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ALFONSO INGEGNO

REGIA PAZZIA
BRUNO LETTORE DI CALVINO

Quattmvend/

Questo volume stato pubblicato con il contributo dei Ministero della P.I.
ISBN 88-392-0048-7
Copyright 1987 Edizioni QuattroVenti, Urbino.
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale, riservati per tutti
i paesi.

AVVERTENZA

Ho raccoltoci questo breve lavoro la sintesi di


tre interventi bruniani, tenuti rispettivamente a
Milano (dic. '85) per conto della Societ filosofica
lombarda, a Helmstedt in occasione della Tagung
bruniana che ivi ha avuto luogo nel maggio '86, in
una sede cos affascinante per i cultori di questi
studi, a Firenze presso la sede fiorentina della
Johns Hopkins Universty (giugno '86).
La ricerca nata in realt dal tentativo di
rimediare ad un errore occorsomi in un precedente
lavoro, nel commentare una pagina del Nolano in cui
il Nostro Autore si presentava come l'autentico
mediatore in alternativa al Cristo.
Nei paragrafi conclusivi ho cercato di mostrare
alcune delle conseguenze che potevano essere
tratte dai risultati raggiunti tornando sul rapporto
Bruno-Cusano. Il carattere esemplificatorio di
queste pagine - anch'esse oggetto di una lezione
presso la Scuola Normale di Pisa - (febb. '87) spero possa giustificare la mancanza di tutti gli
approfondimenti che un tema simile - vastissimo avrebbe richiesto.
Ringrazio gli amici A. Pacchi, G. Podest, E.
Saccone, P. Cristofolini per avermi permesso di
parlare di questo lavoro quando era ancora in
fieri. Ringrazio vivamente l'amico Giancarlo
Breschi per avermi aiutato nella lettura di alcuni
testi.

Firenze, luglio 1987


7

I. Secondo l'autorevole opinione di alcuni


storici, l'opera a cui Bruno farebbe riferimento nel
corso della Ce na de l e Ceneri (1584) con
l'espressione di "purgatorio de l'inferno", non
sarebbe altro che lo Spaccio de la bestia trionfante
(1584) '. A questa conclusione sembrano condurre
alcuni elementi significativi. Bruno parla nello
Spaccio della riforma morale dei cieli, destinata a
concretarsi con la sostituzione delle immagini
celesti con immagini di virt, come di un
"purgatorio del signifero", un purgatorio cio dello
zodiaco. Ci si chiede se

G.

AQUILECCHIA, Giordano Bruno, Roma 1971, p. 51. Cfr. G.


Dialoghi italiani. Nuovamente ristampati con note da G. Genti le. Terza
edizione a cura di G. Aquilecchia, Firenze, 1958 (d'ora in poi
abbreviato in Dialoghi), pp. 168-69: A voi, Smitho, mandar
quel dialogo del Nolano, che si chiama Purgatorio de l'inferno; e
BRUNO,

ivi vedrai il frutto della redenzione. L'ediz. GentileAquilecchia ha avuto una seconda ristampa, immutata,
Firenze 1985. Va segnalata la traduzione spagnola della Cena
de le Ceneri: G. BRUNO, La Cena de la Cenizas, a cura di M. A.
Granada, Madrid 1984. Il Granada mette giustamente in
rilievo nell'Introduzione il ruolo centrale avuto dalla Narratio prima
di Retico nella interpretazione stessa che Bruno d di
Copernico. Si veda ora anche IOAN P. COULIANO, Eros et magie la
Renaissance. Avec une preface de M. Eliade, Paris 1984 traduz. italiana
Milano 1987, opera di uno studioso della mistica estatica.

questa espressione possa essere posta in rapporto con quella appena


ricordata di "purgatorio de l'inferno". Certo, frequente imbattersi
in autori nei quali il mondo umano, in particolare il mondo sublunare
in cui vive come rinchiuso l'uomo, viene identificato se non in modo
rigoroso con il mondo degli inferi, con il dominio che stato lasciato
nelle mani di Satana. Uno degli esempi pi eloquenti in questa
direzione rappresentato da uno scrittore ben noto al Bruno, quel
Marcello Palingenio Stellato che nei versi del suo Zodiacus vitae tende
appunto ad identificare il cosmo finito in cui vivono gli uomini con il
regno demonico a cui sono condannati dalla loro stessa stultitia,
secondo un preciso ascendente erasmiano che verr sviluppato sino alla
noia nel corso del poema, volgendolo d'altra parte in una direzione
religiosa tutta sua particolare'.
Credo che un elemento utile a dare una risposta all'interrogativo
che ci siamo posti, elemento che sembra condurre plausibilmente
nella direzione 'indicata, sia costituito dal fatto che il cosmo
allegorico dello Spaccio, definito dal Bruno stesso nel corso
dell'opera come vana fantasia di matematici, si presenti come del tutto
opposto al nuovo cosmo senza confini di cui proprio il Nolano si
fatto banditore, sia ancora cio il cosmo tradizionale, geocentrico e
chiuso della filosofia aristotelica, secondo una scelta che non pu certo
essere casuale. Questa dicotomia potrebbe anzi trovare una spiegazione
plausibile proprio all'interno dell'interrogativo che ci siamo posti'.
Ma l'ipotesi che il cosmo bruniano quale viene figurato nello
Spaccio rappresenti anche, si pure gin una forma particolare,
l'inferno, ci offre una prospettiva particolare per affrontare
2 noto che per Palingenio Plutone, identificato col fato e
la fortuna, insieme signore della terra e dei regni
sotterranei, colui che come demone malvagio martirizza
gli uomini, asini bipedi, dominati
dalla stultitia, punendoli della loro irrimediabile propensione al
peccato.
3
Dialoghi, p. 560: Questo mondo, tolto secondo
l'imaginazion de stolti matematici, ed accettato da non
pi saggi fisici, tra quali gli Peripatetici son pi vani.

10

il problema che qui ci interessa. L'asino bruniano, protagonista per


tanti versi dell'opera, colui che nella sua stultitia non sa elevarsi al di
sopra dei fantasmi della propria immaginazione e finisce cos per
soggiacere al dominio di demoni. Lucrezianamente - ma sono qui 'in
causa anche altre fonti - l'anima diviene essa stessa la causa delle pene a
cui va incontro ed il Cristo, che cattura gli uomini attraverso il timore
della morte e la promessa di una vita eterna che si attuerebbe solo
grazie alla sua suprema opera di mediatore tra umano e divino, sembra
possedere per questa via una sua vita fantastica, dotata di una propria
particolare realt, che ne prolungherebbe l'esistenza storica. Questa
vita fantastica sembrerebbe porre il Cristo agli occhi del Bruno nello
stesso tempo come signore di questo inferno e come radice
ultima dei mali che lo travagliano nel presente; la sua figura
riceverebbe dunque una connotazione inequivocabilmente demonica.
Si tratta ovviamente di ipotesi che richiedono di essere verificate, ma
solidale con una conclusione di questo tipo appare il fatto che
negli Eroici furori (1585) si parli apertamente del paradiso come del
fine ultimo a cui aspira il "furioso eroico", fine ultimo che d'altra
parte riguarda sempre la nostra condizione terrena. dunque come se
nello Spaccio e negli Eroici furori, Bruno avesse indicato due diversi
livelli, radicalmente distinti, in cui si realizzerebbe l'incontro tra umano
e divino, sviluppando il primo, quello di natura civile, nello Spaccio,
chiamandolo appunto 'a "purgare l'inferno", ~a ricostituire le
condizioni della convivenza sociale turbate da dottrine che risalgono a
pretese ispirazioni superiori di cui occorre mettere in luce il carattere
di inganno demonico; passando, non senza la mediazione di una rete
diffusa, fittissima di rinvii tematici, a delineare negli Eroici furori quel
secondo livello che riguarda ormai la solitaria contemplazione del
divino riservata al filosofo.
Centrale resta, tanto nell'una che nell'altra opera, all'interno di
quella concezione della realt che pu essere compendiata con
l'espressione di "fato della mutazione", il mito della metamorfosi,
destinato ad articolarsi in entrambi i dialoghi, in
11

relazione alla ricerca di un contatto con il divino, attraverso la


metafora della caccia. Sul tema della metamorfosi e se si vuole del
perenne divenire del tutto si era aperto lo Spaccio, che pu essere
considerato per intero uno sviluppo di esso ed ben noto che
negli Eroici furori la ricerca della contemplazione del divino, la caccia
che il "vero" Atteone compie sulle orme di Diana, "splendore
della divinit" destinata a risolversi nella conversione del
cacciatore in preda, della preda ricercata in autentica cacciatrice. Il
capovolgimento dei ruoli che cos ha luogo sottintende in modo
scoperto le tesi centrali della metafisica bruniana, la coincidenza di
lacere e fieri, agere e pati - `basti per il momento un accenno cos
sommario all'aggancio cusaniano della speculazione del Bruno coincidenza che trova negli Eroici furori la sua espressione al livello
conoscitivo supremo, quello in cui la natura del divino si concede
in misura proporzionale alla nostra attiva capacit di disporci ad
essere oggetto e "preda" della sua influenza e della sua
illuminazione.
Il problema, occorre appena ricordarlo, quello della ri cerca di un medio corretto tra umano e divino che sia realmente in
grado di attuare tale impresa e ci risulter pi chiaro dal
seguito della nostra esposizione.
Nell'ultima, decisiva sezione dello Spaccio proprio tale
problema che emerge come centrale. Ci che ne deriva, mi
sembra, una trasparenza diversa dell'atteggiamento del Bruno nei
confronti del cristianesimo in genere, posto qui direttamen te in
rapporto con la legge dell'autentica metamorfosi che go verna la
realt e con il mito "vero" che conduce a nutrirsi realmente della
divinit attraverso una caccia metaforica (la "venatio sapientiae").
Al contrario il cristianesimo stesso viene ricondotto alla caccia
materiale del corpo del Cristo connessa con il suo sacrificio ed
agli sviluppi assurdi a cui aveva portato il tentativo di far fronte
alle difficolt che ne erano derivate partendo tuttavia dalle stesse
premesse della incarnazione del divino. Ma in realt, il fine
primario di tale sezione resta un fine di natura diversa, di
carattere pratico.

cattoliche e calviniste, la possibilit di riformare tali culti sot traendo 'ad essi quanto si era rivelato esiziale,' sul piano civile,
salvando, una volta attuata questa riforma quegli aspetti che
potevano continuare ad essere utili su tale piano. La
spiritualizzazione del cristianesimo tentata in forme diverse dalla
Riforma sembra qui suggerire, muovendo da presupposti
lontanissimi, una utilit sociale della religione non pi intesa solo
come elemento di costrizione interiore, freno posto dal timore
delle pene al disordinato espandersi degli istinti e delle passioni
ma come legittimazione di un universo fantastico che una volta
purificato possa essere riconosciuto nella sua utilit purch gli
vengano sottratti gli strumenti per intervenire atti vamente ~ed in
modo negativo nella vita civile dell'uomo.
Sembra 'in effetti che Bruno faccia leva sulla separazione tra
dominio spirituale e dominio politico nei termini indicati pur tra
profonde differenze da Lutero e Calvino perch il primo venga
accettato come regno della pura immaginazione, venga cio a far
parte integrante ma in funzione subordinata di quel regno terreno
che i riformatori lasciavano tendenzialmente all'autorit secolare
delle leggi. Il primo doveva dunque essere posto sotto il controllo
del secondo. Credo sia utile osservare, per inciso, che sui punti pi
delicati in discussione, a cominciare proprio dalla presenza
eucaristica ma non solo per essa ed anche a proposito di quanti in
vario modo tendevano ad anteporre il valore dello spirito e della
fede nei confronti di quello della Parola divina, Calvino
sottolineava costantemente il rischio che le nuove credenze
potessero scivolare, sulla via di una integrale spiritualizzazione,
sul piano di ci che puramente immaginario e quindi arbitrario e
la cosa appare particolar
mente evidente nelle trattazioni che la Institutio

religionis ch

ristianae dedica alla Cena del Signore 'ed ai sacramenti.

a I rischi di un uso disordinato della immaginazione,


ch

12

Il Nolano sembra cio avere di mira la possibilit di puri ficare le cerimonie proprie alle diverse confessioni in cui si
scisso ormai l'originario ceppo cristiano, a cominciare da quelle

giu
ng

e
al

13

Credo che qui, prima di procedere oltre, si


imponga una prima osservazione relativa al testo
bruniano. Al Cristo-Orione, che scende in terra in
quanto colui che ha infranto la legge di natura
cercando
di
mostrarne
l'eterogeneit
e
l'incompatibilit rispetto alla legge divina, vanno
contrapposti l'arte militare e l'intervento della
forza. quest'ultima che deve precedere e non
seguire, se sar necessario, il tentativo di riforma
dei culti "porcini" che Bruno si appresta a
delineare in queste pagine. Dinanzi al pericolo che
tali culti bestiali e selvatici rappresentano, certo
che la falce del tempo - un'espressione destinata a
ritornare negli Eroici furori in un contesto
estremamente significativo - far giustizia ma
intanto pu darsi che gli dei debban ricorrere alla
forza delle armi. Per il momento occorre

limite alla condizione del "furore", sono costantemente


sottolineati nella Institutio da Calvino, e considerati spesso
alla radice degli errori dei suoi avversari. D'altra parte il
dato della follia, della stultitia uno di quelli permanenti nella
condizione naturale dell'uomo, anche dopo l'incarnazione e
la passione del Cristo. Per le edizioni e rielaborazioni della
Institutio, latina e francese, dal 1536 ai testi del 1559 e
1560 da vedere la Descriptio et historia editionum Institutionis
latinarum et gallicarum Calvino vivo emissarum premessa al III vol. di j.
Cal vini Opera selecta edd. P. Barth W. Niesel, Munchen 19673, pp. VI-L.
Si tuttavia citato il testo dall'edizione del Corpus
Reformatorum: Ioannis Calvin Opera quae supersunt omnia, Brunsvigae,
Berolini, 1863-1900. Per i rapporti tra Calvino e l'Italia, mi
limito qui a segnalare il saggio di A. RoTONn, Calvino e gli
antitrinitari italiani, ora in Studi e ricerche di storia ereticale del Cinquecento,
Torino 1974, pp. 57-86 (che andr tuttavia confrontato con
le precisazioni e i contributi presenti nella sua ediz. critica
delle Opere di Lelio Sozzini, Firenze 1986); T. BOZZA, Nuovi
studi sulla Riforma in Italia I. Il beneficio di Cristo, Roma 1976. Sulla
annosa discussione seguita al libro del Bozza, cfr. almeno C.
GINZBURG A. PROSPERI, Giochi di pazienza, Torino, 19772. Quanto al
Bruno, durante il processo ebbe a dichiarare: Ho letto
libri di Melantone, di Lutero, di Calvino, e d'heretici

Oltramontani non per imparar la loro dottrina, n per


valermene stimandoli pi ignoranti di me, ma per curiosit
(A. MERCATI, Il sommario del processo di Giordano Bruno, Citt del
Vaticano 1942, p. 106).
14

r tentare di riformarli nei limiti in cui questo possibile.


Orione, il cacciatore per eccellenza, lascia
dunque la sua sede celeste. Egli non solo non dar
pi a credere che legge della natura e legge della
divinit siano contrapposte ed inconciliabili tra
loro, ma scendendo in terr dovr perdere la virt
di operare quelle "bagattelle", quegli inutili
atti di prestigio che gli hanno procurato credito
tra gli uomini ma che nel loro fragile fondamento
non sono in grado di garantire in maniera stabile
l'autorit che deve essere riconosciuta agli dei (si
noti che l'obiettivo cui qui mira il discorso non
assoluto ma riguarda solo il mondo umano e
l'autorit che il Cristo ha saputo raggiungere
all'interno di esso). Tali giochi di prestigio permettono solo, dice il Bruno, di farsi scimmia e
beffa degli dei: l'espressione era comune in
Calvino e definiva in particolare il prete cattolico,
che, nella intera estensione della gerarchia
ecclesiastica e in tutto l'arco delle sue funzioni, a
cominciare dalla cerimonia dell'ordinazione,
viene presentato quale scimmia del Cristo'.
II. noto che con la Riforma l'attacco portato
alla cerimonia cristiana per eccellenza, il sacrificio
della messa, si concret soprattutto attraverso due
linee, d'altra parte strettamente collegate tra loro'.
Da Lutero a Calvino, fu posto in discus
5

Dialoghi, p. 806. Cfr. I . Calvini Institutio Christianae religionis, IV,


19, 29 in Corpus Reformatorum, Ioannis Calvini Opera quae supersunt
omnia, vol. II, Brunsvigae 1866, col. 1087 (d'ora in poi
abbreviato
in CR, Opera). Ma gli esempi potrebbero essere moltiplicati.
6
Mi rifaccio in questa esposizione a E. DE NEGRI, La
teologia di Lutero, Firenze 1967. Ma cfr. E. ISERLOH, Lutero e la
Riforma, Brescia 1977, pp. 40-56.
Ho tenuto presente, per Calvino, il libro di F. WENDEL,
Calvin. Sources et volution de sa pense religieuse, Paris 1950 (in part.
per il cap. La Sainte cne, pp. 251-71). Una traduzione della

sezione dedicata alla


Cena nel De vera et falsa religione di Zwingli ora in U. ZWINGLI,
Scritti teologici e politici, a cura di E. Genre, E. Campi. Introd. di
P. Ricca, Torino 1985, pp. 211-71. Per la fortuna di Lutero
in Italia, v. in
15

sione il carattere di sacrificio della messa stessa, secondo una


variet di sviluppi che convergevano tutti nell'accusa di aver
scambiato una pura offerta da parte della divinit agli uomini
in qualcosa che veniva invece presentato dall'uomo a Dio. Il
secondo punto riguardava il rifiuto della transubstanziazione
del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Ges ed
risaputo che nel determinare i modi della presenza del Cristo
nelle specie eucaristiche gli uomini della Riforma andarono incontro
ad una serie di lacerazioni estremamente gravi, che celavano in
realt il contrasto tra orientamenti e formazioni profondamente
diversi. Gi nel momento di precisare la sua posizione e di
elaborare la nozione della consubstanzi;azione, Lutero venne a
trovarsi in profondo contrasto con personalit quali quelle, per
fare solo alcuni nomi, di Zwingli e Carlostadio. Il problema
consisteva nella difficolt di comprendere come il corpo glorioso
del Cristo, asceso alla destra del Padre per ivi rimanere fino ,al
nuovo avvento, potesse contemporaneamente rendersi presente
quaggi nella sua corporeit e parteciparsi a noi nel pane senza
lasciare la sua sede celeste. Lutero, per rendere persuasiva la
presenza reale negli elementi del pane e del vino, ricorse
fondamentalmente a due argomentazioni. La "destra" del Padre
non poteva essere intesa in un senso locale ma andava identificata
con l'onnipotenza della divinit; in secondo luogo, essendo questa
per definizione

particolare Lutero in Italia. Studi storici nel V centenario della nascita. Introd.
di G. Miccoli, Casale Monferrato 1985 di cui interessano qui i
saggi di O. Nccoli, A. Biondi, S. Caponetto, A. Prosperi, S.
Cavazza, S. Seidel Menchi. Della Seidel Menchi da vedere
anche Le traduzioni
italiane di Lutero nella prima met del Cinquecento, Rinascimento, S.
II, XVII (1977), pp. 31-108. (Per alcuni parallelismi con la
situazione
spagnola, cfr. C. GILLY, Juan de Valds, traductor y adaptator de
escritos de Lutero en su "Dialogo de Doctrina cristiana", in Miscelnea
de Estudios Hispknicos. Homena,ie de los hispanistas de Suiza, a Ramon
Sugranyes de Franch, Montserrat 1982, pp. 85-106). Per il

concetto di

potentia Dei absoluta, cfr. pi avanti p. 108, n.

59. 16

ubiqua, non poteva non trasmettere al corpo glorioso la pro priet


dell'ubiquit. L'infinit e l'onnipotenza trasmesse in tal modo al
corpo del Cristo sulla base dell'unit delle due nature sollevarono
immediate obiezioni poich sembrava derivarne una interpretazione
del tutto particolare della communicatio idiomatum che
cancellasse la diversit peculiare delle due nature ed introducesse
un duplice modo di essere per il corpo fisico del Cristo. Da un
lato, all'onnipotenza divina veniva attribuito il compito di far s
che un corpo avesse attributi che non poteva no competere 'a ci
che pur sempre rientrava nell'ordine della natura, dall'altro lato tale
ubiquit costituiva la premessa indispensabile per spiegare la
presenza sacramentale. Su entrambi i punti Lutero andava dunque
incontro ad una serie di difficolt, tanto pi che nel chiarire come
un corpo divenuto ormai ubiquo ed infinito potesse concentrarsi in
un punto particolare dello spazio, faceva ricorso 'ad esempi tratti
dalla vita del Cristo ma non canonici. degno di nota che gi
agli occhi di Zwngli la posizione di Lutero non solo lacerasse le
leggi della fisica senza trovare in questo un valido supporto nella
Scrittura e facesse un uso indebito della communicatio
idiomatum, ma costituisse una trasposizione arbitraria della
potentia absoluta di Dio, come se Lutero fosse stato
costretto a concludere nel
suo ragionamento dalla possibilit alla realt, senza passaggi
che avallassero in alcun modo la sua conclusione. Quanto a
Calvino, noto che egli venne col tempo, nelle successive e
dizioni e versioni della I nstitutio, a separare in capitoli distinti
e
sempre pi ampi la sua riflessione sulla cena eucaristica, sul
convive spirituel, l'epulum spirituale a cui ci
chiamava il Signo
re, e l'attacco portato alla messa papistica. La trattazione della
Cena si era ormai allargata 'a confutazione degli errori che
erano proliferati nel campo stesso della Riforma, a cominciare
da quella prodigiosa ubiquitas del corpo glorioso a cui
aveva
aperto la strada la concezione luterana della consubstanziazione.
Di fronte alle "iperboliche misture" generate dai differenti
modi di concepire la presenza della carne e del sangue di Ges
nel pane e nel vino, si trattava di tener fermo per Calvino -

17

in armonia con la sua concezione generale dei sacramenti - al fatto


che in realt i segni, legati nel momento stesso della loro
istituzione ad una nostra condizione di debolezza, dovevano
conservare un carattere sensibile e rinviare proprio per mezzo di
esso ad una verit pi alta, di natura spirituale. Era cos
possibile, attraverso tale concezione del sacramento, por fine a
tutti i songes e le resveries che erano nati sull'argomento, evitando
il duplice pericolo in cui le pi diverse posizioni avevano finito
per cadere. Si trattava cio in primo luogo di porre attenzione a
non sminuire e svilire il valore dei segni al punto di non
riconoscerne pi il carattere di necessit che essi rivestivano sul
piano del sensibile (si pensi alla posizione di uno Zwingli, che
riducendo la cerimonia a semplice commemorazione le assegnava
un significato puramente simbolico, attribuendo al momento della
fede un ruolo assolutamente centrale). In secondo luogo, si
trattava di non accrescere talmente la loro incidenza al punto di
essere condotti a dare ad essi un valore oggettivo, in grado di
agire in modo autonomo rispetto a quelli della Parola e della fede,
legati in modo estrinseco al compiersi del sacramento.
In accordo con tale concezione generale, il pane della vita
eterna a noi promesso discendeva secondo Calvino a partecipar si
realmente a noi tramite la mediazione dello Spirito Santo.
L'arcana, segreta operazione di quest'ultimo ricollegava appunto il
dono della grazia divina, dal segno semplicemente indica ta, al segno
stesso. L'arcana virtus dello Spirito Santo annullava cos
l'insuperabile distanza tra noi e il corpo del Cristo e permetteva
che quest'ultimo, concepito come fonte ricca ed inesauribile alla
scaturigine, comunicasse agli uomini quella vita che li faceva essere
tutt'uno con Lui: lo Spirito Santo, vincolo di questa congiunzione,
era come canalis quidam grazie al quale derivava a noi tutto ci che
Cristo e possiede. Si rispettava in tal modo l'effettiva natura fisica
del corpo del Salvatore asceso in cielo, evitando tutte le difficolt
cui erano andati incontro coloro che, facendo leva sulla
onnipotenza divina, avevano preteso di localizzare quaggi tale
corpo e sempre sulla base dello
18

stesso presupposto avevano dovuto estenderne in maniera improbabile la presenza gin ogni luogo.
Certo, e Calvino era Fil primo ad esserne consapevole, ci si
trovava alla presenza di un mistero di fronte al quale le forze del
nostro intelletto apparivano impari cos come le capacit della
parola umana erano insufficienti ad esprimerlo; anche a lui non
restava che la muta admiration, l'inchinarsi di fronte ad esso ed il
riconoscimento di un limite che l'uomo non poteva superare.
Tuttavia si presentava come determinante per difendere tale
posizione la convinzione che la sua riflessione avesse rispettato e
tenuto fermo al dettato della Scrittura, ai due punti a cui essa
rinviava in modo certo, quello per cui il corpo fisico, terreno del
Cristo era effettivamente asceso nei cieli, al di l del cosmo
fisico finito di Calvino, per ivi rimanere, e quello per cui
realmente - anzi, per il Riformatore, realmente perch spiritualmente
- esso si comunicava.
Credo che convenga, per la comprensione del testo bru niano
che ci apprestiamo a commentare, scendere pi in dettaglio e
seguire la sua discussione in alcuni particolari. Nella Cena,
dunque, grazie alla virt dello Spirito Santo che unisce
misteriosamente ci che separato per tutto lo spazio del cielo e
della terra, il Cristo pasce gli uomini dall'alto dei cieli con la sua
carne, una carne che ha avuto origine terrena e che ha
conosciuto la morte ma da cui mutuiamo vita spirituale e cele ste;
rendendo efficace il corpo da lui immolato ed il sangue versato
per noi egli offre se stesso con tutti i suoi doni (bona), facendoci
divenire un'unica sostanza con Lui onde possiamo dire nostro
tutto ci che Suo.
Ora, quella che ha luogo in questo modo, ci viene detto,
una manducatio che non coincide n con un semplice atto di
conoscenza n con un semplice atto dell'immaginazione ma che si
presenta essa stessa. come un frutto della fede: un f rui non
imaginatione aut intelligentia sed re ipsa f rui. Facendo leva su queste
conclusioni, Calvino crede non solo di poter confutare la
transubstanziazione ed indicare i tratti che conserva in comune
19

con essa la consubstanziazione, ma ritiene anche di poter indicare


l'origine e la causa della prima.
Con la transubstanziazione, a suo avviso, comunque si volga
la cosa, si resta sempre sul piano di una presenza locale, mediante
la quale il corpo del Cristo si d come qualcosa che possa essere
deglutito con la bocca ed i denti (ac si sisteretur
deglutiendum); grazie alla consacrazione il Cristo resta
occultato sotto una figura, l'inane spettro del pane. Di qui, come
se gli uomini fabbricassero ancora una volta un dio a proprio
arbitrio, si sfocia nella idolatria dell'adorazione del pezzo di pane
per cui il sacramento fatto execrabile idolum. Ora, un
atto di immaginazione cos rozzo e triviale, secondo il quale il
corpo del Cristo, incluso sotto il pane, sarebbe destinato ad
essere mangiato e a passare nel ventre degli uomini non pu aver
avuto la sua causa che in un accecamento diabolico e precisa mente nel fatto che il rito della consacrazione avesse il valore
di una magica incantatio.
Nella stessa prospettiva si colloca la consubstanziazione
almeno nel senso che anch'essa cercava di risolvere un proble ma
che era stato impostato in termini errati: in altre parole se la
natura vietava di giungere al Cristo posto al di sopra dei cieli
ancora una volta si era cercato un rimedio a questa impossibilit
attraverso la trasfigurazione del suo corpo. Se la consu bstanziazione si pone anch'essa in questa prospettiva, non sar
sufficiente allora affermare che il pane conserva il carattere di
elemento terreno, corruttibile e che non si trasforma in altro ma
collocando il corpo del Cristo nel pane si sar costretti ad assegnargli una ubiquit contraria alla sua natura, mentre aggiun gendo le
parole sub pane se ne far qualcosa che resta occulto. Calvino
pu cos concludere che il corpo del Cristo divenuto un corpo
invisibile ed immenso, che alla sua carne sono state date le
dimensioni del cielo e della terra e che se ne fatto un fantasma.
Rendendolo infinito e presente in molteplici luoghi, gli si
:attribuisce ci che c' di pi contrario alla natura umana
mentre esso, che carne come la nostra, non pu occu
20

pare diversi luoghi in modo da non essere contenuto da nessu no:


si tratta in effetti di un corpo finito e compreso dal cielo.
L'errore di cercare di giungere oltre il cosmo fino al Cristo
trasfigurandone il corpo derivava in effetti dalla incapacit di
pensare un'altra forma di partecipazione alla sua carne ed al suo
sangue che non fosse per congiunzione e contatto di luogo, o per
qualche rozza forma di inclusione, senza comprendere che c' un
modo con cui esso scende e noi perch ci solleva e ci innalza
sino a lui, senza bisogno che sia legato ad elementi terreni n
che sia infinito e in pi luoghi.
Certo, nulla impediva che Egli, pur sedendo alla destra del
Padre, fosse sempre con noi cos come aveva lasciato detto ma ci
andava inteso secondo la grazia, mentre quando aveva affermato
che non sarebbe stato sempre con gli uomini aveva inteso riferirsi
alla sua presenza corporea. Per questo Agostino dice che non
qui, siede l e tuttavia qua nella sua maest (Non est hic: ibi
enim sedet ad dexteram Patris. Et tamen hic est) ', lo fa cio
presente a noi secondo la maest la provvidenza e la grazia ed
appunto sotto questa presenza della grazia andava compresa la
mirifica comunione con il suo corpo ed il suo sangue. sempre
Agostino a ricordare che Cristo dovunque in quanto Dio, in
cielo in quanto uomo: dovunque tutto presente come Dio, in
qualche luogo del cielo che sarebbe vana curiosit determinare
presente secondo il modo vero del suo corpo.
cos possibile concludere che come non ha avuto biso gno
di scendere secondo la divinit per abitare corporaliter ed
in modo ineffabile nell'umanit del Cristo, cos non ha bisogno ora
di scendere corporalmente e di localizzarsi per parteciparsi a noi
quando pu farlo tramite la virt dello Spirito Santo, l'arcana
Spiritus operatio. La carne pu essere presente nel pane
senza essere localizzata (sistere) in esso, non necessario
dire

Aug. In Johan. evang., 50, 13 (Migne, P. L., 33, 1763).

21

e Cristo scende in terra perch sia presente e congiunto a noi


proprio in questo si colloca tale mistero celeste, incomprensibile
all'uomo. ancora Agostino ad affermare "per hominem hoc
mysterium peragitur ut reliqua, sed divinitus: in terra, sed
caelitus". A noi, dice Calvino, basta che Cristo spiri dalla so stanza della sua carne la vita nelle anime nostre, che la dif fonda in esse sebbene in noi non entri la carne stessa del
Signore. Cos l'autore della Institutio poteva opporre la spiritualis manducatio come sola vera e reale a quella che si
presumeva tale ma risultava essere solo in ultima analisi
carnalis, oralis: vere e spiritualiter non si
opponevano pi.
Ma con il tempo, come testimoniano le successive elaborazioni della Institutio, si erano anche precisate le accuse a cui
andava incontro la sua posizione, accuse il cui tenore non ci
interessa meno di quanto abbiamo potuto osservare sin qui.
Calvino
avrebbe
proceduto
philosophice e non
theologice, e soprattutto avrebbe preteso di limitare la
potenza divina, non avendo concesso,a questa pi di quanto
consenta l'ordo naturae
detti il senso comune. Ma, obiettava il teologo ginevrino, e su
questo non sapremmo come dargli torto, che cosa di pi
opposto alla legge di natura del fatto che il Cristo pasca dal
cielo le anime con la sua carne? Che cosa di pi estraneo alla
ragione umana che la sua carne si congiunga a noi per alimentar ci?
Nulla di pi incredibile, di pi praeter naturam che le
anime mutuino vita spirituale e celeste da carne terrena e
mortale, nulla di pi incredibile che enti separati da tanta
distanza non solo si congiungano ma si uniscano tra loro. L'errore
degli avversari poteva cos essere scorto facilmente nel fatto che
essi si erano attenuti a ci che la divinit avrebbe potuto fare e
non a ci che essa aveva voluto fare e qui tornava come
determinante il riferimento alla distinzione tra potentia
absoluta e potentia ordinata di Dio in rapporto
tuttavia alla corretta interpretazione della sua parola. Calvino era
stato dunque accusato di voler limitare l'onnipotenza divina,
facendola scivolare su un piano in cui preoccupazioni di tipo
filosofico avrebbero avuto il sopravvento. Al contrario, egli si
difendeva affermando che il

22

mistero dell'operazione segreta dello Spirito Santo rinviava ne cessariamente a qualcosa che non poteva rientrare nelle leggi di
natura n si presentava accessibile all'intelletto umano. Il grado di
comprensione a cui era possibile giungere attraverso la Scrit tura
mostrava tuttavia il rapporto che si istituiva, nel caso spe. cifico,
tra la volont divina e la sua onnipotenza e la correttezza con cui
esso veniva individuato trovava indirettamente la verifica delle sue
conclusioni nelle assurdit cui giungevano gli avversari. Essi
erano costretti a postulare un corpo fisico non sottoposto alle
leggi cui tutto ci che corporeo va soggetto, dovevano cio
postulare nei confronti della stessa azione divina la possibilit
dell'impossibile, sovvertendo tutto l'ordo della sua sapienza.
Essi chiedevano infatti alla potenza di Dio che il corpo di Cristo
fosse carne e insieme non carne, come se la divinit, che certo
pu fare che le tenebre divengano luce e la luce tenebre, potesse
far s che la luce sia contemporaneamente
anche tenebra' b`s
Credo che per la comprensione dei testi bruniani vadano
sottolineati almeno altri due punti, il primo dei quali legato
direttamente al testo della Institutio. Dovendo stabilire ci che
differenziava la sua posizione da quella di Zwingli e dei suoi
seguaci, Calvino affermava in sostanza: per essi il mangiare il
credere stesso, coincide e si identifica con esso, mentre per noi se
si crede si produce ed opera la manducatio e sottolineava
che poteva sembrare questione di sole parole ma che in realt le
cose stavano ben diversamente. In entrambi i casi si aveva
tuttavia un manducatio che non pretendeva di essere orale. Il
secondo punto cui si faceva riferimento dato dal fatto che se
Bruno sembra aver ricevuto svariate sollecitazioni dal testo di
Calvino che siamo venuti riassumendo ed in particolare dalle
citazioni che Calvino fa di Agostino (il Cristo che qui e non
qui, il mistero della Cena che "peragitur in terra sed cae
.

7bis I.

Calvini Institutio, IV; 17, 24, CR, Opera II, col. 1023.

