la città consolidata
che si riqualifica e si rifonda e l’eventuale marea della città diffusa,
l’urban sprawl su cui si interrogano specialisti di varie discipline,
insediamenti puramente residenziali, senza centri, senza radici,
senza servizi di prossimità ma spesso prossimi a grandi centri
commerciali. Per alcuni sono la caratteristica corrente dello sviluppo
urbano, secondo altri sono solo il frutto di una insufficiente politica
di gestione territoriale. Lontano, in deserti innaffiati dal denaro,
fioriscono le città simulacro dell’azzardo, parchi fantasmagorici dello
sviluppo economico, dalla vecchia e ormai superata Las Vegas,
dissoluta capitale americana di giochi e “vizi” tra le sabbie del
Nevada, fino alla gigantesca e futuribile Dubai, enclave di lusso in
stile occidentale in terra araba, ora in crisi per i sussulti di un
mercato immobiliare impazzito. Posti dove pare di intravedere la
sperimentazione del più gigantesco tentativo sotto le cui insegne sta
nascendo il Ventunesimo secolo: conciliare il libero mercato coi
regimi autocratici, forse addirittura il dispotismo illuminato si rivela,
per l’economia post-consumista, la miglior forma di governo (e la
criminalità organizzata il suo braccio creativo)373.

373
W. Siti, Il canto del diavolo, 2009, p. 199

181
Qualcuno disegna la nuova utopia di una collettività di individui in
costante e reciproca comunicazione, grazie ai miracoli delle reti
tecnologiche, senza quei vincoli di prossimità che avevano costretto i
loro predecessori ad ammassarsi nei centri urbani. Una città a rete,
senza centro, in grado di proliferare all’infinito, sequenza di
comunità virtuali. Certo che i dati, per dirne una, sulla situazione del
traffico in aree metropolitane sempre più suburbanizzate sembrano
smentire questa idilliaca e futuribile idea, almeno al momento.
Antitesi di questa utopica città a rete è invece la profezia di
un’umanità urbanizzata, dove peraltro la più abnorme parte di
questa crescita urbana interessa i paesi “in via di sviluppo”, con flussi
migratori sempre crescenti attratti dalla prospettiva dei miraggi
urbani. Sarebbe facile cullarsi nell’idea snobisticamente
occidentocentrica del buon selvaggio che va lasciato nel suo mite
sviluppo rurale, nella sua povertà di benessere e desideri. Tuttavia,
per dirla brutalmente, anche loro vogliono la macchina e il
frigorifero, come noi374.

4. Outlet

La domenica pomeriggio molte piazze italiane sono vuote. I


tradizionali luoghi della vita sociale, gli stadi, le chiese, i cinema
risentono di una crisi di presenze. In molti centri cittadini e
capoluoghi di provincia, soprattutto al Nord, può capitare di vedere
in giro perlopiù immigrati, extracomunitari: giovani, attivi, senza
belle case dove rifugiarsi, poco interessati ai quiz televisivi e allo
shopping, piuttosto al kebab e ai call center. La vita sociale degli
indigeni sembra essersi trasferita altrove. Nei nuovi centri
commerciali, sempre più grandi, che punteggiano i confini delle città
e delle province come una corona. Negli outlet di ultima generazione,
universi dedicati alle merci d’occasione, cittadelle isolate del
commercio e dell’incontro, universi paralleli dove ormai non si
vendono merci ma anche esperienze, divertimento, benessere. La
piazza è sempre stata uno specifico urbanistico e culturale della
cultura europea, in particolare italiana. Evidentemente, come è stato
argutamente notato, «non c’è bisogno di piazze là dove tutti vanno
solo in macchina o solo a piedi, dove gli spazi sono troppo ampi o

374
A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, pp. 108-111

182
troppo angusti, dove ognuno sta per conto proprio o si pigia in un
ammasso indistinto, che è la stessa cosa»375.

La prima volta che ho messo piede in un outlet, passeggiando tra


colonnati augustei di cartapesta, strade tipo borgo medievale,
facciate colore pastello da isola greca oppure in mattoni tipi palazzo
londinese, insegne luccicanti e oggetti di design stile newyorkese, il
bar uguale a quello dell’autogrill, ho pensato che forse non sarebbe
stata una cattiva idea venire a vivere qui, prenderci casa, dentro
l’outlet. In un affollato outlet sulla Pontinia, a metà strada tra
l’ingolfata periferia romana e il già redento agro di Latina, i depliant
pubblicitari avvisano che si sta per entrare «in una vera e propria
città, ispirata all’epoca augustea, che sembra uscita direttamente da
uno scavo archeologico». Camminando per le vie pulite e ordinate
dell’outlet, sorvegliate da discreti ma occhiuti uomini in nero con
auricolare all’orecchio, mi veniva da pensare che in fondo l’Italia non
è un paese classista, perché ricchi e poveri condividono lo stesso
sistema di valori, hanno in comune lo stesso codice estetico, sentono
allo stesso modo. Molti ricchi pensano come i poveri e molti poveri
vorrebbero fare le cose dei ricchi. I loro ideali e i loro istinti spesso
sono gli stessi. Mentre me ne stavo seduto sotto una testa di cavallo
in finto bronzo, che si rifletteva nelle vetrine di Etro, immaginavo che
se avessi visto questi posti, questi enormi mall suburbani al chiuso o
questi altrettanto grandi centri outlet all’aperto, forse il filosofo
Michel Foucault li avrebbe ricompresi nell’universo
concentrazionario da lui studiato. Ma forse era più preveggente lo
scrittore Aldous Huxley, quando prevedeva un controllo sociale
regolato dalle piacevolezze piuttosto che dalle pene376. Per alcuna
pubblicistica sull’argomento l’outlet rappresenta la forma perfetta del
“non-luogo” teorizzato da Marc Augé, con una formula che riscosse
un successo perfino abusato: uno spazio né identitario né sociale né
storico, perché non vi si costruiscono identità, non vi si stringono
relazioni consolidate, non si sedimenta la storia, il soggetto che vi
transita è spinto al passaggio solitario, veloce, omologante. Un luogo
di consumo del presente, dice l’antropologo377. Per altri aspetti spesso
quella dei non-luoghi appare una formula un po’ abusata, e in molti

375
A. Cazzullo, Outlet Italia, 2007, p. 4
376
A. Scurati, Il piccolo paradiso: l’outlet di Serravalle Scrivia, in “La Stampa”, 10
ottobre 2006
377
M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, 1993

183
casi si può anzi sostenere che posti come questi siano iperluoghi, o
comunque luoghi vissuti a tutti gli effetti. Per gli studiosi del genere è
un dibattito aperto.

