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Goodman in cucina: le attivazioni di Babette1

Gianfranco Marrone

1. Verso una semiotica della cucina


Discutendo della relazione fra cibo, filosofia e arte, un ulteriore termine che si suole,
giustamente, introdurre per articolare meglio la questione quello di linguaggio. Si
parla spesso, a qualsiasi livello accademico, mediatico , di linguaggio del cibo,
esattamente come trenta o quarantanni era frequente sentir riecheggiare la locuzione
linguaggio dellarte. Che era un modo, allora, per spostare su un piano pi tecnicopratico e insieme pi rigoroso gran parte dei dibattiti sulle pratiche artistiche e
sullestetica filosofica, al di l dei paradigmi idealista e marxista allora dominanti. In
estetica, in critica darte, in teoria letteraria tutti parlavano di linguaggio dellarte, e
poi anche della pittura, della letteratura, della musica, dellarchitettura etc., per
andare alla ricerca di una concretezza (qualcuno diceva scientificit) che sfuggiva a
gran parte dei modelli teorici e critici dominanti, di derivazione storicista (per un
panorama critico cfr. Calabrese 1985).
Credo che questo attuale spostamento di campo dal linguaggio dellarte al
linguaggio del cibo sia di un certo interesse. Da una parte, ci permette di riflettere
sul fatto che, pi in generale, gran parte delle dispute che oggi si fanno intorno al
cibo, alla cucina e alla gastronomia ripropongono, spesso inconsapevolmente, quelle
che allora si conducevano intorno allarte: ed ecco tutto un discutere sul nesso fra
perizia tecnica e slanci inventivi, sulle relazioni fra saper-fare pratico e saper creare,
sullautorialit e la firma, sullo spazio dintervento della critica, sulle responsabilit
dellinterprete-consumatore, sullimportanza del contesto-ambiente, sui nessi tra
esperienza sensoriale e opera, sui nessi fra novit e tradizione etc. (per una rassegna
argomentata dei temi principali dellestetica gastronomica, cfr. Perullo 2013). Cosa
che porta anche a pratiche ed esperienze, nel mondo della gastronomia, quasi
scimmiottate da quelle presenti nel mondo dellarte. Cos, per esempio, c chi chiede
ai cuochi di lasciar perdere per un po i fornelli e parlare direttamente del loro
operato, cos come s fatto tempo fa con poeti e pittori e musicisti e architetti, quasi a
riproporre quellarte romantica che, secondo lestetica hegeliana, rinunciava a se
stessa per farsi filosofia (cfr. Marrone 2014). Per non parlare della pratica giornalistica
delle interviste allo chef, spesso facile succedaneo a pi rigorosi, e necessari, interventi
della critica gastronomica.
Daltra parte, questo continuo richiamo al linguaggio del cibo (cos come, nei primi
tempi, al linguaggio dellarte) stato per lo pi portato avanti in termini fortemente
metaforici, come a indicare una specie di vaga analogia fra lingua e cucina che
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Di prossima pubblicazione in Cibo, filosofia e arte, a cura di Nicola Perullo, Pisa, ETS 2014.