23

litus", il corpo del Cristo che come fonte di vita


rispetto alla quale lo Spirito Santo pu essere
presentato come canalis quidam, la divinit che come
pioggia che non cessa di cadere su di noi) ci non
signifi ca che Bruno abbia avuto in mente nel testo
che ci accingiamo a leggere esclusivamente la
Cena calvinistica, ch si tende gal contrario ad
enucleare all'interno di posizioni che erano state
contrapposte come inconciliabili tra loro proprio ci
che le poteva accomunare su un piano radicamente
estraneo alle preoccupazioni da cui avevano avuto
origine. Si apriva cio la possibilit di risolvere tutta
una serie di difficolt se si partiva dal presupposto
che il fiume celeste della grazia ed i problemi che
esso sollevava erano prodotto di pura fantasia. In
tal caso, la manducatio, l'unione di tutti i credenti nel
corpo mistico del Cristo e l'ubiquit, quel l'ubiquit
che faceva dire a Calvino che dall'unione delle due
nature del Cristo i suoi avversari avevano saputo
trarre (con f lare) non si sa quale medio che non era dio
n uomo, si collocavano appunto sul piano di
credenze
che
rappresentavano
atti
di
immaginazione, forse non inconciliabili su un terreno
puramente fantastico, quel terreno sul quale
soltanto potevano rivendi
care per il Nolano una loro, del tutto sui generis,
legittimazione.
III. La discesa in terra del Cristo-Orione, del
Cristo inteso come cacciatore per eccellenza sembra
aprire la possibilit di trattare in modo nuovo ed
adeguato le due grandi fi gure - l'Eridano e la Lepre
-attraverso cui si presenta l'unione immaginaria
dell'uomo con Dio attraverso la Sua mediazione. Il
Cristo, in altri termini, il cacciatore che ha saputo
realizzare il suo obiettivo facendosi preda sia pure
apparente ed illusoria dell'uomo, secondo modalit
che andranno appunto riformate. La prima figura,
quella dell'Eridano, del fiume della mitologia,
solleva a Giove problemi del tutto particolari in
vista di una sua sostituzione celeste poich a

differenza delle altre costella


zioni salito in cielo senza lasciare la terra. Il suo
ritorno tra
24

gli uomini sembra dunque porsi in un modo del tutto partico lare se vero s
e che in terra e che in cielo ... e che qua e che
l; e che dentro, e che fuori e che alto e che
basso; e che ha del
celeste e che ha del terrestre
Inutile tornare ad insistere su quel "est hic et
non est hic" agostiniano che era giunto attraverso
le scuole pi o meno nella stessa forma sino alle
discussioni dei riformatori, o sul

' Dialoghi, cit., p. 808. Bruno nel corso del processo


aveva espresso i suoi dubbi sulla duplice natura del Cristo:
... ho detto d'haver dubitato circa l'incarnatione divina
... tornar a dirlo, et che per essere la divina natura
infinita, e la humanit finita, quella eterna, e questa
temporale non mi pareva proporzione tale che facesse
s fattamente un supposito, che la humanit cos fosse
gionta alla divinit alla constitutione d'un suggetto come
gionta l'anima umana col corpo proportionalmente, et
in somma dove si parla de la Trinit eterna, et in una
simplicit apprehensibile, la detta humanit intendeva come
una cosa addita di sorte che fosse come un quarto
subsistente. I riflessi sulla sua concezione della Trinit
non potevano appunto non essere profondi e ci torneranno
utili nell'ultima parte di questo lavoro. Dichiarava tra l'altro
il Bruno in proposito: ... dico d'haver tenuto, e creduto
che ci sia in Dio distinto in Padre, in verbo, et in amore
ch' il spirito divino, et sono tutti questi tre un Dio in
essentia, ma non ho potuto capire et ho dubitato che
queste tre possino sortire nome di persone, perch non
mi parca che questo nome di persona convenesse alla
divinit confortan domi a questo ... Sant'Agostino ... oltre
che nel testamento vecchio e nuovo non ho trovato n
letto questa voce e forma di parlare. Nella divinit
intendo tutti li attributi essere una medesima cosa . ..
potentia, sapientia e bont, o vero mente, intelletto et amore
col quale le cose hanno prima l'essere ragione de la mente,
dopoi l'ordinato essere e distinto per ragione dell'intelletto,
terzo la concordia, e simitria per ragione dell'amore ... Cos
quanto al spirito divino per una terza persona non ho

potuto capire secondo il modo che si deve credere, ma secondo


il modo Pitagorico conforme a quel modo che mostra
Salomone ho inteso come anima dell'universo, o vero
assistente all'universo (A.
MERCATI, Il Sommario, cit., pp. 67, 66, 63-4).
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l'ambiguit di quel "dentro" e di quel "fuori" di quell`alto" e


di quel "basso" che sembrano alludere alla collocazione al di fuori e al
di dentro del cosmo fisico del corpo glorioso del Cristo non
meno che al suo essere contenuto dentro il pane. Per risolvere il
problema, Momo pensa che non sia necessario sottrarre qualche luogo
al nostro onnipresente fiume ma ritiene al contrario che sia non solo
degno ma utile attribuirgli pi luoghi, per un fine che verr
immediatamente chiarito, sulla base del fatto che l'Eridano pu
essere sia "personalmente" che "suppositalmente" in pi parti. In
altri termini, traducendo il discorso sul piano cristologico: pu essere
in pi sedi sia nella sua unit con la natura divina che ne fa una persona
della trinit, sia nella peculiarit di quella natura umana che sebbene
indisgiungibile dalla prima ha pur preso carne, si fatta uomo nelle
fattezze di un corpo fisico che ora risiede nei cieli alla destra del
Padre ma pu, sia pure in modi diversi per ciascuno, scendere in noi.
Se proprio questo secondo punto ad essere oggetto di discussione
baster allora attribuirgli non solo pi luoghi ma tutti quelli in cui sar
imaginato nominato chiamato e riverito. Bruno
sembra cos ricongiungere, grazie al piano su cui si sta sviluppando la
sua sistemazione dei nuovi culti, l'ubiquit del corpo glorioso che tante
difficolt aveva sollevato alla possibilit puramente interiore di chi
immaginando il nostro Eridano lo chiama e lo invoca, sembra
ricongiungere cio tale ubiquit alla m a n d u c a ti o puramente
spirituale, ma non per questo meno reale per essi, di cui parlavano
Calvino o con significato diverso altri riformatori. La confusione,
deprecata come si visto dall'autore dell'Institutio, della
m a n d u c a t i o spirituale con un semplice atto di immaginazione
o di conoscenza viene qui accettata per divenire immediatamente
operante in un senso in apparenza positivo. L'Eridano potr dunque
d'ora in poi essere ovunque sar immaginato e invocato ma in modo tale
che chi manger i suoi pesci sar come se non mangiasse, chi berr le sue
acque sar come se non avesse nulla di reale da bere. Di pi: chi l'avr
"nel cervello" (si ricordi che l'Eridano era stato definito dal Bruno
nell'Epistola esplicatoria non solo
26

"Fiume de le superfluitadi" ma come pura fantasia)' sar come se


l'avesse vuoto, chi avr con s i frutti del suo incorporarsi con lui
(l'unione nel corpo mistico del Cristo, la communio
sanctorum) sar non meno solo di colui che fuori di se stesso.
Costoro non sottrarranno nulla agli altri, n cibo n bevanda n
pensieri (si ricordi quanto si appena accennato, che non in causa un
atto di conoscenza e che il parteciparsi del corpo del Cristo per
Calvino tanto incomprensibile quanto inesprimibile) e, occorre
aggiungere, non sottrarranno compagni agli altri. Quale fonte
perenne, inesauribile che scende dall'alto e che si configura come
la possibilit dell'unione dei credenti nel corpo mistico del Cristo,
unione che comunica attraverso la sua carne la vita, l'Eridano potr
restare in cielo nel modo che si detto, "per credito ed
immaginazione" ma come tale potr coesistere, quale corpo mistico,
per la sua stessa natura immaginaria con qualche altra cosa di cui, ci
viene detto, si decider in seguito. Noi sappiamo dalla Cabala
del cavallo pegaseo (1584) che questo qualcos'altro
l'asinit in concreto e quella che si profila dunque ai nostri occhi la
comunione degli asini "in concreto" attraverso la loro ascesa
celeste 10. Questi asini che salgono in cielo nell'illusione di un cibo
spirituale che darebbe l'eternit ma di fatto puramente chimerico
richiamano in modo irresistibile alla mente quella discesa della carne del
Cristo tra noi che coincideva in realt per Calvino con un nostro
elevarci a lui.
Due dei motivi che abbiamo appena ricordato, la solitudi

Ibidem, p. 568: Dove ancor rimane la fantasia del fiume


Eridano, s'ha da trovar qualche cosa nobile, di cui altre
volte parleremo. Ma cfr. Ibidem, p. 612: il Fiume de le
superfluitadi.
10
Ibidem, pp. 862-3: ... sappiate che nella sedia prossima
immediata e gionta al luogo dove era l'Orsa minore, e nel
quale sapete essere exaltata la Veritade, essendone tolta
via l'Orsa maggiore nella forma
ch'avete inteso, per providenza del prefato consiglio vi ha
succeduto l'Asinit in abstratto: e l dove ancora vedete
in fantasia il fiume Eridano, piace a gli medesimi che vi
si trove l'Asinit in concreto.
9

27

ne del credente ed il suo essere fuori di s, meritano di essere


sottolineati per gli sviluppi che avranno nel testo. L'essere soli,
senza compagni, non solo annulla come pura fantasia il proces so per
cui diventeremmo parte del Cristo nel momento in cui egli scende
in noi, ma rappresenta un'allusione 'a quell'essere "solo, senza
compagni" che definiva per Calvino gli attributi del Cristo come
sacerdote e quindi mediatore unico nel mo mento stesso in cui si
compie il suo sacpificio, attributi che erano stati usurpati dai
sacerdoti della Chiesa cattolica, a cominciare dal pontefice. In
secondo luogo, il costituirsi della Chiesa quale corpo il cui capo
il Cristo e le cui membra siamo noi, ormai vivificati ed
alimentati dalla sua carne, anzich sfociare nell'uguaglianza di tutti
i fedeli sul piano del sacerdozio universale termina in una
condizione illusoria in cui nessuno si affianca realmente a noi
mentre al contrario, dal momento che il nostro cervello resta vuoto
di ogni contenuto, l'essere ciascuno di noi tutt'uno con il Cristo
equivale semplicemente all'essere fuori di se stessi. Bruno, come
vedremo presto, compir il tentativo di estendere il preteso
carattere spirituale dei nuovi culti, illusorio ma come tale
suscettibile di essere messo in condizione di non nuocere, alle
cerimonie cattoliche, in particolare alla pi importante di esse, la
messa e sar un tentativo tanto pi difficile in quanto si trover di
fronte a quella che pretende di essere una manducatio non solo realis
ma orale, ma conviene per ora insistere sul significato di questo es sere fuori di se stesso del credente.
La condizione di chi fuori di s, di chi partecipa dun que,
possiamo dire legittimamente, di una sia pur "santa" paz zia,
introduce infatti all'elemento unificante di gran parte di questa
sezione dell'opera. La possibilit di piegare su un piano illusorio,
puramente fantastico le cerimonie ed i contenuti reli giosi che
vengono analizzati riposa infatti sul presupposto della "follia" del
cristianesimo nel suo complesso. Il fatto che il riferimento al
Moriae encomium erasmiano sia destinato a divenire di qui a poco
puntuale a proposito del sacerdozio cattolico e della messa, non fa
che sottolineare maggiormente che ci
28

troviamo di fronte in questi testi ad una accettazione voluta mente


letterale del significato della tanto controversa sezione conclusiva
dello scritto di Erasmo. La stultitia diviene dunque alla lettera
l'essenza del cristianesimo nel suo complesso e come tale
quest'ultimo deve venir considerato da chi si appresti ad una
sistemazione politica di esso che annulli i rischi e i pericoli sul
piano civile dei suoi culti. Ma a questo punto, per poter
procedere nel nostro discorso, occorrer rivolgersi alla seconda
figura sotto cui si occulta il Cristo visto insieme come preda
apparente degli uomini e loro cacciatore reale. Sar, diversa mente
dall'Eridano che salito in cielo senza lasciare la terra, una figura
che destinata a scendere in terra senza lasciare, in un modo tutto
suo, il cielo.
IV. Il mistero eucaristico, inteso come transubstanziazio ne
del pane e del vino nel corpo del Cristo, sembra presentarsi come
avvertiva Toland nelle sue scarne annotazioni marginali allo
Spaccio 11, nella figura della Lepre, simbolo tradizionale da secoli
del Redentore. La pagina a cui facciamo riferimento molto
importante anche perch alla Lepre intesa quale immagi ne del
timore della morte, punto di incrocio simbolico tra timore e
speranza, viene contrapposta la superiorit della concezione
filosofica del mondo, della contemplazione filosofica. Tale
contemplazione guarda alla dissoluzione del composto, di ogni
composto come ad uno dei momenti salienti attraverso cui si
esplica la legge stessa della realt, quel perenne divenire del tutto
voluto dal "fato della mutazione". Soltanto questa legge pu
quindi presentare le nozioni corrette di perfezione e giusti zia, che
possono valere nell'ambito umano solo come nostro consapevole
conformarci ad una natura a noi superiore e non errante.
Timore e speranza, dice il Bruno, sono in effetti tra loro
11 M. R. PAGNONI STURLESE, Postille autografe di John Toland allo
"Spaccio" del Bruno, in Giornale critico della filosofia
italiana, LXV (1986), pp. 27-41.

29

contrari e tuttavia in qualche misura non solo concorrono tra


loro ma possono essere considerati alla stregua di virt se sono
generati dalla "Considerazione e servono a la Prudenza". Ma il
vano timore e la vana speranza scenderanno al contrario in terra
insieme con la nostra Lepre "a caggionare il vero inferno ed Orco
de le pene a gli animi stupidi ed ignoranti". Il cieco spavento
della morte, secondo la visione filosofica ed intrinsecamente
aristocratica del Bruno, non trover luogo a tal punto nascosto,
"tanto occolto" da non aprirgli il varco e lasciarlo passare, a
causa dei "falsi pensieri" originati dalla "stolta Fede ed orba
Credulitade". Solo l dove si consapevoli della neces sit
dell'eterna sostanza, secondo la legge della realt di cui si diceva,
questo timore rester lontano mentre se si persa que sta
consapevolezza la connessione tra timore e speranza si configurer in
termini arbitrari, che non potranno non dar luogo a quei concetti
inconsistenti di perfezione e giustizia, di "perfetta giustizia"
contro cui si trova a combattere il Bruno 12.
Ora, se tale timore destituito di fondamento, facile
arguire che il riscatto da esso rischia in queste condizioni di
passare attraverso una speranza che sia altrettanto vana e fan tastica. Tuttavia proprio a questo punto, nel momento stesso in
cui si prende consapevolezza di questo elemento, che dato di
osservare uno scarto apparente all'interno del discorso bru niano,
scarto apparente ma nondimeno destinato a render conto
di tutta una nuova serie di fattori, decisivi, che si inseriscono in
esso.

Inutile sottolineare l'ispirazione lucreziana di questa


pagina. Il rap
porto tra s p e s e t i m o r naturalmente un luogo obbligato
della riflessione teologica (se ne veda la trattazione che
ne d Tommaso, Summa
Theologiae IIa Ilae, Quaest. XVII e XIX). Bruno collega il
timore infondato ad una vana speranza e li colloca su un piano
mondano conside
randoli radice di concetti errati di perfezione e giustizia.
"Perfetta giustizia"
espressione
ricorrente
nella
Institutio, ma essa indica da un lato la giustizia
procurataci dal Cristo, dall'altro rinvia ad una perfezione
non raggiungibile su questa terra.
12

30

Con la Lepre, in effetti, la ricerca della divinit e dell'u nione con essa si presenta attraverso la metafora - fondamentale per
Bruno - della caccia ma quel vano timore e quella vana speranza
di cui si parlava sembrano dar luogo ad un risultato almeno in
apparenza opposto a quello sin qui prospettato e che veniva
definito come l'Orco stesso delle pene e l'inferno in terra. In
effetti la Lepre - che, particolare questo di importanza essenziale,
non perde scendendo in terra la sua prerogativa di animale celeste in grado per la qualit squisita delle sue carni di dare la
"grazia" a coloro che se ne cibano, a quanti mangiando la sua
carne e bevendo il suo sangue, si trasformano in essa. Si noti che
Bruno sottolinea il carattere reale, materiale e non metaforico di
questa manducatio rilevando come divenga "beato il ventre e
stomaco che ne cape e digerisce e si converte in essa".
Ora, il testo solleva immediatamente due problemi che si
ricollegano allo scarto del discorso che abbiamo appena regi strato, due problemi in stretta relazione tra loro e che Momo,
fedele al suo ruolo di suggeritore non meno che ai tratti tradi zinali della sua figura, si accinge subito a prospettare al sovrano
degli dei, anche se essi sono destinati a trovare soluzione in
tempi diversi e secondo un ordine rovesciato rispetto a quello in
cui si presentano.
In primo luogo, se vero che la Lepre scendendo in terra
conserva le sue caratteristiche di animale celeste, anche vero che
proprio a causa di tale discesa va incontro ad un grosso
pericolo, al rischio cio che di essa si perda la "semenza" e
venga ad estinguersi. Dopo che Venere aveva manifestato la sua
preoccupazione per la sorte che attendeva la costellazione dei
Pesci, suoi padrini, che avevano dischiuso l'uovo della sua
misericordia, ora la volta di Diana, che si trova a dover temere la
scomparsa della Lepre e con essa la scomparsa di quella
connessione pur falsa e destituita di fondamento tra timore e
speranza che il nostro celeste animale alimenta. Se la Lepre, ora
che scende in terra, rischia di estinguersi come manducatio realis e
cio, qui, materiale, cibo che trasforma nel corpo del
31

Cristo dandoci la grazia, la radice di tutto questo va colta nel


fatto che non mai stata in causa, ad onta delle intenzioni, una
caccia reale bens una caccia che restava sempre, in cielo, sul
piano dell'illusorio e dell'immaginario. Ci troviamo quindi di
fronte ad un rischio a cui occorre porre rimedio e ad un errore
che stato compiuto e che verosimilmente si pone all'origine
del rischio che viene corso. Quanto al primo punto, il pericolo
che viene corso dalla Lepre, Momo promette di insegnare un
modo di mangiare le sue carni senza che vengano mangiate, di
bere il suo sangue senza che venga bevuto, senza anzi, ci viene
detto, "dente che la tocche, mano che la palpe, occhio che la
vegga e forse ancora luogo che la capisca" e riesca a contenerla.
Nel momento in cui la nostra Lepre sembra disporsi ad assu mere
i caratteri e le dimensioni di un ente immaginario, appare chiaro
che Bruno tenta di estendere al sacrificio dell'altare quei caratteri
fantastici che aveva cercato di attribuire, ripro mettendosene una
serie di vantaggi, alla cena calvinistica come ad ogni forma di
manducatio spirituale. Procedendo nella nostra analisi occorrer
dunque tener conto di questo processo di "spiritualizzazione" a cui
siamo destinati ad andare incontro e che certo non potr non avere
caratteristiche del tutto particolari ma nell'immediato, come ci
avverte il testo stesso ("di questo discuterete dopo") il problema
da tenere presente un altro, quello sollevato dall'errore che
stato commesso, relativo alla caccia, e la cui soluzione destinata
verosimilmente ad aprire la strada al nuovo, del tutto inedito
destino della Lepre.
In effetti, il pericolo di estinguersi a cui essa va incontro
sembra poter essere allusione solo a coloro che evidentemente ne
mettono in dubbio ormai il carattere di animale "salvifico"
qualora tale carattere venga riposto nella sua materialit ed per
questo che occorre riconsiderare i modi in cui essa stata
sottoposta alla caccia; anche facile prevedere ormai che sono essi
che si pongono all'origine dello scetticismo appena ricordato.
appunto indagando tali modi che noi non possiamo non imbatterci
in un errore fatale che stato compiuto da Giove, un errore di cui
Giove ha piena consapevolezza onde la sua volon
32

t ed il suo tentativo di porre rimedio ad esso almeno entro i


limiti del possibile.
Coloro che pongono in forse la sopravvivenza della nostra
Lepre scindono in effetti il momento della caccia e quello della
fruizione della preda di essa, meglio mettono in dubbio che tale
caccia abbia veramente luogo come evento reale. Se Bruno ha gi
ironizzato in queste pagine sulla "grazia" che dava tale celeste
nutrimento, qui ci troviamo di fronte a qualcosa di ben pi
importante: egli sta preparando la sua considerazione del
sacrificio e del sacerdozio cattolici sulla base degli elementi che sul
piano storico hanno condotto alla crisi ed alle critiche della
Riforma, elementi di cui non occorre dire che riceveranno una
interpretazione tutta particolare.
Dunque chi ha inseguito la Lepre da centinaia d'anni non
solo non l'ha mai colta nella sua sostanza, l'ha sempre presa in
"spirito" e mai "in verit" ma il coglierla poteva generare il
rischio se non il timore di perdere l'oggetto stesso della caccia, di
veder quindi svanire la sua pretesa sostanza, onde era pi
conveniente che ai latrati del cane gettato sulle sue orme si
accompagnassero delle risposte finte, illusorie se non ingannevoli.
Il mistero che la Lepre racchiudeva in s rischiava di
rivelarsi incomprensibile semplicemente perch privo di senso
ponendo potenzialmente in forse quella caccia illusoria, in cielo,
che continuava ad essere la premessa indispensabile per una
manducatio realis.
L'errore, anzi il duplice errore che stato commesso risale
in realt a Giove, e se si vuole al fato. Anzich porre alle
calcagna della Lepre un levriero, come si conveniva, stato
posto al suo inseguimento un cane inadatto alla caccia, un can
mastino - qui assurto al rango di teologo cos come accade
lungo tutto l'arco dell'Institutio, che `mastini' vengano chiamati
da Calvino i teologi suoi avversari - e questo particolare sem
bra illuminare alcuni punti del testo. Quel can mastino - ci
vien detto - asceso in cielo proprio grazie a Giove dopo che
aveva inseguito fruttuosamente la volpe tebana; ha quindi la
sciato qui in terra la volpe, per giunta tramutata in sasso e si
33

dedicato a questa caccia, come si visto, per lui inadatta. Si


tratta di una ripresa, in un contesto del tutto mutato, del mito
della volpe che terrorizzava Tebe ed alla quale venivano offerti
sacrifici perch si placasse e risparmiasse altri bambini oltre
quelli cui dava la morte. Non forse inutile ripercorrere le
linee essenziali del mito ricorrendo alle parole di Karl Kernyi:
In quel tempo Tebe era tormentata dalla presenza di una volpe.
L'animale pericoloso aveva la sua tana sul monte Teumesso. E
poich l'animale correva cos velocemente che non poteva esser mai
raggiunto, predava in citt tutto ci che voleva. Ogni mese i Tebani
esponevano un fanciullo, perch la volpe risparmiasse gli altri.
Neanche Anfitrione avrebbe potuto ucciderla. Egli stava proprio allora
raccogliendo un esercito contro i Teleboani e si rivolse a Cefalo, l'Eroe attico,
la cui moglie Procri aveva portato con s, da Creta, il cane di Minosse, dono
di Zeus ad Europa. Come nessuno poteva raggiungere la volpe di
Teumesso, cos nessuno poteva sfuggire a questo cane. Esso insegu la
volpe nella pianura tebana e
Zeus trasform in pietra entrambi 13
L'errore compiuto da Giove si colloca dunque al momento
della caccia e non in quello della fruizione del suo obiettivo e
tuttavia i due momenti non potrebbero essere staccati tra di loro
senza rischio. La difesa che egli tenta del suo operato non tanto
rivendicazione della legittimit di ci che stato com piuto
quanto avvertimento che non possibile cancellare inte gralmente
l'errore commesso ma semmai intervenire su ci che l'ha prodotto
perch non si verifichi la conseguenza paventata, la scomparsa
della Lepre, e possa quindi aprirsi la strada a quella soluzione
ultima adombrata da Momo.
Dunque se la Lepre, ora che scende in terra, rischia di
estinguersi, come manducatio realis che trasforma nel corpo del
Cristo dandoci la grazia, la radice di ci va colta nel fatto che
non si mai trattato sinora di una caccia reale ma semplice
13 g KERNYI,

34

Gli eroi e gli dei della Grecia, Milano 1985, vol. II, p. 146.

mente di una caccia che veniva ritenuta tale. Occorrer quindi


ricostituire le condizioni perch essa, permanendo il suo carattere
immaginario venga creduta reale e di conseguenza venga ritenuta
tale anche la manducatio che ne deriva. Se ci che venuto meno
o rischia di venir meno la credenza nella realt dell'oggetto
della caccia, allora tale credenza potr essere rico stituita
modificando le condizioni della caccia stessa, in maniera che possa
essere ritenuto reale anche il risultato e l'effetto di essa. In
entrambi i casi non mai in questione la posizione filosofica
del Bruno ma l'esigenza di ristabilire una credenza che vacilla,
esigenza avanzata da parte di chi non ha mai dubi tato della sua
illusoriet. Preservare dunque questo animale celeste nella sua
esistenza terrena conservandogli un carattere fantomatico - senza
"dente che la tocche, mano che la palpe" ecc. secondo la
soluzione prospettata da Momo - anzich essere in antitesi si
presenta in realt in accordo profondo con la possibilit che di
esso si dia una caccia che venga ritenuta reale, cio adeguata, in
questo caso, al carattere immaginario del suo oggetto.
Il problema che dunque emerso quello del ristabili mento di un accordo tra i due momenti in cui l'illusoriet del
primo proceda di pari passo con l'Alusoriet del secondo in
maniera tale che entrambi e non uno solo possano apparire reali.
La Lepre, in altri termini, sar presa proprio quando avr perso
ogni connotato materiale, quando sar divenuta, per gli uni e per
gli altri, per chi la cacciava senza mai prenderla e per chi la
mangiava credendo che essa fosse stata presa realmente e quindi
illudendosi di nutrirsene, un ente dell'immaginazione, quando cio
avr cessato di avere una duplice natura materiale e spirituale.
D'ora in poi occorrer che sia creduto che "ap prenderla" gin
spirito coincida con il prenderla materialmente, nella sua realt,
occorrer cio ricostituire le premesse che conducano a scambiare
tale illusione per realt.
La complementariet che si spezzata quella tra la cac cia
ed il nutrimento che d la preda di essa onde ricostituirla
salvandone l'oggetto - assicurandolo ai nostri fini - presup

35

pone che se ne sia riconosciuta la natura e si proceda con mezzi


appropriati a tale consapevolezza. Ora, evidente che solo a
queste condizioni e cio come stultitia la caccia di cui si sta
parlando potra conservare il suo oggetto ed a questo punto
che Bruno salda in modo definitivo il tema della caccia con
quello della follia, della stultitia umana.
Si diceva in effetti che in quest'ultimo dialogo dell'opera
il concetto della follia del cristianesimo si sovrappone al motivo
della lex intesa come costrizione interiore per le anime dei
semplici ed chiamato ad assumere un ruolo centrale attraver
so la saldatura appena indicata. Tale follia destinata -ad apparire pi
forte, quasi dispiegata l dove si presenta quale sfida aperta alle
conclusioni della ragione ed allora quest'ultima potr apparire, a
seconda della prospettiva in cui viene considerata, come
ironicamente destituita di strumenti di comprensione che siano
all'altezza del mistero di cui si sta parlando ma potr viceversa
presentarsi anche quale metro corretto di giudizio per qualificare come
stultitia ci che pretende di basarsi su una cieca credenza e su una
riconosciuta incapacit di comprensione nel momento in cui si trova
di fronte un contenuto che non si presta ad atto alcuno di conoscenza.
Ma torniamo al testo bruniano. A Giove, un Giove che
assume -all'improvviso le vesti del Dio Padre dei cristiani senza che
questo ci trovi ormai del tutto impreparati, si chiede di fare
qualcosa che solo a Lui pu essere consentito; diciamo pure che gli si
chiede di fare ricorso all'onnipotenza della sua volont attraverso la
conversione dell'impossibile in possibile, sulla base di quanto egli ha
gi dimostrato di saper compiere in tal senso 14: fare di terra cielo, di
pietre pane e del pane qualcos'altro di assai trasparente. L'ironia
bruniana sull'onnipotenza di Giove tanto pi pesante in quanto solo
da poco che egli, mostrando di voler rimediare ad un suo errore, ha
indicato cos di essere sottoposto alla volont del fato. In ogni caso,
attraverso

14

Dialoghi, p. 811.

36

l'evocazione ironica della potentia absoluta di Dio, vengono qui

richiamati alcuni dei simboli per eccellenza del Cristo, rianno


dando cos Antico e Nuovo Testamento, facendo strada alla
consapevolezza che tale simbolismo viene discusso proprio in
relazione ai modi con cui intendere l'eucarestia. La pietra da
cui sgorgata l'acqua che doveva dare il cibo spirituale agli
Ebrei figura saliente del Cristo nel Vecchio Testamento e
quindi si pu dire di essa che si trasformata nel pane di vita
disceso dal cielo a vivificare con il suo nutrimento le anime.
Dunque il contesto del discorso fa intendere che la richiesta
specifica che sta per essere avanzata da Momo a Giove desti
nata a cadere nell'ambito dell'Eucarestia per poi risalire da
esso, possiamo ormai anticipare, al significato del sacerdozio
secondo la Chiesa cattolica. D'altra parte, il carattere illusorio delle
trasformazioni operate da Giove, compendiato nelle parole "tu che
puoi fare sino a quel che non n pu esser fatto", colpisce
forse l'espressione tipica con cui si indicava l'incarnazione ed il
sacrificio del Cristo ma certamente serve a sottolineare il carattere
ironicamente iperbolico della richiesta particolare avanzata da Momo.
Apparentemente, 'in effetti, sussiste una sproporzione assoluta per il
lettore tra l'enfasi con cui quest'ultima viene presentata, chiamando
in causa addirittura l'onnipotenza divina, ed il contenuto concreto di
essa. In realt tale richiesta riveste un carattere iperbolico perch non
si tratta solo di far s che la caccia non venga pi considerata follia ed
assurga al rango di ci che onorevole ma si tratta di fare in modo che
attraverso un ulteriore, decisivo passaggio, destinato a sanzionarne il
grado di superiore follia, essa venga considerata quale virt religione
santit. Momo chiede dunque che la caccia, da "maestrale insania"
"regia pazzia" "imperial furore" - quale Bruno la definisce e mostra di
considerarla secondo sfumature diverse che la collocano tutte nella
rubrica della

15 Il Cristo costantemente indicato nella Scrittura


come "colui che stato fatto" vittima, sacrificio, peccato,
giustizia ecc.

37

stultitia ma non sembrano prive ciascuna di una determinazione sua


propria e di un rapporto con il risultato ultimo cui si tende assurga al livello di ci che nobile e virtuoso per poi ascendere,
attraverso questa mediazione indispensabile, ai gradi pi alti, anzi
supremi della virt religione e santit. Credo che tra le due serie
richiamate - insania, pazzia, furore; virt, religione, santit - sussista
un preciso parallelismo che possa essere chiarito attraverso il testo.
V. Riassumendo, il discorso sulla caccia si lega in modo
esplicito a quello sulla follia e questa si presenta come la svolta
essenziale per giungere al parallelo tra la caccia e il sacrificio,
tra il cacciare 1a preda ed il nutrirsi e convertirsi nelle carni di
essa. Ora, una caccia che appartenga al regno della stultitia sar
evidentemente dotata di una sua realt e si tratter di stabilire
quale sia 'il tipo di realt con cui si ha a che fare, mentre la
ragione non si trova a confrontarsi con altro mistero che quello che
le viene offerto dalla follia stessa.
L'impossibilit a cui qui si fa riferimento e che ironica mente la divinit chiamata a cancellare attraverso la sua on nipotenza si collega dunque al fatto che ci che indica una
condizione dell'uomo che fuori di s e che stravolge quindi la
corretta visione delle cose non sia riconosciuto come tale, con templa cio che 'la caccia, nella sua nuda essenza di uccisione di
animali selvatici venga dapprima intesa quale gloria reputazione
onore per poi assurgere illusoriamente come si diceva ai pi alti
livelli cui possa aspirare l'uomo.
In altri termini, sottrarre ,alla caccia l'attributo della follia
proposito, occorre appena ricordarlo, del tutto ironico ma esso
giustifica intanto alcuni sviluppi particolari del discorso. Da un
lato appare in tal modo pi chiaro perch non sia Diana stessa ma
Momo ad affacciare questa richiesta, tanto pi che appare
evidente che solo per questa via sembra di poter accedere al
desiderio della dea, accolto come legittimo, di far so pravvivere la
Lepre in terra. In secondo luogo, si prepara cos il carattere
'apertamente dichiarato della arbitrariet della deci

38
sione di Giove, il cui decreto giunge appunto come un ricono -

scimento gratuito, volto s a non mortificare il desiderio di una


dea ma possibile solo sulla base di una volont che si rifiuti di
riconoscere il dettato della ragione pur avendolo ben presente. Gi
il semplice atto di nobilitare la caccia appare infatti qual cosa di
arbitrario in quanto comporta un distacco, anzi un rovesciamento
speculare tra la realt effettiva delle cose, il dettato della ragione da
un lato e l'opinione generalmente accettata dall'altro. Il compito di
Giove si presenta dunque arduo gi in questa prima fase della
correzione del suo errore in quanto l'ordine secondo cui gli
uomini considerano i diversi modi di uccidere esseri viventi
appare del tutto opposto a quello che sarebbe giusto ed in questo
consiste precisamente la loro follia. Intanto, dice il Bruno, non si
vede perch debba essere tanto disprezzata la funzione del boia vedremo come tale riferimento non sia estrinseco ma funzionale al
fine primario del discorso - dal momento che tale funzione pu
assumere forme che sono utili alla vita civile quando coincidono
con atti che tendono all'esecuzione della giustizia. Anche in questo
caso non sembra possibile escludere un'eco erasmiana, e
precisamente dal Dulce bellum inexpertis 1b, eco che sembra
prolungarsi negli
16 Nel Dulce bellum inexpertis, Erasmo contrappone la
considerazione in cui tenuto il boia a quella riservata
ai reduci dalle guerre:
Reduci da queste battaglie, se ne tornano a casa a
raccontare le proprie glorie militari: e non c' caso che
vengano puniti come briganti, tradito
ri della patria, disertori del principe. Il boia vive fra
l'abominio generale, perch assoldato per mettere a
morte delinquenti e rei convinti,
secondo i dettami della legge. E chi abbandona genitori,
moglie, figli, e di propria volont si precipita in guerra,
non perch assoldato, ma
perch aspira a farsi assoldare per un'infame carneficina ebbene costui torna a casa fra il favore generale, come e pi
che se non se ne
fosse mai allontanato ERASMO DA ROTTERDAM, Adagia. Sei saggi
politici in forma di proverbi. A cura di S. Seidel
Menchi, Torino 1980, p.
249). Erasmo distingue naturalmente l'origine prima della
guerra, collegata all'uccisione ed al nutrirsi di animali, dal
suo introdursi ed imporsi

all'interno della societ cristiana e della stessa Chiesa,


onde finisce per essere accettata: "Primum igitur irrepsit
eruditio velut idonea res ad
39

accenni successivi, impliciti, alla proibizione pitagorica del mangiare


animali. Un atto, quest'ultimo, che aveva addirittura assunto un
ruolo di svolta nella storia dell'umanit per Erasmo, dal momento
che uccidere animali e nutrirsi delle loro carni aveva
rappresentato per lui il preludio all'uccisione dei propri simili e
quindi la causa prossima della guerra.
La funzione del boia pu dunque essere presentata come
superiore a quella del "beccaio, idest manigoldo d'animali domestici", che troppo spesso provvede al desiderio smodato e
superfluo della gola anzich al semplice bisogno del nutrimen to.
Soprattutto, non si vede per quale ragione debba essere istituita
una differenza di dignit cos forte tra chi macella semplici
animali domestici e chi si presenta invece come cacciatore di bestie
selvatiche, quasi che la natura dei primi e quella delle seconde
differiscano tra loro al punto da diversificare cacciatore e
macellaio e quindi gli atti rispettivi con cui essi ammazzano. La
richiesta di Momo non fa dunque che andare contro le
indicazioni della ragione per seguire l'opinione cor rente,
opinione che solo nella sua follia pu condurre a rico noscere
onore reputazione e gloria alla caccia ma questa, come si visto,
costituisce solo la premessa indispensabile perch la caccia stessa
possa essere elevata al pi alto livello religioso, quando saranno
ormai in causa le forme del sacrificio di una bestia di natura del
tutto particolare. Dalle condizioni che Bruno pone per il
raggiungimento del fine ultimo del suo discorso
deriva cos una conferma indiretta di quanto si affermava in
precedenza, che ci si trova di fronte cio al tentativo di ristabili
re su una base nuova credenze che vanno mantenute e sono
tuttavia assegnate al rango della semplice illusione.
Stando cos le cose, occorre che Gove, se vuole favorire
confutandos haereticos ... Proinde sub praetextu profligandi haereticos subrepsit
ambitiosa rixand libido ... Tandem huc processum est ut in mediam theologiam
totus sit receptus Aristoteles, et ita receptus, ut huius autoritas pene sanctior sit
quam Christi. (Id., ib., p. 249, Dulce

bellum inexpertis, 820-7).


40

Diana, decreti in modo gratuito, in contrasto con quanto stato

sin qui asserito in proposito, che "l'esser carnefice d'uomini sia


cosa infame", l'esser beccaio cio "manigoldo d'animali domestici"
sia cosa bassa e vile ma "l'esser boia di bestie salvatiche sia
onore, riputazion buona e gloria". per questo, mi sembra - ma si
tratta di un'interpretazione che va avanzata con estrema prudenza che Momo pu definire la decisione di Giove come decisione
degna del padre degli dei quando retrogrado, non stazionario o
diretto, senza dare per questo a tale giudizio un connotato
negativo: il linguaggio astronomico ed astrologico usato sembra
suggerire che Giove appare come colui che ritorna sui propri
passi perch si tratta in realt di cercare di ristabilire ci che
rischia di andare perduto.
Ma da dove veniva al Bruno tale condanna della caccia? Non
abbiamo certo la pretesa di esaurire un problema cos vasto ma
riteniamo che a questo punto due richiami siano divenuti
indispensabili. Nelle pagine dedicate dallo Spaccio alla esaltazione
della religione egizia e alla sua contrapposizione a quella cristiana,
Bruno insisteva in modo estremamente consapevole sul culto di
animali viventi che le era proprio 17, culto che veniva contrapposto
a quello di coloro che, presentatisi come sacerdoti del Dio vivente,
erano partiti dalla purezza irraggiun

17

Dialoghi, p. 795: Gli Egizii, come sanno i sapienti, da queste forme


naturali esteriori di bestie e piante vive ascendevano e (come mostrano gli lor
successi) penetravano alla divinit; ma loro da gli
abbiti magnifici esterni de gli lor idoli ... discendono poi ad adorar in sustanza per
dei quei che a pena hanno tanto spirito quanto le nostre bestie; perch finalmente la
loro adorazione si termina ad uomini mor
tali, dappoco, infami, stolti, vituperosi, fanatici, disonorati, infortunati,
inspirati da genii perversi, senza ingegno, senza facundia e senza virtude alcuna; i
quali vivi non valsero per s, e non possibile che morti
vagliano per s o per altro. Ma la contrapposizione tra culto di ci che vivo e
culto di ci che morto centrale nel confronto tra religione antica e
cristianesimo, ed uno dei motivi della giustificazione della idola
tria degli antichi, tesa com' a rovesciare la contrapposizione tra il dio
vivente e il culto di idoli morti.
41

gibile dei loro dei per giungere all'adorazione di uomini morti, di


uomini che erano peggio che bestie e si presentavano insie
me come semihomines e semiferae. Il rilievo colpiva il Cristo non
meno dei santi in un contesto che dava per scontato il
politeismo dei cristiani come corollario della loro idolatria. In
questo testo dello Spaccio ci si accinge ad un passo ulteriore, a
delineare cio il processo per cui dal culto di animali morti si
giunti al culto di uomini morti. Non minore importanza ha una
seconda osservazione. La condanna della caccia come manifestazione
di violenza e di crudelt fini a se stesse, come gusto
gratuito per il sangue ma anche come abitudine nobiliare e di
corte che rivendica per s il carattere di un assurdo privilegio
non rara in ambiente umanistico. Ad essa dava voce ad esempio
Thomas More in una pagina della sua Utopia, una
pagina che sembra ricollegarsi direttamente al Moriae encomium
erasmiano. Scrive il More:
A queste soddisfazioni cos sciocche, gli Utopiani aggiungono il
gioco dei dadi, la cui follia conoscono per fama, non per pratica, e
in aggiunta l'andare a caccia e l'uccellare. Infatti che piacere rac
chiude gettar dei dadi sul tavoliere? L'hai fatto tante volte che, se
anche ci fosse del piacere, a via di ripeterlo frequentemente, non ne
poteva sorgere saziet? E che dolcezza ci pu essere a sentir latrare e
ululare i cani? Non se n' piuttosto disturbati? O perch si ha pi senso
di piacere quando un cane insegue una lepre, che se un cane insegue un altro
cane? Evidentemente nei due casi la stessa cosa che si fa: si corre,
infatti, se ti diletta la corsa. Ma se ti tiene l la speranza di
un'uccisione, l'attesa di veder sbranare sotto i tuoi occhi, ti dovrebbe
piuttosto muover piet guardare una lepricciuola fatta a pezzi da un
cane, un essere pi debole da uno pi forte, chi nella sua timidezza
fugge da chi inferocito, un povero innocente alfine da una bestia
crudele. Pertanto gli Utopiani lasciano ai beccai (alla cui arte attendono,
come si detto sopra, per mezzo di schiavi) tutto quest'esercizio del
cacciare, come cosa indegna di uomini liberi: sostengono infatti che la
caccia la parte pi bassa della macelleria, mentre gli altri rami di
questa son pi utili e meno spregevoli, come quelli che tornano di molto
maggior giovamento e ammazzano, s, gli animali, ma solo per necessit,
laddove invece il
42

cacciatore non cerca nell'uccisione e nello squartamento di un misero


animaletto che il piacere. Questa indegna voglia di contemplare
il sangue, anche nelle bestie stesse, sorge, a loro modo di vedere, da
disposizione a crudelt, o alla fin fine nella crudelt va a sfociare, con
l'uso continuo di un piacere cos selvaggio l'.

In margine alla pagina del More, il discorso veniva riferi to


esplicitamente ai nobili (At haec hodie ars est deorum aulicorum).
Si diceva del legame di questo testo di More con

'$ T. MORO, Utopia, a cura di T. Fiore. Prefazione di M. Isnardi


Parente, Bari 1980, p. 88. Cfr. The Complete Works of St. Thomas More,
vol. IV, Edited by E. Surtz, S. J. and J. H. Hexter, New Haven and London
1965, pp. 170-2: Ad has tam ineptas laetitias, aleatores (quorum insaniam
auditu, non usu cognovero) venatores praeterea, atque aucupes, adjungunt.
Nam quid habet, inquiunt, voluptatis, talos in alveurn proijcere, quod
toties fecisti, ut si quid voluptatis inesset, oriri tamen potuisset ex
frequenti usu audiendo latratu, atque ululatu canum? aut qui maior voluptatis
sensus est, cum leporem canis insequitur, quam quum canis canem? nempe
idem utrobique agitur, accurritur enim, si te cursus oblectet. At si te caedis
spes, laniatus expectatio sub oculis peragendi retinet, misericordiam potius
movere debet, spectare, lepusculum a cane, imbecillum a validiore, fugacem ac
timidum a feroce, innoxium denique a crudeli discerptum. Itaque Utopienses
totum hoc venandi exercitium, ut rem liberis indignam, in lanios (quam
artem per servos obire cos supra diximus) reiecerunt. Infimam enim eius partem
esse venationem statuunt, reliquas eius partes et utiliores et honestiores ut
quae et multo magis conferant, et animalia necessitatis dumtaxat gratia
perimant, quum venator ab miseri animalculi caede ac laniatu, nihil nisi
voluptatem petat, quam spectandae necis libidinem in ipsis etiam bestijs, aut ab
animi crudelis affectu censent exoriri, aut in crudelitatem denique, assiduo
tam efferae voluptatis usu defluere. Haec igitur et quicquid est eiusmodi
(sunt enim innumera) quamquam pro voluptatibus mortalium vulgus
habeat, illi tamen quum natura nihil insit suave, plane statuunt, cum vera
voluptate nihil habere commercij. Nam quod vulgo sensum iucunditate
perfundunt (quod voluptatis opus videtur) nihil de sententia decedunt.
Non enim ipsius rei natura, sed ipsorum perversa consuetudo in causa est.
Cuus vitio fit, ut amara pro
dulcibus amplectantur.

