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TUTTI A CASA
Dal primato della politica al primato della storia: qual e il nesso che lega il
malessere morale, culturale e politico di oggi con i nodi della storia di ieri?
Perch la fine del fascismo e la nascita della Repubblica, la Resistenza e la
Repubblica sociale di Sal sono vissuti come un "atto mancato" della
ricerca storiografica? La disfatta dell'8 settembre, data tragica
contemporanea a cui si fanno risalire i mali morali di oggi, fu inevitabile?
Come e che si disfece un intero Paese, un esercito si sciolse come neve al
sole, una nazione perse la sua identit? Perch sentiamo ancora quel
"tracollo eticopolitico" come una specie di peccato originale della
Repubblica italiana? Di chi fu la colpa politica? Di chi fu la colpa morale?
Di chi fu la colpa militare? Infine: qual e la verit storica?
con i tedeschi... E, certo assai pi difficile perdere una guerra che vincerla.
A vincere una guerra sono tutti buoni, non tutti sono capaci di perderla".
stato il grande storico dell'Italia liberale, Rosario Romeo, a intuire per
primo che, con la seconda guerra mondiale, si rivela la debolezza "eticopolitica" del sentimento nazionale ancora legato alle radici culturali, ma
anche psicologiche e caratteriali, del passato preunitario. E la borghesia
italiana che manca il suo compito storico evitando di schierarsi da una
parte o dall'altra in attesa, seppure nel quadro di una generale avversione
verso l'occupazione tedesca, dello svolgersi degli eventi.
La fuga di Vittorio Emanuele e del suo primo ministro Pietro Badoglio, del
suo capo di Stato maggiore Vittorio Ambrosio e di buona parte dei vertici
militari, l'abbandono alla merc del nemico (vecchio e nuovo) delle truppe
nei territori d'occupazione e la dissoluzione dell'esercito in Italia, subito
dopo l'annuncio dell' armistizio, hanno segnato e minato per sempre la
memoria collettiva nazionale. Il termine dissoluzione ci da solo una
pallidissima idea della realt di quei giorni: "Le forze armate italiane non
esistono era la cruda constatazione, gi il 10 settembre, dell'alto comando
tedesco.
Diversamente erano andate le cose nell'ottobre del 1917, dopo la sconfitta
di Caporetto, quando la borghesia italiana era riuscita a raccogliere le forze
per scongiurare la catastrofe della patria: nessuno mise in dubbio l'esito
finale della guerra e, grazie al Piave, a Caporetto segui Vittorio Veneto.
Tutto era cominciato male, nel 1940. La borghesia italiana che, volente o
nolente, ormai aveva finito per identificarsi col fascismo, aveva visto di
buon occhio la fine della "non belligeranza", immaginando di dover
combattere una "guerra breve". Nel sentimento comune, dopo il crollo
verticale della Francia, un pugno di morti e poche settimane di
combattimenti sarebbero dovuti bastare per guadagnarsi il diritto di sedere
al tavolo della pace dalla parte dei vincitori. Con questo spirito gli stessi
figli della borghesia fascista affrontarono la guerra come un grattacapo da
sopportare, una seccatura da evitare, una corve da scansare. Ma quando,
grazie alla fermezza di Winston Churchill, da "breve" si fece "lunga" e fu
subito dura (ci furono le prime sconfitte in Grecia, in Africa settentrionale,
a Taranto), la guerra di Mussolini per i borghesi fascisti come per gli
antifascisti, ma soprattutto per gli afascisti, divenne una "guerra imposta".
Si gener un clima politico-culturale "all'italiana", pi furbetto che cinico,
un po' opportunista, che sara all'origine della faglia morale dell'8
settembre.
8 SETTEMBRE 0 10 GIUGNO?
In un piccolo libro del 1945, Quasi una vita, Corrado Alvaro dipinge un
quadro lucido e tragico di questo stato d'animo: "Gran parte dell'Italia si
augur (...) la disfatta. Gli italiani credettero a Radio Londra, sperarono
sempre pi ardentemente nella sconfitta, l'aiutarono, la predicarono:
eppure avevano figli in Africa, nei Balcani, in Russia. (...) La solidariet e
il patriottismo e senso della responsabilit individuale andavano dispersi e
uccisi".