permette di intendere la seconda, al modo della prima, come un processo di


comunicazione, ma dai contorni assai vaghi e dalle forme pressoch indeterminate.
La cucina un linguaggio, si dice, cos come larte; ma che cosa ci esattamente
significhi, a quali condizioni sia possibile, quali effetti comporti resta ancora da
decidere. A poco a poco, lidea che larte sia una forma di linguaggio o, meglio, in
sistema e un processo di significazione stata supportata da precise riflessioni
epistemologiche, costruzioni teoriche, apparati metodologici, analisi di testi (cfr.
Corrain, a cura di, 2004). Qualcosa del genere resta per lo pi da fare sul terreno,
supposto analogo, del gusto, della cucina, del cibo e della tavola, e i primi,
pionieristici studi in questo senso aprono piste di ricerca ricche di sviluppi futuri (cfr.
Boutaud 2005; Marrone e Giannitrapani, a cura di, 2012, 2013; Mangano e
Marrone, a cura di, 2013). In altri termini, se una semiotica dellarte, oggi, un
progetto di ricerca e una realt disciplinare solidissimi e riconosciuti, non altrettanto
pu dirsi di una semiotica della cucina, che ha ancora un po di strada da compiere
per poterle essere adeguatamente accostata.
Per lavorare in questa direzione, oltre alle necessarie interrogazioni interne alla
disciplina semiotica, e alla moltiplicazione delle analisi empiriche, sono senzaltro utili
le discussioni esterne con altri campi disciplinari e altre piste di ricerca, come
soprattutto quelle dellestetica e della filosofia applicate alla gastronomia (cfr. Perullo
2006, 2008, 2010, 2011, 2012a, 2012b). Il convegno Convergence Pollenzo. Cibo, filosofia e
arte va dunque salutato con grandissimo interesse anche da parte del semiologo che
vuol occuparsi di cibo e di cucina.
2. Dal linguaggio al testo
Il necessario punto di partenza di una semiotica del cibo discutere, e decidere, su
che tipo di sistema di senso il cibo possa essere. La mia convinzione, come ho provato
a dimostrare altrove (Marrone 2012, 2013a, 2013b), che si tratti di un sistema primario
di modellizzazione culturale, ossia di uno strumento che comunicando, classifica, mette in
gerarchia, propone immagini e valutazioni del mondo, del sociale, di noi stessi. Noi ci
specchiamo nel cibo, in cucina, a tavola, in sala da pranzo, al ristorante etc. Il cibo
un sistema primario, e non secondario, di modellizzazione culturale, come la lingua,
come lo spazio, come limmagine, e forse anche di pi di questi altri sistemi di senso;
un linguaggio silenzioso, non verbale, non grammaticale, ma comunque, o forse
proprio per questo, ancora pi potente del linguaggio verbale, di quello della
spazialit o dellimmagine. Il cibo, insomma, contrariamente a quanto per un certo
periodo s ritenuto (cfr. per es. Barthes 1964), per essere significativo, ed essere
utilizzato come forma di comunicazione, non ha bisogno di una base linguistica che
lo preceda, non si appoggia su strutture linguistiche pregresse, ma, anzi, con grande
probabilit, lui a anticiparle. Il cibo non significa in quanto detto dalla lingua
verbale, ma in quanto dice a prescindere da essa.
Chiarito ci, come funziona il linguaggio del cibo? come diviene sistema di
modellizzazione culturale? a quali condizioni pu essere interpretato come sistema di
senso? La via maestra per rispondere a queste domande , a mio avviso, quella di
porre il problema del testo culinario o, se si preferisce, gastronomico. Cos come ogni
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sistema e processo di significazione, per esserci e funzionare, deve mettere


incessantemente in gioco testi che si parlino e si rinviino fra loro entro semiosfere date