43

l'Elogio della follia ed in eff etti il passo dell'Encomium a cui


esso fa implicito riferimento viene ad avere un
interesse del
tutto particolare per noi poich rende comprensibile
lo sviluppo immediato, apparentemente svagato,
delle parole di Momo.
In altri termini, Erasmo non si limita a sancire
che la caccia rientra tra le forme di follia che
dominano il mondo umano
ma, ed questo che acquista un rilievo assoluto
ai fi ni del nostro discorso, sviluppa la sua
riflessione in forme tali da
consentire al Bruno il passaggio dalla assimilazione
'tra cristianesimo e caccia nel segno della comune
follia a quella tra la
caccia ed il sacrifi cio eucaristico inteso come la
suprema funzione sacerdotale, connessa 'in modo
essenziale al prodursi di
quel mistero nella prospettiva cattolica. Ancora una
volta, anzi
in modo pi chiaro che mai ,in discussione -il
problema della reale mediazione tra umano e
divino ed in eff etti l'attacco al sacerdozio cattolico
finir per investire in primo luogo nel Bru
no il pontefi ce, colui che rivendica di 'essere il
successore di Cristo in terra. Scrive Erasmo,
collocando la caccia tra le forme di stultitia richiamate
per la loro irrazionalit nella prima, idea
le sezione dell'Elogio:
Appartengono alla confraternita anche coloro che
disprezzano tutto in confronto ad una partita di caccia,
e vanno dicendo di provare un incredibile piacere tutte
le volte che sentono il suono cupo del corno e l'abbiare dei
cani. Credo che anche gli escrementi dei cani, quando li
annusano, mandino per loro profumo di cinnamomo. E
quale dolcezza squartare la selvaggina. L'umile plebe
pu squartare tori e castrati, ma sarebbe un delitto
farlo con un capo di selvaggina: questa prerogativa
di nobili. A capo scoperto sta il nobile, piegati i
ginocchi, col coltello destinato allo scopo ( vietato

servirsi di uno strumento qualunque), con gesti rituali,


in pio raccoglimento, taglia determinate membra in un
determinato ordine. Una folla silenziosa lo circonda,
ammirata come assistesse a non so quale nuovo rito,
mentre si tratta di uno spettacolo visto e rivisto. Se poi
uno ha la fortuna di assaggiare un bocconcino della preda,
crede di avanzare non poco in nobilt. Cos costoro,
cacciando e cibandosi in continuazione di selvaggina,
mentre ottengono solamente di tra
44
sformarsi press'a poco in fiere, si illudono invece di
menar vita da
re 19
Fin qui Erasmo, e sar facile osservare che la
sua ironia si esercita sul fatto che la caccia
considerata privilegio di pochi, con l'esclusione di
tutti coloro che non siano nobili, e che d luogo,
una volta uccisa 'la selvaggina, ad una sorta di rito
minuzioso, rito che rispetta accuratamente le regole
di un preciso cerimoniale e che assume un
significato
assurdamente
quasi
religioso
nel
momento in cui il trattamento riservato alla preda
uccisa acquista il carattere di un sacrifi cio. Tale
signifi cato sottolineato non solo dal fatto che il
nobile procede inginocchiato e a capo scoperto
nella sua azione, ma dal fatto che

19 ERASMO DA ROTTERDAM, Elogio della follia, a cura di E.


Garin, Milano 1984, pp. 61-62. Cfr. Des. Erasmi Opera omnia,
Lugduni Batavorum 1703-6, t. IV, col. 441-2: Ad hunc ordinem
pertinent et isti, qui
prae venatu ferarum omnia contemnunt, atque
incredibilem animi voluptatem percipere se praedicant,
quoties foedum illum cornuum cantum audierint, quoties
canum ejulatus. Opinor etiam cum excrementa canum
odorantur, illis cinnamomum videri. Deinde quae
suavitas, quoties fera lanianda est? Tauros et vervices

humili plebi laniare licet, feram nisi a generoso secari


nefas. Is nudo capite, inflexis genibus, gladio ad id
destinato, neque enim quovis idem facere fas est,
certis gestibus, certa membra certo ordine religiose
secat. Miratur interim perinde ut in re nova, circumstans
tacita turba, tametsi spectaculum hoc plus millies viderit.
Porro cui contigerit e bellua nonnihil gustare, is vero
existimat sibi non parum nobilitatis accedere. Itaque cum
isti assidua ferarum insectatione atque esu, nihil aliud
assequantur nisi ut ipsi propemodum in feras
degenerent, tamen interea Regiam vitam agere se putant.
La Regia vita di Erasmo, che ha gi alimentato con
naturalezza l'ars deo
rum aulicorum di More, si appresta a divenire la regia
pazzia ru ia a.

Calvino (Institutio, IV,

18, 17,

CR Opera II, col.

1063) p
8

sacerdotium. Bruno, a Venezia, durante la prima fase del


processo, afferma: ho ... magnificato la dignit
sacerdotale in tanto che ebbi a G. Bruno,
preceder la regale (V. SPAMPANATO, Documenti della vita di
trovano Firenze 1933, p. 118, Docc. Veneti XIII) ma sono p
giustificazione diversa in alcuni testi, in particolare
l'Epistola dedicatoria
premessa ai tre poemi latini.

4
5

coloro che assistono a tale cerimonia la contemplano con la


meraviglia con cui si osserva un evento unico, che si produca per
la prima volta, quando in realt stanno a guardare ci che hanno
visto mille altre volte in infinite situazioni analoghe. Erasmo
aggiunge tuttavia qualcosa di pi, destinato anch'esso a pesare sul
testo bruniano. Coloro che giungono a nutrirsi delle carni della
selvaggina cacciata pensano di elevarsi ad una condizione superiore, ad
una Regia vita - si ricordi che la caccia, dopo essere stata definita dal
Bruno "maestrale insania", veniva subito dopo chiamata "regia
pazzia" - mentre accade in realt esattamente il contrario, che
quanto pi si cibano delle carni delle bestie uccise tanto pi
discendono ad una condizione ferina, si avvicinano sempre pi
anzich a quel vertice a cui essi aspirano alla condizione pi bassa,
quella della preda cacciata, uccisa, morta. legittimo sottolineare
qui che ci troviamo di fronte ad una trasformazione, una
metamorfosi non solo ideale del cacciatore nella sua preda, in una
accezione radicalmente negativa: mangiare la bestia significa
divenire bestia cos come appare possibile pensare che il
parallelismo tra lo sbocco finale di tale processo, l'illusoria "vita da
re" erasmiana, e la "regia pazzia" bruniana possa aprirci la strada
ad intendere il significato che ha per il Nolano quel grado
supremo -1`imperial furore" a cui destinata ad assurgere la caccia
nella sua prospettiva (Vedremo tra poco come su questa strada si
riveli indispensabile il ricorso ad un testo della Institutio
christianae religionis di Calvino).
L'insieme di elementi che abbiano ricordato fa dunque
pensare che con questo testo Erasmo non si sia limitato ad offrire
indirettamente al Bruno la possibilit di accomunare tra loro
cristianesimo e caccia nel segno della comune follia, ma,
soprattutto, abbia potuto fornire al nostro autore un suggeri mento
indispensabile per inserire in tale parallelo qualcosa di pi
profondo e significativo investendo, attraverso il sacrificio del
Cristo, la funzione sacerdotale quale veniva concepita dalla Chiesa
cattolica, a partire dal pi alto grado di essa, ed il significato
stesso del sacrificio della messa. Ma veniamo ormai
46

al testo bruniano. -Dinanzi alla decisione dGiove, una decisio ne


destinata ad accontentare Diana ma sultante da una richiesta
precisa di Momo, proprio quest'etimo ad intervenire in termini
che sembrano presentarsi a prna vista solo come una chiosa a
quanto stato decretato da padre degli dei ma che in realt non
fanno che approfondire ortandola alle estreme conseguenze
l'assurdit rispetto alla raone della scelta operata e spostano ormai
in modo esplicito :ale assurdit in un ambito religioso. La
meraviglia che Momo'sprime nei confronti dei sacerdoti di Diana e
degli atti che osi compiono quando immolano vittime alla divinit
- in que:o caso, come ci avverte il Pos illatore napoletano 20,
abbiamca che fare con i sacerdotes ve'eres, i sacerdoti dell'Antico
Cestamento -- la meraviglia cti chi, come sar confermato i
seguito, non coglie la ragione di ci che viene compiuto pera tali
atti appaiono destituiti di senso rispetto alla finalit pima che
essi si propongono, il culto appunto del divino.
Afferma Momo:
Mi maravigliavo io, quando vedevo questi xrdoti de Diana, dopo aver
ucciso un daino, un capriolo, un cervic un porco cinghiale o qualch'altro di
questa specie, inginocchiars in terra, snudarsi il capo, alzar verso gli
astri le palme; e poi o la scimitarra propria troncargli la testa, appresso
cavargli il cuor prima che toccar gli altri membri; e cossi
successivamente con ui culto divino adoprando il picciolo coltello,
procedere di mano i mano a gli altri cere
moni 21
s

I parallelismi con il testo di Eraslo appaiono gi qui chiari


ed evidenti ma ci che veniva aggitito nel testo dell'Elo gio e
collocato su un identico piano [spetto agli elementi ricordati da
Momo, e cio il carattere di privilegio del "rito" e l'aspetto del
nutrirsi delle carni della ?reda cacciata, viene
20

Dialoghi, cit., p. 812, n. 2.


Ibidem, p. 812.

21

47

ormai evocato dal Bruno nelle righe immediatamente successive a


quelle appena citate in modo tale che si disponga a render
conto delle tappe di un processo storico che ha il suo punto di
arrivo nel sacrificio della "bestia" che qui si ha di mira e nella
offerta di essa che il sacerdote fa attraverso il sacramento del l'altare. Rispetto al testo di Erasmo non pu essVme casuale il
duplice, brusco passaggio che qui ha luogo dal passato al pre sente e dal plurale al singolare. Brusco passag; -~io che certo indica
che abbiamo a che fare con un problema che si reso forse pi
acuto nel tempo ma che ha potuto trovare le sue radici proprio in
quella mancanza di senso che definiva gli atti dei sacerdoti antichi
di cui si parlava, tant' vero- che a tali atti che ci si richiama
per legittimare il pur assu - do processo avvenuto. Ma ormai sulla
scena del dialogo bru nano sembra essere apparso, prima ancora
che il sacerdote cattolico, il sommo sacerdote, il pontefice. Sulla
base del "culto divino" operato dai sacerdoti di Diana doveva
infatti apparire chiaro
con quanta religione e pie circonstanze sa far la bestia lui solo che non
admette compagno a questo affare, ma lascia gli altri con certa riverenza e
finta meraviglia star in circa a rimirare. E mentre lui tra gli altri l'unico
manigoldo, si stima essere a punto quel sommo sacerdote a cui solo era
lecito di portare il Semammeforasso, e
ponere il pi entro il Santasantoro ZZ
.

La meraviglia di Momo appare dunque ben diversa da quella


admiration che Calvino esprimeva dinanzi all'incomprensibile
comunicarsi del corpo del Cristo cos come appare ben diversa
dalla meraviglia di coloro che qui assistono al rito officiato senza
potervi prendere parte. Ma affrontiamo ormai i problemi che il
testo ci sottopone chiedendoci chi che "sa fare la bestia", cosa
significa "saperla fare" e quale la bestia in discussione, partiamo
anzi dal chiarimento del secondo punto anche se tutti e tre sono
intrecciati in modo indissolubile.
21 Ibidem, p. 812.

Nella sua Teologia, proprio in polemica con Calvino ma


tirando in realt le fila di una discussione ormai secolare, Cam
panella entrava nel merito del significato di "facere" all'interno
dei testi sacri, significato considerato come decisivo per l'in
terpretazione del fatidico "fate questo in memoria di me".
Campanella discuteva della possibilit o meno che il lacere in
questo caso specifico potesse assumere il significato di "sacrificare",
legittimando quindi la funzione sacerdotale rivendicata
dai cattolici in relazione al sacrificio della messa. Scriveva dunque
nella Theologia:
Dopo avere infatti sacrificato durante la cena l'agnello legale, egli pass al
sacrificio della Pasqua novella, come attestano i Padri e il fatto medesimo, e
cos in un unico sacrificio restarono risolte le molte variet di vittime
dell'antico rito. L'ostia passa nell'ostia, il
sangue viene abolito dal sangue e la festa legale trova il suo com pimento
nell'istante stesso in cui viene mutata, dice S. Leone Papa.

Non diversamente parlano S. Cipriano, S. Girolamo, il Crisostomo, Enrico,


S. Gregorio Nisseno e quasi tutti i Padri. E in quella cena Ges insegn
quale ostia si deve offrire a Dio e ordin i sacerdoti destinati ad offrirla,
quando disse: fate questo in mia memoria, dove il termine questo indica
tutto quello che egli fece nella consacrazione del pane e del vino, e il
termine fate equivale a consacrate o fate la cosa sacra, cio sacrificate. Non
solo infatti Virgilio, come Calvino ci rinfaccia, prende il termine fare per
sacrificare, ma quasi tutta la Scrittura. Infatti in Levit. 15 si dice:
prender due
tortore e le dar al sacerdote il quale ne far una per il peccato e l'altra
per l'olocausto. Similmente Luc. II: lo condussero a Gerusa lemme per
presentarlo al Signore e per fare per lui secondo la consuetudine legale.
Anche Elia nel III dei Re disse ai sacerdoti di Baal: fate voi pei primi, cio
sacrificate voi pei primi. Cristo poi aggiunge in mia memoria non perch
l'eucarestia sia soltanto una memoria, ma perch un sacrificio
destinato a ricordare la passione del suo corpo che (dice) vien dato per
voi, e del suo sangue che vien versato per voi, come i sacrifici dell'antica

legge prefiguravano questo. Per il fatto poi che un sacrificio sia


insieme memoria o figura di un altro sacrificio, non cessa di essere
sacrificio; altrimenti neppure nel Vecchio Testamento ci sarebbe stato
alcun sacrificio.

48

49

Cos intendono la cosa S. Clemente, il Crisostomo, S. Cipriano, S.


Ireneo, S. Marziale, S. Giustino, Eusebio e quasi tutti i Dottori; e
in ogni caso non repugnano a questa interpretazione. E giustamente nota
il Gaetano che avendo detto: questo il mio corpo che vien
dato per voi, cio immolato in croce, e: questo il mio sangue che vien
versato per voi, quando aggiunge: fate questo intende fate
l'immolazione. Dice infatti: il corpo che vien dato per voi, cio viene
immolato non solo nella memoria, ma nella frazione sacrifica
le e immolativa, come dimostra l'espressione presa nel suo senso
proprio, espressione che gli Apostoli hanno sempre interpretato cos
anche nella prassi liturgica. Perci S. Andrea al tiranno che gli
comandava di sacrificare agli dei rispose: io sacrifico sull'altare ogni
giorno l'agnello immacolato n.

23 T. CAMPANELLA, I sacri segni. Inediti Theologicorum liber XXIV De


Sacramentis III De sacramento Eucharistiae. Parte seconda. Testo critico e trad.

a cura di R. Amerio, Roma 1966, pp. 100-2: Cum enim sacrificassset agnum
legalem in coena, transivit ad novi Paschatis sacrificium, ut omnes testantur
Patres et factum, ut sic uno adimpleretur sacrificio variarum differentia
victimarum. Hostia in hostiam transit, sanguine sanguis aufertur, et legalis
festivitas, dum mutatur, impletur, ait Leo Papa. Similiter Cyprianus, Hieronymus,
Chrysostomus, Henrichus, Gregorius Nyssenus et omnes fere Patres. Et tunc
docuit qualis Deo deberet hostia offerri, et sacerdotes ad hoc ordinavit
dicens: hoc facite in meam commemorationem, ubi ly hoc demonstrat totum, quod
ipse fecit in consecratione panis et vini, et ly facite idem est quod consecrate sive
facite sacrum, idest sacrificate. Nec modo enim Virgilius, ut Calvinus improperat,
sumit ly lacere pro sacrificare, sed tota fere Scriptura. Dicitur enim Levit. 15:
sumet duos turtures, dabitque sacerdoti, qui faciet unum pro peccato et alterum
pro holocausto. Item Luc. 2: duxerunt eum in Ierusalem, ut sisterent Domino, et
facerent secundum consuetudinem legis pro eo. Elias quoque X 3 Reg. dixit
sacerdotibus Baal: vos bovem facite primi, idest primi sacrificate. Addit autem
Christus in meam commemorationem, non quod sit sola memoria, sed sacrificium
rememorativum passionis corporis eius, quod (ait) pro vobis datur, et sanguinis, qui
pro vobis funditur, sicuti sacrificia vetera erant eiusdem praefgurativa. Non

enim tollitur, quin sit sacrificium ex hoc, quod simul est memoria aut figura
alterius sacrificii; alioquin nec Veteris Testamenti ulla extitissent sacrificia ... Et
bene Caietanus adnotat quod dicendo: hoc est corpus meum quod pro vobis
datur, idest immolatur in
50

Il punto in discussione era dunque il fatto che per Calvi no il


non potesse alludere al ripetersi del sacrificio.
Campanella si muove nel suo testo secondo due
linee. Da un lato attesta la sua argomentazione
sull'uso biblico di facere, ed quindi agevole notare
come non si vada al di l sul piano linguistico
dell'uso del testo della Vulgata. Facere senza ulteriori
specificazioni, indicherebbe pi volte nell'antico
Testamento immolare, sacrificare animali alla
divinit. Dall'altro lato egli si appoggia sull'analisi
stessa del termine per cui esso indicherebbe in
questi casi facere sacrum, consacrare, coinciderebbe
quindi con il significato di sacrificare. La
convergenza delle due argomentazioni, che in effetti
si sovrappongono tra loro, legittima dunque l'uso
da parte del Bruno di "fare la bestia" nel senso
di "sacrificarla", con la conseguenza di una
immediata assimilazione del Cristo alle vittime
animali dell'Antico Testamento, immolate dai
"sacerdoti di Diana", in un senso ben diverso da
quello tradizionale. Non resta dunque che da attendere gli sviluppi particolari di questa assimilazione
le cui premesse negative sono gi state
anticipate nel testo. "Fare la bestia" indica
dunque "sacrificare la bestia", come accoglimento
di un invito che nel testo di Campanella, scelto a
titolo di esempio, coinciderebbe con l'invito del
Cristo stesso, identifica
facere

cruce, et sanguis qui pro vobis f unditur, addit: hoc facite, intelligitur:
immolationem facite: corpus etenim ait hoc, quod pro vobis datur, idest
immolatur, non solum recordatione, sed fractione sacrificali et immolati
va, ut formalis sermo convincit, sic ab Apostolis interpretatus et factita tus.
Unde S. Andreas dixit tyranno iubenti, ut diis sacrificaret: ego quotide
immaculatum agnum in altari sacrifico. L'argomentazione di

Campanella di fatto piuttosto diffusa in ambito cattolico. Cfr. ad es.


Melchioris Cani De Locis theologicis, XII, 12 in Opera, Patavii 1714, pp. 3889: Est enim sacrificium quasi sacrum factum, ut Gregorius ait.
Sacra vero Dei facere, haud dubie ad Dei cultum et reverentiam pertinet. Sacrificare
igitur propria est religionis actio, quae videlicet solius Dei honori dedicata est. ..
Scite ergo ac praeclare divus Thomas admo
nuit, in eo sitam esse rationem sacrificii, si circa rem Deo oblatam quicquam fieret,
quo res ipsa sacra quodammodo conficeretur.
51

to in tal modo con la "bestia" quale oggetto di un sacrificio a cui


viene portato un attacco di cui non sar difficile scorgere le
premesse in alcuni testi della Riforma. In particolare, Calvino
sottolineava a pi riprese nel corso della Institutio che la messa
costituiva di fatto una riabilitazione dei sacrifici dell'Antico
Testamento perch presentava qualcosa che non se ne distingueva per essenza, secondo quella che gli appariva come una
linea di persistente "giudaismo" propria in realt dell'intero
edificio concettuale della Chiesa di Roma e che sembra elemen to
da non sottovalutare, insieme certamente a molti altri, nel
considerare l'avversione del Bruno al popolo ebraico cos come il
modo in cui egli poteva vedere il rapporto tra Vecchio e Nuovo
Testamento '.
Ma torniamo al testo bruniano ed alle parole di Momo da
poco citate. Duque, anche in questo caso, come nella pagina di
Erasmo, abbiamo a che fare con chi - tenendo tutti gli altri
intorno a guardare, in modo simile a come gli astanti
osservavano agire il cacciatore erasmiano raccolti intorno a lui,
senza ammettere dunque che alcun altro operi at tivamente alla
cerimonia: "il est seul, et n'a besoin de compagnons" aveva detto
Calvino' parlando del Cristo come

24

Su un tema cos importante per la cultura


rinascimentale, cfr. Heiko A. Oberman, Wiirzeln des
Antisemitismus. Christenangst and
Judenplage im Zeitalter des Humanismus and
Reformation, Berlin 1981. Sul tema dell'idolatria, a cui si
ritorna costantemente in
queste pagine, cfr. ora CARLOS M. N. ERE, War Against the
Idols. The Reformation of Worship from Erasmus to
Calvin, Cambridge 1986. Si
veda anche l'analisi di G. ScAvizzr, Arte e architettura
sacra. Cronache e documenti sulla controversia tra
riformatori e cattolici (1500-1550),
Reggio Calabria 1981, che non giunge tuttavia a parlare delle
posizioni di Calvino. Il tema, al di l dei suoi rifl essi
sulle arti fi gurative e sul
culto, diviene da allora, com' noto, centrale per la
filosofia. In Calvino mostra la profondit dell'influenza

umanistica, tale da inserirsi nella


sua stessa trattazione della predestinazione.
25 I. Calvini Institutio, IV, 18, 2, CR Opera II, col.
1052: Chri
stus ergo, qui morte non impeditur, unus est et consortibus
non indi52

unico sacerdote e Bruno: "lui solo che non ammette compagno a


quest'affare" - abbiamo a che fare con chi riserva a se stesso il
privilegio di compiere religiosamente, imitando il ri tuale di chi
faceva sacrifici, l'offerta di una "bestia" ed anche troppo
semplice arguire ormai che ci troviamo di fronte all'of ferta del
Cristo, anzi del corpo del Cristo, la cui natura umana appunto
abbassata qui a quella animale cos come tra poco la sua natura
divina sar abbassata alla comune natura umana. Al di l dei
suggerimenti che ci sono venuti dal testo di Campa nella, se si
procede nel parallelismo con la pagina erasmiana quel "fare la
bestia", "saper fare la bestia" non pu che voler indicare un
sacrificio animale, sacrificio dunque di una bestia oggetto di
caccia e che destinata ad essere mangiata tramu tandoci in se
stessa ma ormai in modo altrettanto trasparen te siamo venuti a
parlare del sommo pontefice nel momento in cui compie il
sacrificio eucaristico.
In altri termini, se il testo investe inevitabilmente la fun zione sacerdotale nel suo complesso, mi sembra tuttavia che esso
non possa non essere letto come rivolto soprattutto contro il
privilegio rivendicato dal pontefice di essere il vicario ed il
successore del Cristo in terra. Baster elencare gli elementi che
sembrano determinanti per questa conclusione: gli attributi che
per Calvino (e per Lutero) appartenevano al Cristo ed al Cristo
solo, trasferiti ora al pontefice almeno per quanto riguarda la
funzione sacerdotale del Cristo stesso, scindendo quindi i due
ruoli in lui coincidenti di sacrificatore e di vitti ma, di sacerdos e
di sacri f icium; l'uso dell'espressione "sommo sacerdote" in un
contesto in cui questi eredita quello che veniva considerato il
privilegio esclusivo del sommo sacerdote degli antichi ebrei; il
brusco passaggio, gi segnalato, dal plurale al singolare per poi
passare di nuovo, successivamente, al plurale, quando sar in causa
l'ordinazione sacerdotale, che presuppone evidentemente il
privilegio che il pontefice rivendica per s di
get; CR Opera, IV, col. 1059: Iesus Christ donc, qui ne
peut estre empeschez par mort, est seul, et n'a besoin de
compagnons.
53

necessaria per quel


una investitura divina; la derivazione di questo
testo, come vedremo tra breve, dalla Lettera agli Ebrei.
Tutto questo rende comprensibile a mio avviso
come per tanto tempo in terra di Riforma, a partire
dalla celebre lettera dello Schopp vergata il giorno
stesso del rogo del Bruno, si sia potuto vedere nel
titolo dell'opera del Nolano un riferimento
esplicito alla fi gura del papa, mediato attraverso il
collegamento istituito in area protestante tra
questi e la Bestia dell'Apocalisse'. Qui, appena
necessario
sottolinearlo,
stiamo
assistendo
al
precisarsi di un significato specifico diverso del
termine "bestia" attraverso l'identificazione del
Cristo con la vittima del sacrificio ma proprio
questo significato che destinato ad aprire le porte
al concetto dell"`imbestialirsi" del sacerdote in
genere e questo pu aver favorito l'associazione di
cui si diceva oltre che mostrare come sempre la
capacit del Bruno di volgere a nuovi significati
elementi triti della controversia e della polemica
religiose.
dunque difficile escludere che l'obiettivo
primo
della
polemica
bruniana
sia
qui
rappresentato dal papa ed una con ferma in questa
direzione sembra venire da un testo di Lutero del
1520, un testo tratto da Del papato romano, in cui in
discussione la Lettera agli Ebrei:
Abbiamo dunque dimostrato con detti del Nuovo
Testamento che Cristo sommo sacerdote. Oltre a ci
Paolo IX,6 pone uno di fronte all'altro Cristo ed
Aronne e dice: Nel primo tabernacolo i preti entravano
ogni giorno per porgere le offerte, ma nell'altro
tabernacolo il sommo sacerdote entrava una sola volta
all'anno, non senza sangue, che egli offriva per i
peccati suoi e del suo popolo; con ci lo Spirito Santo
significava che non era ancora manifesta la via al vero
e santo tabernacolo fino a che il tabernacolo stesso lo
vietava, il che era una figura o immagine ancora

26 V. SPAMPANATO, Documenti della vita di Giordano


Bruno, cit., p. 200 (lettera di G. Schopp a
Rittershausen, 17 febbraio 1 6 0 0 ) : Postea
Londinum profectus, libellum istic edit de Bestia
triumphante, h.e. de Papa, quem vestri honoris causa
bestiam appellare solent.

54

tempo. Ma Cristo venuto, sommo sacerdote di futuri beni spirituali, ed


entrato una volta sola in un tabernacolo assai pi
vasto ed alto, non fabbricato con le mani, vale a dire
non in un edificio materiale, e senza sangue di becco o di
bue, ma col suo proprio sangue, ed ha acquistato con
ci una redenzione eterna. Che dici ora o sapientone
d'un romanista? Paolo dice che nel sommo sacerdote
raffigurato Cristo, tu affermi invece che San Pietro;
Paolo dice che Cristo non entr in un edificio
materiale, tu affermi che egli risiede nella sede
temporale di Roma; Paolo dice che egli vi entr una volta
sola, conquistando la redenzione eterna, e rende
quindi del tutto spirituale e celeste quell'immagine
che tu vuoi
invece mondana e terrena'.
La pagina di Lutero offre evidentemente tutta
un'altra serie di suggerimenti di estrema importanza
ma credo che sia necessario, proprio per utilizzarli
correttamente, tornare di nuovo al nostro autore.
VI. Dunque il sommo sacerdote, colui che
rivendica esclusivamente per s il privilegio di saper
compiere il sacrificio, facendosi forte di qualcosa che
risalirebbe all'antichit, in realt tra tutti l'unico
"manigoldo", l'unico boia e carnefi ce ma pretende di
essere il solo che, vestito con le vesti del sommo
pontefice dell'Antico Patto; possa come lui mettere il
piede entro il Sancta sanctorum del tempio, nel punto
cio pi sacro di esso, l dove soltanto si entrava in
contatto con la divinit dopo aver off erto ad essa d
sangue delle vittime, secondo un diritto che era
appunto riconosciuto esclusivamente al sommo
sacerdote degli Ebrei ed una volta sola l'anno. Il
preteso sacerdote di fronte a cui ci troviamo anzich
essere dunque l'unico
n M. LUTERO, Scritti politici, trad. di G. Panzieri Saija,
introd. e bibl. di L. Firpo, Torino, 19 68 , p. 94. Le parole di

Lutero presuppon
gono che i suoi avversari facciano "del sommo sacerdote del
Vecchio Testamento un'immagine del papa" (ivi, p. 91). Il
passo era dunque
divenuto decisivo per stabilire se il papa fosse o no il
successore e vicario del Cristo in quanto successore
dell'antico Sommo pontefice. Il
romanista sapientone naturalmente il francescano
Ag
ost
ino
Alv
eld
.
55

ed autentico mediatore tra l'uomo e Dio, in realt boia di


una bestia, sia pure di una bestia del tutto particolare.
Anche qui, come accade spesso nei momenti in cui Bruno
sembra sviluppare in modo gratuito e svagato le sue posizioni pi
empie ed anticristiane (parlare in questo momento di ete rodossia
o di libertinismo sarebbe solo un debole eufemismo), il tessuto
fitto del discorso non fa altro che ripensare in forma originale
suggestioni che gli venivano dal dibattito teologico contemporaneo
per piegarle in una direzione filosofica. Certo il sacerdote visto
come boia e carnefice del Cristo richiama in modo inequivocabile
quanto aveva detto Calvino nell'Institutio ma il testo a cui sembra
ora indispensabile fare riferimento, raccogliendo il suggerimento
del passo di Lutero appena citato, appare la Lettera agli
Ebrei, sulla cui autenticit, d'altra parte, come noto, anche gin
questi anni ampia e vivace la discussione'. Sia Lutero che Calvino
fecero leva sul testo dell'Epi stola tanto per contestare il
primato rivendicato dal Pontefice romano quanto per attaccare con
il sacerdozio cattolico il senso stesso della messa quale sacrificio,
la cerimonia che per la sua centralit appariva agli occhi di Calvino
abominevole per eccellenza tra tutte quelle che si erano annidate
col procedere del tempo nel cuore stesso della Chiesa, dal
momento che ribaltava specularmente il significato stesso del
sacrificio del Cristo trasformandolo da offerta gratuita fatta dalla
divinit all'uomo in
28
Sul problema cfr. O. CuLLMANN, Il Nuovo Testamento, Bologna
1969, pp. 105-8 che ricorda l'attribuzione della Lettera ad
Apollo d'Alessandria da parte di Lutero, ma anche il solo testo
da noi citato
documenta le sue oscillazioni. Calvino nel corso dell'Institutio
non attribuisce mai a Paolo la Lettera ma parla sempre
dell'Apostolo che ne l'autore. Cfr. anche j. CALVIN, Institution de

la religion chrestienne.
Texte tabli et prsent par Jacques Pannier, II, Paris 1961 2, pp. 156 e

390 (si tratta del testo francese del 1541). Sull'autorit


canonica della Lettera e di altri scritti del Nuovo e Vecchio
Testamento, cfr. M. CANO,
De locis theologicis, 1. II De auctoritate S. Scripturae, in Opera, cit., pp. 3-82,
che analizza, oltre all'opinione di Lutero, quelle di
Erasmo e del Caietano.

56

sacrificio meritorio offerto dagli uomini a Dio. Tanto per Lutero


che per Calvino si trattava di restituire al Cristo ci che gli era
stato indebitamente sottratto sul piano di una successione
sacerdotale che non trovava corrispondenza nella Scrittura. Su
questa strada, l'interpretazione corretta della Lettera agli
Ebrei, certo accanto ad altri testi, offriva un supporto
indispensabile.
Tutti i sacrifici di animali - affermava il testo dell'Epistola
- una volta compiutosi quello del Cristo non hanno pi valore,
sono stati abrogati. In particolare, nel Vecchio Testa mento era il
sommo sacerdote che, una volta l'anno, da solo, penetrava nella
parte pi recondita del tempio, il Sancta Sanctorum,
per offrirvi il sangue delle vittime, degli animali sacrificati. Lui
solo, una volta all'anno, veniva a contatto con Dio, prefigurando
cos quello che sarebbe stato il sacrificio del Cri sto. Ma questi ha
ormai realizzato una volta per sempre l'aspirazione che era alla
radice di tali sacrifici di espiazione, quella di impetrare il perdono
di Dio per i peccati degli uomini. Una aspirazione che risultava in
concreto irraggiungibile per tale via, come testimoniava il fatto
che tali sacrifici dovevano essere continuamente ripetuti, mentre
lo stesso succedersi nel tempo di pi sacerdoti dovuto alla loro
natura mortale rinviava ad una -identica situazione. Al contrario il
Cristo, offrendosi come vittima al Padre, rendendo operante con la
sua morte il nuovo Patto, ha lavato una volta per sempre i
peccati degli uomini, ha ottenuto quella remissione di essi che
sola poteva essere operata dalla sua duplice natura.
Come sommo sacerdote di un ordine diverso, gi adom brato nel Vecchio Testamento attraverso la figura di Melchise dec,
egli non deve pi sollevare la tenda di un tempio fatto dalle
mani degli uomini, ma ormai asceso attraverso la tenda dei cieli
a quel tempio ultraterreno donde continua, assiso nella sua gloria,
ad intercedere per noi presso il Padre. Si costituisce cos, seduto
alla destra del Padre, quale sacerdos in aeternum in
tale tempio celeste. Il sacrificio del Cristo dunque valso una
volta per tutte, ha realizzato con la remissione dei peccati il fine
a cui miravano quelli antichi, rendendoli inutili; dopo di
57

allora continua a sussistere nella sua validit esclusivamente quello


che gi i Salmi chiamavano "sacrificio di lode", in altri termini le
parole di elogio e di esaltazione pronunciate dalle labbra
dell'uomo nei confronti della divinit.
Negazione del valore della messa, restituzione al Cristo della
sua funzione insostituibile di sacerdote coincidente con quella di
mediatore, revisione radicale del significato del sacerdozio tra gli
uomini erano i punti salienti che trovavano qui, oltre che in altri
testi della Scrittura, un supporto decisivo per Lutero e per
Calvino. In particolare per quest'ultimo l'abominio della messa, la
macchinazione suprema di Satana contro la Chiesa che cancellava il
messaggio e la promessa del Cristo agli occhi degli uomini, si
compendiavano in alcuni punti essenziali, attraverso i quali
possibile restituire un senso compiuto alla lettera e allo spirito
del testo brunivano, che pure va ben oltre Calvino mettendo in
discussione, mi sembra, la nozione di sacrificio alla sua origine.
Certo, nelle pagine dedicate dalla Institutio alla messa
papistica confluivano non solo il senso della riflessione generale del
Riformatore sui sacramenti ed in particolare la sua trattazione
della Cena eucaristica, con la centralit assegnata all`o perazione
segreta" dello Spirito Santo, ma come facile intuire si inserivano
anche motivi che avevano attraversato in profondit tutta l'opera
alimentandone alcuni nuclei vitali 29. Si gi accennato ad alcune
delle ragioni per Calvino della persistente idolatria dei cristiani; si
aggiunga, e credo che anche questo rilievo non sia privo di
interesse per il Bruno, proprio per la diversit della
interpretazione che egli doveva darne, che la corruzione
storicamente sviluppatasi a partire dalla Chiesa primitiva a causa
delle indebite sovrapposizioni e deformazioni del dettato della
parola divina aveva cancellato per il Riformato re ginevrino il
significato della libert cristiana, cio uno dei
Il La trattazione della messa in I. Calvini Institutio, IV, 18 (De Missa
papali, quo sacrilegio non modo profanata fuit coena Christi sed in nihilum redacta).

58

dati essenziali che si erano accompagnati all'avvento del Cristo,


sottoponendo l'uomo a quella tirannide delle coscienze che egli non
esita a chiamare ancora una volta opera diabolica, una tirannide

che le aveva vessate costantemente impigliandole in una rete


mortale di dubbi, incertezze e divieti che si erano posti all'origine
di sofferenze e timori senza senso. La polemica di Calvino contro
la messa, una volta delineati i caratteri della cena eucaristica, viene
cos a compendiarsi in cinque punti fondamentali, certo
indisgiungibili tra loro ma che conviene ai nostri fini ripercorrere
in modo distinto, sia pure in maniera estremamente sommaria,
chiedendo ad essi l'intelligenza degli sviluppi del discorso
bruniano e soprattutto dei passaggio che in esso si opera dal
pontefice al semplice sacerdote.
VII. 1) Il Cristo, designato dal Padre quale "sacerdote in
eterno", a differenza di tutti i sacerdoti che l'hanno preceduto non
pu essere impedito dalla morte nell'esercitare la sua fun zione; in
quanto non uomo mortale non ha bisogno di vicari ma solo e
non gli occorrono compagni. Coloro che oggi offrono
quotidianamente sacrifici necessitano di sacerdoti per le loro
oblazioni, sacerdoti che si collocano in tale funzione al posto del
Cristo quali suoi successori e vicari, disonorandolo, deponendolo
da quella destra dei Padre dove non pu stare senza fungere da
sacerdote in eterno per intercedere a nostro favore. 2) La messa
annulla la passione del Cristo ed alzare un altare equivale di fatto
ad abbattere la sua croce. Egli ha compiuto un sacrificio le cui
conseguenze e la cui efficacia durano in eterno, si tratta dunque di
qualcosa dii perfetto come indicato dalle parole stesse del
Cristo in punto di morte, consummatum est, parole che stanno
appunto a significare che egli ha adempiuto in modo perfetto alla
nostra salvezza. In caso contrario, non sussisterebbe ragione
alcuna per tenere in maggior conto il sacrificio del Cristo, sommo
sacerdote o pontefice, rispetto ,a quelli dei buoi o vitelli che
venivano immolati sotto la Legge e che dovevano costantemente
essere ripetuti, di contro al suo, valido una volta per sempre. La
messa, attraverso la
59

quale si compiono ogni giorno centomila sacrifici, non pu


dunque raggiungere altro risultato se non quello di annullare e
"seppellire" (ensevelyr) la passione del Cristo. Certo alcuni si
difendono affermando che non si tratta di molteplici sacrifici
distinti tra di loro ma di uno solo ripetuto ad ogni messa; altri
affermano che non ci si trova di fronte ad una ripetizione ma a
un atto di applicazione, per cui il sacrificio verrebbe ratifica to
mediante offerte. Ma la difesa dei primi appare piuttosto un
espediente verbale e quanto ai secondi il sacrificio del Signore
applicato solo quando si d a noi e noi lo riceviamo con fede
sincera 30. 3) La messa cancella dalla memoria degli uomini il ricordo
della vera ed unica morte di Ges. Ora solo la morte del
testatore pu dare valore al testamento e conferirgli irrevo cabile
validit ed in effetti con la sua morte che il Cristo conferma
e suggella il suo testamento. Chi introduce delle mo difiche in
esso, smentisce dunque e toglie valore alla sua morte e quindi la
messa, ogni messa, come un testamento interamente diverso,
in quanto promette una nuova remissione dei peccati e la
giustizia eterna. Scrive Calvino:
Torni dunque Ges Cristo, e confermi con una nuova
morte questo nuovo testamento, anzi confermi con
morti infinite gli infiniti testamenti delle messe ... Anzi
la messa non tende a far s che se fosse possibile
Ges Cristo venisse da capo ucciso e messo a morte? ...
In ogni messa Ges Cristo viene offerto in sacrificio;
questo
significa che in ogni momento, in mille luoghi,
crudelmente messo
a morte 31
30

Per il concetto di applicatio riferito al sacrificio della


messa cfr. sempre M. CANO, De locis theologicis, XII, 12 in Opera, cit.,
p. 402: Satis est enim ut vere et proprie sit sacrificium,
quod mors ita nunc ad
peccati remissionem applicetur, ac si nunc Christus ipse
moreretur .. . Sed quia sine effusione cruoris, quae in
praesentia cernatur oculis, applicatione vero cruoris jam
effusi fit oblatio, recte a patribus in
60

cruentum sacrificium nuncupatur.


31 G CALVINO, Istituzione della religione cristiana, a cura di G.
Tourn, II, Torino 1971, p. 1658. Cfr. Institutio, IV, 18, 5, CR Opera II
col. 1055: Veniat ergo rursum Christus, et altera morte
novum hoc

Gli avversari protestano a ragione, indubbiamente, quando


sostengono che impossibile compiere quanto viene addebitato
loro, mettere a morte il Cristo - vedremo tra breve il sottile
problema che si annida per Bruno dietro questa impossibilit - e
certo non lecito mettere in dubbio che la vita e la morte del
Cristo non siano in loro potere n dato di sospettare che questo
sia il loro proposito deliberato. Ma l'assurdit stessa della loro
dottrina che conduce, al di l di qualsiasi intenzione soggettiva, a
questo risultato poich il sacrificio come tale non pu mutare la
sua natura a seconda del loro arbitrio. Esso richiede sempre in
altri termini come essenziale al suo compimento uno
spargimento di sangue, non lecito cio parlare come fanno i
cattolici di sacrificio incruento senza incorrere in una
contraddizione in termini. 4) Se la messa rappresenta una nuova
redenzione e remissione dei peccati, essa sottrae agli uomini il
frutto stesso della morte del Cristo. Offrendo Ges al Padre nella
messa, essi sostengono, abbiamo la remissione dei peccati e siamo
resi partecipi della sua passione. In tal modo quest'ultima viene
ridotta da evento unico, irripetibile, a semplice esempio di
redenzione,dal quale sarebbe possibile imparare ad essere
redentori di noi stessi capovolgendone il senso. Non dunque
sufficiente affermare che Ges stato vittima unica ma occorre
anche aggiungere che stato un'offerta unica. 5) Infine, la Cena,
dono di Dio, viene eliminata dalla messa in quanto in
quest'ultima si finge al contrario che il sacrificio sia un tributo
offerto da noi a Dio che lo riceverebbe come un atto di
soddisfazione. La differenza tra Cena e messa viene cos ad essere
simmetrica a quella che corre tra il ricevere e il dare, tra il dono
che ci viene offerto e la pretesa umana di offrire. La Cena
doveva essere offerta e di
testamentum, vel potius infinitis mortibus innumera
61

missarum testamenta rata faciat ... Quid, quod eo dirette


spectat missa ut rursum, si fieri
possit, trucidetur Christus? ... Si Christus singulis missis
sacrificatur, eum singulis momentis mille in locis crudeliter
interfici oportet. La
traduz. italiana condotta sul testo francese del 1560.