Cinquant'anni dopo, sulla rivista liberalcomunista "Reset", Norberto
Bobbio conferma: "Avevamo perduto cosi radicalmente l'idea di nazione
da desiderare che l'Italia perdesse la guerra". Per Bobbio la "data tragica"
della nazione 10 giugno 1940, giorno della dichiarazione di guerra alla
Francia e all'Inghilterra. Ne abbiamo discusso in occasione del
cinquantenario del 25 aprile su "Panorama" e "l'Unita". Dice Bobbio:
"Caro De Felice, e questa la valutazione che ci divide: secondo me la
stragrande maggioranza degli italiani non fu favorevole all'entrata in
guerra". Bobbio sbaglia: il sentimento comune degli italiani, alla fine degli
anni Trenta, era di totale fiducia per Mussolini; controllando bene le cifre,
si scopre che la partecipazione volontaria alla seconda guerra mondiale fu
maggiore che nella Grande Guerra. I dati pubblicati nel penultimo volume
della biografia, Mussolini. L'Alleato, vanno corretti: ho potuto stabilire
infatti che i militari cercavano di minimizzare ii fenomeno facendo passare
molti volontari per arruolati.
Dopo le cocenti sconfitte in Africa e in Russia, anche il vertice fascista e lo
stesso Mussolini si erano convinti che bisognasse trovare una nuova via di
uscita. Ma non era facile. Infatti, e dalla ricerca di queste soluzioni che si
evince tutta la superficialit della classe politica e militare, fascista e
monarchica, che in tutto quell'armeggiare fu guidata solo dalle ambizioni
di carriera e dalle possibilit di avanzamento.
Si comincia con gli sforzi per convincere Hitler a un accordo con Stalin o
almeno a una stabilizzazione del fronte orientale, in modo da spostare tutto
il baricentro della potenza tedesca sul Mediterraneo contro gli Alleati; Si
prosegue con la pretesa che i tedeschi accettino un'uscita unilaterale dalla
guerra degli italiani; si finisce con l'assurda idea di Dino Grandi (che pure
era un uomo di molte qualit) di un ribaltamento del fronte, con
l'immediato passaggio dell'Italia a fianco degli Alleati. Evento tanto
risparmiare l'esercito?
Con la certezza che le prime vittime, i primi a pagare sarebbero stati
proprio i militari, in mancanza di ordini, in assenza di obiettivi chiari,
gettate le armi, l'unico pensiero fu quello di procurarsi un abito civile,
evitare di essere fatti prigionieri, raggiungere con qualsiasi mezzo i propri
paesi di origine. La reazione tedesca, forse sottovalutata dagli Alleati, ebbe
un naturale effetto deterrente sulla truppa italiana. La consapevolezza
della proverbiale disciplina, unita alla spietatezza, conferm l'idea della
forza germanica e giustific la nazione allo sbando, con l'accettazione
della propria debolezza. Le conseguenze furono catastrofiche: i militari
deportati in Germania saranno, alla fine della guerra, circa un milione.
Alle colpe della truppa corrispondevano, elevate alla potenza, le colpe
degli ufficiali. Dove ci furono ordini precisi, vuoi per senso dell'onore o
per odio antitedesco, la resistenza fu efficace e il processo di dissoluzione
pi contenuto e dignitoso. Nella stragrande maggioranza gli ufficiali
vennero meno ai loro doveri. Il cattivo esempio dilag gi gi per i gradi...
Quelli che prestavano servizio presso il Comando supremo e lo Stato
maggiore lasciarono senza ordini i comandi locali e si eclissarono. Furono
in pochi ad affrontare il dramma dell'8 settembre senza calpestare
patriottismo e dignita nazionale, etica militare e solidariet civile.
Comportamenti cosi diffusi difficilmente possono trovare una
giustificazione ideologico-politica. La spiegazione e nella condizione
culturale e morale dell'Italia in quel momento: 1'8 settembre, ci fu uno
"sciopero morale".
"Il fatto che i popoli non si comportino eroicamente nella sventura, non e
una novit..." ha detto lo storico francese Francois Furet a proposito della
Francia fulminata dalla disfatta del giugno 1940. L'osservazione giusta,
ma il caso italiano e un unicum nella storia mondiale, per dimensione e
peculiarit. A Furet Si pu rispondere con una citazione di un maestro
della storia italiana, Vittorio De Capraris: "Tra il 1943 e il 1944 non v'era
certo la nostalgia del regime defunto, ma qualcosa di pi grave: attonito
sbigottimento e percosso stupore per la sconfitta, stanchezza di un conflitto
immane e resa psicologica innanzi all'estrema rovina, come di chi, dopo
aver combattuto invano contro forze soverchianti, si anima al fine e si
ritira dalla lotta per lasciarsi morire".