(Lotman 1985), analogamente la cucina il cibo, la tavola per poter essere considerate
come sistemi e processi di significazione devono funzionare in termini testuali con
tutte le difficolt teoriche, ma soprattutto le opportunit euristiche, che la nozione di
testo pone a una semiotica matura (Marrone 2010).
Ma che cos un testo culinario? quali sono le configurazioni formali del cibo che
producono significato? quali porzioni, dimensioni, aspetti e taglie del cibo servono per
parlare del mondo e della societ? Come ho provato a chiarire pi
approfonditamente altrove (Marrone 2012), la risposta tuttaltro che ovvia. La
definizione che potremmo darne suona pi o meno cos: un testo culinario qualsiasi cosa,
evento o situazione legato allalimentazione, alla cucina, alla gastronomia e alla tavola che, a
determinate condizioni formali, produce del senso umano e sociale, lo fa circolare, lo traduce in altro
senso. Detto ci, si tratta di determinare queste condizioni. Di sicuro possiamo dire, in
negativo, che cosa non testo culinario: non lo la dimensione nutrizionale, quella
salutista, quella dietetica, quella del mercato e perfino quella del consumo. Il
linguaggio del cibo, pur basandosi su di essi, non costituito da alimenti, ingredienti,
nutrienti, calorie, cos come la lingua verbale, pur avendone necessit, non fatta di
parole o suoni. Nel linguaggio, in ogni linguaggio, a essere significative non sono le
sostanze ma le forme, le differenze e le relazioni, le articolazioni, i processi, le
trasformazioni, le valorizzazioni. Cos, per noi gli spaghetti sono una pietanza, ma per
molti altri sono un contorno: gli stessi spaghetti (o quasi). Analogamente per molti la
lattuga un contorno, per altri unentre: la stessa lattuga (o quasi). In entrambi i
casi, la medesima sostanza cambia di senso a seconda delle altre con le quali messa
in relazione, ricavandone valorizzazioni differenti. Allora: come si compone un testo
culinario dunque una cosa che poi, a determinate condizioni, pu diventare arte?
Un boccone, per esempio, un testo, un insieme di senso dato e conchiuso che
portatore di significato? Direi di no, o almeno solo in determinate cucine (per
esempio quella del sushi o delle tapas). Nella nostra cultura, semmai, a fare significato
piuttosto un piatto; e forse nemmeno questo, casomai un pasto, ossia un universo di
senso fatto di entrate e uscite, dipartite e chiusure, piatti forti e contorni e altre cose
che valgono non come tali ma per le regole con cui si mettono in relazione. Quel che resta fisso,
per fabbricare un testo gastronomico, la necessit di unorganizzazione strutturale
interna, lesigenza del tenere insieme in modo sistematico elementi differenti e loro
qualit relative, prodotti e loro virtualit sensoriali, segnalando al contempo i
momenti di apertura (aperitivi, antipasti) e chiusura (dessert, caff, digestivi), i
passaggi intermedi (sorbetti fra pesce e carne), le pause (sorsi di vino fra un boccone e
laltro) e tutto ci che costituisce il ritmo testuale, le sequenze rituali, le selezioni a
monte.
Quante sono le dimensioni del cibo coinvolte nella sua valenza semiotica?
Ovviamente moltissime. Tenendo, per convenzione, il momento della cucina come
centrale, possiamo indicare in modo approssimativo, a monte, la produzione delle
materie prime e la loro selezione; al centro, la loro trasformazione e combinazione; e,
a valle, limpiattamento e la presentazione, la tavola e lambiente, le maniere di stare
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a tavola, i tempi del consumo. Tutti elementi destinati a essere diversamente e