60

61

stribuita nelle pubbliche assemblee per educarci alla comunione


mediante cui siamo tutti congiunti in unit insieme al Signore mentre il
sacrificio della messa distrugge la possibilit stessa di tale comunione.
Se si ritiene che occorrano sacerdoti per compiere sacrifici per il
popolo come se la cena fosse riservata a loro - ecco ritornare il
motivo del privilegio che l sacerdote rivendica per s in un contesto
che ricorda quello bruniano - ci vuol dire che essa non pi stata
data, distribuita alla comunit dei credenti. Quando un uomo mangia
da solo nella messa senza rendere gli altri partecipi del suo atto, non
sussiste
pi alcuna analogia con quanto ci stato comandato dal Signore: il
prete sacerdote nel trangugiare il suo sacrificio si isola dall'insieme del
popolo dei fedeli. Ci troviamo cos di fronte ad una beffa compiuta
nei confronti della divinit - il termine beffa, ricorrente in queste
pagine, allude alla sistematica usurpazione, su questo e su altri punti
del ministero sacerdotale, a cominciare dalla cerimonia
dell'ordinazione, delle prerogative del Cristo - assistiamo cio ad una
finzione in cui trova il suo compimento la corruzione del grande
mistero dell'eucarestia. Le parole "Ecco il mio corpo", conclude
-Calvino, non furono certo pronunciate perch un sacrilego mutasse
e tramutasse a suo piacere il pane nel corpo del Cristo per abusarne e di
fatto nella messa il pane viene mostrato ai fedeli e fatto oggetto di
adorazione con un atto di aperta idolatria. Anzi, l'idolatria del
cristianesimo cos come si sviluppata storicamente, secondo una
costante che non poteva pi essere scissa dalla natura umana una volta
che era stata corrotta dal peccato originale, trova qui il momento pi
profondo del suo accecamento. In particolare, nel prodursi di questo
processo sembrano sussistere per Calvino alcune responsabilit che al di
l delle loro intenzioni andrebbero addebitate agli "antichi". Essi
hanno cio favorito i modi che hanno condotto a fuorviare il ricordo
della Passione in una direzione diversa da quella che richiedeva
l'istituzione del Signore, vedendo nella loro Cena, egli afferma, "non so
quale spettacolo d'immolazione reiterata o per lo meno rinnovata". In
altri termini se vero che hanno
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avuto corretta intelligenza del mistero n hanno inteso allontanarsi

dall'autentico sacrificio di Ges, anche vero tuttavia che hanno


errato in qualche modo nelle regole esteriori, prestando troppa
attenzione alle "forme giudaiche", a quelle che Calvino chiama le
"ombre della Legge".
Il sacrificio della messa, visto che non pu essere compiuto senza
prete e sacerdote, si rivela cos una pura fantasticheria. Come
testimonia Agostino, il Cristo da solo appare come colui che offre s al
Padre per noi, colui che ha operato l'offerta ed stato nello stesso
tempo l'oggetto di essa, sacerdos appunto e sacri f icium
insieme. sempre Agostino ad affermare che se nell'Antico Patto si
sacrificavano al Padre animali, figura della carne che il Cristo
doveva offrire e del sangue che doveva versare, ora che il Figlio
suo fattosi uomo si offerto a Lui, dobbiamo operare sacrifici di
pane e di vino, azioni di grazia e di ricordo della carne e del
sangue, per cui sempre Agostino chiama la Cena "sacrificio di lode",
semplice ricordo di quello unico, autentico, vero compiuto dal
Cristo.
Certo, sussiste una somiglianza tra i sacrifici della legge mosaica
ed il sacramento dell'eucarestia: i primi hanno rappresentato l'efficacia
della morte di Ges quale ci viene oggi palesata nell'eucarestia. La
diversit sussiste nel modo della rappresentazione. Nell'Antico Patto i
preti raffiguravano il sacrificio che il Cristo doveva compiere, onde vi
era un altare per effettuarlo e la vittima animale sostituiva Ges: forma
visibile dell'offerta che egli avrebbe fatto di s, volta ad ottenere il
perdono dei peccati. Ges altera in modo radicale la realt di
questo insieme di rapporti, onde viene preparata per noi una forma
diversa: il Padre che ci presenta il frutto del sacrificio offerto dal
Figlio ed per questo che ci ha dato una tavola, una mensa su
cui possiamo mangiare e non un altare per offrire sacrifici. Si tratta di
una cena del Signore, non degli uomini. I sacerdoti del papa non
hanno dunque il potere di intercedere presso Dio mediante questa
offerta e di placare la sua ira annullando i nostri peccati poich Ges
il solo sacerdote del nuovo Patto cui sono stati trasferiti tutti i
sacrifici antichi.
63

Cos essi ardiscono definirsi sacerdoti del dio vivente per farsi in
realt boia - carnifices, bourreaux, murtriers - del Cristo:
Come ardiscono dunque questi sacrileghi dirsi sacerdoti del Dio vivente da
cui non hanno avuto riconoscimento del loro ufficio? Come osano
usurpare questo titolo per farsi boia del Cristo? ... Coloro che diciamo
essere ordinati da Ges Cristo quali dispensatori dell'Evangelo e dei
sacramenti, non sono ordinati per fungere
da macellai in quotidiani sacrifici`.
Egli salo il nostro pontefice essendo entrato nel santua rio
celeste ed colui che ce ne apre le porte, egli stesso l'altare
su cui deponiamo le nostre oblazioni, colui che ci ha fatto essere
re e sacerdoti del Suo regno. Nell'economia del Nuovo Patto a noi
resta quale solo sacrificio legittimo il sacrificio di lode, il culto
reso a Lui nel modo spirituale con cui esso si realizza, modo
spirituale contrapposto ai sacrifici carnali mosaici, dunque un
sacerdozio regale. Al contrario la messa, fonte di meraviglia e di
ammirazione, deposito in realt di ogni empiet sacrilegio ed
idolatria, ha reso gli uomini pi stupidi delle bestie.
VIII. La dipendenza del Bruno da Calvino sembra chiara e si
riveler indispensabile per comprendere gli sviluppi immediatamente successivi del suo discorso. Basti pensare per il
momento alla riduzione degli uomini a livello animale operata
dalla messa, alla condanna del privilegio sacerdotale, a quel "boia"
di "bestie salvatiche", "unico manigoldo" che acquista tutto il suo
significato in relazione ai carni f ices, bourreaux ap
32 G. CALVINO, Istituzione, cit., II, p. 1667; Institutio, IV, 18,
14, CR Opera II, col. 1061: Qua ergo fiducia sacrilegi isti, qui se iactant

Christi carnifices, audent se Dei viventis sacerdotes appellare?. Ma nel


testo francese, Opera IV, col. 1073: De quelle hardiesse donc
ses sacrileges icy se nomment-ils Sacrificateurs du Dieu vivant, duquel ls
n'ont nul adveu? Et comment osent-ils usurper tel tiltre pour estre
bourreaux de Christ? Ma ancora nel 1541 al posto di bourreaux usava
murtriers.

64

pena ricordati di Calvino. Si profila d'altra parte un nuovo, non


meno affascinante problema. Il sacrificio della messa per Calvino
qualcosa che ha una sua realt,pur tale da ridurlo alla pi
abominevole delle cerimonie religiose ma contemporaneamente, per
le stesse identiche ragioni che conducono alla sua condanna deve
essere posto sul piano di una pura fantasticheria alimentata dal
demonio. facilmente comprensibile che ci che qui in
discussione per il Bruno il carattere del prolungarsi del dominio
del Cristo, della "bestia" per eccellenza che tra sforma in bestie
gli altri uomini attraverso una mediazione illusoria con il divino.
Prima di affrontare direttamente questo problema, non sar inutile
tenerlo presente sin d'ora, nel momento in cui ci ,accingiamo a
interrogarci sui modi in cui Bruno ha utilizzato queste pagine di
Calvino, su come il suo discorso sul sacerdozio ha potuto
appoggiarsi ai testi del Riformatore per giungere a negare nella
sua integralit il valore di verit del cristianesimo e profilare in
maniera specifica i termini in cui andava utilizzato per il governo
della moltitudine.
Per Calvino dunque il solo processo storicamente legitti mo
quello che conduce dai sacerdoti del Vecchio Testamento che
immolavano vittime e dal loro succedersi nel tempo al Sacerdote
unico che, offrendo se stesso come vittima al posto dell'animale,
gi sua figura, elimina con ogni altro sacrificio la possibilit stessa
del sacerdozio tradizionale. Ci che a Calvino appare indebito che
una moltitudine di sacerdoti, pretesi suoi successori, si
impadronisca in modo illegittimo della insostituibile funzione di
mediatore del Cristo, sottraendogli il significato stesso della sua
incarnazione. Si tratta dunque nella sua prospettiva di tener
presenti tre momenti storici distinti, all'interno dei quali quello
conclusivo, completamente errato, svuota di significato il
passaggio che avvenuto dal primo al secondo, decisivo, e cos
facendo ricade di fatto nel primo. Di qui l'in sistenza del
Riformatore su quello che rappresenta ai suoi occhi il momento
supremo del persistente "giudaismo" della chiesa cattolica. Nella
presa di posizione del Bruno, occorre tenere presenti i
suggerimenti che ci vengono dal parallelismo con il
65

testo erasmiano dell'Elogio cos come il fatto che l'intero processo


si svolga esplicitamente nel regno della stultitia: il passaggio a cui
assistiamo quello della regia pazzia dal livello della caccia a
quello religioso che incorpora il primo e questo pas saggio
sanzionato dai testi di Calvino che legittimano l'identi ficazione
del "sommo pontefice" con il "boia di bestie salvatiche".
Poste queste premesse, l'aspetto che risalta maggiormente
nella presa di posizione del Bruno che non esiste un reale
sviluppo dal pruno ,al secondo momento, dai sacrifici dei sacerdotes veteres a quello del Cristo. Il suo sacrificio non
poteva essere radicalmente diverso per natura ed efficacia da quelli
alla cui esecuzione provvedevano quegli antichi sacerdoti. Un
autentico sviluppo si ha invece sul piano dell'illusione, nel l'approfondirsi della follia umana correlativa all'estendersi della
sfera dell'impostura e dell'inganno, che per il Cristo si identifica
esattamente con la sua duplice natura e quindi con la coincidenza
di sacerdos e sacri f icium. la sua pretesa natura divina che
gli consente di presentare se stesso quale vittima, bestia
sacrificata di natura del tutto diversa rispetto a quella delle vittime
del Vecchio Testamento. Solo per questa via il suo sacrificio
conserva un significato diverso, sia pure apparente, grazie al
quale risulterebbe riaperta la via che conduce al divino senza che
sussista pi altro modo di porsi in contatto con esso. Di qui la
possibilit che l'intero processo, anzich smentire l'operato del
Cristo, abbia trovato un culmine nel suo momen to finale, non
tradendo ma portando alla luce il significato pi autentico di tale
sacrificio. Esso stato effettuato in modo da garantire la sua
permanenza nel tempo conservando esattamente gli aspetti che
definiscono ogni sacrificio (ed ogni caccia) e cio il momento
dell'uccisione e del nutrirsi delle carni della vittima, momenti
trasposti su un piano che si pretende radi calmente diverso,
infinitamente distante da quello di ogni altra caccia e sacrificio. Per
Bruno si passati allora da una moltitudine di sacerdoti i cui atti
non avevano senso (si ricordi la "meraviglia" di Momo) ad un
uomo che pone se stesso come
66

unico oggetto legittimo di sacrificio per giungere infine alla "regia


pazzia" della "religione", al sommo sacerdote che lo riproduce
rendendolo di nuovo efficace e considera ci come suo privilegio,
onde valgono per lui gli attributi che per Calvino definivano in
modo corretto la funzione del Cristo come sacerdote ("solo,
senza compagni") poich chiamato (e pretende di esserlo) a farlo
rivivere come vittima. La natura particolare di tale sacrificio
presuppone in questo caso all'origine la coincidenza tra sacerdote e
vittima, in seguito contempla il riprodursi di esso attraverso quello
che non pu non essere un privilegio sia per l'eccezionalit
dell'evento sia per le parole del Cristo, ma a ben vedere proprio
il primo evento, quella coincidenza, che ha potuto porre le
premesse per il secondo. L'operato di tale sacerdote sembra
dunque prolungare quello del Salvatore in quanto garantisce il
realizzarsi della caccia che egli d agli uomini, caccia che
presuppone che egli, ingannando, si presenti loro come preda:
l'illusione di sacrificarlo illusione di nutrirsi delle sue carni. Il
passaggio decisivo resta allora quello in cui un uomo si dispone
a far la parte della vittima immolata ma esso culmina nel
momento in cui, in modo conseguente, si continua a fare di lui
senza alcun senso la "bestia", la vittima del Vecchio Testamento,
ritenendo di compiere qualcosa di radicalmente diverso. La
scissione delle due funzioni che si presentavano indisgiungibili in
lui quindi divenuta funzionale al realizzarsi stesso della sua
impostura cos come acquista una centralit assoluta ma non
arbitraria il fatto che qualcuno rivendichi per s solo il privilegio
di mediatore nei confronti della divinit, privilegio che si
sovrappone a quello del Cristo. L'atto che viene compiuto si
presenta dunque come il supremo atto religioso, quello che
dovrebbe appunto garantire la nostra comunicazione con il divino
ma in realt trasforma solo chi lo compie, come accadeva
nell'antichit, in macellaio di una bestia, cos come affermava
Calvino e ribadisce il Bruno da una prospettiva ribaltata. Questo
il primo momento attraverso cui si compie l'impostura mentre alla
comprensione del
realizzarsi del secondo devono concorrere sia i testi di Erasmo
67

che si sono visti sia quelli di Calvino, rendendoci palese come all'uccisione della bestia corrisponda inevitabilmente i1 nutrirsi delle
sue carni ed il convertirsi in essa. Questo, che il punto
supremo della follia religiosa, sanziona il compiersi dell'inganno
del Cristo, il suo trasformarci in bestie secondo un significato che
perde progressivamente il suo senso metaforico.
Ricapitolando, come se per Calvino, non avendo gli
uomini compresa la natura del sacrificio del Signore, - una
incomprensione evidentemente non innocente ma gravida di colpa essi ricadano sia pure in forma fantomatica nei riti del Vecchio
Testamento. Per Bruno l'originaria irrazionalit di quei sacrifici
animali che si riproduce con due corollari estre mamente
importanti: la sostituzione dell'uomo alla vittima sacrificale e
l'illusione che questa sostituzione sia la premessa per qualcosa di
imprescindibile nel rapporto con Dio quando in realt, per usare
le parole di Calvino, si solo giunti alla pretesa di "mangiare' 'il
corpo della divinit. I due momenti, quello dell'uccidere e del
nutrirsi, permangono come centrali ma realizzano appunto
l'impostura del Cristo in quanto ribaltano l'apparente caccia che
egli propone agli uomini di se stesso con il loro reale divenir
preda sua ed il cadere quindi inevita bilmente in una condizione
ferina attraverso il nutrimento delle sue carni. Le conseguenze
sono cos fondamentalmente identiche a quelle prospettate da
Calvino, per cui il sacerdote da boia,e macellaio diviene egli stesso
bestia ma per Bruno questo significa che egli realizza, ormai
realmente, solo a quest'ultimo, infimo e spregevole livello
l'assimilazione in se stesso di sacerdote e di sacrificio che viene
asserita come peculiare del Cristo e si rivela anche in lui
coincidenza di uomo e bestia. Resta tuttavia da rendere conto del
rapporto che si istituisce tra pontefice e semplice sacerdote,
rapporto che Calvino risolve sul piano storico mentre pretende in
Bruno di ergersi, attraverso la Chiesa, a perfetto compimento di
questo processo.
Vi sono in effetti altri elementi attraverso cui Bruno giunge
alle conclusioni accennate e che ci potranno essere d'aiuto. Si sa r
notato che finora nel suo testo il Notano ha solo sfiorato gli
68

accenni di Erasmo a coloro che cibandosi della selvaggina di scendevano ad un livello ferino, illudendosi al contrario di ele varsi
ad una "vita regale", cos come non ha fatto sinora parola di quel
"trangugiare" l'oggetto del sacrificio da parte del sa cerdote
cattolico di cui parla con sarcasmo Calvino. Si tratta in realt di
attendere solo gli sviluppi del testo. Sacrificare la bestia non
ancora divenuto a rigore un mangiarla ma la scissione tra le due
funzioni di sacrificatore e di vittima destinata a ricomporsi per
lui nei pretesi usurpatori del Cristo, venendo ad avere il
sacrificio lo stesso valore tanto nella per sona del Messia che in
chi lo riproduce. In effetti, nel primo caso l'uomo si fatto bestia
sacrificando se stesso, nel secondo si sacrifica la bestia per poter
assimilarsi,ad essa e ci si assimila ad essa mangiandola. La
conclusione che si registra dunque quella del " farsi bestia"
dell'uomo, secondo una interpretazione che 'non pu non apparire
profondamente errata agli occhi del Bruno rispetto al significato
corretto di questa espressione. Si ricordi che egli aveva insistito
nel corso dell'opera sul fatto che "bisogna sapersi far bestia per
essere superiori" ed ora tale asserzione - che in realt carica di
una serie di significati - riceve da questa pagina tutto il rilievo che
le compete in senso teologico. Riferita agli dei dello Spaccio, essa
racchiudeva la loro saggezza e la loro astuzia nei confronti degli
uomini e delle ,insidie che questi ultimi potevano tendere ad essi,
saggezza di cui l'azione del Cristo, che come coincidenza di sacer dote e di bestia ha proposto agli uomini la sua caccia, rappre sentava la contraffazione che andava smascherata.
La conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che ci che in
causa la funzione sacerdotale cos come viene concepita dalla
Chiesa cattolica, funzione vista attraverso l'ottica di Cal vino ma
per giungere ad esiti del tutto originali, viene dagli sviluppi
immediati del testo bruniano. Ci che finora stato detto del
sommo pontefice e del suo privilegio presenta infatti un
inconveniente agli occhi di Momo, un inconveniente che va
evidentemente considerato come tale non in assoluto ma in
relazione -al fine specifico cercato, secondo cui la caccia dovreb
69

be elevarsi ed essere riconosciuta come virt religione santit. In


effetti, si dice, - e si noti come il discorso, mantenendosi al
presente, torni nuovamente al plurale - tutti coloro che quali
aspiranti Atteoni cacciano ed inseguono cervi selvatici vengono
spesso trasformati dalla Diana di cui sono divenuti preda in cervi
domestici. In altre parole, coloro che seguono questi particolari
sentieri nella ricerca e nella caccia della divinit, anzich giungere
a quella autentica metamorfosi di se stessi che sala dischiude le
vie del divino, si ritrovano ad essere "cervi domestici". Partiti
anch'essa alla ricerca di fiere selvagge, non solo vengono
trasformati in bestie, ma in bestie prive di autentico furor e di
divina pazzia, divengono cio cervi "civili", "popolari" secondo
l'accezione negativa che d al ter mine "domestico" un testo
parallelo degli Eroici furori, che sembra a sua volta ricevere di qui
un rafforzamento del pro prio significato anche i n senso
autobiografico. Dice dunque
Momo:
Ma il male che sovente accade che, mentre questi Atteoni vanno
perseguitando gli cervi del deserto, vegnono dalla lor Diana ad esser
convertiti in cervio domestico, con quel rito magico soffiandogli al viso, e
gittandogl l'acqua de la fonte a dosso, e dicendo tre
volte:
Si videbas feram,
Tu currebas cum ea;
Me, quae iam tecum eram,
Spectes in Galilea;
over, incantandolo per volgare, in questa altra maniera:
Lasciaste la tua stanza
E la bestia seguitaste;
Con tanta diligenza
A dietro gli corresti,
Che medesimo in sustanza
Compagno te gli fsti. Amen.
Coss dunque, conchiuse Giove, io voglio che la venazione sia una virt;
atteso a quel che disse Iside in proposito de le bestie; ed
70

oltre, perch con tanto diligente vigilanza, con s religioso culto


s'incerviano, incinghialano, inferiscono ed imbestialano 33
,

Gli Atteoni di cui si parla vengono dunque trasformati in


"cervio domestico" grazie a quell'ordinazione sacerdotale - l'azione
della loro Diana sembra appunto identificarsi con quella della Chiesa
- che collegata ,al loro mangiare il corpo del Cristo e farsi un tal
modo tutt'uno con lui, appunto sacerdote
bestia, indistinzione dunque di sacerdote e vittima del sacri ficio
secondo il significato nuovo e dispregiativo che ha acquisi
33 Dialoghi, pp. 812-3. noto che Bruno utilizza i versetti del Salmo
XLIX, 18 sostituendo al termine f urem il termine f eram mentre nella formula in

volgare rinvia al racconto della resurrezione presente in Matteo, 28,7. da


tenere presente che la ricomparsa di Ges in Galilea legata (Giovanni, XX,
22) alla investitura degli Apostoli: Ges ripet loro: Pace a voi! Come il
Padre ha mandato me anch'io mando voi! Ci detto, alit su di loro e disse
"Ricevete lo Spirito Santo". Mentre Bruno sottolinea non meno di
Calvino il carattere magico del processo di ordinazione sacerdotale sembra
ricollegare le cause dell'imbestialirsi del sacerdote all'avvento della
resurrezione con le conseguenti riapparizioni del Cristo o se si vuole alla
duplice condizione del Cristo dopo la sua morte rispetto agli uomini. In ogni caso,
la contrapposizione che qui ha luogo tra una vera e una falsa Diana, tra
Atteoni autentici e falsi Atteoni, tra cervi domestici e cervi pervasi da autentico
furor e non da furore bestiale sono tra i segni salienti di quella
continuit-contrapposizione tra Spaccio ed Eroici furori che investe concetti
centrali in entrambi le opere, in primo luogo quelli dell'amore e della gloria ma
giunge sino a particolari minimi. Una bella pagina ha il Bellarmino nel suo
commento ai Salmi l dove contrappone la lepre al cervo, chi mira a livelli
di alta spiritualit in luoghi inaccessibili
reconditi a chi appoggia la sua umana debolezza alla misericordia del
Cristo: R. BELLARMINO, Salmo 90, Siena 1951, pp. 25-67 che commenta Ps.
103, 18 "Gli alti monti servono di asilo ai cervi, i massi alle lepri"
ivi, p. 69sgg. la spiegazione del versetto "Egli dal laccio dei cacciatori ...
mi ha liberato", con la distinzione tra animali domestici e animali selvatici
per pi versi parallela a quella del Bruno (pp. 80-1). Per la contrapposizione tra il
vero Atteone, "salvatico come cervio ed incola del deserto" e il cervo "volgare,
ordinario, civile e populare", negli Eroici furori cfr. Dialoghi, p. 1124.
71

to questa coincidenza nell'orizzonte di quel mondo della stultitia in


cui ci aggiriamo. Tale ordinazione viene effettuata sof fiando loro
sul viso, dice il Bruno, e le parole che corrispondo no nella realt
a tale atto - accipite spiritum sanctum - sanzionano come per magica
incantazione contemporaneamente l'assimilazione della bestia, il
Cristo, e la trasformazione in essa. La f era di cui qui si parla
qualcosa di cui si diviene "medesimo in sostanza"; anche
qualcosa che era gi con noi e che noi siamo destinati per questa
via a ritrovare, secondo l'allusione sprezzante ad un passo
evangelico (Me, quae iam teeum eram, / Spectes in Galilea) da
parte del Bruno che continua a non fare differenza tra il Cristo e la
bestia. E si noti che l'interpretazione implicita di quel soffio, di
quello spiritus che dovrebbe essere ricevuto dal sacerdote volge
ancora una volta nel senso di un influsso di tipo magico di cui
difficile stabilire se coincida con l'influsso demonico del Cristo.
Anche in questo caso, il richiamo a Calvino sembra utile al
chiarimento del testo. Il riformatore ginevrino, dopo aver trattato
nell'Institutio del battesimo e della cena e dopo aver attaccato nei
modi che si sono visti la concezione della messa, si volgeva a
considerare i sacramenti tradizionali. Giunto ad esaminare quello
dell'ordine non poteva non ripetere nella sostanza quanto aveva
gi affermato del sacerdozio -nel capitolo dedicato alla messa e
tuttavia alcuni particolari, nuovi, della sua argomentazione sono
per noi ricchi di interesse cos come alcune ripetizioni acquistano
maggior rilievo. Ai sacerdoti o preti cattolici, ricorda Calvino,
affidato l'ufficio di far sull'altare sacrificio del corpo e del sangue
di Cristo, oltre a quello di recitare le preghiere e benedire i doni; cos
al momento della consacrazione ricevono il calice con la patena e
l'ostia, a indicazione del potere di offrire a Dio sacrifici di
riconciliazione e vengono loro unte le mani per mostrare che essi
possono consacrare. Ora, se solo Ges pu placare Dio e
cancellare i nostri peccati con il suo sacrificio, ci vuol dire che
ci troviamo di fronte ad un atto sacrilego ed in effetti l'ordine pu
consistere solo nel predicare il Vangelo e pascere il gregge di
Cristo,
72

secondo quelle che sono state le sue precise indicazioni. Coloro che
sono ordinati sacerdoti lo sono dunque per dispensare la Parola
ed i sacramenti, non per fungere da "macellai" in quotidiani
sacrifici. Inviando gli Apostoli a predicare, il Signore soffia su di
loro (Giov., XX, 22): con questo segno raffigura la potenza dello
Spirito Santo che egli pone su di loro. Costoro, dice Calvino
riferendosi ai suoi avversari, hanno conservato questo gesto di
soffiare e quasi sputassero lo Spirito Santo dalla bocca mormorano
sui preti la formula di consacrazione: "ricevete lo Spirito Santo".
Comportandosi in modo peggiore che se fossero istrioni, non
tralasciano alcun particolare che appaia suscettibile di essere
imitato, come scimmie impazienti di copiare ogni cosa a
sproposito. Sforzandosi di compiere ci che egli fece con gli
Apostoli - ed in effetti pretendono di fare del Cristo l'istitutore ed
il precursore di ogni loro ordine - assumono le prerogative che
spettano a Dio, lo sfidano ma anzich raggiungere il loro scopo si
beffano semplicemente del Cristo con le loro assurde
scimmiottature. Pretendono che lo Spirito Santo venga loro
conferito ma la realt effettiva, priva di alcun fondamento, delle
loro cerimonie, non pu che essere confermata dall'esperienza: in
effetti, coloro che vengono consacrati preti, da cavalli che erano
divengono asini, da stolti pazzi furiosi (ex equis asinos, ex f atuis
phreneticos) '.

34 G. CALVINO, Istituzione, cit. II, pp. 1703-4. Cfr. Institutio IV, 19, 29
CR Opera II col. 1087: Cum re ipsa optime congruunt caere

moniae. Dominus poster quum Apostolos amandaret ad


Evangelii praedicationem, insufflavit in eos. Quo symbolo
Spiritus Sancti virtutem,
qua illos donabat, repraesentavit. Hanc insufflationem
retnuerunt isti boni viri, et quasi Spiritum Sanctum e
gutture suo egerant, super suos
quos formant sacrificulos demurmurant, Accipite Spiritum Sanctum.
Adeo nihil praetereunt quod non praepostere effingant,
non dico more
histrionum ... sed instar simiarum, quae lascive et absque
ullo delectu quidvis imitantr ... Divinae suae virtutis
specimen edidit quum insuf
flando in Apostolos, Spiritus Sancti gratia illos replevit.
Hoc ipsum si conantur efficere, Deum aemulantur, et

tantum non ad certamen provo


cant, sed longissime absunt ab effectu, nec aliud inepto isto
gestu quam

Calvino non esita a parlare di una nuova religione frutto


dell'invenzione umana in cui si mescolerebbero elementi ebraici
pagani e cristiani. In ogni caso, il divenire bestie e pazzi furiosi che
Calvino fa discendere direttamente dalla pretesa di posse dere il
potere del Cristo di insufflare lo Spirito Santo, si ripro duce nel
Bruno alla lettera. Una volta che venga soffiato sui nuovi
sacerdoti della Diana di cui qui si parla, non solo questi divengono
bestie ma la ripetizione delle parole della formula garantisce che lo
divengano incorporandosi con quella bestia alla cui caccia tale Diana
li ha ormai avviati. qui come si diceva che l'eucarestia sembra
ripresentarsi come errata forma di metamorfosi: attraverso il
sacerdozio si diventa in modo compiuto la bestia che si sacrifica, il
sacerdote torna ad essere sacerdos e sacrificium poich egli stesso
diviene bestia come il Cristo, anzi quella particolare bestia in cui
va identificato il Cristo.
forse questo, dopo i gradi della "maestrale insania" e
della "regia pazzia" il termine finale dell' imperial furore" a cui
tocca ora di ricevere la sua traduzione sul piano religioso, dal
momento che essi "con tanto diligente vigilanza, con s religioso
culto s'incerviano, incinghialano, inferiscono ed imbestialano",
tornando cos a ricollegarsi come in Calvino la tra sformazione in
bestia con la condizione di chi del tutto fuori di s.
all'interno del testo di Calvino che il passaggio compiu to
dal Bruno in queste pagine sembra trovare una sua legitti mazione
nell'affermazione appena ricordata secondo cui per il Riformatore
il "giudaismo" dei cattolici, il loro attaccamento

Christum illudunt. Sunt quidem adeo effrontes ut asserere


ausint, conferri a se spiritum sanctum. Sed quam id verum
sit, docet experientia, quae
clamat ex equis fieri asinos, ex fatuis phreneticos,
quicunque in sacerdotes consecrantur E nel testo francese
concludeva . . . tous ceux qui sont
consacrez pour Prestres, de chevaux deviennent asnes, et de
fols, enragez.

74

alle forme della religione mosaica rende incomprensibile perch non


immolino vitelli e montoni come gli antichi ebrei. Il pro blema
reso pi complesso dal fatto che se i cattolici compiono un
sacrificio che non pu in alcun modo per Calvino essere
differenziato nella sua natura da quelli degli antichi in cui si
offrivano vittime animali, resta pur vero - come deve riconoscere lo
stesso autore dell'I nstitutio ed questo un punto su cui avevano
fatto leva i "papisti" nella loro difesa della messa parlando di
"sacrificio incruento" che non solo il Cristo non pu essere
realmente messo a morte secondo l'arbitrio umano ma che la
sostituzione del suo corpo al corpo della vittima non solo avviene
ma ha luogo in forme tali da pretendere di costituirne la
presenza hic et nunc. Qui si apriva lo spazio per una critica che
sottolineasse l'origine ed il carattere magico del tutto, come fa
esplicitamente Calvino e per altre vie, anche in questo stesso
testo, il Bruno, e contemporaneamente puntasse sull'aspetto
immaginario dell'intero processo, aspetto immaginario non assente
in Calvino e che poteva assumere per un autore come il Nolano
una realt sia pure particolare, legata forse alla stessa invocata
presenza del Cristo.
IX. Ma torniamo un attimo indietro nel nostro ragiona mento, per vedere a quali conseguenze e decisioni pratiche
conduca l'inconveniente segnalato da Momo, inconveniente su cui
abbiamo appena finito di soffermarci e che si presentava
all'interno del tentativo generale di fare della caccia, trasposta sul
piano della religione, un episodio della follia umana. Il testo
conserva qui una sua significativa ambiguit, di cui andr tenu to
conto perch sembra preludere ad un ulteriore sviluppo del
discorso. Certo, il Cane sceso ormai in terra separandosi dalla
Lepre ed in tal modo il legame negativo che univa le due figure
sul piano teologico sembra essere andato perduto per sempre;
d'altra parte, la caccia intesa come suprema forma di follia non
pu perdere il suo carattere di virt che era proprio il fine a cui si
mirava. Giove non pu che confermare allora quanto stato
decretato da lui e che questo il risultato della
75

"diligente vigilanza", di quel "religioso culto" con cui i nostri


sacerdoti "s'incerviano, incinghialano, inferiscono ed imbestialano".
All'opposto, pur vero che la caccia, la caccia reale sembra
ricevere qui una sua legittimazione, legittimazione che passa ormai per
vie tutte sue proprie e civili, onde essa finir per apparire quale virt
eroica. ormai l'autorit politica ad essere chiamata direttamente in
causa: d'ora in poi il principe continuer a cacciare ma con lo spirito di
chi abbia davanti a s non della semplice selvaggina come sua preda ma
"quel prencipe o tiranno di cui pi teme" e che aspira a far
prigioniero, "onde non senza raggione vegna a far que' bei ceremoni,
rendere quelle calde grazie e porgere al cielo quelle belle e sacrosante
bagattelle". La caccia reale pu cos riprendere la sua dignit solo
se torna !ad avere un contenuto metaforico, civile tale da conferire un
loro significato a quegli atti privi di ragione che venivano compiuti
dagli antichi e dai nuovi sacerdoti -'. La difficolt di fronte a cui ci
siamo venuti a trovare prelude quindi ad un processo di sostituzione ed
questo che ci deve mettere sulle tracce degli sviluppi futuri del
discorso del Bruno. In effetti, se la caccia reale pu ormai essere
convertita in una sorta di preparazione alla vita civile ed alle lotte che
essa presenta, pur vero che quella caccia puramente folle conserva
un valore di virt sebbene sia il risultato ultimo dell'inconveniente segnalato da Momo ed il lettore inevitabilmente portato da
questa apparente incongruenza del discorso ad accostare la decisione
di Giove in tal senso con la promessa, che era stata solo formulata in
precedenza e che non ha ancora trovato un suo sviluppo, avanzata da
Momo di insegnare un modo secondo cui la Lepre potr sopravvivere
pur essendo mangiata poich ci avverr "senza che sia dente che a
tocche, mano che la

m Dialoghi, pp. 813-4. Ma cfr. iv i, p. 569 (Epist. esplicatoria): ...


viene a basso la Venazione ed altre virt ferine e
bestiali, le quali vuol Giove che siano stimate eroiche,
bench verseno nel campo de la Manigoldaria, Bestialit e
Beccaria.
76

palpe, occhio che la vegga e forse ancora luogo che la capisca". Se si


vuol procedere su questa strada e comprendere come possa
prodursi tale processo destinato evidentemente ad integrare i due
elementi, civile e religioso, di esso, credo che convenga rifarsi
all'ultima figura dell'opera, forse quella decisiva sul piano religioso,
la figura del centauro Chirone, per intendere la funzione del quale si
riveleranno, viceversa, indispensabili le fonti finora evocate.
Ancora una volta Momo a farsi avanti, ad esprimere il suo
giudizio e le sue perplessit, ancora una volta abbiamo a che fare
con il problema della impossibilit di comprendere, in una situazione in
cui la ratio solo apparentemente ed ironicamente chiamata a
misurarsi con il dato della f ides e ad inchinarsi ad essa mentre ha in
realt di fronte soltanto una stultitia le cui credenze sono s prive di
senso ma richiedono di essere adeguatamente considerate in vista di una
loro utilizzazione civile. La situazione in cui sfociato 'il discorso
bruniano pu dunque essere cos tratteggiata. La duplice natura del Cristo gi stata, evidentemente, sia pure in modo implicito, non solo
negata ma irrisa nei testi che abbiamo gi visto; qui si tratta di
farlo ormai in modo esplicito perch paradossalmente proprio essa
che deve essere chiamata a svolgere una sua importante,
indispensabile funzione. L'impossibilit di credere alla natura umana
e divina del Cristo, alla ipostatica unione di esse porsi di fronte ad un
mistero, a ci che per ammissione stessa di chi crede non pu essere
compreso. Si tratta in effetti di qualcosa che non pu essere capito
n da un dio quale Momo n tantomeno da chi abbia un
cervello ben pi piccolo del suo, qualcosa che va appunto solo
creduto ed proprio questo che Giove si appresta a chiedere a
Momo, la rinuncia cio a comprendere e la supina acquiescenza al dato
della f ides, ponendo sul tappeto la condizione che governa tutta
questa sezione finale dell'opera. Giove stesso a riconoscere per primo
che qui non c' nulla da capire, anzi che non c' bisogno che questo
avvenga poich in discussione qualcosa che appar
77

tiene ad un ordine di altro tipo, un ordine evidentemente di


natura pratica'.
Si fa luce cos un aspetto importante del Cristo che sinora
non stato valutato. Se vero che difficile, anzi impossibile
comprendere, per usare le parole del Bruno, come mezza bestia e
mezzo uomo possano valere rispettivamente pi di una bestia intera
e di un uomo intero, anche vero che la doppia natura de-1
Salvatore, se ripensata appunto come umana e ferina sulla base dei
presupposti su cui ci siamo soffermati, pu aprire la strada ad un
ripensamento del suo ruolo in cui sia modificata e diretta
dall'esterno la funzione immaginaria che Egli svolge. In altri
termini, il tutto pu mutare radicalmente di significato qualora si
prospetti una funzione del Cristo in cui la natura umana e
quella divina vengano realmente credute tali dalla moltitudine
ma siano abbassate di fatto ad una natura umana ed una natura
ferina, cos come era stato preparato dai testi sin qui analizzati. Il
passaggio di ciascuno dei due aspetti ad un livello inferiore
garantisce che l'intero processo possa compiersi in un orizzonte
umano, secondo una portata pratica e modalit del tutto
particolari. L'avvento di Chirone, centauro saggio, precettore per
eccellenza, si configura quindi, nel momento in cui Bruno si
appresta a recepire le suggestioni, rese convergenti, di Machiavelli
e ancora una volta di Calvino, come l'av vento di un eroe
immaginario e pur reale, vivo ed operante in qualche modo.
Richiamiamo allora alla mente alcuni elementi gi incontrati
ma che sembrano destinati ad assumere ormai un ruolo essenziale.
Si ricordi che a Diana stavano a cuore due obiettivi, che si
riconoscesse alla caccia la sua dignit e che non si per desse la
"semenza" della Lepre, ora che essa scendeva in terra pur
conservando gli attributi di animale celeste. Si ritorni indietro

16 Dialoghi, p. 824: Momo, disse Giove, non devi voler


sapere pi di quel che bisogna sapere, e credemi, che questo
non bisogna sapere.
78

per un attimo anche al contenuto della Lettera agli Ebrei,


con i suoi concetti di sacerdozio eterno e di tempio celeste oltre che
di perpetua intercessione, e si ricordi che Calvino nel rivendicare l'u nicit del Cristo come sacerdote rifiutava sia il prodursi di infiniti
sacrifici sia la legittimit di compierli su un altare e osservava
l'inevitabile follia e l'inevitabile imbestialirsi di chi li compiva,
connessi al modo stesso con cui si effettuava l'ordinazione. Se si
tiene conto di questo insieme di particolari, apparir chiaro come
Bruno, al di fuori evidentemente di ogni tentativo reale di
composizione teologica tra le diverse confessioni secondo una
prospettiva autenticamente cristiana, sembri qui offrire nella figura
di Chirone una soluzione intermedia tra cattolicesimo e calvinismo
quale purificazione del primo, nella quale si presenti un punto di
convergenza sulla base dell'elemento inferiore che li accomuna,
l'essere entrambi prodotto della fantasia umana. Soluzione
intermedia nella quale avvenga una purificazio ne di quegli aspetti
del cattolicesimo che per la loro idolatria apparivano inaccettabili
e sorgente di conseguenze funeste, attraverso il doro trasferimento
su un piano fantastico, favorito questa volta dal tentativo di
spiritualizzazione del culto operato dal calvinismo.
Le scelte bruniane vengono cos delineandosi in modo
conseguente. Nel cielo ideale dello Spaccio -e qui ideale
sembra valere come non mai nel senso di "immaginario" proprio grazie ai due supremi attributi, sacerdos e sacri f icium,
assegnati al Cristo e gi considerati quale forma di follia, recu perati
tuttavia nella dimensione che possono avere sul piano fantastico, si
attesta Chirone, il Centauro celebrato per la sua saggezza,
attraverso la funzione di sacerdote unico, sommo che viene ad
assumere nel tempo celeste. Una funzione, pi che necessaria,
insostituibile, come si affretta a sottolineare il Bru no. In un mondo
immaginario in cui, come sempre inevitabile quando in atto un
sacrificio, si eleva un altare, egli potr ripetere in cielo come
sacerdote indispensabile l'offerta della
79

parte ferina di se stesso, chiamata qui ad essere simbolo della sua


umanit. La morte che egli patisce con l'offerta di una parte di s
certo anch'essa illusoria ma proprio per questo il sacrificio pu
essere ripetuto infinite volte: la bestia di cui ha bisogno per
celebrarlo non gli verr mai a mancare, essendo egli stesso
sacrificatore e sacrificio, sacerdote e bestia. Il sacrificio che il Cristo
compie di se stesso dunque destinato a ripetersi infinite volte
ed egli potr permanere presso questo celeste altare, unico e solo
sacerdote, in eterno se il fato non disponga diversamente. La
garanzia pratica che il nostro autore chiede come condizione del
sussistere di queste credenze sembra dunque risiedere nella
riaffermazione della indissolubilit delle due nature del Cristo a
patto che esse vengano mantenute unite solo sul piano
dell'iimmaginazione, quel piano in cui il mistero che esse
sembrano racchiudere si presenta privo di qualsiasi contenuto per
la ragione ma pu dar luogo ad una serie di vantaggi pratici. Il
ricongiungimento delle due funzioni di sacerdote e di vittima che
Calvino chiedeva si tornasse ad operare nella figura del Cristo
quale suo esclusivo privilegio, pu cos essere accettato rifiutando
le conseguenze che Calvino stesso vedeva connettersi
inevitabilmente a tale ricongiungimento.
Dunque, unico resta il sacerdote a compiere il suo sacrificio e
a compierlo infinite volte, come accadeva nelle messe esecrate dal
Riformatore, ma in modo immaginario, evitando l'ostacolo
rappresentato da quella reiterazione a livello umano, mentre il
tutto pu aver luogo in un tempio celeste, su un altare aggirando
in tal modo la difficolt di quella "mensa" su cui avrebbe dovuto
verificarsi l'autentica cena. Scrive il Bruno:
... in questo tempio celeste, appresso questo altare a cui assiste, non
altro sacerdote che lui; il qual vedete con quella offrenda
bestia in mano, e con un libatorio fiasco appeso a la cintura. E
perch l'altare, il fano, l'oratorio necessariissimo, e questo sarrebe
vano senza 1'administrante, per qua viva, qua rimagna e qua
80

persevere eterno, se non dispone altrimente il fato '.