In un preveggente film del 1968 di George Romero, maesto


dell’horror, La notte dei morti viventi, sono proprio i centri
commerciali il luogo in cui convergono gli zombie che, tornando dal
regno dei morti, sotto la spinta di un’inveterata abitudine, tendono a
riunirsi nell’unico posto in cui ricordano di essere stati vivi tutti
insieme, collettivamente. L’outlet mi sembra un labirinto ospitale.
«Una via di mezzo tra Disneyland e un borgo medievale» è stato
detto378. Si può girovagare per strade e piazzette dai nomi fintamente
romaneggianti, vista la location, piazza Adriano, via Marco Aurelio
eccetera, ma quando si perdono i propri amici e ci si telefona per
raggiungersi viene spontaneo usare una toponomastica più
pertinente: mi sono incamminato in via Golden Lady, sono su piazza
Armani, sto girando in vicolo Benetton. Non è una città fantasma, è
costruita come se gli abitanti ci fossero. Dal punto di vista
architettonico, questi luoghi contengono sempre una qualche
evocazione dei mercati tradizionali, delle vecchie piazze o dei prati di
villaggio. In molti casi ci sono marciapiedi che simulano una vera
strada. Le vie laterali finiscono in cancelli, sempre chiusi, si gira in
tondo, si entra e si esce da due sole aperture. Si viene, si passeggia, si
guardano le vetrine. Qualcuno compra. Non tutti spendono, non
molti parlano. Capita ogni tanto, negli outlet come nei centri
commerciali, che la direzione offra degli eventi pubblici, come
spettacoli o concerti gratuiti. Un sondaggio del 2003 rilevava che
solo il 36% di coloro che vanno al centro commerciale manifesta un
atteggiamento utilitarista, e cioè vanno lì e “comprano qualcosa”,
mentre il 55% dichiara di usarlo come “luogo per il tempo libero”:
ragazzi, anziani, abitanti di zone suburbane che non hanno altri posti
dove andare ma anche abitanti del centro cittadino o di altri paesi
che si dirigono verso questi veri e propri punti nodali, centri di
attrazione379. D’altronde, pochi anni fa, un ministro della Salute
lanciò l’idea di portare gli anziani nei supermercati per sottrarli

378
A. Scurati, Il piccolo paradiso: l’outlet di Serravalle Scrivia, in “La Stampa”, 10
ottobre 2006
379
G. Paolucci, La seduzione dell’entertainment. Consumo e leisure nello shopping
contemporaneo, in G. Amendola (a cura di), La città vetrina. I luoghi del commercio e
le nuove forme del consumo, 2006, p. 72

184
all’afa estiva380, idea in verità già praticata da molti pensionati ma ora
anche dai loro nipoti. Chiusi per ferie gli asili, tagliate o
ridimensionate le assistenze domiciliari per la terza età o le colonie
estive per l’infanzia, semideserti gli oratori o altri luoghi di
aggregazione popolare, sembra che a prendersi cura delle famiglie
operaie o della bassa-media borghesia, dalla culla alla tomba,
provveda l’ultima istituzione trionfante: lo shopping.

In misura sempre crescente i centri commerciali minacciano di


sostituire parchi, scuole, librerie, uffici postali, uffici comunali, centri
per le attività sociali in quanto luoghi di incontro organizzato o di
riunione spontanea. È questa la tendenza dominante: il mercato
globale crea minuscoli universi concentrazionari e tutti
apparentemente fuori dalla città. Perché? Una risposta possibile è
che la metropoli non sia più necessaria al mercato. Gli serve
solamente come spazio museale da spettacolarizzare, come mero
supporto scenico al turismo o al consumo di marca. Per questi
obiettivi può bastare solo una piccola porzione di metropoli, quella
che meglio si presta alla valorizzazione estetica: un centro storico,
una zona commerciale, un “distretto del piacere”, un quartiere
progettato da un architetto di grido. Come ha scritto Emiliano Ilardi,
«la metropoli non è più necessaria all’individuo: il lavoro e il
consumo arrivano direttamente a casa. La metropoli, il mostro della
modernità, le paure che suscita, se ne possono finalmente andare in
pensione. Niente più imprevedibilità, folle minacciose, rivolte
urbane, anomie, sconosciuti agli angoli della strada, pericolosissimi
incontri casuali, mobilitazioni totali, King Kong, Godzilla e alieni che
cercano di distruggerle, Al Capone e Lucky Luciano, gang di quartiere
e hooligans rabbiosi, punk, fondamentalisti e Bin Laden. Basta con
questo spazio delle infinite possibilità, dove infinite possibilità voleva
dire anche una libertà mai del tutto controllabile»381.

Il fenomeno ha avuto il suo epicentro naturale negli Stati Uniti, dove


l’estesa conformazione suburbana del territorio ha facilitato lo
sviluppo di enormi shopping center per una larga fetta della middle
class, ma si è espanso da tempo anche in Europa e ovviamente in
Italia, seppur andando a inserirsi in un contesto morfologico e
380
A. Cianciullo, Anziani, emergenza caldo. “Portateli nei supermercati”, in “La
Repubblica”, 12 giugno 2004
381
E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a
Ballard, 2005, p. 180

185
sociale tutto diverso, fatto di province, paesi e centri cittadini che ora
languono. Uno sviluppo che non sembra conoscere limiti. In alcune
città italiane, attualmente, intere zone suburbane e insediamenti di
nuova edificazione prendono il nome dai loro centri commerciali,
mentre aumenta la tendenza a delegare alle società private l’incarico
di costruire luoghi di socialità pubblica per nuovi quartieri all’interno
di parchi e strutture commerciali. Un’ulteriore spinta in questo senso
la darà la costruzione, già progettata in molte città, dei nuovi “stadi”,
dove però i campi di calcio occuperanno solo una piccola parte di
nuovi quartieri misti a insediamenti commerciali per migliaia di
abitanti. Già oggi basta osservare la ricca e operosa Lombardia, che
vista dall’alto, dal cielo sopra Milano, appare come un’immensa
gettata di stradoni e case, capannoni e villette, che si arrampica fino
alle Prealpi. Basta osservare il nastro d’asfalto del Grande Raccordo
Anulare che gira attorno a Roma, ormai diventato un grande centro
commerciale senza soluzioni di continuità, dove le cosiddette “nuove
centralità” che avrebbero dovuto dare qualità, spazi pubblici e servizi
alle nuove periferie sono diventate semplicemente grandi ipermercati
intorno ai quali si addossano quartieri residenziali sonnacchiosi,
icone di una vita monotona e senza tempo. Di quelli che, direbbe J.
G. Ballard, per risvegliarsi in un mondo più carico di passioni,
sognano solo la violenza382. E in effetti è proprio ciò che spesso
avviene, e di cui leggiamo tutti i giorni sui giornali. «La gente si
annoia. Si annoia a morte. E quando la gente si annoia tutto è
possibile: una nuova religione, il Quarto Reich. Sarebbero disposti ad
adorare un simbolo matematico o un buco nel terreno»383.
Si chiede il sociologo urbano Massimo Ilardi: «D’altra parte, che altro
può fare il mercato sul territorio se non costruire outlet, centri
commerciali ed enclave residenziali? E che altro può usare per
governarli, non avendo a disposizione valori, ideologie o utopie per
risolvere i conflitti, se non un controllo sempre più asfissiante,
sempre più intensificato dalla sorveglianza di guardie armate,
dall’installazione di telecamere o dall’innalzamento di muri?»384.

