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EXTRAVISIONI

LE FORME DELL'ALLUCINAZIONE AL CINEMA

di Micaela Veronesi

ragionare vedere capire confondere...intelletto pensiero saggezza pazzia...

La differenza che c'è tra vedere e guardare è nella sostanza delle due azioni: è la stessa

che c'è tra superficie e profondità.

Ma che differenza c'è tra vedere e credere di avere visto?

Nel cinema dove tutto si fonda con lo sguardo ci sono dei meccanismi attraverso cui ci

si appropria delle immagini: quello che è da vedere è guardato e assimilato

automaticamente. Anche senza rendersene conto. Del resto la macchina da presa, il

proiettore, la pellicola, le apparecchiature che stanno alla base del cinematografo si

fondano in primo luogo su principi ottici. Parlare di cinema e parlare di visione sono

quindi due cose molto simili, due discorsi che prima o poi possono incrociarsi.

Da che esiste, il cinema ha posto agli uomini il problema del suo rapporto con il

pensiero; dell'influenza che le immagini in movimento possono avere sulla mente

umana.

Chi studia il cinema sa che negli anni '20 in Russia si sperimentavano tecniche di

montaggio delle immagini tali da far sì che dal film non scaturissero più soltanto

immagini rappresentate, ma anche delle altre pensate dallo spettatore nel momento

stesso che lo vedeva. (Esperimenti che rispondevano alla domanda "quale impressione
deriva dall'accostamento fotogramma uomo + fotogramma maiale?").

Chi conosce anche la critica cinematografica sa che in quello stesso periodo in Europa e
soprattutto in Francia si dibatteva sulla possibilità/necessità di far lavorare le menti

(eterne addormentate) degli uomini (moderni) attraverso le immagini filmiche. Dibattiti


che approdati in ambienti surrealisti e dadaisti hanno portato a tentativi di fare col

cinema esperimenti con il joyciano flusso di coscienza o con la bretoniana scrittura


automatica. André Breton voleva arrivare ad una creazione artistica direttamente

prodotta dall'inconscio e non mediata dalla coscienza, e le sue teorie, anche se non
influenzarono ufficialmente Bunuel, furono condivise dal cineasta spagnolo, come da

altri registi di quel periodo.

Tutto il cinema sperimentale di ogni epoca si è posto il problema delle infinite

connessioni fra MOVING PICTURE e MIND: inevitabilmente il flusso delle immagini

ricorda il flusso di coscienza.

Dal momento che le nostre immagini, nostre nel senso che noi le proponiamo nelle

pagine del dossier di questa rivista e sullo schermo dell'aula universitaria dove faremo il

cineforum, hanno oltre alle caratteristiche di somiglianza con i meccanismi delle mente,

anche un rapporto problematico con la mente stessa, diventa importante affrontare il

problema che sta subito oltre la visione: la visione incerta.

Tutta la seducente forza visiva del cinema si basa su un inganno che è a suo modo

allucinazione ovvero uno stato in cui si percepisce come reale ciò che è solo

immaginario. Lo spettatore che vede in un film un personaggio vittima di allucinazioni

si pone su un duplice piano, quello di chi vede ciò che non c'è all'interno della

dimensione filmica e quello di chi vede il film, che a sua volta non c'è ed è solo

un'illusione. Questo doppio coinvolgimento nel delirio allucinatorio propone un

problema metelinguistico intimamente connesso al cinema.

L'immagine filmica esercita un'effetto seducente nei confronti dello spettatore, una sorta

di illusionismo ottico, un vero effetto/Mabuse, degno del grande demiurgo-mago-

truffatore, non a caso personaggio cinematografico. Proprio come le sue illusioni

teatrali, l'immagine allucinatoria è immagine filmica per eccellenza, perché concilia

illusione e seduzione. Anche quando l'allucinazione è brutta al punto da impressionare-

spaventare, il risultato è quello della trasposizione a livello visivo di qualcosa che esiste

solo nell'immaginazione, di un concetto insomma; fatto che, fin quando si tratta di

ricostruire la realtà si regge su un piano di verosimiglianza, ma che quando si realizza

come allucinazione non trova più riscontro nell'immaginario quotidiano (di noi

spettatori ovviamente) e si annuncia come qualcosa di inquietante.

Non dovrebbe spaventare perché è pura illusione (si sa il trucco c'è ma non si vede),

eppure il fascino dell'immagine è così grande che attraendo il nostro sguardo coinvolge

anche le nostre menti. Interviene in questo caso quella che potremmo definire la
fascinazione dell'insolito, solo chiudendo gli occhi ci si libera dallo sguardo ipnotico

dell'illusionista, così è difficile sottrarsi alla vista inquietante di un'allucinazione.

Presenze estranee, uomini che ricompaiono da una memoria lontana, oggetti, luci, suoni

che non esistono, molto spesso queste allucinazioni sono frutto di menti insane, che

sdoppiano e moltiplicano la realtà, come in Image di Altman, altre volte sono causate

dagli stupefacenti, che producono nella mente questi eccessi di percezione, visioni extra,

che non esistono, ma che coinvolgono e condizionano al punto da essere credibili,

inquietanti, ma possibili. Introdotta nel corpo umano la droga, anche in piccole dosi,

provoca delle alterazioni permanenti nelle funzioni della mente. Questo accade in Stati

di allucinazione di Ken Russell e ne Il cattivo tenente di Ferrara. Queste allucinazioni

portano inevitabilmente i personaggi che ne sono spettatori alla deriva, come accade ne

L'inquilino del terzo piano di Polanski, dove assistiamo al progressivo deterioramento

della mente del protagonista, che eredita gli incubi della donna che abitava nella sua

stessa casa senza averla mai conosciuta. Mentre gli spettatori cinematografici subiscono

la visione dell'allucinazione come qualcosa di molto inquietante, sia per la seduzione

che l'evento cinematografico in genere esercita su chi vi partecipa, sia per il suo valore

evocativo: l'allucinazione, se ben realizzata, può avere un effetto disturbante perché

rappresenta quelle che sono le paure più recondite della mente umana, risveglia in

ognuno di noi quella junghiana coscienza collettiva in cui si archiviano le paure delle

paure delle paure...Ma così come possono essere inquietanti le allucinazioni

cinematografiche possono rivelarsi in tutta la loro artificiosità, e finire con il cadere

nella rappresentazione burlesca. Il passo è breve, come è breve, l'abbiamo visto all'inizio

di questo discorso, la soglia tra il vedere e il credere di avere visto. In fondo tra noi e il

mondo che viene rappresentato nei film c'è quell'implacabile intermediario, che è

l'occhio della macchina da presa. Sul quale Pasolini aveva capito molte cose: un

personaggio che agisce sullo schermo deve vedere il mondo in un certo modo, ma la

macchina da presa lo vede e registra il suo mondo da un altro punto di vista, che è

diverso da quello del personaggio; a questo punto Pasolini dice che l'autore del film:" ha

sostituito in blocco la visione del mondo di un nevrotico con la propria visione delirante

di estetismo". Questa definizione efficace chiarisce bene il nostro problema, la nostra


percezione delle immagini filmiche, qualsiasi esse siano, è sempre la percezione

spostata della cinepresa, sguardo asettico e inumano, puramente estetizzante, e il cinema

è in questo senso il medium universale di ogni possibile immagine del mondo, anche di

quella allucinatoria.

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