persistentemente relazionati fra loro e trasformati, di modo che queste relazioni e
trasformazioni vanno proprio a costituire le forme del senso, o, se si vuole, le sue
condizioni di possibilit. Oggi per esempio il problema della produzione delle materie
prime, a lungo escluso dalla gastronomia, molto pertinente per la cucina (si pensi a
tutto il tema del biologico, del tipico, del naturale etc.: cfr. Marrone 2011, 2014). Ma
restano essenziali, soprattutto in ambiente mediatico, questioni come quelle del nesso
fra piatto e pasto (in tv, per esempio, non si preparano pasti ma piatti; anche se poi,
dinnanzi alla telecamera, non si mangia ma si assaggia: cfr. Marrone 2013c). Per non
parlare di tutta la retorica dellimpiattamento, della presentazione e della recitazione
del piatto, in certi ristoranti pretesi chic e nelle loro caricature mediatiche. E siamo
ancora a un livello di descrizione tanto generale da apparire stereotipo. Sufficiente
per, con questa serie di esempi, per lasciar intendere, nella ricchezza e complessit
dei sistemi culinari, lutilit di un loro esame attraverso una metodologia semioticotestuale, atta a trovare somiglianze formali l dove non appaiono che differenze
sostanziali, a riordinare con pochi criteri di massima lenorme quantit di esiti
gastronomici presenti nei diversi contesti storici, sociali e culturali.
3. Contesti e attivazioni
Le varie culture ed epoche, cos, si trovano a dare maggiore o minor peso, nei loro
codici alimentari, alle diverse attivit che al mondo del cibo sono collegate, rendendo
pertinente ora un momento ora un altro, ora una pratica ora unaltra, ora un luogo
ora un altro. in questo modo , e per queste ragioni, che le forme semiotiche della
cucina e dellalimentazione sono omologhe a quelle del linguaggio: ci che a un
determinato livello di pertinenza elemento singolo (una frase, un piatto) a un altro
pu essere inteso come un composto (di parole, di sapori) mentre a un altro ancora
come un componente (di un discorso, di un pasto). In altri termini, ci che per certe
culture un testo (un piatto) per altre solo la parte di un testo pi ampio (un pasto)
mentre per altre ancora inteso come un contesto (un insieme di bocconi). Ci non
significa che tutto uguale a tutto poich ogni cosa egualmente possibile, senza
regole o sistemi. Ma semmai che i sistemi di regole si basano sul principio della
pertinenza, stabilendo volta per volta che cosa significativo e che cosa non lo , che
cosa importante e che cosa lo meno.
Il problema che si pone a questo punto, per avvicinarci frettolosamente alla questione
centrale del nesso cucina-arte, come maneggiare la relazione il testo culinario e il
contesto culturale: termini che, come sar chiaro, non sono da intendere in senso
ontologico ma, pi rigorosamente, relazionale, ossia come elementi che si
costituiscono reciprocamente in funzione degli obiettivi significativi che gli attori
sociali, sullo sfondo dei modelli gastronomici cui fanno riferimento, volta per volta
mettono in gioco. Il contesto ci che non pertinente per la costruzione semiotica
del senso gastronomico, il testo tutto il resto. E se c qualcosa nel contesto che utile
per lintelligenza della testualit, va integrato a essa. , in fondo, quel che s detto
prima, a mo desempio, a proposito delle pratiche agricole di tipo biologico o anche
etico, prima escluse dal senso culinario, oggi incluse. Andando a ristorante non
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vogliamo sapere soltanto che cosa ha preparato oggi lo chef, ma da dove vengono le
materie prime che ha lavorato. Cos come, forse, ci interesser conoscere che fine
faranno gli avanti della cucina. Ci che prima era contesto, oggi testo, secondo
pertinenze culturali, punti di vista valoriali, resi funzionali dalla cultura di riferimento.
Tale prospettiva teorica e metodologica appare molto vicina, come stato osservato
(Fabbri 2011), a quella che in estetica analitica stata formulata da Nelson
Goodman: mi riferisco alla celebre differenze fra arti autografiche e arti allografiche,
esposta in Languages of Art e ripresa in molti studi successivi fra cui Art in theory, art
in action. Come si ricorder (ma cfr. Marchetti 2006), in Linguaggi dellarte Goodman
(1968) poneva il problema del falso e dellautentico in arte, constatando che a seconda
delle arti il concetto di e soprattutto le pratiche legate al falso molto diverso. Ci
sono arti autografiche, come la pittura o la scultura, per cui si produce unopera e quella
lunicum di cui ogni tentativo di replica un falso; anzi, pi perfetta la replica, pi
si tratta di una contraffazione. E ci sono altre arti, dette allografiche, come la musica, la
letteratura e il teatro, in cui non cos: lartista produce lopera, poniamo una
partitura musicale o un testo teatrale, e poi c il momento dellesecuzione che la
completa. Lesecuzione di una partitura non un falso, ma in qualche modo fa parte
dellopera pur venendo dopo di essa. E non c una esecuzione falsa e una vera,
semmai una migliore e una peggiore. Non solo: ogni copia della partitura, come di
una poesia o di un romanzo, non un falso, ma un esemplare dellopera stessa.
Analogamente, larchitettura arte allografica: c il progetto e poi la sua
realizzazione. Le arti autografiche sono dunque, per cos dire, a uno stadio (tranne
casi come quelli della stampa, dellincisione etc., che hanno due stadi pur essendo
autografiche; cos come la letteratura, pur essendo allografica, ha un solo stadio),
mentre quelle allografiche hanno due stadi: hanno bisogno cio come minino di due
passaggi per manifestarsi. Ed evidente che la riproducibilit tecnica dellopera, per
quanto abbia aumentato moltissimo il numero di arti allografiche, non ha per questo
eliminato la presenza delle autografiche.
Sin qui sembra che la nota distinzione di Goodman, problematica in molti punti, si
riferisca ai tipi di arte in quanto tali: la pittura autografica, la musica allografica etc.
Tuttavia, la spiegazione data da Goodman (esiste una notazione simbolica della
musica e non della pittura) non sufficiente per spiegare perch una copia ben fatta
di un Caravaggio un falso, mentre un pessimo esemplare cartaceo di unopera di
Shakespeare un regolare esemplare dellopera stessa. Evidentemente, dal nostro
punto di vista, qui si pongono problemi di carattere non ontologico ma culturale,
antropologico, che, introducendo la nozione di pertinenza nel discorso goodmaniano,
lo renderebbero operativo. Basti ricordare che in epoche diverse la relazione fra
originale e copia era molto meno sentita che in epoca moderna. E ancor oggi, se
mettiamo a confronto la cultura cinese con quella occidentale, il criterio di
falsificazione e di contraffazione, per i medesimi oggetti, non il medesimo.
Da qui, nelle opere successive del filosofo americano, un approfondimento del
problema. In Vedere e percepire il mondo, per esempio, Goodman (1978) dice molto
chiaramente che non possibile sostenere che cosa arte ma solo quando arte, ossia a
quali condizioni, legate a specifici mondi, cui unopera artistica mentre unaltra non
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lo . Successivamente, in altri scritti, ragionando sul nesso fra opera letteraria e


