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musulmane

che ho conosciuto
di Rosaria Zanetel
prefazione
E’ da trent’anni che frequento donne musulmane, come
familiari come amiche, come conoscenti.

Ho sentito il bisogno di analizzare un po’ più a fondo il rappor-


to che ho avuto con alcune di loro, quelle che, per qualche mo-
tivo, hanno rappresentato delle tappe importanti nel mio per-
corso di vita fianco a fianco con il mondo islamico: da ciò è na-
ta questa raccolta di personaggi femminili musulmani.

Chi legge potrà forse trarre delle conclusioni, delle certezze, io


non ci sono mai riuscita, probabilmente perché non è stata la
ragione a farmi avvicinare al mondo islamico, ma il sentimento,
che confonde sempre le idee. Infatti, ho sposato un mio ex com-
pagno di università, siriano musulmano, e da quel momento ho
dovuto spartire il mio cuore e la mia mente tra il mio mondo e il
suo.

Di certo posso dire che si riesce a convivere solo con chi ti ri-
spetta, ti stima e ti permette di essere diverso.

Quando il testo lo richiede, ho aggiunto delle note esplicative


sia di costume, che di religione islamica, per come mi è apparsa
nel vissuto di queste mie compagne di vita.

Rosaria Zanetel
Rosaria Zanetel
nata in provincia di Trento, vive a Padova.

Laureata in Giurisprudenza all’Università di Padova, ha seguito poi un corso


di quattro anni di Lingua e letteratura araba alla facoltà di lingue di Padova.
Ha fondato con il marito, Gihad Katrib, medico, laureato a Padova, una pic-
cola casa editrice specializzata in testi di lingua araba , cinese , ungherese.
E' artefice di una collana sugli storici istituti scolastici padovani (Liceo Tito
Livio, Istituto Calvi, Università di Padova).
Utimamente ha pubblicato tre romanzi.
a me stessa
e alla fatica
di stare
nel mezzo
Padova Hana Huda Nuha GIORDANE

Venezia Suher Rhada EGIZIANE

Non ricordo in che occasione conobbi quelle che per me poi fu-
rono per sempre “le ragazze giordane”; probabilmente mi erano
state presentate da qualche amica comune.
Studiavano farmacia presso l’Università di Padova e venivano
da Amman, ma solo Hana era di origine giordana; Huda era Pa-
lestinese, la sua famiglia proveniva da Gerusalemme e risiede-
va ad Amman dal 1955, mentre i genitori di Nuha erano origi-
nari delle montagne del Caucaso ed abitavano in Giordania da
circa 30anni.
Le tre ragazze vivevano in un miniappartamento nella zona de-
gli Istituti Universitari, al primo piano di un piccolo condomi-
nio. Al secondo piano, esattamente sopra di loro, vigilavano co-
me sentinelle i loro tre fratelli. Per la verità si trattava di due fra-
telli di Hana, Nabil ed Hani, e di un fratello di Huda, Riad, ma
come le tre donne venivano chiamate “le sorelle”, così i tre gio-
vani uomini erano per noi amici: “i fratelli”.
Anche loro erano studenti in farmacia.

Andavo spesso a trovare le ragazze giordane. Di solito mi offri-


vano del tè con la menta, preparato con una lentezza che lo ren-
deva molto saporito. La teiera era un bricco di ferro smaltato di
blu; quando l’acqua bolliva aggiungevano le foglie di tè, la men-
ta, talvolta anche qualche altro aroma che non chiedevo nemme-
no cosa fosse (ho sempre una particolare disattenzione per le
cose annesse al cibo: potrebbero avvelenarmi senza che io me ne
accorga!) e poi coprivano il bricco con una pezza di stoffa pe-
sante, perché la macerazione avvenisse con calore costante.
Quando, dopo lunga e paziente attesa, ritenevano che il tè fosse
pronto una di loro, di solito Huda, lo versava in piccoli bicchieri
decorati con dei disegni dorati, sollevando il bricco in alto, in
modo che lo zampillo, cadendo nel bicchiere, faceva un rumore
leggero, simile allo scrosciare di una cascatella. Sento ancora
quel borbottio e quell'intenso profumo di menta che invadeva il
piccolo appartamento: era il momento più bello del nostro stare
insieme.