5. Periferie
382
M. Ilardi, L’abisso e la chiacchiera, in M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di),
Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra ha perso Roma, 2009, p. 11
383
J. G. Ballard, Regno a venire, 2006, p. 222
384
M. Ilardi, L’abisso e la chiacchiera, in M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di),
Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra ha perso Roma, 2009, p. 11

186
Dev’essere forse la rivincita delle periferie, quella cui stiamo
assistendo? Dopo decenni passati a confrontare due opposti modelli
in parte utopici, due soluzioni entrambe accusate di fallimento, da un
lato quella dei palazzoni popolari e degli edifici modello, dall’altro
lato quella delle villette monofamiliari e delle enormi distese
suburbane. Dopo anni in cui è ronzato per la testa, specialmente di
molti italiani, un Ramazzotti d’annata, quello che cantava «nato ai
bordi di periferia/ dove i tram non vanno avanti più/ dove l’aria è
popolare/ è più facile sognare». Le metropoli del mondo assumono
sempre più una struttura a cerchi concentrici, senza barriere ma
separati dai recinti invisibili del reddito, dello status, di chi non
riesce a tenere il passo. Centri sottovuoto, periferie in espansione.
Secondo calcoli di pochi anni fa, su quasi 57 milioni di abitanti in
Italia circa 31 milioni (cioè il 55%) vivono in un contesto
metropolitano e di questi circa la metà (quasi16 milioni, cioè il 28%)
vivono nelle fasce metropolitane. Potendo tranquillamente dedurre
che almeno un terzo e forse più (dato sicuramente incrementato negli
ultimi anni) vive nelle aree periurbane385.
Insomma, è dalla periferia che bisogna ricominciare per capire
qualcosa della realtà urbana corrente, e pure del nostro Paese. In
pochi hanno indagato la periferia italiana dopo le ricerche di
Ferrarotti e i racconti di Pasolini. Molti sono stati anche
successivamente quelli che ne hanno scritto e parlato, ma assai meno
quelli che l’hanno davvero frequentata. Ci sarebbe, oggi, qualche
domanda da farsi. Dopo la crescita della città continua e della
metropoli diffusa che ha colonizzato ogni angolo di territorio e di
paesaggio, che cos’è che definisce oggi un luogo come periferia? La
condizione spaziale? L’espansione edilizia? L’estetica? La cultura e gli
stili di vita? Le relazioni sociali386?
“Area urbana ben definita” è il termine tecnico di periferia, ma
persino sulla sua applicazione a una singola città non c’è accordo: la
periferia continua a spostarsi. Si può affermare (e lo si è fatto) che il
concetto stesso di periferia sia privo di senso nel contesto
dell’urbanizzazione estesa e dei modelli territoriali in costante
mutamento che caratterizzano molte zone d’Italia, in particolare
nelle aree metropolitane e diffusamente nel Nord. Anche l’idea di
385
G. Martinotti, A. Melis, Recenti tendenze demografiche negli insediamenti urbani
italiani, in A. Mazzette (a cura di), La città che cambia, 2003, p. 160
386
M. Ilardi, L’abisso e la chiacchiera, in M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di),
Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra ha perso Roma, 2009, p. 9

187
periferia è affiancata dai suoi miti “nostalgici”. Primo fra tutti quello
della “vecchia periferia”, ovvero il tradizionale e leggendario
quartiere operaio novecentesco, dove casa e lavoro avevano un
legame stretto, dove esisteva una comunità. Visione stranamente
smentita da altre ricerche di quell’epoca, le quali a loro volta
deprecavano l’alienazione dei quartieri operai e rimandavano alla
nostalgia di un altro tempo passato, spesso quello della città pre-
industriale e delle zone rurali.

Spesso la periferia è descritta come anti o addirittura come non-città.


Perché? In primo luogo a causa della mancanza di quelle che
vengono considerate le caratteristiche peculiari della città classica e
moderna: piazze, negozi, asfalto, ordine, monumenti. In secondo
luogo in ragione della presunta assenza di identità, radici e storia
della periferia. In terzo luogo, mancano delimitazioni precise,
simboli, palazzi e monumenti che rendono riconoscibile una città in
quanto tale. In alcune ricerche su queste zone si riscontra
abitualmente il fenomeno per cui gli abitanti della periferia (molti dei
quali non ammettono di esserlo) non concordano su quali siano i
confini del loro quartiere e nemmeno su dove sia il centro 387. Il
problema di questo tipo di critica sulle periferie è che utilizza – come
spesso succede – un modello arbitrario di città ideale. Scrive John
Foot nella sua analisi delle periferie milanesi: «Viene dato per
scontato che tutti dovremmo aspirare a una sorta di
comunità/quartiere con confini ben delimitati e un centro
riconoscibile e accertato come tale, una sorta di Atene antica
periferica, e comunque uno spazio premoderno. […] Sembra che ci
sia un’immagine collettiva di quartiere ideale che assomiglia più a un
paese con la tradizionale piazza centrale che a una città moderna. Si
tratta di un modello che non è neppure prefordista ma addirittura
preindustriale. La seconda domanda da porsi sarebbe se questo tipo
di quartiere sia mai esistito»388. Il modello che influenza molte di
queste posizioni, solitamente anti-urbane come spesso e in varie
forme abbiamo visto nella storia italiana, risente di un’idea
centralistica e statica della città, come se questa dovesse essere uno
spazio rinchiuso tra mura, un classico centro urbano di stampo
medievale. Siccome le periferie non rientrano in questo modello,
allora esse non fanno parte della città, anzi non sono considerate

387
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 162
388
Ibidem, pp. 162-163

188
città. Ma questo non può essere un motivo per escludere che ci
possano essere modelli diversi, o che sia il centro a non riuscire a
stare al passo dei nuovi e multiformi modelli urbani389. Così capita
che le più importanti città italiane, aspiranti al rango di metropoli,
vengano accusate, al tempo stesso, sia di non essere riuscite a
diventare un altro tipo di città, generalmente definita “metropoli
moderna”, sia di avere perso le peculiarità di paese/città/comunità
che sarebbero emerse durante certe fasi dello sviluppo industriale,
presunte “epoche d’oro” che però hanno il difetto di variare di epoca
in epoca. Certo, è innegabile che esistano problemi nelle condizioni
di vita delle nostre periferie urbane. Nuove generazioni di cittadini
continuano a galleggiare in quartieri trascurati, spazi pubblici
dimenticati, rotonde d’asfalto, in un nulla di identità sociale e vita
collettiva che nulla è riuscito a mutare negli ultimi tre o quattro
decenni, nemmeno l’addobbo contemporaneo delle antenne
paraboliche appese ai balconi.