lettura, ma anche fra opera pittorica e museo, il suo discorso va avanti. Goodman
(1988) distingue cos lesecuzione di unopera (per esempio la messa in scena di un testo
teatrale), dallimplementazione detta poi attivazione di unaltra opera (per esempio, la
messa in mostra di un quadro). Con lesecuzione di un testo teatrale, esso trova la sua
realizzazione completa, la costruzione dellopera raggiunge cio il suo compimento.
Con la messa in mostra di un quadro, che di per s gi completo, si ha invece una
messa in opera dellopera, una sua, appunto, attivazione necessaria ma non intrinseca.
Lesecuzione fa parte del processo creativo; lattivazione, in linea di principio, sta
fuori di esso, ma serve comunque, e contribuisce al modo in cui, attraverso lopera,
percepiamo e costruiamo il mondo. Dunque, partecipa a tutti gli effetti alla messa in
opera del processo artistico. Apporre la cornice a un quadro, portarlo in un museo,
esporlo in una mostra: ecco lattivazione, che esterna allopera pur essendole
indispensabile. il motivo per cui il curatore di una mostra, o il direttore di un
museo, o il responsabile di una casa editrice possono a poco a poco assumere un
ruolo di primo piano nel processo artistico, non costruendo lopera ma, dice
Goodman, operandola, mettendola in condizioni di operare, di significare se stessa
come opera darte. Comprendiamo cos come anche le arti allografiche abbiano la
loro attivazione. Una cosa lesecuzione in astratto di un testo teatrale, unaltra una
prima teatrale, la sua messa in gioco entro un sistema che non quello dellopera ma
quello della drammaturgia, dei suoi meccanismi che sono al tempo tesso sociali ed
estetici, sociali perch estetici, estetici perch sociali.
Analogamente, per la musica, o per la letteratura. Si pensi al sistema dei premi: una
questione di mercato, ma contribuisce allattivazione di unopera. Il fulcro del
discorso che lopera, per essere tale, deve funzionare: cosa che comporta una serie di
meccanismi interni ed esterni al tempo stesso; diremmo in semiotica, testuali e
contestuali in relazione reciproca. In generale dunque, tra realizzazione, esecuzione e
attivazione ci sono relazioni variabili, a seconda della storia e delle culture: non c
mai una cosa che viene prima e laltra dopo, ma dipende dalle situazioni socioculturali.
4. Cucina, arte (quasi) allografica
Ora, come possiamo rendere operativo questo ragionamento per la gastronomia?
Ovviamente in modo molto poco codificato, ma forse nello stesso tempo molto pi
ricco. Che tipo di arte la cucina? Senza dubbio, nella maggior parte dei casi
allografica: prima viene la ricetta e poi la sua esecuzione; per i grandi cuochi forse il
contrario; ma in ogni caso la ricetta agisce da spartito per le esecuzioni e le variazioni,
le codificazioni e le istituzionalizzazioni. molto difficile pensare a una cucina
autografica, a unopera culinaria unica e firmata. Da cui il noto problema dellopera
culinaria che, consumandosi, non assurgerebbe secondo molti studiosi al ragno di
opera darte vera e propria. Come anche lidea che per esserci opera culinaria deve
esserci la possibilit della sua ri-esecuzione: nelle scuole di cucina si chiede sempre
agli allievi: sei in grado di rifarlo?
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Ma che rapporti ci sono nel mondo del food fra realizzazione, esecuzione e
attivazione? Dove comincia e dove finisce lopera, dove la sua esecuzione, e dove
invece la sua attivazione? A essere ontologici, facile: c il piatto preparato in cucina
(esecuzione di una ricetta), poi il suo incorniciamento e la sua messa in mostra
(attivazione a tavola). Ma esistono migliaia di controesempi in cui i confini fra cucina
e sala vengono dismessi (oggi chic prenotare il tavolo in cucina, o quanto meno
mettere un vetro fra cucina e sala), e con essi la separazione fra esecuzione della
ricetta e sua attivazione. Il gioco dialettico fra varianti idiosincratiche e modelli
collettivi, differenze individuali e usi sociali, si celebra a monte del testo della ricetta,
ma per altri versi si replica a valle. La ricetta, si dice spesso, gioca un ruolo analogo a
quello di uno spartito musicale o di un progetto darchitettura, riconfigurando cos la
pratica culinaria come una tipica arte allografica: rifuggendo per forza di cose
dallautorialit, essa propone non norme da seguire a menadito (limperativo che
adopera un vezzo di genere) bens massime da adoperare alla bisogna,
personalizzandole se e come si pu, in funzione degli ingredienti che si hanno a
disposizione o della pazienza che si vuol investire nella preparazione del piatto in
questione. E come gli spartiti possono essere pi o meno costrittivi, pi o meno laschi,
sino ad esistere discorsivamente senza esserci ontologicamente (ma cfr. anche i fake
books del jazz), analogamente la ricetta pu esistere prima o a prescindere della sua
testualizzazione canonizzante scritta, visiva o audiovisiva che voglia essere. Negli
scarti fra progettazione, esecuzione e attivazione si gioca il gioco della cucina, a
dispetto di chi vuole normalizzarla e normativizzarla.
cos che la cucina insegna allestetica che la relazione fra realizzazione, esecuzione e
attivazione culturalmente data, inverando al massimo grado lidea goodmaniana del
quando arte, dei dispositivi variabili che fanno s che unopera sia opera darte.
Viene prima lopera e poi il museo o viceversa? Sappiamo che oggi pi vera la
seconda. Analogamente, viene prima il piatto e poi il ristorante? prima il ristorante e
poi la zona cittadina dove collocato? la tavola apparecchiata e i convitati fanno il
pasto? il pasto fa il piatto? i vini accompagnano o costituiscono lopera gastronomica?
Basta che funzioni, direbbe quel goodmaniano di Woody Allen. Ma non nei termini
di una soggettivit assoluta o di un banale relativismo. Semmai in quelli di una
calcolabilit delle relazioni fra i vari elementi in gioco mediante analisi allargata del
set culinario/gastronomico. Vale il principio dellesperienza trasformativa, a qualsiasi
livello essa operi, ossia dellarte come modificazione nel modo di vedere e percepire il
mondo, se non di modificazione del mondo stesso.
5. Opera darte totale
Per illustrare questa prospettiva teorica prendiamo il caso, insospettata testimone,
dalla famigerata Babette, cuoca artista per sedicente antonomasia, conclamata eroina
di una cucina universalista pacificante ed epicurea, il cui malcelato sciovinismo
parigino entusiasma da tempo i blogger di mezzo mondo. Il babettismo ormai
unideologia di successo, e come tutte le ideologie ha innescato, oltre a euforici