Questa la decisione di Giove e ad essa pu ormai con sentire senza pi difficolt Momo, ribadendo lo scopo primo a cui

si mira:
Degna e prudentemente hai deciso, o Giove, che questo sia il sacerdote nel
celeste altare e tempio; perch, quando bene ar spesa quella bestia che
tiene in mano, impossibile che li possa mancar mai la bestia: perch lui
medesimo, ed uno, pu servir per sacrificio e sacrificatore, idest per
sacerdote e per bestia'.
Si accennato ai vantaggi che Bruno si ripromette da
questa riforma del culto, e certo il riferimento che abbiamo
fatto a Calvino ed alla caduta nell'idolatria insita nel culto
cattolico sembra tornare qui appropriato, anche se deve essere
allargato ai motivi pi profondi della polemica anticristiana del
Nolano. In effetti, col Centauro e con l'Altare restano in cielo
"la Semplicit giusta, la Favola morale; la non vana Religione,
la non stolta Fede e la vera e sincera Pietade" da essi si
dipartono rispettivamente "la Bestialit, l'Ignoranza, la Favola
disutile e perniziosa", "la Superstizione, l'Infidelit, l'Impiet".
Per questa via sembrerebbe trovare compimento quel mo
do di nutrirsi della Lepre, promesso da Momo, che non tolga
ad essa dignit di animale celeste nel momento in cui scende in
terra ma che non abbia pi nulla a che fare con una manduca
tio realis, materiale, mentre la forma specifica in cui il centauro
Chirone attua la sua funzione rafforza l'ipotesi che Bruno abbia
potuto pensare se non ad una composizione tra cattolicesimo e cal
vinismo, almeno ad una purificazione del primo, resa possibile
su un terreno non teologico dalla loro comune insussistenza e
stultitia Tale ipotesi sembra d'altronde confermata da un testo
dell'Epistola esplicatoria dell'opera in cui si fa
riferimento alla
37

Ibidem, p. 825.
Ibidem, p. 825.

38

81

pagina appena citata in termini che sarebbe difficile confinare ad


una sola delle due confessioni -.
Tuttavia, quella duplice natura, umana e ferina, del centauro Chirone, quel mezzo uomo e quella mezza bestia di cui
Bruno parla con dileggio sul piano teologico, fanno ormai pensare su
questo diverso terreno a qualcosa di pi specifico. Che cosa
significa in concreto che la vittima sia sacrificata in maniera tale
che sia la parte umana del Centauro a provvedere al sacri
ficio, impedendo per questa via che quest'ultimo continui a
rendere bestiali gli uomini?
Il nostro Centauro richiama ormai in modo irresistibile una
delle pagine pi celebri del Principe. Scrive il Machiavelli:
Dovete adunque sapere come sono dua generazioni di combattere: l'uno
con le leggi, l'altro con la forza: quel primo proprio dello uomo,
quel secondo delle bestie; ma perch il primo molte volte non basta,
conviene ricorrere al secondo. Pertanto, a uno principe necessario sapere
bene usare la bestia e l'uomo. Questa parte stata insegnata a' principi
copertamente dalli antiqui scrittori; li quali scrivono come Achille e
molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro,
che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere per
precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe
sapere usare l'una e l'altra natura: e l'una senza l'altra non
durabile. Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la
bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perch il lione non si
defende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna dunque
essere golpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire e
lupi 40.
Non ci si trova di fronte, chiaro, ad una meccanica
sovrapposizione di testi ma d'altra parte Bruno sembra, come ve
Il

Ibidem, pp. 569-70.

40

N. MACHIAVELLI, Il Principe e Discorsi sopra la prima Deca di


Tito Livio, con Introduzione di G. Procacci, p. 72 (Il Principe, cap. XVIII).

dremo tra poco, pensare ad un principe che regoli il ruolo del


nostro Centauro nella vita civile. Un confronto non appare quindi
inutile. Dunque l'umanit del "principe' 'di Machiavelli riguarda
le leggi, il suo "saper usare la bestia" riguarda la forza e l'astuzia
che si rendono necessarie ove le prime non risultino sufficienti ma
proprio questo il campo che in modo peculiare viene ad essere
occupato dalla religione per il Bruno, anche se evidentemente non
lo esaurisce. Proponendo il Cristo come centauro, come
precettore di una particolare categoria di uomini, quelli 'in cui il
prevalere delle passioni e dell'immaginazione rende sempre presente 'il
loro aspetto ferino, il nostro autore suggerisce una guida la cui
natura semianimale non implica evidentemente l'uso della forza
se non in una accezione del tutto particolare. Si tratta in effetti di
penetrare nelle coscienze per dominarle, di esercitare una sorta di
costrizione interiore che agisca appunto con l'efficacia della legge
senza rendere necessario il ricorso alla forza esteriore. Il dominio
che viene suggerito non quello "bestiale" evocato dal sacrificio
religioso e dalla "favola perniciosa" attraverso cui va perduta la
regola morale ma quello che faccia leva siila immaginazione
impedendo che essa degeneri in modo incontrollato, e che imponga
viceversa una religione che sia veicolo di una morale e di una
fede non stolte e non superstiziose. 1 ,1 principe recupera la sua
umanit eroica dislocando la sua duplice natura nella figura del
Centauro, capace di far coesistere umanit e bestialit, legge e
forza. Alla figura del Centauro, questo Cristo purificato che come
tale torna a parlare agli uomini, tende cos a sovrapporsi quella di
un principe reale che sappia appunto "bene usare la bestia", che
controlli cio gli esiti negativi della ignoranza bestialit e su perstizione dominandoli alla loro sorgente, una sorgente di fat
to ineliminabile ma che pu essere purificata e resa innocua. Un
principe dunque reale, che ponga cos le basi, regolando la
vita fantastica degli uomini e le immagini che la occupano,
perch la sua azione si confonda con quella pacificatrice propria
del re che in queste pagine viene invocato.
Appare chiaro perch in questo modo la demolizione sul

82
83

piano della verit del cristianesimo possa sfociare in una utilizzazione di esso che elimini tutte le conseguenze negative dell'idea
"salvatica, porcina" di un sacrificio umano che pretenda di conciliare
esso solo la divinit agli uomini, secondo un elemento di barbarie
che sembra essere proprio al culto cristiano e che si affaccia
progressivamente in queste pagine attraverso la violenza e la
crudelt connesse ai riti della caccia. Cos, come si accennava, solo
ora vengono ristabilite nel loro dominio la vera religione, piet e
fede e sono 'abbattute con la bestialit la stolta fede, la
superstizione e la favola disutile e perniciosa, a favore quest'ul tima
del ristabilimento della favola morale. Le prime attingono
evidentemente quella purezza che al Bruno interessa sul piano
pratico, non su quello della verit da cui sono escluse queste
immaginazioni sempre potenzialmente in grado di rendersi nocive.
Una volta che il regno di Cristo venga sanzionato in que sta
particolarissima accezione, possono dunque prodursi le condizioni
perch non solo la corona celeste ma - si badi - la tiara che
attendono un sovrano degno di esse vengano assegna te a colui che
sappia mantenere le condizioni della pace e che pu essere ora
definito senz'altro "re eristianissimo". A questo punto gli dei
possono dar luogo a quella cena in cui si distribuisce il frutto del
"purgatorio" a cui essi hanno posto mano e se si vuole "il frutto
della redenzione", cos come Saulino, istruito dalla umana Sofia,
pu -anch'iegli recarsi alla sua cena. Il "purgatorio de l'inferno" trova
cos la sua realizzazione sul piano religioso cos come si appresta
a trovarlo su quello pi strettamente civile, da cui d'altra parte
non pu essere interamente scisso. Secondo una precisa
corrispondenza tra questi testi ed altri presenti nell'opera, lo
"spaccio" della bestia si dunque compiuto ma ancora una volta
esso coincide con un trionfo sia pure particolare della bestia stessa.
La distinzione di piani presente nell'opera contempla che ora
pi che mai l'umana Sofia, assolto il suo compito entro l'ambito
proprio dello Spaccio, possa rivolgersi ormai alle sue "notturne
contemplazioni", quelle che avvengono nella solitu
84
dine e che conducono nei deserti autentici, nelle selve reali in cui
si compie non la caccia bestiale dei cristiani ma quella caccia pi
alta che ha luogo sulle tracce della autentica Diana e che ha di mira

la contemplazione del divino 41. la finalit che attende ormai il


"furioso eroico", alla ricerca di un cibo spirituale che non ha
nulla a che fare con il cibo umano, neppure con i frutti che sono
scaturiti dal ristabilimento delle regole della vita civile e
religiosa nello Spaccio, un cibo che appartiene ad un altro tipo di
realt.
Sar questa una caccia in cui davvero il cacciatore diverr
preda e viceversa la preda cacciata si far cacciatrice, in cui il
primo si convertir in un senso del tutto nuovo in "bestia" per
poter convertirsi da soggetto in oggetto, condizione imprescindibile, questa, perch possa attingere ;i livelli pi elevati in cui
soggetto ed oggetto, atto e potenza tendono a coincidere. Sia mo
ormai nel regno di quella contemplazione in cui si compie
l'autentica metamorfosi e Diana, dea della luna, immagine ed
infinito effetto della divinit, rappresenta la reale mediatrice di
quella divina unione che si compie nel silenzio vero e nella
solitudine ma che non pu attuarsi attraverso la mediazione della
Parola e tantomeno di un sacrificio, se non quello metaforico
della conversione dell'uomo in preda della divinit.
Se il Cristo era stato ritenuto "bestia" selvaggia, oggetto di
caccia, che si riteneva reale ed efficace il suo sacrificio come
unica fonte di comunicazione tra umano e divino in
41

Sono, queste, com' noto, alcune tra le battute


conclusive dell'ultimo dialogo. Per l'atteggiamento del
Bruno nei confronti del "re cristianissi
mo" di cui qui si parla, da vedere quanto dice sul re di
Navarra in V. SPAMPANATO, Documenti, cit., pp. 122-3 (Docc.
ven. XIII). Ma cfr. F. A.
YATES, French Academies of the XVI. th Century, London
1947; In., Considrations de Bruno et de Campanella sur
la Monarchie francaise in
L'art et la pense de L onard de Vinci, Paris-Alger 19534, pp. 411-22 oltre ai saggi raccolti in Astrea. L'idea di
Impero nel Cinquecento,
Torino 1978. Cfr. anche C. VivANTI, Lotta politica e pace
religiosa in Francia fra Cinque e Seicento, Torino 1963,
in part. il cap. II, Il m i t o
dell'Ercole Gallico e gli ideali monarchici di

R
eno
vat
io
,
pp.
74131
. 85

quanto l'uomo si illudeva di cibarsi attraverso di lui del corpo


assunto dalla divinit: punto limite, questo, raggiunto dallo
stravolgimento del mito. Al contrario se gli autentici Atteoni alla
ricerca della vera Diana si convertono attraverso di essa in reali
cervi selvatici e si dispongono in tal modo ad essere sua preda,
essi si contrapporranno a coloro la cui fine presenta anch'essa una
metamorfosi, li dispone ad essere anch'essi oggetto di caccia ma
per essere ridotti dalla loro Diana su un piano puramente ferino,
dominati da fantasmi illusori, condizione che rappresenta la
contractio nel suo momento deteriore. Solo la vista dell'autentica
Diana pu trasformare da cacciatore in caccia, da soggetto in
oggetto e questo, anzich essere riduzione al rango animale, ci fa
invece rientrare, come sua preda, nello sguardo stesso della
divinit. Bruno eredita cos a suo modo il significato di quei miti
per i quali guardare la divinit rappresenta un mutamento decisivo
nel destino dell'uomo perch esso coincide con l'essere visti dal
dio'. Come sempre, lo Spaccio non fa che porci sulla via di quella
che stata la genesi stessa degli Eroici furori, mentre quest'ultima
opera viene profilandosi non come semplice appendice ma come il
culmine stesso dell'opera italiana del Bruno.
Si veda la diffusione di questo elemento nella mitologia antica in
Gli eroi, cit., passim. Ma sul tema del
lo sguardo degli dei fatale per l'uomo cfr. ora J. P. VERNANT, La morte
negli occhi. Figure dell'altro nell'antica Grecia, Bolo
gna 1987. Utile ai nostri fini resta ancora la caratterizzazione che d
di Diana WALTER F. OTTO, Gli dei della Grecia. L'immagine del divino
riflessa dallo spirito greco, Firenze 1944 ma si vedano, da un'imposta. zione
metodologica cos diversa, le indicazioni di H. JEANMAIRE, Dioni
so. Religione e cultura in Grecia, Torino 1972. Tutta una serie di suggestioni
42

K. KERNXI,

relative al valore del sacrificio antico e del sacrificio cristiano,


anche in relazione alla letteratura contemporanea di tipo antropologico,
sono suggerite dal saggio di M. CRISTIANI, Tempo rituale e tempo
storico. Comunione cristiana e sacrificio. Scelte antropologiche della cultura
altomedievale, in Settimane di studio del Centro italiano sull'alto
medioevo, XXXIII, Segni e riti nella Chiesa altomedievale occidentale, Spoleto
1987, pp. 439-500.
86

X. Per Calvino dunque l'abolizione operata dal Cristo di tutti


i sacrifici eliminava la funzione del sacerdote quale era concepita
dalla Chiesa cattolica. Al sacrificio ripetuto della vittima,
dell'agnello mistico destinato a morire per poi resuscitare, offerto
sacrilegamente come azione meritoria e considerato quale atto
efficace di remissione dei peccati compiuto dall'uomo nei
confronti di Dio, doveva sostituirsi, anzi doveva essere ristabilita
quale verit perduta nel tempo, l'offerta del sacrifi cio del Figlio
da parte del Padre nella mensa eucaristica. Gli uomini si
elevavano cos, non pi offrendo ma, come solo era consentito
dalla loro natura, ricevendo, ad un culto razionale cio di natura
spirituale. Ai sacrifici animali del Vecchio Testamento subentrava,
quale unico atto che avesse senso da parte dell'uomo, quel
"sacrificio di lode" di cui aveva parlato la Lettera agli Ebrei
riprendendo il dettato dei Salmi, sacrificio di lode il cui contenuto
era stato illustrato da Calvino ancora una volta sulla base
dell'autorit di Agostino. Gi il Dio del Vecchio Testamento
aveva detto di preferire l'obbedienza a tutti i sacrifici; pi che
richiedere offerte domandava che si ottemperasse al comando
della sua voce. Il sacrificio di lode era l'atto tutto spirituale con
cui ci si offriva alla divinit, il frutto di labbra confessanti la
gloria di Dio'.
Per Bruno, e siamo di nuovo approdati agli Eroici furori, non
possibile che l'uomo possa dare lustro alla divinit con le sue
parole. Nel momento di delineare la corretta concezione
della contemplazione del divino, si tratta di sottrarre a tale
contemplazione in modo radicale qualsiasi connotato di caratte
re antropomorfico. L ,<',mfiiammato ed illuminato arioso
per quel che fa in lode di tanto illustre soggetto che gli ave acceso il core e gli
splende nel pensiero, viene pi tosto ad oscurarlo, che
43 Per il sacrificio di lode, a parte il testo della Lettera, Calvino
stesso a rinviare a Ps. CXLI, 2; Os. XI V, 2; Ps. L, 23; Rom., XI, 1
oltre ad utilizzare largamente Agostino. Quanto alla preferenza del Signore
per l'obbedienza rispetto ai sacrifici, cfr. I Reg., XV, 22.

87

ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto


di fiamme in cui si risolve la sustanza di lui.
Su questo terreno in altri termini pu essere
efficace solo il silenzio, quel silenzio in cui ci siamo
gi imbattuti nel corso dello Spaccio e che torna
qui ad essere distinto in quello che pu sollevarci
ad una condizione superiore o assimilarci piut tosto
agli animali. Scrive il Bruno:
L onde ben disse un teologo che, essendo che il fonte
della luce non solamente gli nostri intelletti, ma
ancora gli divini di gran lunga sopraavanza, cosa
conveniente che non con discorsi e paroli, ma con silenzio
vegna ad esser celebrata ... Non gi col silenzio de gli
animali bruti ed altri che sono ad imagine e
similitudine d'uomini, ma di quelli, il silenzio de
quali pi illustre che tutti gli cridi, rumori e strepiti
di costoro che possano esser uditi 4 s
.

L'unica gloria che l'uomo possa attribuire ad


altri resta confinata in un ambito integralmente
umano e l'esempio che viene fatto quello del vate
che sacrifi ca sull'altare del suo cuore l'elogio che
raggiunge il sapiente o l'eroe ed in tal modo lo
sottrae all'oblio dandogli una nuova vita. Questo,
che tra i pi alti sacrifici che l'uomo possa
compiere, non pu dunque riguardare la divinit, la
parola dell'uomo non pu avere valore per essa
stante la sua irraggiungibile distanza come
viceversa la Parola divina non pu avere in questo
ambito il valore assoluto che le viene attribuito nel
senso che non pu in alcun modo essere
determinante in quei processo di contemplazione
che si cerca di realizzare e che chiama in causa
l'ineff abile. Ricollegato il silenzio al valore della pi
alta contemplazione, realizzabile da pochissimi, il
livello a cui ci troviamo non pi n quello della
parola e neppure quello della cena degli dei con
cui si concludeva lo Spaccio, ma quello della sete
del divino

44

Dialoghi, p. 1081.
Ibidem, pp. 1084-5.
88

45

destinata a non trovare mai appagamento, a realizzarsi in un


modo che non contempla un termine finale ma solo un infinito
ascendere ed espandersi. Alla "cena" pur autentica
realizzata
dallo
Spaccio come frutto della
purificazione del mondo umano e del ristabilimento
dei suoi valori, si contrappone ora su un piano pi
alto il cibo spirituale destinato ad alimentare se
stesso, il desiderio dell'infinito che non conosce
termine perch ogni grado da esso raggiunto
rappresenta solo il presupposto per procedere senza
fine verso livelli superiori, e questa impresa per
sua natura una impresa individuale. noto che
questa posizione entra per il Bruno nella definizione
stessa della condizione pi alta riservata all'uomo,
fatta salva la necessit di distin guere i differenti
piani su cui necessario che si dispieghi l'umanit
nella sua interezza. Scrive dunque il Bruno,
riducendo in modo conseguente il discorso sul
"sacrificio di laude" al solo piano umano:
... la lode uno de gli pi gran sacrificii che possa far un
affetto umano ad un oggetto. E per lasciar da parte il
proposito del divino; ditemi: chi conoscerebbe
Achille, Ulisse e tanti altri greci e troiani capitani; chi
arrebe notizia de tanti grandi soldati, sapienti ed eroi
de la terra, se non fussero stati messi alle stelle e
deificati per il sacrificio di laude, che nell'altar del
cor de illustri poeti ed altri recitatori ave acceso il
fuoco, con questo che comunmente montasse al cielo il
sacrificatore, la vittima ed il canonizato divo, per mano e
voto di legitimo e degno sacerdote? 46
Sulla base di principi non dissimili da
quelli utilizzati nello Spaccio, anche negli Eroici furori, poco
pri
ma che il discorso investisse il "sacrificio di lode", Bruno
tornava a indicare in che senso e entro quali limiti
fosse legittima
l'idolatria: N credo che il mio vero nume, come me
46 Ibidem,

p. 1081.

si mostra in vestigio ed imagine, voglia sdegnarsi che in

imagine e vestigio vegna ad


onorarlo, a sacrificargli, con questo ch'il mio core ed
affetto sempre sia ordinato, e rimirare pi alto; atteso che
chi pu esser quello che possa
onorarlo in essenza e propria sustanza, se in tal maniera non
pu comprenderlo ... Vedi dunque ... come queste basse
cose derivano da
quelle ed hanno dependenza, cossi da queste si pu aver
accesso a

89

Si noti che il risultato finale di questo


sacrificio di lode la deificazione comune tanto del
sacrificatore che del "canonizato divo", oltre che
della particolare "vittima" che servita qui a
provvedere a questo sacrificio: il destino comune
che tutti "montano al cielo". Andr anche appena
osservato di sfuggita che il testo implica un rifi uto
radicale
dell'idea
di
"sacerdozio
universale"
connessa da Calvino al sacrificio di lode. Non per
nulla proprio in queste pagine, in uno dei momenti
decisivi
del
dialogo,
si
denuncia,
secondo
l'ispirazione radicalmente aristocratica del Bruno,
l'errore di aver creduto e fatto credere che a tutti
fosse stato dato di gustare il nettare degli dei,
anche a "quelli che non possono n debbono ardire
d'aver ad alto amor la mente desta" (Chi non
vede quanto male accaduto ed accade per
averno simili fatte ad alti amori le menti deste?
quelle come per proprii gradi. Queste, se non son Dio,
son cose divine, sono imagini sue vive: nelle quali non si
sente offeso, se si vede adorare; perch abbiamo ordine
del superno spirito che dice: Adorate scabellum pedum eius. Ed
altrove disse un divino imbasciatore: Adorabimus ubi steterunt
pedes eius (Dialoghi, pp. 1077-78). Tra i molti autori attraverso cui
potevano giungere al Bruno sollecitazioni nel senso di una
rivalutazione dell'idolatria degli antichi lo stesso Cusano,
alcuni testi del quale sembrano offrirci una delle chiavi di
lettura attraverso cui il Nolano poteva interpretarlo:
Anche i pagani chiamavano Dio con nomi diversi rispetto
alle creature ... Gli antichi pagani deridevano i Giudei perch
adoravano un unico Dio infinito che non conoscevano; essi,
tuttavia, lo veneravano nelle sue manifestazioni, cio dove
scorgevano la sua opera divina ... Mentre tutti credevano
in un Dio unico massimo ... alcuni, come i Giudei ... lo
veneravano nella sua semplicissima unit come
complicazione di tutte le cose. Altri, invece, lo adoravano
nelle cose in cui trovavano l'esplicazione della divinit
prendendo come guida, per esser condotti alla causa e al
principio, ci che conosciuto dai sensi ... Non neghiamo,
tuttavia, che alcuni pagani hanno inteso che Dio, in quanto
l'entit delle cose, , per astrazione, al di fuori delle cose,

come la materia prima esiste, al di fuori delle cose, per


l'intelletto astraente che precisamente la posizione da
cui Bruno critica i concetti di divinit e mondo intelligibile
nell'ultimo libro del De immenso. Cfr. N. CUSANO, Opere filosofiche, a
cura di G. Federici Vescovini, Torino
1972, pp. 102-3 (De dotta ignorantia, I, 25).
90

... toss il sursum corda non intonato a tutti, ma a

quelli ch'hanno l'ali"); un errore, si badi, in cui si


compendia per Bruno la crisi del presente, che
non ha rispettato un ordine ed una gerarchia
naturali.
Non indebita, ma richiesta dalla natura
generale del contesto, appare dunque la ripresa
immediata del discorso sul sacerdote che sia
degno del suo ruolo, una ripresa che riceve ormai
un connotato esplicitamente religioso e che
sembra introdurre un elemento nuovo o almeno
solo implicito nei testi sinora analizzati. Al
termine
del
passo
che
ci
apprestiamo
a
commentare, l'accusa di idolatria, se non ci
inganniamo, sembrer infatti poter essere estesa
anche a coloro che avevano fatto di essa uno dei
principali capi d'accusa contro la chiesa di Roma,
poich ad essere "lodato' 'sar sempre un idolo,
una creatura elevata al rango della divinit,
anche se si tratter di capire la natura dell'idolo
'in questione.
Ad essere messi in discussione sono dunque i
"sacerdoti apposticci" di cui, dice il Bruno, "
pieno oggi il mondo" poich essi, "per ordinario
indegni", vengono a celebrare altri indegni cos
come accade, erasmianamente, che asini asinos f ricant.
Erasmo parlava per la verit di muli (ma in Fricantem
re f rica 4' chiamava in causa anche gli asini)
nell'adagio intitolato Mutuum muli scabunt, in cui si
affermava:
... Improbi atque illaudati se vicissim mirantur ac
praedicant. Non videtur autem adagium rette accipi
posse, nisi malam in partem: veluti si indoctum
indoctus, deformem deformis, improbum impro
bus vicissim laudaret 48.
41

Erasmi Roter. Adagia, Venezia 1537, f. 119 v (Ad. 799): "Frican

tem refrica ... id est, Scalpentem vicissim scalpe ...


Suidas ab asinis
metaphoram translatam existimat invicem morsicantibus,
et in utranque partem dici posset, qui se mutuis officiis
adiuvant, aut qui se mutuis
contumeliis afficiunt ... ut manus manui mutuurn
praestat officium lavando, itidem et scalpendo.
48 Id. ibidem, f. 119 r-v (n 796) e per Senes mutuum fricant, f. 119v (n9
798).
91

e aggiungeva nel Senes mutuum f ricant, "quo significatum est, eos,


qui res egregias gerere non possunt, egere praecone, quo famam
sibi comparent". Ma torniamo al testo del Bruno.
Come dunque asini asinos f ricant, cos, secondo lo stretto
parallelismo con il testo citato in precedenza, qui un indegno
celebra un altro indegno ma il destino per entrambi lo stesso,
per cui n l'uno n l'altro sale al cielo onde resa vana la
gloria di chi celebra e di chi celebrato. Anzi, nel momento
stesso in cui il primo loda e saluta l'altro, non fa che metterlo a
morte, di pi, non fa che seppellirlo vivo. Al sacerdote che come
boia e macellaio uccideva una bestia, sembra qui suben trare la
figura del sacerdote indegno ed illegittimo che nel momento in
cui esalta al cielo annunzia solo il seppellimento di colui che sta
esaltando. La contrapposizione allora quella tra una gloria, certo
umana e finita ma reale, che innalza al cielo coloro che sono
morti dando ad essi una nuova vita e che accomuna coloro che la
ricevono e coloro che la dispensano, ed una pretesa gloria che
chiamando in causa la divinit non pu ripartirsi n tra chi la d
n tra chi la riceve e finisce anzi per capovolgersi nel suo
contrario (si ricordi, che, come si appena visto, anche 1"`illuminato furioso", -al momento di lodare 1"`illustre soggetto" che gli ha
acceso il cuore d'amore, anzich dargli chiarezza, ne ritraeva fumo
che finiva per oscurargli la vista di esso).
L'obiettivo del Bruno appare chiaro e sembra compendia bile
nell'impossibilit da parte dell'uomo di dare gloria a Dio; gli
strumenti che vengono usati a questo fine sono allora, al di l
della loro differenza, destinati al fallimento. Cos la distinzione tra
un sacerdote che sacrifica ed uno che si limita ad elogiare la
divinit, annunziando la morte e la connessa resurrezione del
Cristo sono momenti unificati nella sua prospettiva dalla stessa
volont di celebrare Dio e quindi di accrescere la propria gloria
conferendola ad altri. In altri termini, la pretesa di ricevere e di
dare gloria pu avere un senso sul piano umano ma viene a
mancare di qualsiasi fondamento qualora venga indirizzata alla
divinit, che finisce non per nulla per
92
essere retrocessa in questo modo al rango di idolo.
Bruno cos esplicito nell'indicare il duplice esito di que sto
processo. Il primo - il nostro illegittimo sacerdote - non ha fatto

altro che costruire un idolo di pagliadi legno o di calcina


mentre il secondo pu essere definito - ricorrendo quasi alla lettera
all'espressione che Calvino aveva usato per il pane consacrato fatto
oggetto d'adorazione - "idolo d'infamia e vituperio". La
corrispondenza che il Bruno stabilisce tra l'immagine del
Cristo e l'idolatria del culto della sua persona sembra dunque
andare ben al di l delle cerimonie condannate da Calvino e
insediarsi "alla radice dello stesso culto cristiano in generale.
In ogni caso, Colui di cui viene "annunciata la morte nella
cena perch essa sarebbe il segno della Sua e della nostra
resurrezione in realt, ribaltando specularmente i termini, colui
che vive per essere sepolto trascinando cos anche noi non nella
vita eterna ma nelle tenebre dell'Orco. Il risultato di tutto il
processo che, prima ancora che la falce del tempo ponga fine
inesorabilmente a tali "sconcezze", entrambi, colui che loda e
colui che, lodato, dovrebbe dare la vita, anzich salire al cielo
per riceverne gloria, finiscono all'Orco, nelle tenebre di quel
mondo infernale cui da sempre appartengono esseri mostruosi
come i centauri, i semihomines e le semi f erae che sconvolgono la
convivenza civile. L'annuncio della morte del Signore viene cos
immediatamente collegato con quella
sede da cui evidentemente - particolare importante - risorge
di continuo ma per ritornarvi ogni volta. C' un tempo, secon
do questo testo, che distrugger per sempre i falsi culti, cos
19

I. Cal vini Institutio, IV, 17, 36, CR Opera II col. 1033 Quare qui
sacramenti
adorationem
excogitarunt
...
reclamante
Scriptura, suae sibi libidinis arbitrio Deum fabricati sunt,
derelitto Deo vivente. Quid enim
est idololatria, si hoc non est, dona pro datore ipso colere?
Ubi dupliciter peccatum est. Nam et honor Deo raptus, ad
creaturam traductus est: et ipse etiam in polluto ac
profanato suo beneficio, inhonoratus, dum ex sancto ejus
Sacramento factum est execrabile idolum.

93

come era stato asserito in precedenza da Giove al momento di


accingersi alla loro semplice riforma nello Spaccio - anzi a
ben vedere tale necessit non si distingue in modo radicale da
quella di una loro riforma - ma il perpetuarsi di questi culti
nel presente coincide con la loro sopravvivenza sul piano di una
vita infernale. Di pi: colui che viene ora sepolto come
se non sapesse che non deve aspettare il momento finale del
suo tramonto proprio perch gli accade costantemente di essere
sepolto vivo. Ma restituiamo la parola al Bruno, quasi a verifi ca di
quanto si detto:
Ben dici di degno e legitimo sacerdote; perch degli apposticci n' pieno
oggi il mondo, li quali, come sono per ordinario indegni essi loro, cossi
vegnono sempre a celebrar altri indegni, di sorte che asini asinos f ricant. Ma
la providenza vuole che, in luogo d'andar gli uni e gli altri al cielo, sen vanno
giontamente alle tenebre de l'Orco; onde fia vana e la gloria di quel che
celebra, e di quel ch' celebrato; perch l'uno ha intessuta una statua di
paglia, o insculpito un tronco di legno, o messo in getto un pezzo di calcina, e
l'altro, idolo d'infamia e vituperio, non sa che non gli bisogna
aspettar gli denti de l'evo e la falce di Saturno per esser messo gi;
stante che dal suo encomico medesimo vien sepolto vivo all'ora all'ora
propria che vien lodato, salutato, nominato, presentato. Come per il
contrario accaduto alla prudenza di quel tanto celebrato
Mecenate 50.
Si ritorni ad operare un parallelismo tra questo testo e
quello citato in precedenza relativo al "sacrificio di laude" tutto
umano. L un "sacerdote" sacrificava una vittima sull'altare del suo
cuore, fuori di metafora rendeva eterno e glorificava
colui che celebrava attraverso la sua opera, con il risultato che
sacrificatore, vittima e "canonizato divo" (l'eroe deificato) sa livano in cielo, onde c'era gloria per chi celebrava e per chi era
celebrato. Qui l'indegnit dell'uno e dell'altro, di chi loda e di

morte di un dio destinato a resuscitare si risolve di fatto nel


suo quotidiano seppellimento ancora vivo, nel suo risorgere
dalle tenebre infernali per sempre ritornarvi.
Che cosa dobbiamo pensare della sopravvivenza di questo
"canonizato divo", l'elogio del quale coincide con il suo seppel
limento, seppellimento che il protrarsi di una vita che essa
stessa morte, che la vita degli inferi?
Per Calvino, lo si visto, non era in questione evidente mente, con la messa papistica, la vita e la morte di Ges,
sacerdote asceso per l'eternit alla destra del Padre, bens il fatto
che il sacrificio non potesse non essere cruento per sua stessa
natura cos come il testamento non poteva trovare appli cazione
senza la morte del testatore. Ora, la messa tendeva a riprodurre il
sacrificio, a legittimare un nuovo testamento. Se nel caso della
messa ci si trovava di fronte ad una morte ed un sacrificio sui
generis, per Bruno che sembra porsi fin qui su un piano
strumentalmente vicino a quello di Calvino, la conclusione che
viene tratta relativamente al "sacrificio di laude" prolunga anzich
annullare quegli inconvenienti, sulla base dell'idolatria di chi
celebra e del carattere di idolo di colui che viene celebrato. Se i
sacerdoti cattolici si presentavano come sacerdoti del dio vivente
e poi lo mettevano a morte in quotidiani sacrifici, sembra che qui
il "seppellire vivo" aggiunga un elemento nuovo al nostro
discorso.
Nella trasposizione del Bruno i due termini della morte e
della vita, della morte e della resurrezione del Cristo vengono
entrambi mantenuti capovolgendone specularmente il significa to, nel
senso che il Cristo non colui che muore dando la vita, ma colui
che vivendo conduce alla morte, che fa discendere celebrante e
celebrato nelle tenebre degli inferi anzich elevarli alla vita eterna.
Resta tuttavia un interrogativo importante circa le modalit di
questa vita particolare. $ dato cio chiedersi, dal momento che un
inferno pur esiste e Bruno colui che nello Spaccio ha proceduto
alla"purgazione" di esso o di ci
95

50

Dialoghi, pp. 1081-82.