Come ha mostrato Carlo Freccero, una delle menti più lucide della
televisione italiana, è stata la televisione commerciale dell’evo
moderno a scoprire e portare alla ribalta “la periferia”. «Mi piace
pensare all’audience – ha scritto qualche anno fa – come alla
periferia di una grande città. È il centro che identifica la città. Nel
centro si trovano i monumenti, i reperti storici, ma anche i luoghi di
aggregazione e di socializzazione. Nel centro si costruiscono la
cultura e la moda. Nel centro si danno appuntamento gli opinion-
leader. La sera il centro è scintillante di luci, di insegne, di vita. Ma
basta allontanarsi dal centro per vedere quelle luci affievolirsi, farsi
sottotono, confondersi con la nebbia in cui sono immerse le cose. È la
periferia. Qui le luci della strada sono fioche e giallastre, ma un’altra
luce filtra attraverso i vetri delle finestre. È la luce lattiginosa della
televisione. La televisione è la colonna sonora della periferia. È
l’audience profonda che inevitabilmente livella i palinsesti»390. La
neo-tv di natura commerciale, quella che italianamente è stata
berlusconiana, secondo Freccero, ha dato espressione e identità alle
periferie delle società democratiche, a una massa informe emarginata
del centro politico e culturale. Le ha conferito un potere simbolico,
pur continuando a tenerla sotto scacco. L’audience ai tempi del

389
Ibidem, p 164
390
C. Freccero, L’audience come periferia, in A. Grasso, M. Scaglioni, Che cos’è la
televisione, 2003, pp. 478-479

189
suburbano è questo: «il passaggio dal potere del Sovrano al potere
della periferia, dalla Storia politica alla microstoria del quotidiano,
dalla cultura attiva delle élite alla massa passiva dei consumatori
senza cultura»391. Fino a tradursi, politicamente, in una potenziale
“dittatura della maggioranza”.
Ai giorni d’oggi, la sera, lontani oppure vicini dalle città, in una gated
community o in un palazzone di borgata, ci si abitua a relazioni senza
empatia. Non c’è solo la televisione, almeno: si sta in contatto con la
chat, con Msn, con Facebook, coi siti web. Alla rete internet l’accesso
è consentito a tutti. Di questo passo è come se internet stesse
sostituendo la metropoli in quanto fucina di incontri illimitati,
imprevedibili e anche indesiderati, però dietro la protezione di uno
schermo, senza che il corpo fisico entri mai in gioco. Qui ci si può
anche incontrare e ibridare con negri, ebrei, islamici, omosessuali,
maniaci, fondamentalisti, hooligans, ravers, teppisti, satanisti,
hackers… l’importante è che non vengano a disturbare sotto casa.
Ecco dunque la ricetta per i nuovi spazi urbani: accesso illimitato sul
piano virtuale ma fortemente limitato sul piano materiale392.

Per l’architetto Stefano Boeri e per altri studiosi che hanno iniziato a
considerare in maniera più approfondita questi scenari urbani, non
siamo di fronte a uno sviluppo caotico ma a uno scenario
strettamente legato ai cambiamenti sociali, familiari e culturali
dell’Italia nell’ultima parte del Novecento. «Un paese ricco in termini
di scelte individuali delle famiglie, dei piccoli operatori immobiliari,
dei singoli investitori, ma povero e arretrato nelle attrezzature
collettive, si è finalmente costruito un territorio a sua immagine e
somiglianza»393. Le “nuove” periferie, dunque, non coincidono con
quelle di Pasolini oggi reclamizzate dai media, neppure con quelle
degli anni Settanta in cerca di riscatto sociale, né con talune
espressioni underground degli anni Novanta, come quelle intraviste
in alcuni centro sociali. Oggi periferia è semplicemente “ciò che sta
fuori”, oltre, luoghi in attesa disperante, luoghi senza più nemmeno
tracce di una solidarietà sociale.

391
I. Dominijanni, La periferia al potere. Intervista a Carlo Freccero, in “Il
Manifesto”, 10 aprile 2004
392
E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a
Ballard, 2005, p. 182
393
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, pp. 176-177

190
Ho riletto, prima di finire di scrivere queste pagine, Il contagio di
Walter Siti. Il più potente affresco letterario e di analisi sociologica
della realtà italiana, a partire da uno specifico punto di osservazione:
le borgate romane. Romanzo di corruzioni, di amori, di cocaina, di
sesso venduto e negato. In una storia e in un percorso narrativo dove
non ci sono più alibi, niente o nessuno da salvare. Non la leggendaria
vitalità popolare, esaltata in tanti libri e film, non il professore
protagonista del romanzo che in questa vitalità presunta ha provato a
rigenerarsi, non la politica indaffarata nella sopravvivenza di
interessi spiccioli, non le ideologie contemporanee, troppo
impegnate a simulare paradisi inesistenti. Proprio le periferie di
Roma, quelle borgate ridotte a indifferenziata poltiglia, si fanno
metafora.
Viene da pensare a uno dei maestri della sociologia italiana, Franco
Ferrarotti, che, intervistato recentemente in un libro sulle periferie
romane, ha dichiarato che già negli anni Sessanta e Settanta in cui
svolgeva le sue ricerche erano chiare due cose. La prima era che «il
baraccato era un aspirante borghese», non a casa oggi alcune di
quelle stesse borgate indagate allora sono abitate «dal poliziotto, dal
palazzinaro di mezza tacca, dall’impiegato; l’uno contro l’altro
ferocemente schierati, con cani da guardia, fili spinati. Un po’ come
allora seppure tutto è diverso. E non a caso ci sono ripulse nei
confronti degli immigrati». La seconda è la differenza abissale tra le
periferie di molte metropoli mondiali, per esempio americane, e
quelle italiane, romana in particolare: «lì, prendiamo ad esempio Los
Angeles o San Diego, la classe borghese, la classe agiata va nella
suburbia (è una vecchia tradizione anglosassone), la periferia lì è
abitata da quelli che da noi abitano il centro»394.
Tornando al Contagio, Siti sostiene che «il mondo sta diventando
un’immensa borgata». In altre parole, l’appassionata analisi di
Pasolini, vecchia di trent’anni, andrebbe rovesciata: «non sono le
borgate che si stanno imborghesendo, ma è la borghesia che si sta (se
così si può dire) “imborgatando”»395. Le periferie non sono altro che
«una sterminata sala d’attesa, una folla brulicante alla fermata delle
astronavi». Perché «le borgate sono il nostro domani ma il domani
non si deciderà in borgata; qui è l’arsenale del futuro ma gli ingegneri

394
M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di), Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra
ha perso Roma, 2009, p. 104
395
W. Siti, Il contagio, 2008, p. 313

191
abitano nelle acropoli»396. E sicuramente c’è del vero in questa analisi
dura e perfino dolorosa. Ed è una delle poche certezze quando –
come adesso, scrivendo – si arriva quasi al punto in cui bisognerebbe
tirare delle conclusioni. Disorientato ma, allo stesso tempo, immerso
fino al collo nel meccanismo.