movimenti di rivalsa, un certo numero di aziende di successo (Appelbaum 2011;


Mangiapane 2013; Marrone 2013a)2.
Il pranzo di Babette, si ricorder, un racconto di Karen Blixen ambientato in un
grigio, tristissimo villaggio norvegese dove lintera esistenza degli abitanti dedicata al
culto del Signore. La gente prega, il Decano tiene i suoi ammirati sermoni, tutti
cantano lodi a Dio. Larrivo improvviso di due figure maschili, un soldato di belle
speranze e un celebre cantante dopera, turba due ragazze della comunit, le figlie del
Decano, che non cedono per ai fasti della vita terrena e ai suoi piaceri. Giunge poi
dalla Francia una donna, Babette, esiliata da Parigi dove infuriano i combattimenti
per la Comune, e deve adattarsi a far la cameriera presso le due piissime figlie del
Decano ormai avanti det. Nella cui casa, fra le altre mansioni, cucina. Finch,
grazie a una inaspettata vincita di denaro, prepara un gran pranzo con manicaretti
assolutamente sublimi per celebrare la memoria del Decano. Pranzo che incanta
lintera comunit, la quale da quel giorno ritrova la gioia, il senso di appartenenza, la
voglia di stare insieme senza infingimenti n ipocrisie. Sicch, le opposizioni di fondo
presenti nella storia sono abbastanza evidenti: parlare, pregare, raccontare, cantare
(dal lato dello spirito, e dellidentit nazionale norvegese); mangiare, bere, baciare (da
quello della carne, legato semmai alla cultura francese). Morale: cibo e linguaggio
hanno la stessa origine fisica, lo stesso luogo fisiologico che li genera, la bocca. Motivo
per cui non possono non incontrarsi in una specie di chiasma originario.
Quel che qui ci interessa per un altro punto, e precisamente il fatto che Babette
artista della cucina, come lei stessa si presenta, appunto, alla fine della vicenda non
lavora soltanto sul gusto in senso stretto, e dunque sulle materie prime che trasforma
in quei manicaretti sublimi che turberanno i convitati del villaggio. La misteriosa
donna francese ben pi di una cuoca, e quella maestosa cena che preparer molto
di pi che una semplice successione di pietanze assai raffinate. Babette, potremmo
dire, un intero ristorante, mica solo il suo chef. Sembra quasi un attuale esponente
del marketing sensoriale, di quelli che vogliono far vivere ai loro clienti unesperienza
olistica totalizzante, unesperienza che li coinvolga totalmente sul piano della
percezione sensoriale, come anche su quello della conoscenza e della socialit. Il suo
un lavoro sul corpo intero dei convitati, e non solo sulla loro lingua in quanto organo
dei sapori. Difatti il suo scopo, dir, ricreare latmosfera complessiva di quel Caf
Anglais dove per molti anni aveva regnato come cuoca perfetta, ammirata perfino dai
suoi nemici politici.
Di solito, quando si parla del Pranzo di Babette si ricordano gli elementi oscuri, mitici e
vagamente esotici della storia, come le cailles en sarcophage, il brodo di testuggine, i vini
di Borgogna e di Spagna, lo Champagne. Si trascura invece il fatto che il pranzo in
Prendo come caso esemplare un racconto cosiddetto di finzione non perch mi voglia trincerare dietro un
testo letterario, e dunque artistico, ma in quanto configurazione di senso che stata creata a prescindere da
me che la sto analizzando. In filosofia, troppo spesso, si propongono come esperimenti mentali exempla ficta,
invenzioni assolute; in semiotica si preferisce optare per qualcosa di assolutamente reale, i testi della cultura,
che esistono a prescindere dalle indagini che se ne possono fare. Da questo punto di vista, non condivido
lopposizione fra testi ed esperienze concrete: non c nulla di pi concreto dei testi e non c nulla di pi
finto delle esperienze concrete, almeno se le si vuole proporre come reali, immediate, pure: tutte le esperienze
sono filtrate per poter essere comunicabili, dunque analizzabili (cfr. Marrone 2005).