Così definisco, a distanza, il rapporto che per anni mi unì a quel-


le tre ragazze, rapporto che non divenne mai una amicizia, fu so-
lo una buona conoscenza, che si rivelò utile per tutte.
Io dopo la laurea in Giurisprudenza e quattro anni di studio del-
l’arabo alla facoltà di lingue, stavo preparando il mio primo la-
voro inerente la lingua araba, un tascabile di frasi e conversazio-
ni italiano – arabo, perciò mi aiutò molto il contatto con le tre
ragazze, per l’uso della lingua e per conoscere meglio l’ambien-
te arabo musulmano.
Da parte loro, io ero l’unica persona italiana che frequentavano
assiduamente e spesso ricorrevano a me per capire dei testi di
studio un po’ complicati ed anche per fare da trait d'union con
l’ambiente che le circondava, in cui non si inserirono mai.
Le tre ragazze erano molto diverse fisicamente: Hana era piutto-
sto bassa e grossa, con un vitino strettissimo. La pelle del viso
era pallida e delicata e gli occhi azzurri facevano un bel contra-
sto con i lunghi capelli neri che lei legava quasi sempre sulla nu-
ca. Aveva una cura maniacale per le sue piccole diafane mani
che tendeva a non usare mai. Lei diceva che non avevano nem-
meno la forza di svitare la macchinetta per il caffè, io pensavo
che fosse una scusa per non far nulla. Era la più giovane e la più
coccolata sia dalle due amiche, che la consideravano fragile di
carattere e dunque bisognosa di protezione, che dai fratelli, che
lei vessava senza alcun riguardo. Io l’ho sempre ritenuta molto
viziata e cercavo di non farmi mai coinvolgere in queste sue ne-
vrosi piagnucolose. Huda era fisicamente un tipo “medio”, se
così si può dire: né alta né bassa, né bella né brutta, né mora né
bionda. A differenza di Hana aveva un carattere generoso, forse
perché aveva molti fratelli più giovani e dunque sapeva pensare
anche agli altri. Nuha era diversa dalle altre due: alta, esile e
bionda, probabilmente per la sua origine caucasica. Definire il
suo carattere forte, sarebbe riduttivo. Un’estate venne con me
per alcuni giorni in montagna, a Siror di Primiero, nell'apparta-
mentino che era di mia nonna e che ora frequentiamo per le va-
canze e per le riunioni familiari.
Una notte si scatenò una specie di uragano: lampi che illumina-
vano le montagne come dei potenti flash da discoteca, tuoni che
scuotevano la casa dalle fondamenta, scrosci di pioggia che ave-
vano già gonfiato il torrente, che ringhiava come stesse già
piombando nella stanza dove dormivamo; ma quello che mi ave-
va atterrita era il vento così turbinoso che la vallata sembrava
dovesse scomparire, risucchiata in un vortice. Nuha accese la lu-
ce del suo comodino, si sedette sul letto, si accomodò sul capo il
fazzoletto bianco che usava per la preghiera e, imperturbabile,
cominciò a leggere il Corano. Io, tanto per far due chiacchiere
ed allentare la tensione, ero terrorizzata, mai avevo visto un tale
finimondo, le chiesi cosa stesse leggendo. Rispose serafica che
stava leggendo dei versetti che descrivevano esattamente come
le montagne finiranno per scomparire nel giorno del giudizio e
così dicendo guardò fuori dalla finestra le Dolomiti incombenti
ed illuminate da lampi infernali.
La trovai spietata; lei disse che io non ero religiosa e dunque
non sapevo dominare la paura. La discussione non andò oltre, e,
per mia fortuna, nemmeno l’uragano.