6. Strapaese 2.0

Non è facile accorgersi di quanto cambi il mondo attorno a noi, in


poco tempo. Non il grande mondo, il pianeta coi suoi destini. Ma il
piccolo mondo che crediamo di conoscere, il territorio che ci
circonda, la nostra città, il paese, il quartiere, le case e le strade vicino
casa. Mi è capitato recentemente di viaggiare in auto nelle aree
policentriche e pedemontane, nel centronord padano e inquieto,
disseminato di fabbrichette e piccoli paesi. Ho visto anche io molti
dei cartelli che fiancheggiano le strade annunciare che lì vicino sta
sorgendo, oppure è già sorto, un nuovo insediamento abitativo, un
Villaggio Margherita oppure Quadrifoglio, un Quartiere Europa o
Miramonti. Il resto della descrizione era identica a quella che, con
occhio più esperto del mio, aveva tracciato il sociologo Ilvo Diamanti
in una delle sue “mappe”. «Tanti insediamenti grandi o piccoli,
disseminati di palazzi, villette a schiera, appartamenti di varia
metratura, garage interrati. Intorno: prati un po’ esangui, strade e
rotonde. Rotonde, rotonde e ancora rotonde. Magari una pista
ciclabile. Al centro una piazza – veramente finta – attrezzata con
panchine e magari un prato. Perlopiù ridotta a parcheggio, dove i
bambini non giocano e gli adulti non si fermano a parlare. Accanto:
altri quartieri e altri villaggi nuovi. Sorgono senza seri progetti di
integrazione, socializzazione. Senza politiche finalizzate a costruire
relazioni sociali, oltre agli immobili. Né ad alimentare la vita
pubblica, oltre alla rendita privata. Località artificiali, dove
confluiscono migliaia e migliaia di persone. Migliaia e migliaia di
estranei. Di stranieri, di immigrati: anche se sono veneti, lombardi,
marchigiani. “Italiani veri”: da generazioni e generazioni. Ma in
realtà: apolidi. Abitanti del Villaggio Margherita o del Condominio
Europa». È così – conclude Diamanti – che siamo diventati «un
paese di stranieri, individui poveri di relazioni, sempre più soli e

396
Ibidem, p. 336

192
impauriti, che passano la gran parte del loro tempo in casa, con
scarsi ed episodici contatti con il mondo circostante»397.

D’altronde tutto ha un prezzo, e non si può pretendere di conquistare


il benessere senza rinunciare a qualcosa. Può essere un pezzo di
paesaggio, un frammento di ambiente, un metro di territorio, un po’
d’aria, un angolo di orizzonte. E via così, una cerchia di relazioni
personali e sociali, una scheggia di vita quotidiana, un pezzo di
innocenza politica, un mattone di qualche utopia crollata. Non per
questo è il caso di tornare a replicare quella famosa e nostalgica
ballata di Celentano sul ragazzo della via Gluck398.

Le cose cambiano. Anche in una società immobile (e tendente


all’immobiliare) come quella italiana. Un Paese dove la casa,
possibilmente di proprietà, suddivisa per ogni famiglia, «è una
vocazione nazionale». È interessante verificarlo con alcuni dati. Negli
ultimi due decenni, e soprattutto negli ultimi anni, il processo
immobiliare sul territorio italiano ha assunto un’accentuata velocità
e un’estensione di forte impatto. Secondo dati Eurostat rielaborati
dal Politecnico di Milano, le costruzioni in Italia hanno sottratto
all’agricoltura circa 2.800.000 ettari di suolo. Ogni anno si
consumano 100.000 ettari di campagna. D’altra parte l’Italia è anche
il primo paese d’Europa per disponibilità di abitazioni: ci sono circa
26 milioni di abitazioni (di cui il 20% non occupate), corrispondenti
a un valore medio di 2 vani a persona. Ragionando sui dati Eurostat
di Germania e Francia, pure questi presi dall’analisi di Diamanti,
emerge che negli anni Novanta l’Italia ha urbanizzato un’area più che
doppia di suolo rispetto alla Germania (1,2 milioni di ettari) e
addirittura 4 volte quello della Francia (0,7 milioni di ettari) 399. Circa
10 milioni di stanze sono state tirate su fra il 1995 e il 2006, dice
l’Istat, da sommare a capannoni industriali, altre iniziative
produttive, infrastrutture400. Soltanto dal 2003 al 2008 sono state
costruite circa 1.600.000 abitazioni, oltre il 10% delle quali abusive.
Per contro, è noto che, da vent’anni, la popolazione in Italia non solo
non è cresciuta ma è calata sensibilmente. E solo negli ultimi anni ha
dato segni di ripresa, grazie all’apporto degli immigrati. Persone che

397
I. Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, 2009, pp. 71-72
398
Ibidem, p. 69
399
Ibidem, p. 70
400
F. Erbani, Noi urbanisti abbiamo fallito, in “La Repubblica”, 10 dicembre 2009

193
tuttavia, in questa fase, non hanno la minima possibilità di accesso
alle case che si costruiscono. Insomma, il nostro Paese si è
ulteriormente urbanizzato «in modo ampio, rapido, violento»401.
Ancora una volta, come s’era detto negli anni del boom, siamo al
devastante motto del «più case si fanno più ce ne vogliono». Non c’è,
infatti, corrispondenza con la domanda immobiliare, poiché nel
frattempo di edilizia popolare o a prezzi contenuti, per esempio, se ne
è fatta pochissima. Ci sono ragioni che solo in parte si possono
ricondurre a una “domanda sociale”, dovuta alla smania italiana di
investire “nel mattone” e comprare case di proprietà per i figli. In
molti comunque ci hanno guadagnato: gli immobiliaristi, le banche,
il circuito finanziario che ha materializzato nell’edilizia i flussi di
denaro facendo da traino per la crescita economica, fino a che la
“bolla” non è esplosa con l’arrivo della crisi, gli enti locali che si sono
finanziati in “autonomia” grazie a tasse sugli immobili e oneri sulle
licenze urbanistiche, impresari, proprietari di terreni, fino a una
manodopera sfruttatissima e malpagata su cui hanno contato molti
immigrati di basso ceto. In tutto questo, però, tanto si è perduto e
consumato: il territorio, l’ambiente, con l’arrivo della crisi anche lo
sviluppo e i risparmi, più a lungo termine i legami di comunità, i
luoghi e i rapporti sociali402.

Allo Strapaese si unisce un timore di rimanere letteralmente senza


paese. Da un lato è vero che rispetto alle linee di tendenza dello
sviluppo urbano globale, almeno fino ad oggi, in Italia alcuni
fenomeni di mutamento appaiono relativamente attenuati.
Nonostante i problemi esistenti, nelle nostre città non vi è nulla di
paragonabile rispetto a quanto è possibile trovare in altri contesti.
Ciò si spiega con vari fattori, che comunque non hanno reso immune
il “Bel Paese” da scempi e devastazioni sul suo territorio. In primo
luogo, l’Italia dispone di un sistema urbano che ha la doppia
caratteristica di essere molto antico ed estremamente ramificato. La
presenza di numerose piccole e piccolissime cittadine ha protetto il
territorio dalla formazione di conurbazioni sterminate, come quelle
che si trovano nel Sud del mondo ma anche negli Stati Uniti. Molte
città qui considerate medio-grandi andrebbero considerate ormai
medio-piccole in uno scenario globale. Inoltre esse sono collocate in
scenari in contesti regionali molto articolati e gelosi delle proprie