questione preparato dalla signora in esilio sin nei minimi dettagli, permeando di s
lintera vicenda. Innanzitutto, c lincombenza di un destino, quello di una donna
che viene da lontano e che porta con s, silenziosamente ma strenuamente, il proprio
sistema estetico-gastronomico (Capricci del destino sintitola lopera della Blixen da cui
tratto il racconto). Ma tutto pu aver inizio, in senso stretto, quando arriva il classico
dono magico delle fiabe: Babette vince alla lotteria, e ci gli permette di preparare il
pranzo con tutte le provviste del caso e gli ingredienti necessari. A quel punto parte
per una destinazione ignota, ordina il tutto, ritorna soddisfatta. Ma in che cosa
consiste questo tutto che ha ordinato, sapremo dopo, in Francia? e quali sono questi
ingredienti ritenuti necessari? Essi si rivelano a poco a poco al lettore, cos come agli
abitanti del villaggio, e soprattutto alle due sorelle e padrone di casa. Vale la pena
seguire nel dettaglio questa specie di processione. In primo luogo arriva una carriola
carica di bottiglie; vino?, chiede Filippa; no, Clos Vougeot 1846, risponde
Babette. Poi si scorge un marinaretto coi capelli rossi, colui il quale sar laiutante
di Babette in cucina e servir al tavolo. Poi ancora giunge, possente, la tartaruga, che
susciter le preoccupazioni demoniache dellingenua Filippa.
Ma la predisposizione del pranzo non si esaurisce nella teoria delle sue vivande
importate da Parigi. Babette infatti, non soddisfatta, prende di petto la casa delle
padrone, smontandola e rimontandola secondo le sue esigenze e insistenze. Cos,
separa rigidamente la zona della cucina dal resto della casa, impedendo alle due
sorelle e al lettore3 di metter piede tra pentole e padelle (anchesse, manco a dirlo,
di provenienza francese). Inoltre, trasporta il divano del salotto in sala da pranzo,
lasciando alle pie donne il governo del primo (ornato adesso da un vecchio ritratto del
Decano) e appropriandosi invece di quello della seconda. Ed ecco che sulla tavola
vengono ben collocati biancheria da tavola, argenteria, caraffe e bicchieri arrivati
solo Babette sapeva da dove, e al centro con una fila di candele la cui luce si
riverbera sui vestiti neri e gli occhi umidi dei convitati. Gli ospiti, una volta
sopraggiunti, resteranno un bel po sulla soglia di casa, dove percepiranno il calore
interno e il profumo dincenso, e solo Babette decider il momento opportuno per
farli finalmente accomodare in sala da pranzo per dar inizio al rituale organizzato a
puntino.
Un rituale, appunto, dove tutto viene curato sin nei minimi dettagli, come a
risvegliare, per quanto possibile, latmosfera ovattata e preziosa dei migliori ristoranti
parigini, l dove il gusto dei manicaretti accompagnato, e magnificato,
dallambiente che li ospita, dal servizio perfettamente curato, dalla generale atmosfera
ovattata e preziosa della haute cuisine. Amontillado e brodo di tartaruga, gustose
quagliette e cesti di sontuosa frutta, ma anche tovagliato ricamato e argenteria di
prima qualit, cristalleria finissima e perfino il ragazzino vermiglio vengono, tutti,
importati dalla douce France conclamata patria di gourmand fatti gourmet. Operazione
Va ricordato che tutto il racconto in focalizzazione esterna, il punto di vista cio esterno ai personaggi. Cos, il
lettore non sa mai che cosa pensa Babette, quali i suoi pensieri, i suoi affetti, i suoi valori, i suoi obiettivi. Lo si pu solo
ricavare dal suo agire, o attendere che sia lei, come accade alla fine, a svelarlo. Analogamente, al momento del pranzo,
non si sa nulla dello stomaco e del palato dei suoi convitati (cfr. Marrone 2013a) di modo che, accanto al classico
concetto di punto di vista della narratologia, bisognerebbe coniare il concetto di punto di gusto, o di sapore.
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necessaria, secondo lartista Babette, per costruire un pranzo comme il faut, o almeno