94

chi lodato fa s che entrambi, lungi dal ricevere reciproca


gloria, discendano alle tenebre dell'Orco, onde l'annuncio della

che di esso si inserisce nel mondo umano, se quell`idolo di infamia


e vituperio" che d costantemente la morte non conosca una sua
vita demonica, continuando a martirizzare gli uomini con
l'instillare in loro fantastici terrori, sottomettendoli con la promessa
di una vita eterna, producendo cos le condizioni per il perpetuarsi
quaggi di un reale inferno, di cui Bruno ha cercato appunto di dare le
chiavi perch non possa pi nuocere ad un livello superiore ed anzi se
ne tragga, a determinate condizioni, l'utilit che pu dare.
L'impossibilit che sia l'uomo a glorificare Dio ha quindi
rivelato, grazie al parallelo con la gloria di cui soli possiamo essere
dispensatori, un aspetto del Cristo che destinato forse a riassumere
tutti quelli che abbiamo precedentemente analizzati. L'idolo di
infamia e vituperio vive tra gli uomini grazie alla sua morte, senza che
n l'una n l'altra, n la vita n la morte, cessino, ma riconducendo gli
uomini al regno da cui scaturiscono.
Siamo cos tornati al punto da cui ha preso le mosse questo
lavoro, quell'inferno terreno rispetto a cui doveva aver luogo un
"purgatorio", purgatorio di cui si parlava nello Spaccio alludendo sia
alla struttura dell'opera, che doveva indicare i modi della sua
attuazione ("purgatorio del signifero" cio dello zodiaco) sia al fine
concreto di essa, la purificazione del mondo umano. Ora che la
polemica contro la Riforma si riaffaccia negli Eroici furori, non appare
indebito, dal momento che in quest'ultima opera si parla
apertamente del Regno di Dio autentico e del Paradiso come del
termine finale a cui aspira il "furioso", tornare a ricollegare per
l'ennesima volta i due dialoghi secondo quello sviluppo lineare che
sembra accomunarli.
In realt, per questa via, non solo pare delinearsi l'idea dell'unit
profonda dello Spaccio e degli Eroici furori - tra l'altro in entrambi i
dialoghi conserva una sua centralit il concetto di gloria, visto nel
secondo nella pi alta accezione secondo cui essa pu essere
attinta dall'uomo -[ma sembra profilarsi l'idea dell'unit dell'intera
opera italiana del Bruno,
96

una unit beninteso che vada al di l dei generici riconoscimenti di una


ispirazione coerente per scoprire quella che forse la trama di un
disegno trasparente.
Tale unit sembra delinearsi attraverso due vie, la prima delle quali
ci limiteremo qui ad accennare solo sommariamente, in attesa di una
verifica pi compiuta dell'ipotesi che avanziamo. Il processo cristiano
della salvezza implica come suoi momenti costitutivi la passione e la
morte (con la discesa agli inferi) del Redentore, la sua resurrezione e la
sua ascensione con il ritorno alla gloria celeste del Padre, in attesa del
giudizio universale, destinato a separare paradiso e inferno, eletti e
reprobi yl.'opera italiana del Bruno sembra ripercorrere nelle sue tappe
re
linee di questo processo, attraverso una radicale correzione della
mitologia cristiana che ne converta ciascuno dei contenuti nei termini
della verit, garantita nella sua riscoperta dall'opera della filosofia. La
riconquista della corretta nozione della divinit nella Cena in realt
rinascita di essa dalle ceneri attraverso la riscoperta delle vere linee
del cosmo, che permettono di determinarne la vera essenza nel
momento in cui tornano a dettare quello che il suo reale rapporto con
l'universo. Si rende cos possibile l'accesso, nel De la causa (1584) e nel
De l'infinito, universo e mondi (1584), alla gloria autentica del
divino ed allo splendore, alla manifestazione di essa. I momenti,
riguardanti l'uomo, del giudizio e della gloria, del "purgatorio de
l'inferno" e del paradiso, evocati dallo Spaccio e dagli Eroici furori, non
possono pi chiamare in causa se non negativamente gli eroi della
mitologia cristiana jma possono e debbono essere realizzati dall'uomo
e solo dall'uomo entro limiti non superabili che sono quelli assegnati
ad una creatura che come ogni altra, sebbene ad un grado
potenzialmente ben pi alto e diverso, appare essa stessa come
"contrazione" e riflesso della divinit. Il concetto cristiano di
mediazione tra umano e divino cade cos irrevocabilmente a favore di
un altro, diverso concetto di mediazione, nel quale ancora una volta
interviene e pu intervenire solo l'uomo, secondo modalit certo
dettate in ultima analisi dall'alto ma che non coinvolgono l'operato
della
97

divinit se non nella misura in cui veniamo approfondendo


progressivamente la nostra conoscenza di essa.
Si accennava ad una seconda via attraverso cui ripercorrere
l'unit dell'opera italiana del Bruno e su di essa appare possibile sin
d'ora dire qualcosa di pi, dal momento che sembra scaturire come
conseguenza naturale di alcuni dei nuclei tematici che sono stati
affrontati direttamente sin qui.
XI. In un testo del De immenso (1591) su cui mi accaduto
in altra occasione di richiamare l'attenzione, il Nolano opera un
parallelo tra il processo che ha condotto a smarrire l'antica
verit cosmologica ed il processo che ha portato alla perdita della
verit religiosa degli antichi 51. Nel primo caso, ipotesi matematiche
che erano state escogitate ai fini del calcolo e che entro questi limiti
avevano una loro giustificazione, furono scambiate per realt
fisiche dotate di una loro effettiva realt. Si giunse cos alla
concezione di un cosmo chiuso, finito, costituito di sfere
concentriche, concezione che si era venuta consolidando nel tempo e
non aveva potuto svilupparsi senza generare sempre nuovi errori.
Nel secondo caso, quello della perdita della verit religiosa
degli antichi, Bruno si rif ad un celebre testo ermetico, il cosiddetto
"lamento" dell'Asclepio ', da lui qui erroneamente
51 Jordani Bruni Nolani Opera latine conscripta, Neapoli 1879-1891
(d'ora in poi abbreviato in Opp. lat.) I, II, pp. 171-2 (De

immenso, VI,

11). La corruzione originaria dei miti egizi attribuita al


popolo ebraico. Per l'ermetismo in Bruno, resta
fondamentale F. A. Yates, G. Bruno
e la tradizione ermetica, trad. di R. Pecchioli, Bari 1981.
52 Per il testo del lamento ermetico, nella traduzione
attribuita ad
Apuleio (Asclepius, 24-26), cfr. Corpus Hermeticum T. II Traits XIIIXVIII Asclepius, edd. Nock-Festugire, Paris 19834, pp. 326331. Mi
sembra fortemente probabile che Bruno abbia avuto presente
il cap. 8 del libro XII della Metafisica di Aristotele. In questo
testo, cos delicato
per il suo pensiero e decisivo per gli sviluppi successivi,

Aristotele deduce il numero delle sostanze immateriali, le


future intelligenze, pre
poste ai moti eterni dei pianeti, dal numero delle sfere
celesti utilizzan98

attribuito al Pimandro, per delineare le tappe attraverso cui si era


sviluppata tale vicenda. Quei miti che erano serviti come guida
morale per la moltitudine, miti che rinviavano quindi ad una verit
pi alta ma costituivano di fatto l'adattamento e la traduzione di
essa in forme adeguate alle capacit conoscitive
do l'astronomia di Eudosso e Callippo. Per lo Stagirita,
l'esistenza di tali sostanze divine sarebbe verit ancora
presente, sebbene confusamente, nelle reliquie di
un'antica sapienza mitica, recuperabile se questa
venga
spogliata
dell'involucro
antropomorfico
e
zoomorfico che fu dato agli dei perch i miti potessero
fungere da guida delle moltitudini. interessante il
commento di Tommaso a questo testo (Metaph., 1074 b 14-15):
Et dicit, quod ab antiquis philosophis quaedam sunt
tradita de substantiis separatis, et dimissa posterioribus
per modum fabulae, scilicet quod dii sunt, et quod id quod
est divinum, continet totam naturam. Et hoc quidem
habetur
ex
superioribus,
si
omnes
substantiae
immateriales vocentur dii. Si autem solum primum
principium vocetur Deus, est unus tantum Deus ut ex
praedictis patet. Reliqua vero introducta sunt fabulo se ad
persuasionem multitudinis, quae non potest capere
intelligibilia, et secundum quod fuit optimum ad leges
ferendas, et ad utilitatem conversationis humanae, ut ex
hujusmodi adinventis persuaderetur multitudini, ut
intenderent virtuosis actibus et a vitiis declinarent. Et
quid sit fabulose introductum exponit subdens, quod
dixerunt Deos esse conformes hominibus et quibusdam
aliorum animalium. Posuerunt enim fabulose homines
quosdam deificatos, et quaedam animalia, et quaedam
consequentia istis, et alia similia dixerunt Ex quibus, si
aliquis hoc solum velit accipere quod primo ostensum est
in praehabitis, scilicet quod dii sunt quaedam substantiae
immateriales, putabitur esse dictum divine et secundum
verisimilitudinem. (S. Thomae Aquinatis in Methapysicam Aristotelis
Commentaria, ed. Cathala, Taurini 1915, p. 730. L. XII, Lectio
X). Nel suo commento alla Metafisica (ed. M. Hayduck, Berlino
1891, pp. 709,28-710,35), in margine a questo testo, lo
ps: Alessandro d'Afrodisia chiama in causa direttamente la
zoolatria degli Egizi.
Mi sembra evidente che Bruno abbia visto nel testo

della Metafisica un Aristotele che presentava se stesso come


propugnatore, attraverso la
nuova astronomia, di una religione basata sul culto di enti
preposti ai moti astrali. D'altra parte, di qui che deve
essere
attinto
uno
dei
significati
fondamentali
dell'affermazione bruniana relativa all'importanza per l'uomo del sapersi "fare bestia". Di qui l'insistenza sulla
metamorfosi in
animali degli "dei" dello Spaccio, ed una delle chiavi per
comprendere
la figura di Chirone.
99

dell'uomo, persero con il tempo il loro carattere allegorico e


furono interpretati in senso letterale. Di qui la nascita di una
falsa religione che coincise con la perdita stessa della legge
morale. I1 significato anticristiano del testo apocalittico ermeti co,
destinato come noto ad essere ripreso anche nello Spaccio in un
contesto estremamente significativo, si incontra qui nel De
immenso con alcune suggestioni lucreziane e Bruno non esita a
delineare le conseguenze ultime di questa vicenda cos come esse
si presentano ormai in tutta la loro evidenza nella vita civile e
politica del suo tempo, travagliata dallo scontro e dall'urto tra
immagini diverse e false della divinit.
I due processi che abbiamo richiamato sommariamente,
quello cosmologico e quello religioso, appaiono distinti nel loro
sviluppo ma appare possibile stabilire un parallelismo tra di essi.
In entrambi i casi, ci che era stato istituito come stru mento
dotato di finalit pratiche precise e ben definite, venne trasferito
su un terreno che ad esso non competeva, un terreno che
pretendeva di essere contemporaneamente quello della realt e
della verit. Tuttavia, l'accostamento tra i due processi in
realt dettato da qualcosa di ben pi profondo ed importan te di
una somiglianza esteriore. Tra di essi, tra le due serie di eventi
che abbiamo delineato esiste infatti un momento comu ne, un
anello di congiunzione che ha avuto valore decisivo se stato
quello che ha permesso di passare dal primo al secondo: la
conclusione del primo processo ha costituito in realt la causa
originaria del secondo, ci che ha dato luogo alla lenta
degenerazione e corruzione della verit dei miti. Ora questo
momento comune, questo elemento connettivo rappresentato dal
fatto che aver ipostatizzato semplici ipotesi astronomiche tra sformandole in realt fisiche ha condotto alla credenza in entit
immaginarie (phantastica secla), puro parto della fantasia umana, che
hanno assunto ben presto evidentemente il rango di divinit e il
ruolo di guida dei moti celesti. Mostrare l'insussi stenza dell'antica
cosmologia significher allora eliminare queste divinit
immaginarie e riaprire la strada alla rinascita della verit
religiosa. questo il punto su cui si decide la stessa
100

=,

novit metafisica del Bruno ed per le ragioni indicate che ben


presto, almeno a partire dalla Cena de le Ceneri, ogni suo discorso
cosmologico sar anche un discorso religioso e viceversa. Nel passo
che abbiamo analizzato del De immenso Bruno ha dunque cercato di
cogliere quel nesso causale che gli si presentava tra errata
cosmologia e falsa religione alla loro origine, nesso causale che egli
ritrova immutato e tenta di distruggere nel presente.
Gi nella Cena de le Ceneri, in effetti, in un testo capitale per
P intera opera del Brano', egli connette in modo radicale la sua
azione di scopritore della natura infinita dei cieli con la riforma
religiosa che viene annunciata, e lo fa in forme peculia ri che
sembrano rinviare come a loro obiettivo primario alla
contemporanea crisi religiosa ed in particolare alla discussione
sull'eucarestia, una discussione di cui si ricordata l'enorme
importanza per la vita religiosa del '500. In questo testo della
Cena, il modello letterario rappresentato per ragioni profonde da
Lucrezio e precisamente dall'elogio, cos carico di valori reli
giosi, che Lucrezio fa di Epicuro, considerato come colui che
asceso attraverso i cieli per rivelare la loro vera natura e libe
rare gli uomini dal terrore della morte e degli dei. Anche
Bruno, come Epicuro, chiamato a liberare gli uomini e a
dissolvere tali timori attraverso la sua ascesa nei cieli. In con
trapposizione a Colui che avrebbe dischiuso loro i veri tesori
celesti, il Nolano dissolve in questo modo la realt fisica delle
sfere immaginarie, concentriche che avrebbero posto un limite
al cosmo e si appresta a riscoprire l'autentica natura della divi
nit. Questa non al di l di un mondo finito che darebbe in
ogni caso ad essa un connotato spaziale inconciliabile con la sua
essenza, in altri termini non risiede in una sede sua propria e
distaccata di natura diversa ma intrattiene con il cosmo un
rapporto che va indagato sulla base di presupposti totalmente
diversi.

s3

Dialoghi, pp. 30-35.


101

Qui ci troviamo di fronte al momento conclusivo di cia scuno dei due processi da cui siamo partiti e che Bruno evoca va
come paralleli ed insieme intrecciati nel De immenso, ma il loro
epilogo ci presenta due caratteri di estrema importanza che a
questo punto non possono pi sorprenderci. Non solo il
dissolversi dell'uno si connette in modo indissolubile con il
dissolversi dell'altro, ma ci che pi importa il fatto che la
conclusione del primo, la riscoperta della verit e realt cosmologiche, si ponga come la causa diretta del ritrovamento della
verit religiosa. Ora, ci che appare come essenziale per il
prodursi di tale conclusione costituito non dal semplice eliocentrismo copernicano ma dalla concezione che il Bruno ha fatto
sua propria di un universo infinito.
Qui si apre un problema di cui forse non stata adegua tamente avvertita tutta l'importanza. Certo il Nolano sembra dare
per scontato nella Cena che Copernico abbia costituito la premessa
indispensabile, una premessa che aveva in ultima analisi un'origine
superiore, divina, al prodursi ed al dispiegarsi della sua azione
filosofica. Eppure Copernico, nonostante il suo eliocentrismo ed il
conseguente elevamento della terra al rango di tutti gli altri
pianeti, appare ancora legato, come ben noto, alla concezione di
un universo chiuso, finito. Il problema rappresentato dal passaggio
dalle sue concezioni a quelle ben pi radicali del Bruno, che
guarda ormai ad uno spazio infinito occupato da infiniti sistemi
solari simili al nostro, non chiarito nella Cena ma appare
tutt'altro che come un dato scontato che non abbia bisogno di
delucidazioni. Non qui in causa, appena necessario
sottolinearlo, la rilevanza assoluta dell'opera di Copernico per il
nostro autore ma credo che sia importante, in relazione
all'interrogativo che ci siamo ora posti, avanzare una serie di
ipotesi che non hanno la pretesa di fornire una risposta esaustiva
ad esso ma che sembrano presentare -il pregio di sommare -la loro
capacit esplicativa, di rafforzarsi a vicenda se non addirittura di
suggerire una possibile spiegazione dell'itinerario speculativo del
Bruno sul punto forse pi delicato della sua riflessione.
102

Certo, il semplice eliocentrismo era sufficiente a spezzare una


delle chiavi di volta della cosmologia, e non solo della
cosmologia, aristotelica: intendiamo alludere alla separazione di
natura tra mondo celeste e mondo sublunare, un elemento ra dicalmente nuovo di cui non occorre sottolineare l'enorme por tata
per tutti i campi del sapere. Ora, se la terra doveva essere posta
sul piano di ogni altro pianeta, si rafforzava la persuasione che i
processi della vita e del movimento aventi luogo su di essa
avessero a che fare in misura determinante con l'azione fisica
del sole concepita come loro causa. La conseguenza pi
importante di questa possibile interpretazione dell'eliocentrismo e
del moto della terra intorno al sole era che la funzione specifica
assolta dalla sfera delle stelle fisse nel cosmo aristo telico
sembrava perderei suoi connotati tradizionali, non senza
conseguenze anche in campo astrologico. A questo proposito
notevole che Bruno affermi nel De immenso, parlando dei corpi
celesti pi lontani dal nostro pianeta, "multa valent signare, nihil
causare remota" '.
C'era tuttavia qualcosa di pi, su cui a ragione ha insistito il
Koyr 55. L'assenza di parallasse delle stelle fisse, cio la mancata
differenza percepibile per l'osservatore tra la loro posizione
apparente e quella reale, costringeva Copernico a postulare un
ampliamento di enorme portata rispetto alle dimensioni tradizionali
del cosmo, un ampliamento che riguardava in particolare la
distanza tra la sfera di Saturno e quella delle stelle fisse. Per
queste ragioni Copernico non esitava ormai a parlare
nel primo libro del De revolutionibus di un universo "immen
so" avendo per sempre cura di riferire tale giudizio come
valido solo in rapporto all'uomo, mentre Bruno avrebbe ri
preso senza esitare il termine nel titolo stesso di uno dei
Il j. BR UN I N OLAN I Opera, cit., I, II, pp. 265-5 (De immenso, VII
10). Bruno parla gi qui, doveroso precisare, dei corpi
celesti di un
universo infinito.

Il A. KoYR, La rivoluzione astronomica. Copernico Keplero Borel


li, Milano 1966.

103

suoi poemi latini, l'unico che egli ponesse sul piano della verit
dimostrata (certissime invenimus), dandogli ormai il valore oggettivo ed esplicito di infinito e conservando in senso teolo gico
il significato di "ci che al di l di ogni misura pos sibile" sb
Il testo della Cena a cui abbiamo fatto riferimento in
precedenza e che parla della liberazione degli uomini da parte del
Nolano, sembra tuttavia indicare, come si accennava, un aggancio
concreto alla discussione sulla presenza eucaristica. Tale aggancio,
che chiama in causa il rapporto diretto dell'uomo con Dio, appare
pi che altrove esplicito nell'affermazione secondo cui il nostro
autore salito nei cieli per vedere "quello che lass veramente
si ritrovasse". Si diceva che per Bruno al di l del limite del tutto
fittizio dell'universo fisico era stata posta la sede immaginaria
della divinit. Ora che entrambi questi concetti -quello di un
limite fisico del cosmo e quello di una sede della divinit vengono perdendo di senso, sembra possibile avviarsi alla
riconquista della vera nozione del divino ripensandola in rapporto
a un universo infinito, il solo che ne rispetti l'essenza senza
entrare in contraddizione con essa.
$ probabile, ed questa la seconda ipotesi che avanziamo
relativamente al problema che ci siamo posti - che per Bruno la
stessa discussione eucaristica venisse perdendo ogni significato non
appena fosse stata sottratta al quadro di quell'universo finito, in
rapporto al quale soltanto essa aveva potuto nascere
s6 N. COPERNICO, De revolutionibus orbium caelestium. La costituzione
generale dell'universo a cura di A. Koyr, pp. 60-4 (L. I, cap. VI, De immensitate
caeli ad magnitudinem terrae): ... Hoc nimirum argu
mento satis apparet, immensum esse caelum comparatione Terrae, ac infinitae
magnitudinis speciem prae se ferrea sed sensus aestimatione Terram esse respectu
caeli, ut punctum ad corpus et finitum ad infini
tum magnitudine ... Nihil enim aliud habet illa demonstratio, quam indefinitam
caeli ad Terram magnitudinem. At quousque se extendat haec immensitas minime
constat ... Ita quoque de loco Terrae, quamvis
in centro mundi non fuerit, distantiam tamen ipsam incomparabilem adhuc esse
praesertim ad non errantium stellarum sphaeram.

104

ed incontrare tutti i problemi che aveva sollevato, rendendoli


cos al tempo stesso insolubili. evidente, d'altra parte, che in

tal modo entravano in discussione per lui non alcuni particola ri,
ma il cuore stesso del Cristianesimo.
Richiamiamo alcuni, pochi, dati della controversia, i soli che
ci sembrano essenziali ai fini ora del chiarimento del nostro
discorso, ricorrendo ancora una volta alle posizioni di Lutero e di
Calvino cos come le abbiamo delineate pur sommariamente
all'inizio di questo lavoro. Il problema, si visto, risiedeva nella
difficolt di render conto di come un corpo fisico, sia pure quello
glorioso del Cristo, fosse asceso alla destra del Padre per ivi
rimanere fino al giorno del giudizio, ma potesse essere
contemporaneamente presente nel pane e nel vino del sacramento
eucaristico per comunicarsi agli uomini, senza ab bandonare
dunque nella sua stessa corporeit la sede celeste a cui era asceso.
Se la critica alla messa intesa come sacrificio ed alla concezione della
transubstanziazione propria della Chiesa di Roma trovarono
d'accordo le diverse confessioni protestanti, al contrario si
aprirono presto tra di esse dissensi pro fondi sul modo in cui
concepire la presenza eucaristica. Per
Lutero, il corpo trasfigurato e risorto del Cristo godeva nono
stante la sua fisicit di attributi ultraterreni in cielo, attributi
con i quali si rendeva realmente cio corporalmente presente
nei segni del sacramento. Tale corpo sussisteva s in cielo alla
destra del Padre, ma era ugualmente presente negli innumere
voli luoghi dell'universo fisico, del mondo sublunare, sebbene
non in tutti fosse "manducabile". Per il Riformatore di Wit
temberg dunque la "destra del Padre" non doveva essere intesa
dando ad essa un connotato spaziale, ma doveva essere concepi
ta come l'onnipotente maest di Dio, insieme presente ed as
sente in ogni luogo poich non circoscrivibile da nessuno di
essi, sebbene fosse creatrice e fondamento di ogni cosa. All'u
biquit del corpo del Cristo si univano cos la sua onnipotenza
e la sua infinit.
Era inevitabile che gli venisse obiettato, come doveva av
venire gi con Zwingli, un uso indebito della communicatio
105

idiomatum, il trasferimento cio alla natura umana del Cristo di


una propriet, l'ubiquit, appartenente esclusivamente alla sua
natura divina, non meno di una concezione discutibile della
potentia Dei absoluta, data la difficolt di conciliare tale ubiquit
con il carattere fisico del corpo glorioso senza che ne derivasse
una contraddizione interna -allo stesso agire divino. In relazione a
quest'ultimo punto, assume un rilievo assoluto ai fini del nostro
discorso il fatto che nel precisare la sua concezione e
nell'attaccare i suoi detrattori Lutero vedesse a sua volta nelle pi
diverse spiegazioni che venivano date del mistero eucaristico una
applicazione indebita, al di fuori del terreno su cui esso poteva
valere, del principio di non contraddizione. Non so se in tal
modo egli ponesse davvero i germi di una logica del divenire,
come stato affermato'; ma sembra certo che il rapporto tra il
pane del sacramento ed il corpo del Redentore si presentasse ai
suoi occhi in termini tali che due nature diverse venissero a
costituire un'unica essenza, per cui la presenza reale finiva per
presentarsi come una praedicatio identica di enti originariamente
differenti. noto che per giustificare tale concezione Lutero faceva
appello ad alcuni esempi naturali (il ferro che, infuocato sembra
fare tutt'uno col fuoco) e soprattutto ricorreva ad alcuni esempi
tratti dalle Scritture e relativi alla vita del Cristo di cui tuttavia gli
avversari ebbero a rilevare subito il carattere non canonico. Pi
importa ai nostri fini, per chiarire la sua posizione, che egli
venisse stabilendo un rapporto tra il modo in cui concepiva la
presenza reale e l'unit della duplice natura del Cristo, tra
l'unione del tutto particolare di un corpo e di un pane da un lato
e il fatto che in un'unica persona umanit e divinit, termini tra
loro ben pi
57 Si vedano le tesi sostenute dal D E N E G R I , La teologia
di Lutero, cit., in particolare nell'ultima sezione del libro,
dal titolo Rivelazione e dialettica. Per il rapporto tra
Lutero e Copernico oltre a quanto ne dice
KOYR, La rivoluzione astronomica, cit., si veda HEIKO A.
OBERrVIAN,

"Reformation and Revolution: Copernicus' Discovery in


an Era of Change" ora in The Dawn of the Reformation.
Essays in Late Medieval and Early Reformation,
Edinburgh 1986, pp. 179-203.

106

contrastanti, si congiungessero in modo tale da dar luogo ad


una communicatio tra essenze che erano appunto le pi oppo ste
tra loro.
Calvino, si visto, rilevava che alla radice del problema
c'era l'enorme distanza fisica che si frapponeva tra noi ed il
corpo celeste del Redentore ed il tentativo di trovare un modo
per colmare tale distanza. La risposta che egli credette di poter
dare al problema, ricorrendo all'operazione segreta dello Spirito
Santo, implicava che fossero gli uomini ad essere elevati al Cristo
ed alla sua azione rigeneratrice e non che fosse il suo corpo a
discendere tra noi dalla sua dimora celeste. In partico lare,
Calvino riteneva di poter far fronte con la sua soluzione alle
difficolt gin cui si era avvolto Lutero nel momento in cui
localizzava ancora una volta il corpo del Cristo, senza dover
cadere nell'errore opposto, rappresentato da una spiritualizzazione
integrale del sacramento eucaristico che riducesse i segni a
semplice simbolo. Se Lutero rifiutava la transubstanzia zione
della Chiesa di Roma, pur restava legato all'idea della presenza
reale del corpo glorioso nel pane, senza peraltro che quest'ultimo
perdesse la sua natura. Ora, una soluzione di questo tipo
presentava agli occhi di Calvino due ostacoli insormontabili,
d'ultra parte appena ricordati a proposito di Zwingli. In primo
luogo, ci si trovava di fronte all'ubiquit di un corpo - un corpo
fisico, quindi legato ad un luogo ed alle sue dimensioni - di cui si
sosteneva che era presente contemporaneamente quaggi nel pane
e al di l del cosmo fisico, precisamente alla destra del Padre. La
prodigiosa ubiquitas a cui approdava Lutero come alla premessa
diretta della consubstanziazione implicava la confusione delle due
nature, l'attribuzione alla carne del Cristo delle dimensioni del
cielo e della terra, mentre i1 suo corpo diveniva in tal modo
duplice, invisibile, immenso (di corpus immensum ss parlava
esplicitamente
58

I. Calvini Institutio, IV, 17, 16, CR Opera II, col.


1005: Volunt ergo Christi corpus invisibile esse et
immensum, ut sub pane lateat.
107

Calvino). Si aveva dunque un uso indebito della communicatio


idiomatum cos come questa serie di errori indicava un uso
arbitrario del concetto della potentia absoluta di Dio.
Ubiquit ed immensit del corpo di Dio, un corpo che non aveva
mai perduto la sua natura strettamente fisica, rinviavano infatti per
lui ad un errore capitale originario, determinato dall'aver elu so le
parole della Scrittura .Non si trattava in altri termini di
determinare di fronte a questo problema che cosa avrebbe po tuto
fare la divinit, chiamando in causa la sua potentia absolut a , ma di
stabilire in base alla Scrittura ci che aveva voluto fare. Con la
strada che si era imboccata, si venivano ad infrangere, senza trovare
nella Scrittura validi appigli che giustificassero questo modo di
procedere, le leggi stesse della creazione divina, leggi che
implicano che un corpo debba essere legato a condizioni spaziali
che non possono essere sovvertite, pena il venir meno dell'ordine
imposto dalla sapienza divina alla creazione. In altre parole, come
affermava esplicitamente Calvino evocando quello che era
considerato il limite classico della potenza assoluta stessa, si era
proceduto ancora oltre l'errore segnalato: Dio pu fare della luce
tenebra, delle tenebre luce, non pu fare che la luce sia
contemporaneamente tenebre c o s come non pu fare che un
corpo sia carne e contemporanea mente non carne'. La logica del
principio di non eontraddizio

G. CALVINO, Istituzione, cit., p. 1610, Institutio, IV, 17,


24. Cfr. CR Opera II, col. 1023: Insane, quid a Dei
potentia postulas ut
carnem faciat simul esse et non esse carnem? Perinde ac
si instes ut lucem faciat simul esse lucem et tenebras. At
lucem vult esse lucem;
tenebras, tenebras; carnem, carnem. Convertit quidem
quum volet tenebras in lucem et lucem in tenebras; sed
quum exigis ut lux et
tenebrae non differant, quid aliud quam ordinem sapientiae
Dei pervertir? "Simul" nella versione francese diviene
"ensemblement" e poi
"tout en un coup".
Per il concetto di potentia absoluta, e potentia
ordinata, mi limito
Il

qui a segnalare: The Pursuit of Holiness in the Late


Medieval and Renaissance Philosophy, Edd. Ch. Trinkaus
e H. A. Oberman, Leiden
1974; Divine Omniscience and Omnipotence in Medieval
Philosophy,
108

ne si ergeva quindi contro la soluzione luterana. Calvino invi tava


cos a fermarsi al carattere incomprensibile dei modi del
parteciparsi del Cristo all'interno della soluzione che egli pro spettava e che intendeva salvaguardare l'eterogeneit di universo
corporeo e sfera spirituale senza abdicare al carattere oggettivo del
Sacramento, pur pagando un prezzo pesante alla sua posizione
dal momento che la logica stessa di essa lo conduceva a postulare
uno spazio al di l dei cieli fisici.
Ma possibile ormai soffermarsi brevemente su alcuni degli
elementi sin qui emersi con chiarezza e che ci sembrano
essenziali per la prosecuzione del nostro discorso. Si discute qui
sulla immensit ed ubiquit o meno di un corpo divino, sui
modi in cui la divinit pu comunicarsi all'uomo attraverso un
corpo che il corpo stesso del Figlio di Dio, del Verbo incar nato, sui modi in cui lecito concepire la potenza assoluta di
Dio, sulla possibilit o meno di una compresenza che tende al
limite ad identificarsi con una "coincidenza" di due corpi fisici
diversi di cui il primo riveste caratteristiche del tutto particola ri.
Ora, al di l dell'intervento specifico che Bruno ha sviluppa to
nell'ultimo dialogo dello S p a c c i o sulla concezione calvinista

ed. T. Rudavsky, Dordrecht-Boston-Lancaster 1985; Sopra la


volta del mondo. Onnipotenza e potenza assoluta di
Dio tra Medioevo e Et
moderna, Bergamo 1986 in part. per i saggi di M. T.
Beonio Brocchieri Fumagalli su Wyclif e Abelardo, di A.
Pacchi su Hobbes, di G. B. Gori su
Malebranche, di Heiko A. Oberman su "Via antiqua" e "via
moderna": preambolo tardo medievale alle origini
teoriche della Riforma (ma in gene
re la posizione dell'Oberman, di cui si veda in italiano il
notevolissimo I maestri della Riforma, Bologna, 1982
meriterebbe un'attenta e
serrata discussione); E. RANDI, Il sovrano e l'orologiaio.
Due immagini di Dio nel dibattito sulla "potentia
absoluta" fra XIII e XIV secolo,
Firenze 1887, incentrato su Duns Scoto ed Ockam. Una ricca
bibl. sull'argomento nel vol. cit. Sopra la volta del
mondo. Ma su questo tema
nel Seicento e sul rischio di stabilire fragili linee di

continuit che finiscono per essere elusive nei confronti di


alcune rotture determina s,
per l'intero pensiero del '600, cfr. S. L A ND uc cI , La teodicea
,n~il' l ' cartesiana, Napoli 1986.
; .,

della cena, sulla transubstanziazione e sul ruolo del Cristo come


mediatore, credo persuasivo affermare, come si accennato pi
sopra, che egli fosse condotto dai termini stessi della discussio ne a
porre quest'ultima in rapporto diretto con la concezione
tradizionale di un cosmo finito. Tale concezione accomunava tra
loro le pi diverse posizioni, inserendosi in esse quale im plicito,
tacito presupposto, e le accomunava in misura tanto pi
determinante in quanto si trattava appunto di spiegare come un
corpo, sia pure il corpo glorioso di Cristo, fosse asceso al di l
dell'universo e dello spazio fisico per ivi risiedere alla destra del
Padre e nello stesso tempo fosse destinato a ritornare quaggi,
secondo una promessa che sanzionava addirittura il nuovo patto
tra Dio e gli uomini'.
Se appare altamente probabile che Bruno abbia visto nella
concezione tradizionale del cosmo la ragione vera che impedi va
all'origine di superare le difficolt, insolubili e gravide di
conseguenze funeste, in cui tale discussione si era avvolta 61, e

60

Cfr. quanto scrive in proposito il W E N D E L , Calvin,


cit., p. 266: Il y aurait d'ailleurs lieu de se demander,
remarquons-le en passant,
dans quelle mesure Calvin a pu tre amen par ses
conceptions cosmologiques et notamment par son
attachement l'ancien systme du mon
de, souligner avec autant de force cette localisation du corps
du Christ au-dessus de la sphre visible du ciel, mais dans
un endroit donn de
l'espace.
61 Cfr. A. M E R C AT I , Il Sommario, cit., pp. 113-4: Dico ...
che la
potenza di Dio essendo infinita produce cose infinite, et
effetto finito in ogni modo presuppone potentia finita per la
legge irrefragabile delli
relativi, li quali in ogni modo sono eguali a me, che pono
eff etto infinito, la divina potenza, et operatione infinita
sta intatta, e salda: a
quelli che mettono effetto finito occorrono tanti
inconvenienti, e difficolt, et mendacit per accordare
questi doi relativi discordanti, e da
quel modo di ponere seguitano dell'eretiche opinioni etc.

Postea ad punctum principale dico che chi pone l'effetto


finito estortamente, ma
lamente et balbamente la pu applicare a causa infinita. Il
testo in cui forse pi chiaramente Bruno ha collegato
l'incarnazione del Cristo e la
cerimonia eucaristica da un lato e l'infinit dell'universo
come loro superamento dall'altro nel D e i m m e n s o , I I , 1
in Opp. lat., I, I,

110

altrettanto probabile, a giudicare dai presupposti metafisici re lativi alla potenza divina, che porr a cardine della sua fi

pp. 205-6: Non levem igitur ac futilem, atqui gravissimam


perfectoque
homine dignissimam contemplationis partem persequimur,
ubi divinitatis, naturaeque splendorem, fusionem, et
communicationem non in Ae
gyptio, Syro, Graeco, vel Romano individuo, non in cibo,
potu, et
ignobiliore quadam materia cum attonitorum seculo
perquirimus, et inventum confingimus et somniamus: sed
in augusta omnipotentis regia,
in immenso aetheris spacio, in infinita naturae geminae
omnia fientis et omnia facientis potentia ... Sic ex
visibilium aeterno, immenso et innumerabili effectu,
sempiterna, immensa illa majestas atque bonitas intel lecta conspicitur, proque sua dignitate innumerabilium
deorum, mundorum dico adsistentia, concinentia, et
gloriae ipsius enarratione, immo ad oculos expressa
concione glorificatur ... Eja igitur ad omniformis dei
omniformem imaginem conjectemus oculos, vivum et
magnum illius admiremur simulacrum: hinc ubi, velut in
animae prora, pharus sensus visus antecedit, ratio de
puppi clavum tenet, in speculam lumen intelligentiae
tollitur, ut de toto horizonte praeterita, memoria repetat,
praesentia meditetur, et futura praevideat. Hinc
miraculum magnum a Trismegisto appellabitur homo,
qui in deum transeat quasi ipse sit deus, qui conatur
omnia fieri, sicut deus est omnia; ad objectum sine fine
(ubique tamen finiendo) contendit, sicut infinitus est
deus, immensus, ubique totus. Inutile sottolineare il
valore del tutto particolare che viene a queste
affermazioni dal collocarsi all'inizio dell'opera; nei versi
precedenti Bruno tornava a presentarsi come colui che
ascendeva nei cieli per farsi Dux, Lex, Lux, Vates, Pater,
Author, Iterque, in parallelo con il passo della Cena cit.
alla nota 53, p. 101 e nella dedicatoria si attribuiva (p.
199) Dei optimi praedestinante gratia. Ma forse non va
trascurato, del testo del De i mm en so qui citato per
esteso, quel perfetto Nomine. Tornando un attimo indietro nel
nostro ragionamento, non inutile osservare che a
conclusione del poema latino (VIII, 10) nel momento in
cui attaccava con Palingenio e lo Ps: Dionigi ogni
concezione di un mondo intelligibile separato dal nostro e

la possibilit di porre un limite alla creazione sulla base


di arbitrarie interpretazioni della volont divina, Bruno
tornava a contrapporre la gloria della divinit risplendente
nella legge di natura a chi la cercava nel sangue di una
cimice, nel cadavere di un circonciso, nella bava di un
epilettico, sotto i piedi di carnefici che calpestano e nei
misteri frutto di melanconia di spregevoli necromanti
(Opp, lat., I, II, 316) forse il momento di maggior violenza
nella sua polemica contro il Cristo ed i culti cristiani.

111

losofia che egli abbia pensato che qualsiasi concezione finita


dell'universo non potesse non dar luogo ad una errata conce zione
del rapporto tra Dio e il mondo e quindi tra Dio e l'uomo. In tal
caso, tutte le assurdit mostruose a cui per Calvino aveva
condotto il dibattito eucaristico non meno della sua stessa
posizione potevano rinviare agli occhi del Bruno a quel
significato autentico di cui rappresentavano la cieca, idolatrica
contraffazione solo attribuendo l'infinit alla creazione, alla
creatura divina.
Occorreva in altri termini postulare una nozione corretta
della infinita potenza divina; sviluppare la coincidenza dei contrari al
solo livello a cui essa competeva in modo rigoroso, quello divino,
per poterne coglierne il riflesso reale nella sfera del divenire;
ripensare il parteciparsi della divinit sia sulla base dell'immensit
della creazione, intesa ermeticamente come l'autentica generazione
divina, sia sulla base della ubiqua presenza di Dio in essa, ubiqua
presenza che legava e scioglieva contemporaneamente il divino in
misura assoluta rispetto alla creazione; ripensare in quali 'termini il
corpo del cosmo andasse inteso anche come corpo della divinit.
Solo se il cosmo era infinito si apriva dunque la strada a
risolvere l'insieme di problemi che abbiamo riepilogato e si
rendeva possibile concepire in modo corretto il rapporto tra la
divinit e la creazione; in caso contrario, si andava incontro a
due assurdit che si condizionavano a vicenda: l'esistenza di un
cosmo finito ed il parteciparsi del divino all'uomo non pi
attraverso il corpo intero della creazione ma attraverso singole
creature elevate al rango, privilegiato ma destituito di alcun senso
e di alcuna efficacia, di mediatrici. Nel caso specifico, si trattava,
con l'idolatria cristiana, del parteciparsi del divino attraverso il
corpo di un uomo; peggio, per usare l'espressione cara al Bruno,
attraverso il corpo di un uomo morto.
I due processi - quello cosmologico e quello religioso - da cui
siamo partiti in questo paragrafo tornano qui a ripresentarsi
intrecciati in misura tale da impedire appunto la sola
comunicazione possibile con il divino. Se legittimo affermare
112

che a questo punto di svolta il concetto di infinito destinato ad


assumere un rilievo assolutamente centrale nella speculazio ne del
Bruno, appare altrettanto chiaro che la formulazione del corretto
rapporto tra uomo e Dio dovr ormai passare attraver so una
rifondazione non solo cosmologica ma anzitutto metafisica
dell'edificio filosofico, rifondazione di cui gi sappiamo che sar
alla base della sua stessa riforma morale. Ora, il nome che in
questa prospettiva viene naturalmente alla mente - ed questa la
terza ipotesi che avanziamo in relazione al problema che ci siamo
proposti - il nome di Nicola Cusano ', e e se tale indicazione
appare come la pi ovvia, quasi banale, tra quelle che potevano
presentarsi, occorre pur dire che essa non solo risulta importante
in relazione al problema specifico affrontato ma sembra aprire
delle possibilit nuove nella prospet
62 Per il rapporto tra Cusano e Copernico, tra Cusano e
Lutero, cfr. R. KLIBANSKY, Copernic et Nicolas de Cues, in
Lonard de Vinci et l'exprience scientifi que au XVI
sicle, Paris 1953, pp. 225-35; R. W EI ER , Der Ein f luss des
Nicolaus Cusanus au l das Denken Martin Luthers, in
"Mitteilungen
und
Forschungsbeitrge
der
CusanusGesellschaft", 4 (1964), pp. 214-229; F. Ed. C R A N I , Cusanus,
Luther, and the Mystical Tradition, in The Pursuit of
Holiness in Late Medieval and Renaissance Religion, cit.,
pp. 93-102. Per il rapporto Bruno-Cusano, resta classico di E.
CASSIRER,
Individuo
e
cosmo
nella
fi losofi a
del
Rinascimento, Firenze 19674 (ma l'ediz. originale del
'27) su cui ancora valida la puntualizzazione di E. GARIN,
Cusano e i platonici italiani del Quattrocento, ora in
L'et nuova. Ricerche di storia della cultura dal XII al
XVI secolo, Napoli 1969. Ha valore solo storico il vol.
postumo, curato da V. Imbriani, di F. FIORENTINO, Il
risorgimento fi losofi co nel Quattrocento, Napoli, 1885,
mentre conserva notevole interesse, sul piano di un confronto
di testi, la memoria di F. Tocco, L e f o n t i p i r e c e n t i d e l l a
fi l o s o fi a d e l B ru n o , Rend. Acc. dei Lincei, Cl. di sc. morali,
vol. I, fasc. 7-8, 1892, pp. 39-66 dell'estratto. Se ripreso, il
lavoro del Tocco credo darebbe risultati sorprendenti, a
cominciare dalla massiccia presenza di Cusano negli Eroici
furori. Ma v. anche H. VDRINE, L'in f luence de Nicolas de
Cues sur G. Bruno, in Niccol Cusano agli inizi del
mondo moderno, Firenze 1970, pp. 211-223. Torna a

mettere giustamente al centro del suo interesse l'opera di


CusANo L. DE BERNART, Immaginazione e scien za in Giordano
Bruno. L'infi nito nelle forme dell'esperienza, Pisa
1986.
11
3

tiva di una unificazione dell'intera opera italiana del Bruno.