401
I. Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, 2009, p. 70
402
Ibidem, pp. 70-71

194
prerogative rispetto all’estensione dei capoluoghi. Semmai si vanno
diffondendo conglomerati regionali, come nel caso di Milano e della
Lombardia ma anche nell’area napoletana o nella zona attorno a
Venezia. In secondo luogo, l’Italia dispone di una ricca tradizione in
termini di radicamento culturale, socialità diffusa, infrastrutture
istituzionali. «Un paese di compaesani» come lo ha definito, con una
formula felice, il sociologo Paolo Segatti403. Una grande miniera di
culture locali, reticoli associativi e relazionali. Rimane forse come
unico sfregio a questo panorama quello di certi quartieroni periferici
“alieni” costruiti negli anni Settanta, usando pratiche architettoniche
mutuate da altre culture. In terzo luogo, bisogna tenere conto del
processo di periferizzazione del nostro Paese rispetto alle dinamiche
più centrali e veloci del nostro tempo. L’Italia insomma rimane
indietro, cresce a ritmi meno veloci, impantana perfino la sua qualità
della vita. Tante ragioni per descrivere il peso di quella che è l’altra
faccia della medaglia, forse ormai predominante, e cioè una
“inadeguatezza localistica” del nostro Paese404. Come spiega Mauro
Magatti, «in un tempo che abbiamo visto essere segnato dalla
mobilità e della comunicazione, l’Italia resta un Paese dove ci si
muove troppo poco, ci si confronta troppo poco, dove il grado di
integrazione culturale è ancora molto basso, dove si tende a
proteggere gli interessi locali già costituiti»405.
Osservando tutto da un altro versante, compresi i processi sociali e i
cambiamenti degli ultimi vent’anni, è inutile però fare finta di niente.
Ciò che è successo in primo luogo in Italia è che il sentire sociale, i
sentimenti prima ancora degli interessi, ha visssuto “l’esperienza
dell’apocalisse culturale”. Come spiegò l’antropologo De Martino
l’apocalisse culturale si esperisce nel momento in cui viene meno
“l’abituale”. Sono venuti meno, nell’ambito di una transizione
accelerata, vari elementi prima abituali: la fabbrica, ovvero il luogo di
lavoro dove si tessevano relazioni sociali; il paese o il quartiere, dove
si esprimeva una certa forma di abitare e di socializzare. È venuta
meno la dimensione comunitaria, in cui fondamentalmente vivere in
quel paese significava avere come punti di riferimento il sindaco, il
maresciallo dei carabinieri, la maestra elementare, il direttore della
banca eccetera: simboli di una comunità locale nella quale appariva

403
Ibidem, p. 69
404
M. Magatti, La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie
italiane, 2007, pp. 37-40
405
Ibidem, p. 40

195
piacevole rinchiudersi e vivere. Un modello idealtipico di
riferimento, non esente da distorsioni e violenze al suo interno.
Eppure, in questo vuoto è facile capire che le uniche passioni di
mobilitazione diventano quelle dell’interesse e del benessere406.

Non si può capire lo Strapaese degli anni Duemila senza prendere


atto di questo spaesamento. Al giro di boa delle nuove epoche, l’idea
di base che ritorna è sempre quella di un vagheggiato ritorno alla
cultura campagnola e nostalgica, al rilancio del genius loci, ai sapori
di una volta contro gli intrugli confusi della modernità. Ogni Paese
del mondo ha il suo Strapaese, si può dire, e per esempio gli Stati
Uniti conservano il mito delle vecchie Main Street e delle quiete
communities anni Cinquanta, e lo fanno rivivere artificialmente nelle
loro Levittown o Celebration o Disneyland. Ma solo in Italia lo
Strapaese può essere evocato, da movimento letterario e reazionario
di nicchia di inizio Novecento quale era, come estetica dominante
quale è diventato, filo rosso che collega punti ed esperienze diverse
della recente storia nazionale, nelle sue espressioni urbane e
politiche. C’è lo Strapaese nella retorica contadinista di Mussolini e
nella sua utopia impaludata dell’Agro Pontino. C’è nel popolo
decadente descritto da Pasolini, avanti e indietro nelle periferie
moderne nostalgiche della campagna. C’è nella cultura pop
massimamente cantata da Celentano, nel fulcro di ambientalismo e
incompetenza che era la ballata della via Gluck. C’è nella fascinazione
pubblicitaria della famiglia unita col casale e i campi di grano sullo
sfondo, il Mulino Bianco e il “ritorno alla natura”. C’è nell’estetica del
Berlusconi costruttore edile e urbanista, il creatore di Milano Due,
poi importatore del sogno televisivo suburbano di origine americana,
perfettamente riadattato al provincialismo italico. Come ha notato
polemicamente il giornalista Francesco Merlo c’è lo Strapaese anche
nella ruralità identitaria leghista, ultima e unica forza politica
veramente radicata sul territorio, nelle piccole comunità no-future,
negli intellettuali che disprezzano gli architetti e non vogliono i
grattacieli, nel pittoresco meridionale, nell’ambientalismo
reazionario, nei tribuni populisti che galleggiano nel malumore e
riempiono le piazze, nella saccente e intraprendente retorica dello
Slow Food407. «Insomma, lo Strapaese di Maccari dispiegato a destra

406
A. Bonomi, Il chiunque e la moltitudine, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è
Berlusconi, 2004, pp. 250-252
407
F. Merlo, Faq Italia, 2009, pp. 45-46

196
e a sinistra, ma con la stessa deprecatio temporum di allora, forse
più moralista ancora». Al fondo c’è un’idea falsificata, mitizzata, del
passato, del “vecchio mondo” agricolo e operaio, di un albero degli
zoccoli più che altro fantasticato. Il tutto per evitare di elaborare un
piano strategico per il presente, di affrontare il Paese maggioritario e
forse banale con cui abbiamo a che fare, che dietro i rimpianti per “il
gusto pieno della vita” – come diceva un vecchio spot pubblicitario –
usa (e abusa di) tutti i prodotti della modernità. Che si ritrova,
nonostante tutto, con quartieri finti, piazze vuote e outlet pieni.

Quella di oggi è una forma tutta moderna di Strapaese, dove il


cosiddetto “neopopulismo” si colloca come fenomeno della
modernità, come esito del confronto tra identità locali e
globalizzazione, senza cadere nei cliché del passato. Se ripercorriamo
le tappe delle piccole grandi utopie urbane dell’ultimo secolo italiano
troviamo puntualmente una corrispondenza tra fenomeni urbani e
fenomeni sociopolitici. Lo abbiamo visto, e scritto: l’Agro Pontino e
gli sventramenti romani stanno al regime fascista come i gloriosi
Piani Ina Casa stanno alla nascita del dominio democristiano; il
decadentismo dei ragazzi di borgata di Pasolini sta al filone anti-
moderno di certa sinistra italiana come l’agiata e televisiva Milano
Due sta alla fioritura del berlusconismo. Su tutto ciò si può adattare
la coperta culturale dello Strapaese, giacché il concetto di comunità
cui fare riferimento si rivela infine come un simulacro, un’invenzione
di tradizioni.