come la gastronomia francese ce lo ha rimandato da due o tre secoli a questa parte.
Che dire? Una parabola, certamente, e come tale stata intesa dalle decine di critici e
interpreti dogni tipo. Per quel che ci riguarda, si tratta di una dura e definitiva
lezione, non solo di buone maniere, ma destetica gastronomica e filosofica. Un
sermone al modo di quelli del famigerato Decano, ma portato avanti coi mezzi del
testo letterario e cinematografico, in cui si espone una vera e propria teoria della
cucina come pratica artistica e della convivialit come esperienza estetica a tutto
tondo. Il nemico giurato chiaro: la celebre condanna platonica della cucina, intesa
come prassi da accostare, nemmeno allarte (che il filosofo greco, com noto, non
amava), ma alla sofistica, sorta di imbroglio tanto abbacinante quanto effimero che,
riempiendo gli stomaci, annebbia la mente. La cucina non pu essere arte, s
ripetuto cos per secoli, perch gli oggetti da essa prodotti si consumano,
letteralmente, ingoiandoli. Ma oggi le argomentazioni filosofiche in materia sono
molto diverse, sia perch larte in quanto tale ha da tempo perduto i suoi pi triti
agganci ontologici, sia perch si comprende con maggiore lucidit il fatto che la
cucina non soltanto una tecnica pi o meno accurata per sfornare pietanze con cui
alimentarsi o, alla meglio, manicaretti di cui ingozzarsi. Il prodotto gastronomico, da
un lato, si trasforma e ci trasforma senza sosta e, dallaltro, non si esaurisce
nelloggetto da mangiare, sia esso ingrediente, boccone, piatto o pasto.
La cucina, ci hanno insegnato per esempio i futuristi, unopera darte totale, dato che
include al suo interno quel lungo processo che dalla lavorazione delle materie prime
arriva sino alla loro trasformazione ai fornelli, ma continua poi in sala, dove lintero
ambiente della ristorazione coinvolto nellesperienza gastronomica4. Le cene di
Marinetti e soci, come si tende a dimenticare, erano vere e proprie performance in
cui erano allopera nello stesso momento teatro, musica, danza, design, arti visive,
abbigliamento, profumeria e qualsiasi altra attivit potesse contribuire
allelaborazione, non di particolari pietanze, ma di un generale stile di vita di cui la
cucina era al tempo stesso elemento e totalit, stimolo di partenza e costruzione
dinsieme. Dire che le creazioni culinarie futuriste erano e restano immangiabili, da
questo punto di vista, una banalit analoga a quella di sostenere, poniamo, che la
pittura cubista inguardabile o la letteratura dadaista illeggibile. Quel che conta ,
come sempre, che esse contribuissero fattivamente allipotesi estetica di una
ricostruzione dellintero universo, esistenziale come sociale, artistico come quotidiano.
Il sogno di Wagner si stempera cos tra forni e frigoriferi, fruste e cucchiai, sbattitori e
microonde. Lo aveva ben capito, appunto, Babette, icona vittoriosa della gastronomia
contemporanea, che dalle pagine della Blixen e dalla pellicola di Oz ci ha insegnato
che con un sapido brodo di tartaruga e un Veuve Cliquot dannata si possono
sradicare anche le pi solide credenze religiose. Ma, soprattutto, Babette ha ben
chiaro e cerca di insegnarcelo che lesperienza gastronomica sempre e
comunque olistica, coinvolge il corpo nella sua interezza, e con esso la mente, gli
affetti, i concetti, le passioni. Per questo ha a che fare con larte e con la filosofia. E
4

Idea espressa da Paolo Fabbri nella sua relazione al convegno di Pollenzo. Cfr. anche Fabbri (2010).

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per questo, a ben pensarci, il noto detto di Feuerbach andrebbe parzialmente


riscritto: luomo ci che mangia, daccordo; ma se mangia bene, e ben comodo,
diventa sicuramente una persona migliore. A condizione che stia con gli altri:
recuperando perci il senso pi vero della troppo umana convivialit.

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