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Eugenio Di Rienzo

Istria 1947-2007. Il silenzio degli intellettuali


Il Giornale - 6 febbraio 2007
Lo storico Eugenio di Rienzo esamina le vicende che portarono all'annessione dei territori istriani e
giuliani alla Iugoslavia, causando un conflitto etnico che port all'esodo di oltre quattrocentomila
italiani.
Di Rienzo, giudicando estremamente tardiva la reazione del governo, illustra le posizioni politiche
di chi privilegiava il tentativo di mantenere le colonie africane in cambio della cessione dei territori
italiani sul confine orientale. Furono Gaetano Salvemini e Leo Valiani a denunciare l'assurdit di
una posizione sostenuta da numerosi politici ed intellettuali.
Pochi giorni prima della firma del trattato di pace tra le potenze vincitrici della Seconda guerra
mondiale e l'Italia, che, il 10 febbraio 1947, a Parigi, avrebbe strappato al nostro Paese quasi tutta la
Venezia Giulia, legalizzando l'occupazione militare iugoslava di quei territori, il ministero della
Pubblica istruzione inviava alle scuole italiane di ogni ordine e grado un telegramma che invitava
docenti e studenti a manifestare la fiera protesta contro un accordo imposto con la violenza alla
nazione. Pur in conformit allo spirito di dignit consono all'ora dolorosa che la patria attraversa,
occorreva riaffermare pubblicamente le prerogative irrinunciabili dell'Italia alla propria integrit
territoriale. Era necessario esprimere lo sdegno contro una pace coatta che disconosce i diritti del
popolo italiano, il quale, dopo aver combattuto durante gli ultimi due anni del conflitto a fianco di
chi prometteva la libert, era costretto, ora, a piegarsi dinanzi a un diktat respinto dalla propria
coscienza morale, senza avere neppure la possibilit di appellarsi al consorzio internazionale
perch tale arbitrio non sia consumato. Si trattava di uno scatto di orgoglio nazionale, lodabile in
s, ma assolutamente tardivo che non risarciva la lunga indifferenza con cui governo e classe politica
italiana avevano seguito gli sviluppi di questa cruciale questione, che, dopo la sua disgraziata
soluzione, avrebbe costretto quasi quattrocentomila nostri connazionali ad un esodo biblico, fuori
delle loro sedi millenarie. In questo caso, almeno, il neonato regime repubblicano aveva dato
veramente cattiva prova di s, come avrebbe ricordato Gaetano Salvemini in un intervento apparso
nel 1953. Invece di attestarsi sulla difesa del principio dell'autodeterminazione dei popoli e sul
riconoscimento della cosiddetta linea Wilson, che, secondo i propositi espressi dal presidente
americano fin dal 1919, avrebbe dovuto garantirci il pieno possesso dei nostri confini orientali, le
forze politiche uscite vincitrici dalla guerra civile avevano preferito baloccarsi con il sogno di
conservare le colonie africane, che, in spregio ai decantati principi anticolonialisti e terzomondisti,
venivano reputate dal demolaburista Ruini, dall'azionista Parri, dal socialista Nenni, dal comunista
Grieco, indispensabili per garantire migliori condizioni di vita al proletariato italiano.
In questo contesto, Togliatti, da sempre favorevole alla cessione delle regioni istriane e giuliane al
regime comunista di Tito, aveva aggiunto il danno alla beffa, domandando con artefatto candore:
Se il governo inglese vuole proprio dimostrarci la sua amicizia perch invece che cominciare da
Trieste non comincia col dichiarare di esser d'accordo che rimangano all'Italia le sue vecchie
colonie?. Altri, poi, aggiungevano nuovi argomenti, cospiranti anche essi, a giustificare la perdita
delle italianissime terre adriatiche. I profeti del federalismo europeo sbandieravano l'utopia di una
futura unione continentale che avrebbe dovuto ricongiungere Oriente ed Occidente, nella quale i
confini sarebbero stati tracciati col lapis e non pi con l'indelebile inchiostro. L'azionista, Aldo
Garosci avanzava un pretesto che risaliva alla pi vieta Realpolitik, secondo il quale nulla poteva
essere concesso a popoli che, come l'Italia, si presentavano dinnanzi al tribunale delle nazioni nella
veste di profeti disarmati. Argomento che Salvemini seccamente rifiutava, rivendicando il diritto
anche per gli sconfitti di far valere le loro ragioni, a meno di voler perdere persino la prerogativa di
protestare, riducendosi nella condizione di schiavi o di liberti.
Quel diritto al dissenso, inutile forse sul piano dei risultati concreti, ma importantissimo per il suo

valore etico e politico, fu impugnato con forza da numerosi intellettuali (Borgese, Sestan, Chabod,
Carlo Antoni) e da un partito politico trasversale che, in seno alla Costituente, nelle drammatiche
sedute del luglio 1947, avrebbe rifiutato di ratificare le condizioni di pace. In esso, erano presenti
uomini della vecchia Italia, come Francesco Saverio Nitti e Vittorio Emanuele Orlando, che
accusavano il governo italiano di cupidigia di servilit verso i vincitori, proclamandosi convinti
del fatto che un tratto di penna non poteva dilapidare parte integrante delle conquiste della guerra
patriottica del 1915, che aveva compiuto il nostro Risorgimento. Rappresentava bene l'insieme di
queste posizioni Benedetto Croce, che in un discorso memorabile ricordava come troppo a lungo ci
si era cullati nell'illusione che l'esiguo contributo delle forze partigiane e quello sicuramente pi
cospicuo del regio esercito alla lotta contro il nazismo avrebbe potuto bilanciare una disfatta militare
le cui conseguenze ricadevano su tutta la nazione. Fascisti e antifascisti, sosteneva Croce, portavano
egualmente il peso del fallimento: Perch quella guerra sciagurata, impegnando la nostra patria,
impegnava tutti noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male di essa,

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