L’intuizione politica di questi ultimi anni è stata proprio


comprendere che il vuoto determinato dalla fine delle appartenenze
del Novecento potesse essere colmato con il pieno dell’identità
territoriale408. È quello che negli ultimi quindici anni, in Italia, è
riuscito all’asse politico dominante Lega-Forza Italia. Non è un caso
un’operazione epocale del genere potesse essere perseguita solo da
un soggetto che fosse stato in grado di cavalcare il mutamento della
tecnica avvenuto negli ultimi anni. Il grande passaggio dal fordismo
al postfordismo, dalla catena di montaggio alla virtualità della tv e
poi di internet. Come ha ben spiegato il sociologo Aldo Bonomi nella
sua inchiesta sul “malessere del Nord”, Berlusconi, nato come
imprenditore edile, ben conosce quelli cui vendeva le villette con
giardino a Milano Due, segno e simbolo di un’emancipazione dal

408
A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, 2008, p 26

197
condominio e dal quartiere fatto di operai e impiegati. Quello con cui
abbiamo a che fare, più che un problema di strapotere televisivo, è un
problema di sapere sociale, territoriale, anche se oggi tutto sembra
pura virtualità dell’apparire409.
Radici e cause di questo fenomeno stanno nei cambiamenti del
tessuto economico iniziati fin dagli anni Ottanta, nella
terziarizzazione accelerata, nel manifestarsi della perdita di
egemonia della vecchia “classe operaia”, nella crisi che investiva il
tessuto di artigiani e piccole imprese, in molti casi schiacciate dalla
nuova concorrenza globale, dell’Est Europa e della Cina. Nel
conseguente profilarsi di un nuovo idolo, quello di un individualismo
proprietario, essenzialmente antisociale. Inoltre radici e cause vanno
cercate anche nell’esplosione dei flussi immigratori verso il nostro
Paese, non sempre facili da gestire nel giro di pochi anni, il più delle
volte gli stessi che avevano avuto modo di allenarsi alla nostra esibita
ricchezza, grazie alle loro antenne paraboliche puntate verso di noi
dall’altra parte del Mediterraneo.
A tutto ciò, a migliaia di soggetti “spaesati”, “orfani”, “stressati” – per
usare le definizioni di Bonomi – bisognava dare una risposta, anche
se apparentemente di basso profilo. «Uno ha detto loro: “Vi do io
quello che manca, l’identità, e il vostro riscatto inizierà sottolineando
che siete lombardi”. È una risposta brutale, ma attraverso questo tipo
di strategia è stato dato un “paese” a tanti spaesati. Berlusconi invece
ha dato una “casa” a molti “sfollati”. La casa non è altro che
l’ipermercato o il capannone»410.

Non è un caso se la fase iniziale del berlusconismo si rivolgeva alla


moltitudine scomposta con un messaggio apparentemente liberista,
americaneggiante, con il culto della ricchezza e un retroterra
edonistico. Mentre la fase finale, attualmente vissuta, rinfrancata da
una nuova intesa col movimento leghista e da ripetuti successi
elettorali, punta decisamente a un neocomunitarismo conservatore,
identitario, vagamente compassionevole, tradizionalmente cattolico.
Due facce della stessa medaglia. Come Milano Due, che mi è
sembrata al contempo il paradiso degli yuppie e il rifugio dei
borghesi spaventati. D’altronde è stato uno dei sociologi più
richiamati del decennio, Zigmunt Bauman, a spiegare che un
possibile sbocco della “modernità liquida” è proprio il “ritorno alla

409
Ibidem, pp. 7-8
410
Ibidem, p. 53

198
comunità”, intesa come espressione della domanda insoddisfatta di
identità e di senso. Nel momento in cui scricchiola il progetto della
modernità societaria, il richiamo alla comunità può offrire una nuova
leva per la produzione di significati411. Comunità contro società?
Basta un niente, pare, e ci ritroviamo a centovent’anni fa, oppure
all’inizio di questa tesi.

Tutto ciò avviene perché i processi materiali, come direbbe il vecchio


Marx, vanno in questa direzione. La forma del produrre ci restituisce
un sistema in cui siamo tutti messi a lavorare in forme e modalità
individuali, in una logica di velocità diffusa sul territorio: è il grande
modello della fabbrica territoriale moderna e della città infinita412. Da
un lato persiste ovunque il vecchio antagonismo tra città e campagna,
cioè tra modernità e arcaismo, innovazione e tradizione, un
confronto antico quanto la civiltà, specie in un Paese come l’Italia, la
cui cultura europea e metropolitana è recente e fragile, e le cui radici
rurali e cattolico-tradizionali sono ancora profonde. Dall’altro lato il
confronto globale cui assistiamo, urbanamente e socialmente, è un
altro. E ci porta a un punto di non ritorno. Mandando in soffitta la
città così come l’abbiamo conosciuta. È la battaglia tra spazi pubblici
e spazi privati. Lo spazio urbano, infatti, è una metafora
straordinaria della società. E in questa società opulenta e sempre più
diseguale, lo spazio contemporaneo, così come si sta definendo, ha
sempre più l’aspetto di una «successione indistinta di enclaves
chiuse, l’una contro l’altra armate»413. Dalla villetta suburbana al
quartiere chiuso, dal centro commerciale al parco a tema, dal
villaggio vacanza al parco per l’infanzia. Gli spazi collettivi pubblici,
invece, sono sempre più abbandonati, privi di senso, sempre più –
loro sì, per davvero – non luoghi. Piazze, slarghi, giardini pubblici
sono lasciati agli immigrati, agli emarginati, ai “non desiderabili”. Lo
spazio latore di senso non è più quello pubblico, lo sta diventando
semmai quello privato. Gli spazi collettivi che siamo disposti ad
accettare sono quelli “sicuri”, con una selezione all’ingresso, con un
controllo all’interno. Perché vogliamo difendere ciò che ci appartiene.
Perché temiamo il contagio.

411
Z. Bauman, Voglia di comunità, 2002
412
A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, 2008, p 53
413
G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2008, p. 112

199
200
CONCLUSIONE
______________________

Mentre mi accingo a scrivere queste righe di conclusione della mia


tesi di laurea, sui giornali online e in tv assisto alla notizia delle
decine di chilometri di automobilisti in coda, in direzione degli outlet
e dei centri commerciali di periferia. Posti dove non si va solo per
comprare e consumare, ma per uscire di casa, per vedere gente.
L’evento, commenta qualcuno, è coerente con lo spirito del tempo: il
Paese è guidato da un uomo, milionario fondatore di quartieri
residenziali e televisioni commerciali, che si alza dal letto dopo
l’aggressione di un maniaco per andarsi a mostrare in pubblico in un
ipermercato della Brianza. Almeno, dicono i giornalisti, lui non ha
fatto la fila. Risulta difficile ritrovare la bussola in un mondo – e in
un Paese – dove le esperienze dei luoghi e delle persone sono sempre
più mediate, attraverso i mezzi di comunicazione, le deformità delle
periferie vecchie e nuove, le iperrealtà offerte dai sondaggi, gli eventi
di massa dove gli altri restano una folla estranea. Con una definizione
di semplice e definitiva eleganza, citata più volte dall’opinionista
dell’Espresso Edmondo Berselli, il filosofo Carlo Galli ha concluso
che la comunità si è trasformata in una gamma di immense platee
televisive «implose nella privacy». In queste poche parole c’è una
sentenza di condanna a tutta una condizione amorfa della società di
oggi, italiana in particolare. Anziché una collettività strutturata, ecco
«una moltitudine dispersa, che si addensa negli appartamenti della
sottoborghesia, un formicolio umano visibile nei condomini popolari,
una “nuova classe” priva di connotati, che trova come unico metro di
giudizio gli standard televisivi e lo stile da sfoggiare in studio, coi
consumi materiali e immaginari secondo i parametri di reddito che
sono concessi».