Certo, il Nolano poteva ritrovare alcune suggestioni deci sive
nella direzione indicata all'interno della tradizione ermetica e
platonica quale egli veniva reinterpretandola soprattutto at traverso Ficino ed i commenti di Ficino alla Ps. - Dionigi, a
Platone, a Plotino, agli stessi testi ermetici. Tale tradizione era gi
di per s sufficiente a suggerirgli in varie forme l'incon gruenza
di porre un limite spaziale a ci che spaziale non era; gli indicava
che ogni localizzazione della divinit ha senso e pu essere intesa
solo se si colga il nesso indissolubile di tra scendenza ed
immanenza che lega il divino indistintamente ad ogni creatura; gli
apriva la strada a concepire la divinit come ci che a
fondamento di ogni ente eppure non esaurisce se stessa in
nessuno di essi: presenza assoluta non meno che as senza
assoluta, radicale alterit e nello stesso tempo ci che pi
intrinseco alle cose delle cose stesse. Si aggiungano le suggestioni
della teologia negativa, le aperture presenti nei testi dello Ps. Dionigi alla dottrina della coincidenza dei contrari '.
Tutto questo aiuta a comprendere come Bruno
non solo abbia potuto sentire correttamente
l'opera di Cusano come oogenea rispetto a tale
tradizione ma rabbia potuto per cos dire risalire con naturalezza da
Ficino ~a Gusano stesso per ritrovarvi gli elementi che pur
attraverso una profonda reinterpretazione dovevano decidere delle
linee portanti del suo edificio filosofico e religioso.
Appare estremamente significativo, da questo punto di vista,
che l'incontro tra Ficino e Cusano sia documentabile con
precisione nell'opera del Nolano ancor prima del Sigillus sigillorum
(1583), gi a partire dal De umbris idearum (1582), in

61

Cfr. D. LuscoMBE, Some Examples of the Use Made of the Works of the
Pseudo-Dionysius by University Teachers in the Later Middle Ages, in The
Universities in the Late Middle Ages, Louvain
1978, pp. 228-41, d'altronde incerto per il periodo successivo
a Cusano. Ma si vedano i giudizi di Calvino sullo PsDionigi, ivi, pp. 227-8.
114

forme specifiche che sono orientate ad una fusione dell'inse gnamento dei due autori. Tale incontro si realizza nel De umbris su
un terreno insieme metafisico e cosmologico, chiamando in causa
tanto la ficiniana scala dell'essere, distesa tra i due estremi
della pura potenza e del puro atto, con la sua teoria del primum
in aliquo genere, quanto la cusaniana coincidenza dei contrari e
ricercando la possibilit di una loro convergenza. Nel quadro di
una cosmologia ancora tradizionale e che sar infatti irrisa nel De
immenso, la coincidenza dei contrari viene applicata alla scala
dell'essere, si tenta cio di individuare al l'interno di quest'ultima
il punto d'unione e di incontro tra sensibile ed intelligibile. Tra i
due estremi della pura potenza e dei puro atto, della materia e di
Dio, sussiste infatti per Ficino, e per il Bruno del De umbris, una
serie di gradi intermedi in cui, secondo modalit precise, si presenta
una mescolanza sempre variabile di atto e di potenza ma sono
proprio tali modalit che conducono a postulare all'interno di tale
scala l'esistenza di un punto mediatore tra i due regni del sensibile
e dell'intelligibile. Grazie ad esso il sensibile nel suo grado pi
alto tende a convertirsi nell'intelligibile, l'intelligibile nel suo
grado pi basso tende a convertirsi nel sensibile. quel punto
limite del cosmo in virt del quale l'atto tende a divenire
potenza, la potenza tende a divenire atto assumendone le fun
zioni e determinando cos una distinzione problematica tra la
natura dei cieli, vertice del corporeo, e l'anima razionale, ulti
mo grado del mondo intelligibile.
Questo punto mediatore, privilegiato rispetto ad ogni al
tro presente tra gli opposti della scala dell'essere e tale da
creare tra spirituale e corporeo, se non una coincidenza, una
copula, come scrive Ficino, dunque l'anima razionale, legata
per questa via in modo indissolubile all'esistenza stessa dei
cieli '. Credo che qui si annidi uno degli elementi indispensabili

61

Scrive Cusano nel De venatione sapientiae, 32: Quam pulchre


copulam universi et microcosmum hominem in supremo
sensibilis natu
115

per la comprensione del De la causa, allorch la coincidenza tra i due


opposti per eccellenza, atto e potenza, materia e forma, svincolata
dalla concezione tradizionale della scala dell'essere e quindi da un
limite fisico tra corporeo e incorporeo, da un punto particolare
dell'universo, sar estesa a tutti i punti di questo, individuata come
essenza stessa della divinit e quindi come la causa di un
universo necessariamente infinito. (Non per nulla il Bruno parla
costantemente nel De immenso della divinit come dello stesso
ubique). Non occorre poi aggiungere, quanto ai rapporti tra Bruno e
Cusano, che nel Sigillus sigillorum il concetto di contractio, applicato
alla conoscenza, svolge un ruolo assolutamente centrale.
Ma conviene ormai tornare al nostro problema ed alla nozione
di infinito in Cusano. Certo, neppure in quest'ultimo autore
Bruno poteva trovare, ponendo tra parentesi il problema della
mobilit della terra, una indicazione inequivocabile nel senso
ddl'infinit dell'universo quale verr intesa da lui. Si aggiunga
inoltre - il riferimento va ancora una volta al nome di Koyr ma la
sua posizione appare tutt'altro che isolata' - che si spesso teso a
limitare il ruolo della filosofia di Cusano nella genesi della
rivoluzione astronomica sulla base dei presupposti di natura
squisitamente metafisica che sarebbero all'origine delle sue prese di
posizione cosmologiche. Si tratta di un'osservazione certamente
corretta ma va tuttavia rilevato che molti degli elementi di novit
che Cusano introduce su questo terre

rae et in infimo intelligibilis locavit [Deus], connectens in


ipso ut in medio inferiora temporalia et suprema perpetua!
Ipsum in horizonte
temporis et perpetui collocavit, uti ordo perfectionis
deposcebat cit. da C . RICCATI, "Processio" et "Explicatio". La doctrine
de la cration chez
Jean Scot et Nicolas de Cues, Napoli 1983, p. 189.
Il A. KOYR, Dal mondo chiuso all'universo infinito, Milano 1970,

pp. 13-26. Koyr sottolinea la mancanza di stabilit e


precisione del mondo di Cusano e la sua estraneit
all'ideale matematico dell'astrono
mia, ma sembra anche in difficolt reale nella
comprensione di alcuni testi.
116

no, in particolare nella Docta ignorantia, vengono ripresi o almeno


discussi dal Bruno. Soprattutto, acquista ora per noi estrema
importanza proprio il dato accennato, il fatto cio che tutti questi
elementi non fossero spunti isolati, riflessioni autonome all'interno
dell'edificio concettuale dell'autore del De venatione sapientiae, ma
dipendessero in modo essenziale da una precisa metafisica e che
questa metafisica abbia avuto un rilievo cos profondo nel Bruno.
Vediamo allora come si configura, sia pure in maniera
estremamente sintetica, tale nesso tra cosmologia e metafisica
nell'opera di Cusano, avvertendo che esso tende a porre in rapporto le
due sfere estendendo la coincidenza dei contrari da Dio alla scala
dell'essere, per farne scaturire la necessit della figura del Cristo
come mediatore. In altre parole, gi nel De dotta ignorantia
coincidenza dei contrari e innovazione cosmologica si presentano
collegate in modo indissolubile alla figura del Cristo come unico
possibile mediatore. Sar bene allora, in relazione al discorso sin
qui sviluppato, anticipare alcuni interrogativi. In che senso la
speculazione cusaniana che pur non sfocia in una cosmologia
infinitista nel significato pi comune del termine, offre al Bruno, se
la offre, una concezione dell'infinito che gli permetta di render
conto del rapporto tra Dio e mondo risolvendo le difficolt del
dibattito teologico contemporaneo? In altri termini: in che senso il
problema della mediazione tra umano e divino si sviluppato in
lui in modo tale da far convergere coincidenza dei contrari e
infinit del cosmo, con il risultato di eliminare attraverso tale
convergenza ogni possibile funzione mediatrice del Cristo? In che
misura, infine, le difficolt teologiche di cui si diceva
condizionano a loro volta la lettura che Bruno ha compiuto di
Cusano nel momento stesso in cui tale lettura si appresta a
delineare una possibile soluzione di esse? Ma torniamo al rapporto
tra co
smologia e metafisica in Cusano.
XII. La "dotta ignoranza" cusaniana mira a condurre a
quel punto che indichi con la maggiore chiarezza possibile la distanza
infinita di Dio, meglio cerca di condurre alla consape
117

volezza pi alta che a noi sia dato di conseguire, del fatto che la
divinit al di l di ogni contenuto intellettualmente concepibile. Per
raggiungere tale fine, essa cerca di elaborare strumenti che siano
in grado di portarci a conclusioni tali da essere necessarie sebbene
non rientrino pi nella sfera di ci che concettualmente
esperibile. I risultati raggiunti non sono dunque casuali, frutto di un
non sapere che riposi nell'uomo come un dato inerte e passivo,
bens sono il risultato di arti, di strumenti concettuali che si rivelino
produttivi nel senso indicato; tra di essi la coincidentia oppositorum,
con la sua capacit di condurci oltre il cerchio del sensibile, svolge
certo un ruolo primario nel De dotta ignorantia come afferma lo
stesso Cusano ed tale da identificarsi per il Bruno, per sua stessa
ammissione, con il cuore del suo insegnamento. Occorrono dunque,
in questa prospettiva, strumenti che ci aiutino ad avvicinarci, per
usare una caratteristica espressione di Cusano, "in modo
incomprensibile all'incomprensibile" ma occorrer partire da quel
regno in cui l'uomo abbia a che fare con enti che siano prodotto
della sua ragione, che siano dunque comprensibili in modo
squisitamente intellettuale e si presentino quindi come strumenti
privilegiati nel momento in cui cerchiamo di procedere oltre ci che
figurabile, in cui tentiamo di figurare l'infigurabile. Intendiamo
riferirci evidentemente agli enti matematici.
Nella dimensione dell'infinito che propria di Dio, linea
triangolo e cerchio, centro diametro e circonferenza si presentano
come indistinguibili tra loro ed a noi dato di argomentare con certezza
come tale coincidenza sia necessaria sebbene concettualmente non
esperibile. La dimensione dell'infinito in cui siamo entrati dunque
quella che per le stesse identiche ragioni ora esposte ci permette di
asserire come, nei confronti delle cose, Dio sia la misura assoluta, il
termine, il confine esatto e la quidditas di ciascuna di esse, ci senza cui
non pensabile precisione alcuna proprio perch al di l di ogni
concetto possibile, inevitabilmente soggetto ad essere relativo ed
indeterminato, di misura, confine, limite. In quanto realt e
118

verit di ogni cosa, l'assoluta alterit che proprio per questo


assoluta identit, "non altro" rispetto ad ogni altro ente in quanto
ne trascende le determinazioni finite nel momento stesso in cui le
produce. L'infinito, lungi dal porsi nel senso negativo di
indeterminato dal momento che si identifica con il concetto stesso
di misura, segna cos l'inferiorit ontologica del sensibile ed ci
che permette di intuire, al di sotto della alterit e contrariet
presenti nell'universo, quell'unit non numerica che si pone come
assoluta identit, assoluta misura. Assoluta misura ed eguaglianza
proprio perch al di qua e al di l di ogni termine relativo di
grandezza e piccolezza, fatalmente scaturito in noi dal solo
confronto che ci consentito, quello tra enti appartenenti alla sfera del
sensibile e quindi non sottoponibile a criteri assoluti. La divinit
sar allora tanto il massimo quanto il minimo, ci di cui non si pu
pensare nulla che sia pi grande o pi piccolo. Inutile sottolineare
come per Bruno una speculazione di questo tipo potesse prestarsi in
maniera particolare a presentare quel nesso indissolubile di trascendenza ed immanenza rispetto al cosmo di cui si parlava,
rispettando l'assoluta identit ed alterit del divino nei confronti
di ogni ente.
noto che nel determinare il rapporto tra Dio e l'universo gioca
un ruolo essenziale per Cusano il concetto di contractio '. Quest'ultima
indica un riflettersi del divino nel creato che non pu non registrare
ad ogni livello una inferiorit ontologica; la contractio potrebbe essere
definita come uno specificarsi dell'assolutezza della divinit nella
singola creatura. Tale processo inesplicabile agli occhi dell'uomo
ed in effetti la, contrazione non cessa di indicare una infinita
distanza della
66 Cfr. J. HOPKLNS, Nicholas of Cusa's Metaphysic of
Contraction, Minneapolis 1983 (in part. il cap. IV).
Dell'Hopkins da vedere una messa a punto interessante
delle difficolt speculative presenti nella
Docta ignorantia, nella Introduzione premessa alla sua
traduz. dell'opera: J. HOPKINS, Nicholas o f Cusa on Learned
Ignorance. A Translation and an Appraisal of De Docta
Ignorantia, Minneapolis 1981, pp. 1-43.
119

divinit rispetto alla creatura, che non manca per questo di


rappresentarne un riflesso ed un'immagine. Ora, essa coinvolge in
primo luogo l'universo nella sua globalit. A Dio, massimo
assoluto, infinit oltre ogni diversit ed opposizione, corrispon de
nell'universo il massimo contratto, di cui Dio base e
fondamento essendo tutto in tutto cos come tutte le cose sono in
lui. La differenza pu essere esemplificata sia attraverso un
confronto tra divinit e cosmo, sia attraverso il diverso rappor to
che essi intrattengono con i singoli enti. Ad es., dice Cusano, se
Dio presente nel sole lo sar tuttavia in forma assoluta, senza cio
perdere nessuna delle sue determinazioni essenziali mentre il sole sar
in lui nella assolutezza e indistinzione originaria del primo
principio; al contrario, il massimo contratto sar pre sente nel sole
in modo tale che questi mantenga la sua auto nomia,
quell'autonomia che lo differenzia da ogni altro ente nel momento
stesso in cui pure riflesso completo del massimo contratto, suo
specchio e compendio. Il massimo contratto non potr allora non
presentare che in forma scissa nella pluralit, nella diversit e
nella contrariet che lo caratterizzano l'indistinzione presente
nella divinit e che suprema eguaglianza. L'unit di atto,
potenza e del loro nesso, in altri termini di potenza sapienza e
amore, propria della divinit non pu
dunque riscontrarsi quaggi che ad un livello di semplice riflesso
ma varr per tutto l'insieme della creazione, a partire dal singolo
composto, costituito anch'esso dall'atto, dalla potenza e dal loro
nesso, per giungere sino all'universo. In altri termini, quanto
abbiamo detto prefigura in parte il rapporto tra massi mo assoluto
e massimo contratto, tra Dio e universo, ma non ci esime da un
loro confronto diretto. Scrive Cusano a questo
proposito in uno dei passi cruciali dell'opera:
Solum igitur absolute maximum est negative infinitum; quae solum illud
est id, quod esse potest omni potentia. Universum vero cum omnia
complectatur, quae Deus non sunt, non potest esse negative infinitum, licet
sit sine termino et ita privative infinitum; et hac consideratione nec
finitum nec infinitum est. Non enim potest esse

maius quam est; hoc quidem ex defectu evenit; possibilitas enim sive
materia ultra se non extendit. Nam non est aliud dicere "universum
semper actu esse maius" quam dicere "posse esse transire in actum
infinitum esse; quod est impossibile, cum infinita actualitas, quae est
absoluta aeternitas, ex posse exoriri nequeat, quae est actu omnis essendi
possibilitas. Quare, licet in respectu infinitae Dei potentiae, quae est
interminabilis, universum posset esse maius: tamen resistente
possibilitate essendi aut materia, quae in infinitum non est actu
extendibilis, universum maius esse nequit; et ita interminatum, cum
actu maius eo dabile non sit, ad quod terminetur, et sic privative infinitum.
Ipsum autem non est actu nisi contracte, ut sit meliori quidem modo, quo
suae naturae patitur conditio. Est enim creatura, quae necessario est ab
esse divino simpliciter absolu
te, prout consequenter in docta ignorantia - quanto clarius et simplicius
fieri potest - quam breviter ostendemus 67.
I l clarius e simplicius rimasero forse nelle intenzioni di Curano
a giudicare dalle difficolt che sollev questo passo ai suoi
interpreti, eppure il richiamo ad intendere il testo all'interno
della struttura complessiva dell'opera sembra avere un suo senso.
In questa sede, d'altra parte, saranno forse sufficienti alcune
osservazioni, pur presentate nella consapevolezza dei loro limiti,
miranti ad un obiettivo preciso, quello di prospettare le linee di
una possibile lettura del testo da parte del Bruno. Mi sembra che
si sovrappongano qui due concetti diversi di infinito, uno
elaborato in relazione all'essenza della divinit, l'altro che chiama
in causa inevitabilmente la nozione di spazio. In altri termini,
Cusano ha determinato il concetto di infinito proprio della
divinit a partire dalle categorie di quantit presenti nel mondo
sensibile, e lo ha sottratto ad ogni possibilit di una proporzione con
esse. Il risultato finale appunto quello per cui tale infinito non pu
essere concepito che nella sua eterogeneit ed opposizione assoluta
rispetto a queste. Nel

67

120

NicoLni DE CUSA De Docta Ignorantia. Ediderunt E. Hoffmann et R.


Klibansky, Lipsiae 1932 (Opera Omnia, I), p. 128 (II, 1).
121

momento in cui, per cos dire, egli compie il cammino inverso, torna
cio da Dio al mondo sensibile ed all'universo, noi siamo preparati al
fatto che il massimo contratto non possa mai attingere in alcun modo
tale categoria nella sua purezza. In effetti, dal momento che
l'universo comprende tutto tranne Dio, non resta che attendersi che
questo comporti una differenza sostanziale sia per quanto riguarda
l'attualit che si realizza come attualit dell'universo, sia - e la cosa
appare inevitabilmente collegata - per quanto riguarda la potenza
che gli propria. Tale differenza chiama in causa direttamente,
infatti, il particolare concetto di infinito che proprio di Dio.
L'universo sar dunque infinito ma di una infinit del tutto
diversa da quella della divinit, in cui l'atto coincide con la potenza
(infinito negative); sar infinito in quanto non ha un limite
esterno a se stesso ma, segnato in modo decisivo dal non
comprendere Dio, avr un limite per cos dire interno, che si
riflette sulla sua attualit e sulla sua potenza, la materia. Sar
infinito privative, quindi n finito n infinito nel senso assoluto della
divinit. In questo modo Cusano pu sviluppare con apparente
chiarezza il suo ragionamento. L'universo non pu essere pi
grande di quello che , non ha quindi un limite esterno ma questo
dato, anzich essere un elemento positivo, il segno di una -inferiorit
ontologica che non potr mai essere superata. In effetti l'attualit
che esso presenta legata alla condizione della sua possibilitas essendi
e quindi della materia, il cui atto non pu estendersi all'infinito.
Esso quindi per le ragioni addotte non potr essere n finito n
infinito, ma indeterminato. Il problema che il testo solleva
allora quello se l'impossibilit dell'infinito negative implichi
l'impossibilit di una infinit fisico-spaziale, se il non poter essere
finito vada inteso in senso fisico. Se Dio fosse compreso
nell'universo, l'attualit di questo sarebbe di natura
differente, non solo infinita actualitas ma absoluta aeternitas e
potrebbe allora essere maggiore di quello che . Il fatto che accada il
contrario spiega come esso, contemporaneamente, non
potest esse maius quam est ma anche non possa semper actu 122
due concetti, mi sembra, diversi, per esprimere
l'impossibilit che sia infinito negative.
Cos l'inferiorit ontologica dell'universo va concepita in
esse maius,

rapporto alla nozione di infinito propria di Dio, in relazione alla quale


soltanto hanno senso le due citazioni appena fatte. quindi naturale
che tale inferiorit trovi una traduzione problematica sul piano
fisico proprio per quella eterogeneit di cui si parlava all'inizio tra due
concetti diversi di infinito. Sembra che la difficolt di Cusano sia
stata quella di dover conciliare una attualit ed una potenza che
avevano un limite intrinseco con un universo che non poteva
anch'esso non rifletterlo, nel momento in cui tale limite trovava la
sua origine in un concetto di infinito svincolato dalla nozione di spazio.
La difficolt risultava palese nel momento in cui poteva essere
osservato che, anche se l'universo veniva concepito come
spazialmente, fisicamente infinito, l'inferiorit di cui si diceva non
solo non veniva annullata ma restava identica a se stessa, sebbene
la cosa avrebbe certo aperto una serie di problemi all'interno del
pensiero di Cusano.
Mi sembra che questa sia stata la via che abbia permesso al
Bruno di capovolgere la duplice impossibilit di Cusano (n finito
n infinito) in una duplice affermazione positiva: l'universo
finito e infinito, contrattamente infinito, cio infinito rispetto allo
spazio ma non rispetto al tipo di attualit che si realizza in esso
attraverso la materia. Infatti, pur ponendo tra parentesi la
possibilit che egli abbia visto nell'infinito privati
ve un infinito spazialmente in atto, sembra difficile pensare che
non abbia fatto leva sull'ambiguit di una nozione di infinito che
nel caso di Dio escludeva lo spazio, nel caso dell'universo ne im
plicava l'esistenza e non abbia cos potuto procedere al successivo,
decisivo passaggio. Se infatti l'attualit spaziale il risultato e
l'effetto della differenza ontologica tra potenza passiva dell'uni
verso e potenza passiva di Dio, non ne potr essere la causa ed
allora andr ricercato in che cosa essa risieda. Rispetto a tale
inferiorit, che l'universo sia finito o infinito potrebbe essere
dunque indifferente, la causa va quindi identificata in Dio stesso
123

e precisamente nella possibilit o meno che Dio limiti la sua potenza, cosa problematica per lo stesso Cusano che parla altrove di una
potenza divina rispetto alla quale nulla esteriore e che in questo
stesso testo deve ammettere che in respectu in f initae lei potentiae,
universum potest esse maius. Ma se le due potenze passive si
identificano, coincideranno con la potenza attiva di Dio ed allora si
avr un universo necessariamente infinito. Cos Bruno saldava
l'irrilevanza dello spazio ai fini della definizione del limite della
potenza passiva della materia, con quella coincidenza tra lacere e
fieri in Dio di cui poteva asserire sulla base di altri testi di Cusano
che fondava nella sua assolutezza la possibilit di essere per ogni
ente. L'universo era cos finitamente infinito, composto cio di
parti ciascuna delle quali finita ma la sua infinit derivava in
modo necessario da quella assoluta coincidenza.
Ma torniamo a Cusano. Dunque l'universo non pu avere un
limite, non pu essere finito ch non potrebbe in questo caso
realizzare l'attualit di tutto ci che , se si esclude Dio, che a
sua volta la causa di tale attualit e di tale mancanza di limite.
Questa esclusione introduce dunque quell'elemento di
indeterminatezza che proprio di ogni parte della creazione e che
non pu mancare neppure al livello di essa intesa nella sua
globalit. Ma l'universo non pu neppure essere infinito, essere
maggiore di quello che e questo fatto trova la sua ragione d'essere
nei limiti della materia, della sua potenza passiva.
La distanza infinita del massimo contratto dal massimo
assoluto riposa allora nel fatto che esso il tutto in un modo
che resta infinitamente lontano da quello per cui la divinit
tutto, non sussistendo nulla della potenza di questa che non passi
all'atto, mentre il fatto che la materia passi all'attualit solo
spazialmente sembrerebbe decidere di questa inferiorit. Dunque il
massimo contratto non n finito n infinito e le due negazioni
non sono rovesciabili in due affermazioni. Non pu essere finito
poich in tal modo non potrebbe presentare sia pure in forma
contratta la totalit degli atti possibili; non pu neppure essere
infinito poich in tal caso corrisponde
124
rebbe ad esso una potenza passiva, una potenza di essere fatto che
pu essere prerogativa solo della divinit nella sua infinit. Il

riflesso della trinit divina negli enti trova dunque il suo limite nel
fatto che alla potenza assoluta, al poter essere fatto assoluto
coincidente nella divinit con l'atto infinito, l'infinito poter fare,
corrisponde nel creato una possibilit che le infe riore, quella
della materia. In altri termini nel processo della contrazione la
divinit ricevuta secondo un limite intrinseco alla materia che
fa di quest'ultima, o meglio dell'attualit del l'universo, un
infinito, come dice Cusano, solo in senso "privativo".
Un limite dunque che ha una valenza cosmica di importanza decisiva, che rende estranea la materia a quel livello in cui,
al di l di ogni determinazione e misura quantitativa, al di sopra e
al di sotto di esse, sussistono il massimo e il minimo, l'atto e la
potenza, il poter fare ed il poter essere fatto nella loro
coincidenza originaria. Il cosmo dunque immagine di Dio, ci
che rende visibile sia pure in forma inevitabilmente enigmatica
l'invisibile ma data la natura della materia ed i limiti della
possibilit che essa incarna non potr essere dichia rato in assoluto
infinito; potr essere presentato come l'immagine contratta di Dio
proprio a causa di tali limiti in quanto la divinit nel suo fondare
l'essere si contrae nella singola creatura che la riflette cos come
nell'intera creazione e ci garantisce l'infinita distanza tra di
essi, un punto di cui Cusano ha assoluto bisogno nel suo
discorso.
Se infatti la coincidenza di cui si parlava realizza in Dio la
totalit infinita in atto dei possibili, mentre la materia deter mina
un massimo contratto che non pu essere assoluto per le ragioni
indicate, la speculazione sull'atto, la potenza ed il loro nesso pu
convertirsi in speculazione trinitaria ed assolvere una funzione
determinante nella considerazione del rapporto tra Dio e
l'universo, qualora la possibilit di una loro coincidenza chiami in
causa direttamente la figura del Cristo.
La distanza infinita tra massimo assoluto e massimo contratto resterebbe infatti tale senza la possibilit di un massimo
125

che sia contemporaneamente assoluto e contratto, che possa quindi


realizzare la mediazione tra creatore e creazione perch egli stesso
creatore e creatura, e possa cos ricondurre la realt nella sua
globalit alla fonte stessa da cui emanata. Appare di immediata
evidenza che se questa possibilit si realizza, data la distanza
incolmabile tra i due termini, essa dovr essere demandata in
primo luogo ad un atto della divinit ed in effetti il terzo libro del
De docta ignorantia rivolto appunto alla soluzione del problema
cristologico, inteso come coincidenza tra gli opposti che sono stati
messi in luce, problema che si pre senta dunque, appena
necessario avvertirlo, non come semplice appendice all'opera ma
come ci che chiamato a darle un senso compiuto.
Ora, nella gerarchia del creato l'uomo rappresenta certo un
essere privilegiato, colui che, in quanto microcosmo e in quanto
punto medio tra tutte le cose, pu portare all'attualit, anzi
un'attualit pi vera qual quella dell'intelletto, la totalit dei
contenuti del sensibile. Nonostante tale prerogativa, tutta via,
anch'egli legato ad un limite insuperabile che non gli consentir
mai, quale che sia il livello raggiunto, di passare dal terreno della
contractio ad un'altra sfera poich sar sempre possibile
pensare ad un individuo che realizzi in forma pi perfetta,
nell'ordine del finito, il grado a cui si sia giunti. Se quest'opera
potr essere compiuta, se cio attraverso la contractio sar
possibile passare ad un ordine superiore, lo sar grazie all'operato
della divinit nel momento in cui elever a s, asso cier a se stessa
l'umanit, non in. un qualsiasi individuo empirico ma in quell'uomo
che conducendo all'atto tutte le perfezioni del sensibile stesso,
portando la contrazione alla sua perfezione, si renda suscettibile
di essere ricongiunto al Verbo, all'uguaglianza del Figlio col
Padre. Ci troveremo cos di fronte a Colui che presenta la
perfezione stessa del massimo contratto in s. In modo
inesplicabile all'uomo, pu allora compiersi l'operazione
perfettissima della divinit, quella per cui la potenza divina che
abbraccia tutto e pu conoscere solo un limite che essa ponga a se
stessa, eleva a s un ente che rappresenta
126

la pienezza di tutte le perfezioni dell'universo. Scrive Cusano,


dopo aver ricordato che Dio buono, non pu essere invidus

e
vuole che, com'egli massimo, cos la sua opera si avvicini per
quanto possibile a Lui:
Potentia autem maxima non est terminata nisi in seipsa, quoniam
nihil extra ipsam est, et ipsa est infinita. In nulla igitur creatura
terminatur, quin data quacumque ipsa infinita potentia possit creare
meliorem aut perfectiorem. Sed si homo elevatur ad unitatem ipsius
potentiae, ut non sit homo in se subsistens creatura, sed in unitate cum
infinita potentia, non est ipsa potentia in creatura, sed in se ipsa
terminata. Hec autem est perfectissima operatio maximae Dei potentiae
infinitae et interminabilis, in qua deficere nequit; alioquin neque creator
esset neque creatura. Quomodo enim creatura esset contratte ab esse divino
absoluto, si ipsa contractio sibi unibilis non esset? Per quam cuncta, ut
sunt ab ipso, qui absolute est, existerent, ac ipsa, ut sunt contratta, ab
ipso sint, cui contractio est summe unita, ut sic primo sit Deus creator;
secundo Deus et homo creata humanitate supreme in unitatem sui
assumpta, quasi universalis rerum omnium contractio aequalitati omnia
essendi hypostatice ac personaliter unita, ut sit per Deum
absolutissimum mediante contractione universali, quae humanitas
est; tertio loco omnia in esse contractum prodeant, ut sic hoc ipsum,
quod sunt, esse possint
ordine et modo meliore 6'.
Nell'unit con il Verbo, il Cristo, che gi come uomo
costituisce il termine di tutte le potenze intellettuali e sussiste
completamente in atto, sar allora insieme massimo assoluto e
massimo contratto, creatore e creatura, loro ineffabile coinci
denza. Grazie alla sua mediazione il tutto deriva dal massimo
assoluto e ritorna ad esso come al principio da cui emanato e a
quello che il fine del suo processo di ascesa. Attraverso di

ss In., ibidem, p. 128 (III, 3). appena necessario avvertire che anche
contro la teoria cristologica della Docta ignorantia doveva scagliar
si con violenza il Wenck nel suo De ignora litteratura.
127

lui e solo attraverso di lui tutte le cose sono unite a Dio grazie ad
una mediazione cosmica che si presenta in un'accezione del tutto
particolare e superiore rispetto a quella che gi si realizza con
precisi limiti attraverso l'umanit in genere. Cusano ha dovuto
giustificare filosoficamente perch tale mediazione potesse essere
assolta solo dal Cristo ma per garantirla come necessaria ed
insostituibile ha dovuto introdurre come premessa una limitazione
interna alla divinit creando una linea di confine tra natura umana
e natura divina, coincidenti e insieme distinte, attraverso un
concetto-limite della contrazione che nel momento in cui assunta
nell'assoluto rischia di capovolgersi nel suo contrario, di
dissolversi nella fonte di se stessa e quindi di negarsi.
Abbiamo gi accennato al fatto che Cusano poteva offrire
agli occhi del Bruno una nozione filosoficamente feconda della
coincidenza dei contrari e direi che gi qui cominci a delinearsi il
modo in cui egli sia venuta utilizzandola, in forme che esclu dessero
la mediazione che il Cristo opera tra massimo assoluto e massimo
contratto. Abbiamo anche anticipato alcune delle vie attraverso cui
questo processo poteva realizzarsi ricordandone i punti chiave: la
coincidenza della potenza passiva della materia con quella della
divinit, l'impossibilit che l'infinita potenza divina autolimiti se
stessa ed il corollario che ne derivava, destinato ad essere il
punto di partenza di ogni suo discorso filosofico: la necessit di
una esplicazione infinita del divino derivata dalla sua stessa
essenza. $ appena necessario sottolineare gi qui come alla
conclusione cristologica del De dotta ignorantia egli venga
inevitabilmente opponendo un concetto di mediazione alternativo
che resti ancorato al rapporto conoscitivo dell'uomo con il cosmo
ma risolva in modo nuovo, precludendosi risultati assoluti ma per
lui gratuiti, il problema della coincidenza tra finito e infinito,
creatore e creatura, pur mantenendo fermo il punto per cui tale
coincidenza insieme unit e distinzione grazie al ricorso al
concetto di "finitamente infinito" tanto a livello cosmologico che
gnoseologico.
Rifacciamoci al dato che risalta con maggiore immediatez
128

za: l'infinit fisica, spaziale, dell'universo bruniano. Il punto su


cui egli viene operando non la indistinzione in Dio di potere ed
essere, potenza ed atto, poter fare e poter essere fatto n egli

mette in dubbio la possibilit che tale coincidenza possa


realizzarsi in forma assoluta solo all'interno della divinit. Al
contrario, ci che viene messo in discussione il fatto che la
possibilit assoluta, pur restando intrinseca alla divinit, possa
essere considerata come distinguibile dalla potenza della mate ria e
sar esattamente questo il punto su cui verr insistendo nel De la
causa, consapevole del fatto che attraverso di esso passa
inevitabilmente la nozione della necessit di una infinit attuale,
che pur resta un'infinit contratta, dell'universo fisico.
Al di l del modo specifico in cui Bruno ha argomentato tale
conclusione nel dialogo italiano, e delle aperture che in questa
direzione potevano essergli offerte in modo implicito da non pochi
testi dello stesso Cusano, a cominciare dal De possest, si ha la
sensazione che egli abbia dato una interpretazione particolare della
Docta ignorantia riconoscendo che se sussiste una contrazione
universale, che infinitamente lontana dal creatore, da colui che
la fonda e tuttavia non si mai staccata da esso, nulla vieta che
essa possa e debba essere identificata con l'operazione
perfettissima della potenza massima, infinita, senza termine di Dio,
come sua necessaria manifestazione, dando a questa operazione un
significato cosmico dotato di un risvolto gnoseologico immediato
qualora l'uomo si accinga ad
attualizzare in se stesso la potenzialit infinita della natura.
'La potenza massima - aveva scritto Cusano proprio introdu
cendo il discorso sul Mediatore - non ha termine che in se
stessa perch niente al di fuori di essa che infinita '; per
la stessa ragione Bruno esclude al contrario la possibilit di

69 ID., ibid., p. 128: Potentia autem maxima non est terminata


nisi in seipsa, quoniam nihil extra ipsam est, et ipsa est
infinita (III, 3). Cfr. N. Cusano, Opere filosofiche, cit., Torino
1970, p. 167.

129

questo autolimitarsi del divino e ritiene che ci apra spazio


all'azione conoscitiva, "finitamente infinita" dell'uomo. Le conseguenze immediate sono di carattere cosmologico (la necessit di
una creazione infinita modifica in profondit il rapporto tra la
divinit e l'universo) ma hanno un rilievo non minore sia dal
punto di vista ontologico che gnoseologico.
Ontologicamente, la coincidenza di atto e potenza in Dio si
realizza in ciascuno dei punti dello spazio infinito anche se non
vincolata ad esso, rendendo esplicita una tendenzialit forse solo
latente in Cusano ma certo riconducendo ad una valenza letterale
formule ermetiche a lui cos familiari (Deus est sphaera infinita,
cuius centrum est ubique, circun f erentia nullibi) 70 e facendo di
ciascuno dei punti di tale spazio la divinit in quanto in ogni
punto ogni cosa se stessa come risultato di quella coincidenza
assoluta. La coincidenza che Bruno aveva ricercato ancora nel De
umbris, sulla scia di Fcino e Cusano, tra i due estremi della scala
dell'essere, una scala dell'essere che contemplava come essenziali
il rapporto tra mondo intelligibile e mondo sensibile concepiti quali
due sfere separate ed il loro convergere in un punto privilegiato,
insieme spaziale ed ai limiti dello spazio, si realizza dunque negli
infiniti punti di un universo senza limiti rendendo indistinguibili
contrazione della divinit e contrazione dell'universo nei singo li
enti. Viene cos salvata con l'infinit assoluta della divinit la sua
alterit nei confronti del cosmo ma l'infinit fisico-spa ziale di
quest'ultimo ne muta in modo radicale il rapporto: cadeva non
solo la "libert" divina nei confronti dell'universo ma la
possibilit di concepire un Dio separato ed al di fuori della sua
estrinsecazione. Di qui l'attacco del Bruno ad ogni concezione
"separata" del mondo intelligibile e della divinit stessa,
concezione vista come esemplare della tendenza ad ipo statizzare il
risultato dei processi di astrazione messi in atto dagli uomini.

divinit a condizione che sia l'uomo ad attuarne la potenzialit


infinita in misura tale che sia egli stesso a ricondurre la creazione
alla sua fonte, nei limiti, che devono essere precisati, consentiti
dalla sua condizione. comprensibile che gli attributi del Cristo,
gi visto come insieme massimo assoluto e massimo contratto, loro
coincidenza ed ineffabile unit tornino ad essere ridistribuiti alla
divinit ed al cosmo. La sua natura divina nuovamente attribuita
all'atto, indistinto dalla potenza, intrinseco alla divinit; l'attualit
di tutti i sensibili propria del massimo contratto ed assoluto
insieme viene di nuovo assegnata alla materia come sola garante, e
garante dotata ora di uno status divino, della loro infinit. Una
infinit che acquisiva il carattere di una sua propria perfezione, in
quanto non solo inscindibile dall'idea di una esplicazione senza
limiti del divino come conseguenza necessaria della sua essenza
ma come tale in grado di garantire, almeno potenzialmente, si di ceva, il nostro ritorno alla fonte stessa del processo di emana zione. Per questa via poteva cos ricostituirsi almeno come
concetto limite l'idea di un massimo assoluto e contratto che,
stante la persistente, radicale alterit dei due termini, fosse tut tavia
in grado di ripercorrere le forme della mediazione e quindi le vie
del nostro ricongiungimento attraverso di essa con
la divinit.
In ogni caso, se nessun ostacolo si ergeva nel vedere nella
potenza assoluta divina la potenza delle potenze del cosmo
stesso, se nulla vietava di unificare tale possibilit assoluta con
quella della materia, vedendo cos in questa il fondamento stes
so del cosmo infinito, si lasciava solo ai composti un grado di
partecipazione sempre diverso all'atto e alla potenza corrispon
dente ai diversi livelli della contrazione e quindi ai diversi
gradi di partecipazione della vita del divino. All'universo, con
cepito come immagine adeguata di esso, continuava a corri
spondere la contrazione universale come coincidenza spaziale di
131

70

Liber XXIV Philosophorum, propos. 2, ed. Baeumker, p. 20.

130

La creazione diviene cos insieme indissolubilmente legata ed


infinitamente distante dal creatore. Il cosmo pu assolvere, almeno
potenzialmente, ad una funzione di mediazione nei confronti della

atto e potenza, ma presupposto di tutto quello che siamo venuti


dicendo era appunto l'infinit spaziale dell'universo stesso.
cos possibile riepilogare nel loro insieme le ragioni delle
scelte del Bruno, operate gin rei izione ai problemi teologici che
abbiamo incontrato, ragioni che sembrano ora affollarsi ed
indicare con il loro stesso numero l'urgenza della via che egli ha
cercato di aprire. Proviamo ad enumerarle sommariamente: la
connessione che egli ritrovava tra la figura del Cristo ed il
carattere finito del cosmo: la prospettiva che gli si apriva di
distaccare come sovrapposta e non essenziale la cristologia
cusaniana dalla tradizione cui Cusano stesso si rifaceva; il fatto che
tale tradizione permettesse attraverso la sua lettura di pensare la
coincidenza dei contrari, la presenza ed insieme l'assenza della
divinit, il suo parteciparsi al cosmo tutto ed attraverso di esso
all'uomo, senza incorrere in contraddizione. La condi zione di
tutto questo era per che l'infinita potenza divina non restasse pura
possibilit sul piano fisico ma si attuasse, che cio l'atto
coincidesse con la potenza non solo nella indiffe renziata unit
divina ma appunto, sia pure in forma contratta, nella sua creatura,
che assume in tal modo il ruolo di potenziale mediatrice tra l'uomo
e Dio. Senza questo dato, ognuno dei concetti che abbiamo
ricordato tenderebbe ad incontrare una difficolt ed un ostacolo in
quanto sarebbe la creatura a porre un limite all'interno della
divinit stessa (come accadeva anche in Cusano sia sul piano
cosmologico che su quello della mediazione operata dal Cristo) e si
ricostituirebbe sulla stessa base il terreno per la genesi di infiniti
problemi irresolubili nel tentativo necessariamente votato al
fallimento di giustificare e superare tale limite.
Al contrario, se quella coincidenza si trasferisce al creato, sia
pure in forma contratta, attraverso cio l'attributo di un'infinit
spaziale, non si presenta pi difficolt alcuna a delineare e
riscontrare il parteciparsi del divino in forma corretta ed
adeguata. Cos Bruno risalir in primo luogo dal terreno dei
contrari e del divenire che fonda la legge stessa della realt
empirica, da quello che egli chiama "il fato della mutazione", ai
132
due contrari in assoluto, la pura potenza ed il puro atto, per
giungere alla loro coincidenza e svelare contemporaneamente il
livello dell'unit del cosmo come quello, insieme identico e

diverso, dell'Uno assoluto. I due piani permangono distinti tra loro


ma il loro nesso in grado di escludere la vicenda cristia na sia che
essa venga vista quale avvento storico del Cristo attraverso la sua
incarnazione, come avverr nella sezione finale della Docta
ignorantia, sia che essa venga considerata come mediazione cosmica
risolutrice nel rapporto tra l'uomo e Dio, coinvolgente l'umanit in
grado assoluto solo a quel particolare livello. L'intervento
dell'uomo si rendeva possibile a partire dall'identit ed alterit
assolute tra Uno e cosmo.
Restava tuttavia confermata la funzione essenziale della
contrazione per quanto riguarda il comunicarsi del divino al cosmo,
come processo che poteva essere rivissuto dall'uomo a partire dal
suo momento conclusivo, come possibilit di partecipare sul piano
conoscitivo a quella che Cusano chiamava "scienza della
creazione", tentativo di ricongiungerci alla fonte del tutto. Su
questo terreno, sar bene registrare subito un ulteriore elemento
nuovo rispetto a Cusano. Questi aveva fini to per trasferire
necessariamente la tematica della coincidenza dei contrari
dall'essenza della divinit alla scala dell'essere per trovare nel
Cristo il punto d'unione tra massimo assoluto e massimo
contratto; Bruno attua la stessa operazione ma guarda ad una scala
dell'essere che contempla un universo attualmente infinito e pu
ripartire di qui per tentare di realizzare all'interno della conoscenza
umana, quell'impresa suprema che si pone per lui come attuabile
dall'uomo.
XIII. noto che nel Sigillus sigillorum 71 Bruno elenca
71

I1 testo capitale per il concetto di contractio in Bruno, in


Opera latine conscripta, cit., II, II, pp. 213-14. I diversi tipi di
contractio

trattati nel Sigillus sigillorum e ripresi nelle Theses de magia, sono


ispirati a Theologia platonica, XIII, 2. Cfr. M. Ficini Opera omnia,
Basilea 1576, in part. la sezione Septem vacationis genera, pp.
2925.