Ora, se c’è una cosa che in queste pagine è stata accertata è che la
città del Ventesimo secolo è stata la più formidabile opera di
riscrittura del territorio da quando esiste la civiltà occidentale. Oggi
la città contemporanea sembra assumere sempre più le
caratteristiche di città infinita, dove si intersecano culture
tradizionali in cerca di sopravvivenza, non luoghi dell’ipermodernità,
centri commerciali, grandi hub di scambio di reti globali. Mentre la
città medievale e moderna i confini li erigeva tra sé e l’esterno, tra
centro e periferia, ora l’espansione urbana illimitata moltiplica

201
divisioni e barriere culturali ed economiche all’interno della città
stessa. Da luogo dell’utopia che si organizzava in grandi partiti o
movimenti di trasformazione, la città diviene ora luogo di
un’eterotopia negativa, composta da una convivenza forzata tra pezzi
tra loro isolati, non dotati di rappresentanza e di rappresentazione.

Tutto ciò acquista una particolare singolarità all’interno della nostra


vicenda nazionale. Come abbiamo visto, all’Italia è mancata la vita
vissuta della metropoli, è mancata la storia della metropoli. La
modernità italiana, anche per questo fattore, ha una rilevanza
sghemba, periferica rispetto al resto del villaggio globale, senza la
capacità di raggiungere gli stessi vertici, le stesse pienezze. Per questi
stessi motivi la nostra storia ha cercato e trovato le sue funzioni
compensative, le sue peculiarità immaginarie, i suoi strapaesi in cui
rifugiarsi di fronte a una modernità che però non è mai arrivata
davvero. Inevitabilmente, anche l’idea della periferia, del suburbano,
risente di questa assai povera esperienza della metropoli. Almeno
fino a quando, negli anni Ottanta, tale esperienza è stata diffusa in
modo anomalo, caotico, postmoderno dalla proliferazione di spazi di
consumo televisivi diffusi dal sistema misto pubblico-privato. La
periferia si è rivalutata come audience. Come ha affermato
autorevolmente Alberto Abruzzese, «ben prima di leggerlo sui libri di
sociologia stranieri importati e tradotti da noi, bisognava capirlo sin
da allora che, in quel sopravvenuto consumo intensivo di vita privata
e insieme di vita sociale, la sfera pubblica si sarebbe rarefatta in vuoti
e resistenze, effervescenze e eccessi, ma anche in detriti e massi
erratici». Insomma, l’Italia si è ritrovata a vivere una dimensione
post-urbana, post-metropolitana e post-nazionale senza avere avuto
né una metropoli, né davvero una nazione, né un sistema urbano
effettivamente moderno. Riuscendo a costruirsi, semmai, solo un
comunitarismo nostalgico, il ricordo di uno Strapaese mai
effettivamente accertato ma sicuramente rimpianto. Così, anche a
causa di qualche eccessivo innamoramento verso le visioni
pasoliniane, oggi tocca fare i conti con un’Italia di mezzo, un paese
banale, forse normale, a suo modo autentico, ma che comunque va
preso come interlocutore per voler imbastire finalmente un discorso
sul futuro (che sia, questo, di natura politica o sociale o culturale).
Un’Italia dei figli e nipoti di quei contadini o borgatari di cui parlava
Pasolini o alcune vecchie ricerche sociologiche, senza un casale del
mulino bianco sullo sfondo, magari ora in fila verso l’outlet insieme a
tutti gli altri.

202
Cosa promette, dunque, il nuovo secolo (ormai nemmeno più tanto
nuovo)? Promette le utopie dell’agorà digitale e del villaggio globale
in rete? Oppure promette la distopia della città fortezza in cui si
rinchiudono minoranze spaventate di individui? O i centri di
detenzione in cui rinchiudere i settori più indesiderabili della
società? O quella della città ridotte a parco giochi e a supermercato,
per esercitare una cittadinanza globale fondata sul consumo, da cui
tenere esclusi tre quarti della popolazione mondiale. Tali utopie e
distopie, forse, non sono altro che prototipi immaginari. Ma abbiamo
verificato che è proprio attraverso l’immaginario che passa, in buona
parte, la nostra capacità di rapportarci al futuro. Per ora ci tocca
sperimentare pezzetti di utopie e pezzetti di distopie, frammenti di
immaginario e impressioni del futuro, in quella che è la nostra vita di
tutti i giorni.

203
204
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CREDITS
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Foto di copertina: “Torbellamonaca – Roma”, foto di Davide


Monteleone/Contrasto, dal reportage “Nato ai bordi di periferia” in
www.max.rcs.it
Immagine per il capitolo 1: “Allegoria ed effetti del Buono e del
Cattivo governo” (dettaglio), Ambrogio Lorenzetti, 1340
Immagine per il capitolo 2: “Littoria”, Luigi Savolini, 1937
Immagine per il capitolo 3: “Roma”, foto da marcovaldo.org, 2009
Immagine per il capitolo 4: “Lost in Milano Due 5”, foto personale da
http://www.flickr.com/photos/ludik
Immagine per il capirolo 5: foto di Uliano Lucas, copertina del libro
“La città infinita”, 2004

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RINGRAZIAMENTI
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Questa tesi ha un tutor, si chiama Emilio Gardini, mi ha dato una


mano per tutto il tempo, fornendomi suggerimenti, evitandomi
brutte figure e cercando (forse invano) di ricondumi all’ordine
accademico. Questa tesi ha anche degli ispiratori, i miei amici spin
doctors Paolo, Peppuccio e Mario, e come loro stessi sanno questa
mia mania su Milano Due e dintorni nasce da certi discorsi che
abbiamo fatto. Voglio anche ringraziare le persone incontrate più o
meno per caso in questo viaggio, le bariste pontine, gli abitanti, le
guardie private e i cigni di Milano Due, il mio coinquilino che mi ha
portato all’outlet, il simpatico bibliotecario della Nazionale che ogni
volta che ritiravo una pila di libri su Berlusconi mi attaccava un
pistolotto politico che non finiva più, i miei cari amici che mi hanno
sopportato per mesi con questa storia che “scusa, ma devo fare la
tesi”. Un ringraziamento di particolare affetto va ai miei genitori. Un
distinto saluto va alla mia università, che stavolta pare finita davvero.
Il resto di questa tesi, ampliato e un po’ smontato, chi vuole (o chi
capita) lo troverà sul mio sito, www.ludik.it.

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