133

una serie di tipi diversi di contractio attinti alla Theologia


platonica di Ficino e non manca di dare ad essi una fondazione
teorica estremamente sorvegliata. Ficino aveva usato in realt per
gli stessi fenomeni l'espressione di vacationes animi ed una volta sola
compare nel suo testo il termine contractio, legato per giunta in lui
ad una tradizione medica, di cui d'altra parte Bruno era tutt'altro
che all'oscuro. Per Ficino si trattava di quei fenomeni in cui il
raccogliersi degli "spiriti animali" in se stessi permetteva che si
realizzasse l'autonomia dell'anima rispetto al corpo ed il suo
disporsi in tal modo a ricevere influenze superiori, il suo
inserirsi in un sistema di cause ed effetti che poneva in gioco il
rapporto tra mondo inferiore e mondo superiore, assegnando
all'anima, nella sua qualit di strumento privilegiato, funzioni
eccezionali di carattere cosmico.
Anche le contractiones bruniane sono caratterizzate tutte da un
raccogliersi dell'anima in se stessa, come se essa si ridu cesse ad un
punto; non solo, esse implicano una originaria disposizione
passiva sul piano della conoscenza che chiama in causa le facolt
intermedie dell'immaginazione, intervenire sulle quali decide del
destino stesso della conoscenza. Esistono in effetti due tipi
fondamentali di contractio, cos come esistono due tipi
fondamentali di malinconia in rapporto ai quali si rivela appunto
essenziale il modo in cui ci disponiamo rispetto al momento
passivo della conoscenza, l'ingresso cio dei fan tasmi
dell'immaginazione. Siamo noi che possiamo decidere, a seconda
della nostra azione, della caduta in una condizione ferina, del
nostro essere preda e non padroni e regolatori della loro vita
dentro di noi, oppure del nostro elevarci a livelli via via pi alti
della conoscenza; qui, per la prima volta, che il Bruno d alle
sue tesi un chiaro significato rivolto contro la Riforma.
Quello a cui guarda, a cui guarder sempre il Bruno come al
processo privilegiato della contemplazione del divino rappresenta
dunque una raccogliersi dell'anima in se stessa per potenziarne le
capacit conoscitive ed operative nel senso che esso non fa che
ripercorrere a ritroso il cammino della divinit

134
creatrice nel suo processo di discesa. Come questa sembra distendersi da una fonte superessenziale in una moltitudine di -

gradante di generi e specie per poi disperdersi nella molteplici t


indifferenziata degli individui, cos il singolo non ha che da
invertire tale descensus e da risalire i gradi attraverso cui si
cristallizzata l'emanazione divina per ritornare progressivamente
alla fonte da cui essa ha avuto origine; non per nulla Bruno
sottolinea l'identit di natura che lega tra loro le diverse facol t
della conoscenza come premessa per giungere da quelle in feriori
alle pi alte.
Se la contractio nella prospettiva della divinit implica dunque
lo scindersi, specificarsi e differenziarsi di essa, qui tale processo
va inteso riferendosi al realizzarsi dell'ascensus per cui passo dagli
individui alle specie e da queste a quei generi generalissimi, quelle
specie intelligibili grazie alle quali dato di tentare il passaggio
all'unit fontale. Si tratta sempre in altri termini di attualizzare ci
che potenzialmente presente ad ogni livello, in misura via via
superiore rispetto a quello che il punto di partenza, operando in
modo esattamente inverso a quello della divinit. Per
quest'ultima la contractio indica la perdita dell'unit originaria
discendendo gradualmente attraverso i vari piani dell'essere, per
l'uomo allude al recupero di tale unit originaria. Il processo
conoscitivo dell'individuo trova dunque ogni volta in un preciso
grado cosmico il suo esito, onde la convergenza che si realizza tra
lacere e fieri, tra agere e pati, destinata al limite a
trasformarsi nella coincidenza di atto e potenza. agevole
comprendere ora come la "contrazione", vista nel suo duplice
aspetto, di determinarsi dell'unit fontale nella sua graduale
caduta nel molteplice e di recupero di tale unit a partire dal
molteplice stesso, sia destinata ad assumere un ruolo centrale e a
porsi come concetto-guida dell'intera opera italiana del Bruno, sia
attraverso il significato cosmico e conoscitivo che essa ha
acquistato, sia, particolare non meno importante, attraverso il
collegamento essenziale che
si istituisce tra essa e la coincidenza dei contrari quale stru mento decisivo per comprendere il rapporto tra Dio e il co
smo.
135

Sul piano ontologico, nel De la causa, partendo dagli opposti


per eccellenza, agendo sulla nozione aristotelica di materia prima e
su quella platonica di materia intelligibile per mostrare che la
potenza infinita dell'una si identificava con quella dell'altra e
quindi il poter fare con il poter essere fatto, Bruno concludeva
che pensare correttamente i contrari, anzi i contrari supremi
nell'ambito dell'essere ci conduceva su un terreno in cui la loro
coincidenza adombrava agli occhi dell'uomo il contenuto
ineffabile della divinit, cos come pensare il loro rap porto nel
mondo infinito non era che trovarsi di fronte alla forma pi
alta di "contrazione" del divino.
Il nesso indissolubile di immanenza e trascendenza tra Dio e
cosmo, il livello corretto a cui andava pensata la coincidenza dei
contrari cos come il suo graduale dissolversi nella contra zione
fino a raggiungere il singolo composto di atto e potenza, forma e
materia, erano cos assicurati. Da questo punto di vista, se De la
causa e De. l'infinito rappresentano la trattazione adeguata dei
concetti di massimo assoluto e massimo contratto nella nuova
prospettiva realizzata, lo Spaccio e gli Eroici furori non possono che
costituire una verifica di questi concetti sul piano della
conoscenza umana e del rapporto dell'uomo con il divino a
partire dalla creazione, investendo dapprima il livello della vita
civile e religiosa per giungere infine alla pi alta contemplazione
della divinit che sia dato all'uomo di esperire. In effetti nello
Spaccio parlando appunto delle forme del culto della divinit a
noi accessibili sul piano collettivo, si afferma che essa non pu
aver a che fare con noi, in quanto "assoluta" ma solo in quanto
si comunica, si contrae in ogni parte della natura vivente n. Ma
in realt l'intera struttura dell'opera
72 Dialoghi, pp. 783-4: Talmente dunque quel dio, come
absoluto, non ha che far con noi; ma per quanto si
comunica alli effetti della
natura, ed pi intimo a quelli che la natura istessa...
in tanto che una bont, una felicit, un principio absoluto
de tutte ricchezze e beni,
contratto a diverse raggioni, effonde gli doni secondo
l'exigenze de particulari.

136

rinvia alla centralit della contractio ed alla misura non assoluta in


cui pu realizzarsi la coincidenza dei contrari nell'ambito di essa
con particolare riferimento alla vita civile. Non per nulla abbiamo a
che fare qui con tre piani distinti, quello dell'assoluto, per
definizione inattingibile all'uomo, quello della pura empiria, della
dispersione numerica degli individui che per ragioni op poste non
gli pu essere di guida ed un terzo livello, interme dio tra questi,
alla cui costituzione si pu provvedere solo se si sia consapevoli
della legge che governa la realt, quel perenne divenire del tutto
che si sviluppa "da contrari-i, per contrarii, ne' contrarii, a
eontrarii": il loro urto che va dominato ricon ducendoli non al
grado della loro coincidenza, cosa impossibile, ma a quello della
trasparenza, del riflesso del divino percepibile nel loro stesso
combattersi ed opporsi.
Tale perenne divenire non ha dunque un andamento puramente arbitrario ma deve tradurre l'indistinzione nell'unit divina
del vero e del bene in forme intelligibili all'uomo e per questo
perseguibili come regole dell'agire. La prima condizione da osservare
sar dunque quella di considerare tale coincidenza come
impossibile da realizzare in assoluto nel mondo umano ma di
tenerla sempre presente come regola euristica e come
fondamentale sebbene sempre parziale trasparenza dell'assoluto alla
nostra comprensione. Per questa via l'interpretazione che Bruno
d di Cusano - una non leve ironia della storia vedere il pio
cardinale presiedere ad una delle opere pi empie della letteratura
europea - riceve un'applicazione ed un'estensione imprevedibili ma
nello stesso tempo appare chiaro come il problema centrale sia
rimasto quello della mediazione tra le due sfere tra loro opposte
dell'umano e del divino. L'apertura del discorso sul Cristo e la
distruzione del suo ruolo di mediatore appaiono quindi inevitabili
nello Spaccio e troveranno il loro culmine negli Eroici furori cos
come appare evidente che il primo dato ad essere messo in
discussione nei confronti delle nuove "sette" ma anche in genere
del cristianesimo riguarder la pretesa di prendere come punto di
partenza l'assolutezza del divino
quale guida possibile su questo terreno collettivo, pretesa che si
137

ribalta inevitabilmente nel suo contrario, nella falsa "contractio"


che ci rende preda dei fantasmi della nostra immaginazio ne e che
torna ad essere obiettivo di polemica nella Cabala del cavallo
pegaseo, il cui tema fondamentale come noto quello delle
condizioni dell'ispirazione superiore.
Se la natura come potenziale mediatrice la sola in grado di
farci fruire sul piano pratico dei "doni" della divinit, di ci che
ci pu essere utile, comprensibile che sul piano pi stret tamente civile della vita associata il livello intermedio di cui
parlavamo vada costruito non soltanto sulla base dei limiti di cui si
diceva in precedenza, ma mirando ad un accordo con il piano
dell'empiria che sia tale da dominarlo impedendo che sia esso a
determinarci e condizionarci. La vita del divino regge quindi il
mondo umano nelle forme in cui essa si comunica e queste
forme chiamano in causa inevitabilmente l'operato della ragione
come quello che solo in grado di discernere la fedelt o meno ai
modi di questo comunicarsi. Per fare un esempio concreto, tutte
le volte che ci troveremo di fronte ad una negazione e ad un
rifiuto di ci che appare come costitutivo della natura uma na,
sapremo che ci stiamo allontanando da quel livello alla cui
costituzione qui si mira e dovremo elaborare un rapporto con il
piano dell'empiria in cui tale natura possa calarsi senza perdere di
vista quello che il bene e quindi l'utile dell'uomo.
Anche il modello adottato dal Bruno dunque quello di una
"dotta ignoranza", semplicemente esso va distinto dall'ignoranza
di coloro che, privi della conoscenza della legge della realt,
facendo leva anch'essi sul limite dell'uomo ma spingendolo ai
confini di una pura passivit rispetto al divino ("la fede nasce
dall'udire e l'udire dalla parola di Dio", ricordava Calvino
ripetendo S. Paolo) 73 si fanno in tal modo strumento
71

Rom. X, 14, 17. E Bruno: E quei che non erano

(asini), si transformro in questo animale: alzro,


distesero, acuminaro, ingrossro
e magnificorno l'orecchie; e tutte le potenze de l'anima
riportorno e uniro nell'udire, con ascoltare solamente e
credere ... L concentrandosi e
cattivandosi la vegetativa, sensitiva ed intellettiva facultade,
hanno in138

di ispirazioni ingannatrici, opera di demoni scambiati con la


volont e la parola della divinit, che appunto il risultato della
contractio deteriore.
Cos gli Eroici furori possono scaturire dallo Spaccio come logica
conclusione del discorso in esso sviluppato qualora la docta
ignorantia di cui si parlava non venga pi posta al servi zio del
livello intermedio della contrazione ma punti al vertice supremo di
essa, al risolversi nell'unit divina, entro limiti che continuano ad
essere almeno in assoluto invalicabili ma che pur sono il fine pi
alto che l'uomo possa proporsi. Il processo che si pone in atto
contempla ancora una volta la mediazione tra finito ed infinito,
tra umano e divino e qui pi che mai il parallelismo tra processo
cosmico e processo gnoseologico diviene elemento centrale per
raggiungere quello che Bruno chiama ormai "paradiso". Se nello
Spaccio tale parallelismo implicava la lettura del corretto processo
cosmico nei momenti del suo prodursi per giungere a quel grado
che avesse una risultante civile e religiosa, ora l'immediata
valenza cosmica delle potenze conoscitive dell'uomo che sin
dall'inizio deve porci sulla strada della divinit. Un altro
elemento da tenere
presente che qui le linee della contemplazione del divino si
discosteranno da quelle indicate da Cusano in misura propor
zionale al distacco avvenuto sul piano cosmologico dal filosofo
del De possest. Ancora una volta, come nel De la causa, i
termini essenziali del discorso tornano ad essere l'atto puro e la
pura potenza ma si noter che in entrambi i casi il Bruno,
muovendo alla ricerca di ci che conduca alla coincidenza tra gli
estremi dell'essere, prenda le mosse da quello tra i contrari che
si presenta come potenzialit infinita, infinita potenza passiva;
ceppato le cinque dita in un'unghia, perch non potessero
... accendere il lume nella potenza razionale. Cossi li
nostri divi asini, privi del
proprio sentimento ed affetto, vegnono ad intendere non
altrimente che come gli vien soffiato a l'orecchie dalle
revelazioni o degli dei o de'
vicari loro; e per conseguenza a governarsi non secondo altra
legge che di que' medesimi (Dialoghi, p. 878).

139

solo questa condizione permette l'impresa degli Eroici furori,


gettare un ponte tra finito e infinito, umano e divino.
L'anima umana si presenta sul piano conoscitivo, secondo un
dato della tradizione filosofica che l'assimila alla materia e che
riceve un rilievo assoluto, come infinit potenziale, potenza infinita
anche se per definizione proprio in quanto tale mai traducibile
integralmente in atto dando luogo alla coincidenza con
quest'ultimo. Abbiamo quindi una lettura della finitezza dell'uomo
e del carattere infinito della divinit in cui ci che si pone in
rilievo il fatto che se la distanza tra i due termini incolmabile,
tuttavia alla infinita potenza attiva, all'infinito poter fare della
divinit (di cui noi gi sappiamo dal De la causa che sul piano
metafisico indistinguibile in Dio dalla potenza di essere fatto)
corrisponde il carattere infinito del "poter essere fatto" dell'anima
umana (infinito non attuale ma infinitamente attuabile, dunque
"privativo" secondo la terminologia cusaniana che qui Bruno
adotta) per cui noi trasformiamo senza fine in noi stessi, in
contenuti del sapere quelli che sono i contenuti al limite infiniti
della realt. Se la nostra esistenza, ed in particolare quella del
"furioso eroico" e del malinconico non pu che registrare
drammaticamente questa scissione tra una potenzialit data e una
attualit infinita cui si aspira, che poi la scissione stessa tra
potenza e sapienza divine quale si riflette nel cosmo e nell'uomo,
potremo rimediare ad essa, ricomporla nei limiti a noi consentiti
facendo leva su quel nesso d'origine cusaniana che le lega e che
destinato a presentarsi dapprima in apparenza come l'ostacolo pi
profondo alla loro coincidenza e ricomposizione, vale a dire, com'
ovvio, l'amore. $ quest'apparenza che va ribaltata, ed questo
ostacolo che si presenter alla fine come la molla stessa della loro
coincidenza nella misura in cui questa, insieme finita e infinita,
appare realizzabile. Sar l'amore a far s che creatura e
creatore, amante ed amato, intelletto ed intelligibile si convertano
tra loro ma sar, questo, solo il termine finale dell'impresa del
furioso. Inizialmente, l'intelletto convertir in specie intelligibili,
dunque in se
stesso il sensibile cos come all'opposto sar l'amore a condurlo
140

fuori di s, a trasformarlo nell'oggetto amato, producendosi cos

la dilacerazione del furioso. Ma elevando a mano a mano


l'intelletto in quello che il processo della contrazione, conver tendolo dunque progressivamente da potenza in atto non senza che
il processo conosca una sua reciprocit, l'amore si riveler alla fine
come il mediatore che conduce il furioso a ritrovare se stesso in
una forma che sola lo rende veramente oggetto d'amore e di
intelligenza rispetto a ci che si manifester alla fine come amante
ed intelligente nel grado pi alto che possa essere concepito, amante ed
intelligente infinito e quindi coincidente con il suo oggetto d'amore
e di intelligenza. Tale coincidenza rivela cos agli occhi stessi del
furioso che i contrari nella loro pi profonda natura sono solo
apparenti, che il nesso ed il medio autentico tra di essi l'amore,
la luce, lo splendore della divinit grazie a cui avviene la
conversione del soggetto in oggetto e dell'oggetto in soggetto a un
grado che quello stesso dell'assoluto, in cui i due processi sono
ormai indistinguibili. Da questo punto di vista non possibile che
la divinit si converta in noi, si faccia in noi amore ed
intelligenza, se noi non ci convertiamo in essa procurando per
gradi sempre pi alti di farci amato ed intelligibile.
Ora, come si diceva, questa conversione della divinit in noi
stessi, di noi stessi nella divinit che ha luogo nella sfera
dell'infinito non pu avere il suo punto di partenza che nel l'uomo: la divina potenza che tutta in tutto, non si porge o
sottrae se non per altrui conversione o aversione 74 ed del

74

Dialoghi, pp. 1091-2: $ tanta la virt della contemplazione

(come nota lamblico) che accade talvolta non solo che l'anima
ripose da
gli atti inferiori, ma, ed oltre, lascie il corpo a fatto. Il
che non voglio intendere altrimenti che in tante maniere,
quali sono esplicate nel libro
De' trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di
contrazione; de quali alcune vituperosa -, altre
eroicamente fanno che non s'ap
prenda tema di morte, non si soffrisca dolor di corpo, non si
sentano impedimenti di piacere. .. veder la divinit esser
visto da quella,
come vedere il sole concorre con l'esser visto dal sole.
Pari

me
nte
ess
ere

141

tutto naturale che Bruno faccia riferimento a questo processo


chiamando in causa direttamente il "divino sigillo" della "buo na
contrazione", quello che permette che il lacere diventi fieri, l'agere
diventi pati. Un dato, quest'ultimo, potenzialmente presente ad ogni
livello della contrazione stessa e pi che mai nel suo momento
iniziale, decisivo, in cui occorre predisporre il momento passivo
della conoscenza, come Bruno sottolineava con forza nel Sigillus
sigillorum, ma che mira qui a quel punto limite in cui la
contrazione tenderebbe a dissolversi. N deve sorprendere come
un elemento antitetico il fatto che Bruno giunga ormai a parlare di
"grazia" concessa dalla divinit, ch tutto deve essere visto
nell'orizzonte della coincidenza finale cui si tende.
Tra i due contrari c' dunque un nesso, un legame tra
potenza e sapienza che colma progressivamente lo iato esistente tra
di essi, mostrando alla fine non solo la indistinzione tra potenza e
sapienza ma tra potenza sapienza ed amore. Il primo movimento:
conoscere l'altro da s trasformandolo in noi stessi, ed in realt
elevandolo ontologicamente, ed il secondo: trasformarsi per amore
nell'altro da s, sono quindi tra loro contrari ma tale contrariet
destinata almeno soggettivamente ad approfondirsi fino ad un
punto limite che si rivela essere in realt la condizione perch essa
si annulli nella coincidenza cos come acquisibile dall'uomo.
In effetti, quanto pi la potenza passa all'atto, tanto meno
pu trasformarsi nell'altro, nel diverso da s, nell'oggetto; giun ta
nella sfera dell'infinito essa vive il grado della sua attualit

ascoltato dalla divinit a punto ascoltar quella, ed


esser favorito da quella il medesimo esporsegli ... Come
il medesimo nocchiero vien
detto caggione della summersione o salute della nave, per
quanto che o a quella presente, overo da quella trovasi
absente; eccetto che il
nocchiero per suo diffetto o compimento ruina e salva la
nave; ma la divina potenza che tutta in tutto, non si
porge o suttrae se non per
altrui conversione o aversione. Sempre nei Dialoghi, p. 797,
Bruno parla di "quel divino sigillo ch' la buona
Contrazione".
142

come pura potenza che sembra non poter procedere oltre nel suo
processo di attualizzazione. per questo che il darsi dello
splendore divino giunger solo alla fine con la "cecit" del furioso
ma proprio questo accecamento l'elemento che toglie l'ostacolo
che impedisce di vedere che trasformare in se stessi l'altro non era
che trasformarsi nell'altro, e quindi avvicinarsi gradualmente a
quel punto in cui risplende l'Atto supremo. Cos l'amore svolge un
ruolo insostituibile in quanto, innalzandoci nel desiderio di
conoscere, ci conduce ad una potenza che sempre pi atto, al
loro nesso ed alla indistinzione dei tre termini. La funzione
mediatrice dell'amore si rivela quindi nell'adeguatezza con cui essa
infinitamente conduce all'atto la potenzialit infinita dell'animo
umano. Il processo non appare avere un limite superiore ma
proprio per questo ci garantisce che ci che ad un certo punto
risulta operante l'intervento stesso della divinit, e questo
intervento appare prodursi in una forma che non pu non essere
quella del suo manifestarsi.
Ma non questo il luogo per tentare un'interpretazione
approfondita degli Eroici furori. Basti qui ricordare che, come nel De
la causa l'elemento specifico che allontanava il Bruno da Cusano lo
conduceva a cancellare ogni nozione di un mondo intelligibile
separato, cos qui lo portava a sviluppare non solo gli elementi di
una conoscenza dell'infinito, pur ancorata a limiti non superabili,
ma a dar vita ad una speculazione trinita ria nella quale non restava
pi posto per la figura di un mediatore unico ed insostituibile.
XIV. L'ipotesi avanzata in precedenza, secondo cui l'intera
opera italiana del Bruno si costituirebbe nelle intenzioni stesse
dell'autore come un'unit organica, modellata in contrapposizione
alla vicenda ed ai momenti della salvezza cristiana, sembra ricevere
qualche ulteriore conferma da quanto siamo venuti dicendo. Nello
stesso Cusano, la dimostrazione della necessit dell'esistenza del
Cristo come di Colui che insieme massimo assoluto e contratto,
preludeva nel De docta ignorantia, com' noto, al ripensamento in
questa chiave del significato
143

dell'Incarnazione e delle tappe salienti della sua missione storica di


Redentore.
All'evento della nascita facevano riscontro in rapida successione
quelli della passione e della morte, la resurrezione e l'ascensione
alla gloria, il momento del giudizio e la beatitudine finale. Cos si
visto che nella Cena de le Ceneri la rinascita della verit religiosa
preludeva al raccolto del "frutto della redenzione"; nel De la causa e
nel De l'infinito, le due opere in cui Bruno delineava nella sua
prospettiva la concezione del massimo assoluto e del massimo
contratto era presentata la divinit rispettivamente nella sua gloria,
per quanto era concesso dalla sua assolutezza, e nello splendore, nella
manifestazione di essa (Caeli enarrant gloriam Dei, Et opera
manuum eius annuntiat firmamentum, secondo il dettato biblico). A
questi momenti succedevano appunto quelli del raccolto dei frutti
della redenzione sul piano umano, e precisamente l'attuarsi del
"giorno dei giudizio in terra", il realizzarsi cio del "purgatorio de
l'inferno" nello Spaccio e l'accesso, negli Eroici furori, al "paradiso",
grazie all'amore divino, grado supremo della gloria concessa all'uomo
su questa terra. Una gloria che coincide per il Nolano con l'attuarsi
dell'autentico "Regno di Dio" da lui stesso identificato col
contrarre in noi la divinit. Ma, torniamo a ribadire, si tratta di
un'ipotesi che attende le sue conferme o le sue smentite.
Vorrei piuttosto accennare in chiusura a due problemi che
restano aperti ma che spero queste pagine abbiano contribuito a
sottolineare. Proprio nel testo del De immenso in cui Bruno
contrapponeva la pretesa di cogliere la divinit nel corpo di un uomo
morto alla autentica contemplazione di essa attraverso la sua infinita
creazione, parlava di tale contemplazione come di operazione
degna di un uomo perfetto. Credo che quella linea di pensiero che
va da Pietro d'Abano sino a Cardano e che sembra spegnersi
nelle pagine di Juan Huarte, mirante a saggiare la possibilit o
meno del darsi di un temperamento perfetto, di un uomo che raccolga
integre le perfezioni della specie, possa essere ricostruita tenendo
conto di posizioni quali
144

quella del Bruno e della tradizione in cui si inseriva, a cominciare dalle


suggestioni offerte da un Cusano 75. Gi adessotale accostamento

conferma ulteriormente come il termine di riferimento, implicito od


esplicito, del discorso sia sempre all'interno di tale linea medicofilosofica la figura del Cristo e come l'ipotesi che viene adombrata di
un temperamento perfetto resti in rapporto sempre problematico con
le possibilit che dischiude all'uomo la malinconia. Ma, si diceva,
emerge anche un altro problema, di rilievo non minore. La
dimostrazione speculativa dell'infinit dell'universo su cui poggia o
cade per intero la "filosofia nolana" implica l'impossibilit di scindere
essenza e volont in Dio, implica che sia contraddittorio sostenere la
potenza infinita di Dio ed il carattere finito dell'effetto prodotto. Da
questo punto di vista attribuire una libert di scelta alla divinit
significherebbe in realt sottrarle qualcosa, assegnarle un carattere che
ne sanzionerebbe una inferiorit ontologica tipica invece
dell'uomo. La coincidenza in Dio di libert e necessit in realt
impossibilit che egli non faccia quanto di meglio pu essere
fatto, attuazione necessaria di ci che interno alla sua essenza.
Da questo punto di vista Bruno attacca in modo radicale la distinzione
tra
75

Per il testo del De immenso cui si fa riferimento, cfr. qui, p.


110, n. 61. Per Cusano, cfr. N. De Cusa De Docta Ignorantia, cit., p.
132 (III, 14): Maximitas autem perfectionis naturae in
sustantialibus et essentialibus
attenditur, puta quoad intellectum, cui cetera corporalia
serviunt. Et hinc maxime perfectus homo non debet esse in
accidentalibus eminens nisi in respectu intellectus. Non
enim requiritur, ut sit aut gigas aut
gnanus aut illius vel illius magnitudinis, coloris, figurae
et ceteris accidentalibus; sed hoc tantum est necessarium,
quod ipsum corpus declinet ita ab extremis, ut sit
aptissimum instrumentum intellectualis naturae,
cui absque renitentia, murmuratione ac fatiga oboediat et
obtemperet. lesus poster, in quo omnes thesauri scientiae
et sapientiae, etiam dum in mundo apparuit, absconditi
fuerunt quasi lux in tenebris, ad hunc
finem
eminentissimae
intellectualis
naturae
corpus
aptissimum atque perfectissimum, ut etiam a sanctissimis
testibus suae conversationis fertur, creditur habuisse. Ma
su questa tematica andr tenuto conto, per le sue
ripercussioni, della sconcertante presentazione della
figura del Cristo nella Ratio ad veram theologiam di Erasmo.

145

potentia Dei absoluta e potentia ordinata nel De immenso, come la


forma attraverso cui si era venuta sistematizzando la concezione
di un limite interno alla divinit, a proposito della quale egli
parlava di aperta contraddizione in rapporto alla sua essenza e, per
ragioni evidenti, di blasfemia nei confronti del divino. Una
sostanziale differenza di tono investe tuttavia la trattazione del
problema nel De l'infinito, in uno dei testi pi celebri del Bruno,
correttamente utilizzato per decenni per indicare il confine che egli
tracciava tra teologia e filosofia.
In questa pagina sembra che l'idea di una necessit assoluta
intrinseca alla divinit, idea che deve essere asserita dal filosofo ma
per una cerchia ristretta, possa e debba essere taciuta dal teologo
per i rischi che comporterebbe nei confronti della moltitudine.
Sembrerebbe cio legittimo su questo piano parlare di una
autolimitazione della volont divina, di una di stinzione tra la sua
potenza e la sua volont: Dio avrebbe potuto fare infiniti mondi
ma ha scelto liberamente in modo diverso ecc. Sul piano teorico la
posizione bruniana, opposta, non solo era irrinunciabile ma, si
direbbe, lo era per eccellenza all'interno del suo pensiero'. Il
rapporto del Bruno con tale
76

Scrive il Bruno: Neque distinctionem potentiae in


absolutam et ordinatam, vel ordinariam introducamus illo,
ubi non libertatem prote
stetur, sed implicet apertam contradictionem. Est
perfectio in nobis (si ita placet) ut possimus multa facere
quae non facimus: blasphemiam
vero est facere Deum alium a Deo: voluntatem eius aliam
atque aliam, unam quae currit cum potentia, aliam quae
abhorreat a potentia, in
melius contradictoriorum alterum, vel deterius ( De
i mm en so , III, 1 in Opp. lat., I, I, p. 320). Ma cfr.
Ibidem I, I, pp. 246-7: Idcirco cum
in omni specie unum sit optimum, unum necessario (Deus)
agit et non aliud, utque non potest esse nisi bonus, non
potest aliter facere quam
faciat. Quare necessitate naturae bonum facit, atque
melius; atque unum et alterum oppositorum, quod est
deterius, neque ejus potentiae neque
voluntatis, neque necessitatis objectum poterit esse
unquam vel subjectum ... Non est ergo dignum ut Deum ex
hujusmodi generis libertatis

aeque vel inaequaliter ad duo contradictoria volenda, vel


agenda, velle vel agere posse referatur; ... sed illius generis
est libertas, quae idem
est quod ipsa necessitas, cui nihil superstat majus, cui
nihil obsistit 146

nodo di problemi merita forse di essere approfondito non solo


perch rimasto in parte latente lungo t ut to l'arco di questo

aequale, cui omnia in omnibus atque per omnia


obsecundando subjiciuntur. Ma nel De l'infi nito aveva
scritto: Il primo efficiente, se volesse far altro che quel
che vuol fare, potrebe far altro che quel che fa; ma non
pu voler far altro che quel che vuol fare; dunque non
pu far altro che quel che fa. Dunque, chi dice l'effetto
finito, pone l'operazione e la potenza finita . . . Questi, se
non son semplici, son demonstrativi sillogismi. Tutta volta
lodo che alcuni degni teologi non le admettano; perch
providamente considerando, sanno che gli rozzi popoli ed
ignoranti con questa necessit vegnono a non posser concipere
come possa star la elezione e dignit e meriti di giusticia;
onde, confidati o desperati sotto certo fato, sono
necessariamente sceleratissimi ... Non si trovato giamai
filosofo, dotto ed uomo da bene che, sotto specie o
pretesto alcuno, da tal proposizione avesse voluto tirar la
necessit delli effetti umani e destruggere l'elezione.
Come, tra gli altri, Platone ed Aristotele, con ponere la
necessit ed immutabilit in Dio, non poneno meno la
libert morale e facult della nostra elezione; perch
sanno bene e possono capire, come siano compossibili questa
necessit e questa libert. Per alcuni di veri padri e
pastori di popoli toglieno forse questo dire ed altro
simile, per non donare comodit, a scelerati e seduttori
nemici della civilit e profitto generale, di tirar le noiose
conclusioni abusando della semplicit ed ignoranza di
quei che difficilmente possono capire il vero e
prontissimamente sono inclinati al male. E facilmente
condonaranno a noi di usar le vere proposizioni, da le
quali non vogliamo inferir altro che la verit della natura
e dell'eccellenza de l'autor di quella; e le quali non son
proposte da noi al volgo, ma a sapienti soli che possono
aver accesso all'intelligenza di nostri discorsi. Da questo
principio dipende che gli non men dotti che religiosi
teologi giamai han pregiudicato alla libert de filosofi; e
gli veri, civili e bene accostumati filosofi sempre hanno
faurito le religioni; perch gli uni e gli altri sanno che la
fede si richiede per l'instituzione di rozzi popoli che
denno esser governati, e la demostrazione per gli contemplativi che sanno governar s ed altri. (Dialoghi, pp. 3857). L'obiettivo primo della polemica del Bruno dato qui
dai Riformatori: certi corrottori di leggi, fede e
religione, volendo parer savii, hanno infettato tanti popoli,

facendoli dovenir pi barbari e scelerati che non eran


prima, dispreggiatori del ben fare ed assicuratissimi ad
ogni vizio e
ribaldaria, per le conclusioni che tirano da simili
premesse. Per non tanto il contrario dire appresso gli
sapienti scandaloso e detrae alla

147

lavoro. In effetti, egli si mostra in aperta rottura con posizioni che,


secondo alcuni interpreti, avrebbero favorito il formarsi di nuove
prospettive cosmologiche e in particolare dell'idea di una pluralit di
mondi; di pi: la posizione bruniana sembra definire il concetto di
lex in termini tali da escludere la moltitudine dalla pi alta verit
religiosa e quindi dalla rivoluzione copernicana, alla prima
indissolubilmente connessa. Questione quant'altre mai delicata, alla
cui esistenza qui si solo potuto accennare in chiusura.
INDICE DEI NOMI

grandezza ed eccellenza divina, quanto quel che vero, pernicioso alla civile
conversazione e contrario al fine delle leggi, non per esser vero, ma per
esser male inteso, tanto per quei che malignamente il trattano, quanto per
quei che non son capaci de intenderlo senza iattura di costumi (Ibidem,
pp. 385-6). Dunque le premesse potevan essere vere ma pericolose le
conseguenze tratte; cos Calvino considerava empio dissocare potentia e iustitia
divine: Ergo quum sibi ius mundi regendi vendicet Deus nobis incognitum,
haec sit sobrietatis ac modestiae lex, acquiescere summo eius imperio, ut eius
voluntas nobis sit unica iustitiae regula, et iustissima causa rerum omnium.
Non illa quidem absoluta voluntas de qua garriunt sophistae, impio
profanoque dissidio separantes eius iustitiam a potentia: sed illa moderatrix
rerum omnium providentia, a qua nihil nisi rectum manat, quanvis nobis
absconditae sint rationes (Inst., I, XVII, 2; Opera selecta, edd. P. Barth W.
Niesel, cit. III, p. 205 e ivi i rinvii ai luoghi di Ockam e Biel) testo da
confrontare qui con la prima delle citazioni bruniane. Ma la discussione, nello
Spaccio, presente, mi sembra, l dove si parla della possibilit per Giove di
fare "sin a quel che non , n pu esser fatto" (Dialoghi, p. 811); poche righe
prima Momo si era lamentato del fatto che "Giove ha la sua volont per
giustizia, ed il suo fatto per fatal decreto, per far conoscere ch'egli ave
absoluta autoritade, e per non donar a credere ch'egli confesse di posser fare,
o aver fatto errore, come soglion fare altri dei, che, per aver qualche ramo
de discrezione, tal volta si penteno, si ritrattano e corre gono (Ibidem, p.
810).
148

Abelardo, v. Pietro Abelardo


Achille, 82, 89
Agostino, 21 e n, 22, 25 n, 63, 87 e n
Alessandro d'Afrodisia (Ps.), 56 n Alveld
A., 55 n
Amerio R., 50 n Andrea, S., 50,
51 n Apollo d'Alessandria,
56 n Apuleio (Ps.), 98 n
Aquilecchia, G., 9 n
Aristotele, 40 n, 98 n, 99 n, 147 n
Aronne, 54
Atteone, 12, 70, 71 e n, 86
Baeumker, C., 130n
Barth, P., 14n, 148n
Bellarmino, R., 71 n
Beonio Brocchieri, M. T., 109n
Biel, G., 148 n
Biondi, A., 16 n Borelli,
G. A., 103 n Bozza, T.,
14 n
Callippo, 99 n
Campanella, T., 49, 50 n, 51 e n, 53,
85 n
Campi, E., 15 n
Cano, M., 51 n, 56 n, 60 n
Caponetto, S., 16 n Cardano,
G., 144 Carlostadio, A., 16
Cassirer, E., 113 n

Cavazza, S., 16 n
Chirone, 77-83, 99 n
Cipriano, S., 49, 50 e n
Clemente, S., 50
Copernico, N., 102, 103 e n, 104 n,
106 n, 113 n
Couliano, I. P., 9 n
Cranz, F. Ed., 113 n
Crisostomo, (S.) Giovanni, 49, 50 e n
Cristiani, M., 86n Cullmann, 0., 56n
Cusano, N., 90n, 113-148
De Bernart, L., 113n
De Negri, E., 15 n, 106 n
Diana, 12, 31, 38, 47, 48, 51, 70,
71 e n, 74, 78, 85, 86
Dionigi (Ps.), 111 n, 114 e n Duns
Scoto, J., 109n
Eire, Carlos M. N., 52n
Elia, 49, 50 n
Eliade, M., 9 n
Enrico IV di Navarra, 85n
Epicuro, 101
Erasmo da Rotterdam, 28, 29, 39 e n,
40, 42, 44, 45 e n, 46, 47, 48,
52 e n, 56 n, 67, 69, 91 e n, 145 n Ermete
Trismegisto, 111 n, 114, 130 Eudosso, 99
n
149

Federici Vescovini, G., 90 n


Festugire, A. G., 98 n
Ficino, M., 114, 115, 133 n, 134 Fiore,
T., 43 n
Fiorentino, F., 113 n
Firpo, L., 55 n
Gaetano, v. Tommaso de Vio detto il G.
Garin, E., 45 n, 113 n
Genre, E., 15 n
Gentile, G., 9 n
Giamblico, 141 n
Gilly, C., 16 n
Ginzburg, C., 14 n
Giove, 32-41, 47, 70, 75, 76 e n, 77, 78 n,
148 n
Girolamo, S., 49, 50n
Giustino, S., 50
Gori, G. B., 109 n
Granada, M. A., 9 n
Gregorio Magno, 51 n
Gregorio da Nissa, 49, 50 n, 51 n
Hayduck, M., 99
Hexter, J. H., 43
Hobbes, Th., 109
Hoffmann, E., 121
Hopkins, J., 119
Huarte, J., 144

n
n
n
n
n

Imbriani, V., 113 n


Ireneo, S., 50
Iserloh, E., 15n
Iside, 70
Isnardi Parente, M., 43 n
Jeanmaire, H., 86 n
Keplero, G., 103 n
Kernyi, K., 34 e n, 86 n
Klibansky, R., 113 n, 121 n
Koyr, A., 103 e n, 104 n, 106 n, 116 n
Landucci, S., 109 n
Leonardo da Vini, 85 n, 113 n
Leone, papa, 49, 50 n
150

Lepre, 24, 29-35, 38, 75, 78, 81


Lucrezio, 101
Luscombe, D., 114n
Lutero, M., 13, 14 n, 15, 16 e n, 54,
55 e n, 56 e n, 57, 58, 105, 106 e n,
107, 113 n
Machiavelli, N., 78, 82 e n, 83
Malebranche, N., 109 n Marziale, S.,
50 Mecenate, 94
Melantone, F., 14n
Mercati, A., 14n, 25n, 110n
Miccoli, G., 16n
Momo, 26, 32, 34, 35, 37, 38, 40,
41, 44, 47, 70, 75, 76 e n, 77,
78 n, 148 n
More, Th., 42, 43 e n, 45 n

Salomone, 25 n
Saturno, 94, 103
Saulino, 84 Scavizzi,
G., 52 n Schopp, G.,
54 n Scoto, G., 116
n
Seidel Menchi, S., 16 n, 39 n
Sofia, 84
Sozzini, L., 14n
Spampanato, V., 45n, 54n, 85n
Sugranyes, R., 16n Surtz, E., 43 n
Tocco, F., 113 n
Toland, J., 29 e n
Tommaso d'Aquino (S.), 30 n, 51 n,
99 n
Tommaso de Vio, 50 e n, 56 n
Tourn, G., 60 n Trinkaus, Ch., 108
n

Ulisse, 89
Valds, Juan de, 16n
Vdrine, H., 113 n Venere,
31
Vernant, J. P., 86n
Virgilio, 49, 50n
Vivanti, C., 85n
Weier R., 113 n
Wenck, I., 127 n Wendel, F.,
15n, 110n Wyclif, G., 109n
Yates, F. A., 85n, 98n
Zwingli, U., 15 n, 16-18, 23, 105, 107

Niccoli, O., 16 n
Niesel, W., 14 n, 148 n
Nock, A. D., 98 n
Oberman Heiko, A., 52 n, 106 n,
108 n, 109 n
Ockam, G., 109 n, 148 n
Orione, 14, 15, 24 Otto, W.
F., 86n
Pacchi, A., 109 n
Pagnoni Sturlese, R., 29n Palingenio
Stellato, M., 10, 111 n Pannier, J.,
56n Panzieri Saija, G., 55n Paolo,
S., 54, 55, 56 n, 138 e n Pecchioli,
R., 98 n Pietro, Abelardo, 109 n
Platone, 114, 147 n Plotino, 114
Plutone,
10n,
114
Procacci, G., 82n Prosperi,
A., 14n, 16n
Randi, E., 109n
Ricca, P., 15 n Riccati, C.,
116n Rittershausen, C.,
54n Rotond, A., 14n
Rudavsky, T., 109n

1 51

p.

INDICE
7

Avvertenza

Regia pazzia. Bruno lettore di Calvino

149

Indice dei nomi

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