Le tre ragazze erano musulmane sunnite (NOTA 9) e devo am-


mettere che la fede e la pratica religiosa le aiutò molto negli anni
che trascorsero qui a Padova, dando loro forza e fiducia in sé
stesse. Di certo per il buon esito di un esame contribuiva molto
in persone della loro religiosità il partire da casa dopo aver pas-
sato dei momenti in preghiera: mi sembravano dei guerrieri che
partivano per la battaglia. Sicure e fiduciose che tutto sarebbe
andato bene perché Dio era con loro. Se poi l’esame andava ma-
le, di nuovo il momento della preghiera dava loro la forza di rea-
gire senza eccessive disperazioni.
Io dicevo: “Beate voi, che avete sempre Dio per ogni evenien-
za!” questa era una delle mie famose frasi che le indispettiva in
quanto trovavano che ero “irrispettosa” verso Dio. Mi guardava-
no con un lungo sospiro e scuotevano la testa. Ero una irrecupe-
rabile, ma questo stesso atteggiamento lo riscontro anche nelle
amiche cattoliche molto praticanti e io purtroppo, Dio mi perdo-
ni, spesso le provocavo tanto per indispettirle.
Una volta però la discussione si accese particolarmente, fino a
diventare litigio, in quanto una mia uscita era stata davvero pre-
sa dal verso sbagliato.
Avevamo appena saputo che un figlio di una nostra amica era
morto e commentando la tragedia io dissi che certe volte succe-
dono delle cose nella vita che non hanno una spiegazione plausi-
bile, sono così incomprensibili, da farci ribellare contro il desti-
no ingiusto. Il mio era un discorso banale, uno sfogo senza nes-
suna valenza religiosa, ma loro interpretarono la parola destino
come sinonimo di Dio, ne dedussero che consideravo Dio ingiu-
sto, cosa che per loro, in quanto musulmane, equivaleva ad aver
bestemmiato. Usarono proprio la parola bestemmia, in quanto a-
vevo negato un precetto della fede islamica (NOTA 5).
Forse fu questo che mi offese, perché anch’io, pur nella mia fle-
bile fede, ho dei precisi limiti e il rispetto di Dio vale per me co-
me per loro. Glielo dissi in tono veramente seccato e sferzante:
le invitai prima di tutto a studiare un po’ meglio l’italiano per
poter cogliere l’esatto significato dei vocaboli e a piantarla di
giudicare tutti attraverso la loro ottica monovalente, sempre so-
spettose e presupponenti come fossero le uniche depositarie del
senso del sacro. Conclusi dicendo che in presenza di un evento
così tragico non era una disquisizione teologica che mi sarei a-
spettata da loro, ma, visto la loro religiosità, un’umana condivi-
sione del dolore. Stettero un po’ in silenzio e dopo un po’ Nuha,
che era sempre la portavoce nei momenti importanti (non per
niente il suo nome significa “saggezza”) (NOTA 27), mi disse
“Scusa, hai ragione”. Detto da loro era il massimo dell’ammis-
sione di colpa, in quanto, intransigenti qual’erano, non avrebbe-
ro potuto fingere condiscendenza tanto per quieto vivere.
Era la prima volta che mi vedevano infuriata su un argomento
religioso ed ebbi l’impressione che questo mio atteggiamento
fosse piaciuto più che quella mia solita aria distaccata o scherzo-
sa al riguardo.
Nel frattempo Huda si era messa a preparare il nostro famoso tè,
di cui avevamo davvero bisogno tutte e quattro e io cercai un
posticino dove stendermi un po’ per rilassarmi.

Trovar posto per sedersi in quel caos perenne fu sempre un’im-


presa: il loro minuscolo appartamento era come uno scatolone
pieno delle cose più disparate, si continuava a spostare le cose
da una parte all’altra (libri, vestiti, scarpe, foto, ricordi di casa,
vestiti, borsoni, borsette, valigie, giornali, profumi, creme, medi-
cine..) tutto era sparso intorno senza nessun ordine logico.

Solo un angolo che fu sempre sgombro e tirato a lucido: era


quello destinato alla preghiera, con un bel tappeto sempre steso,
rivolto a sud est, in direzione della Mecca (NOTA 14), sul quale
a turno pregavano cinque volte al giorno (NOTA 12). Spesso
tornavano apposta a casa per non mancare questo appuntamento.

Anche se era stata adibita a Moschea (NOTA 11) una piccola sa-
la vicino all’Università, loro preferivano pregare a casa.
Disponevano con molta cura sul capo un gran fazzoletto bianco
di cotone, abbassato sulla fronte e chiuso sotto il mento in modo
da coprire quasi completamente le guance ed indossavano una
larga gonna anch’essa bianca; si mettevano ritte in piedi, con le
spalle erette e le mani congiunte e poi cominciavano a flettersi
con movimento solenne e lento.

Le prime volte che ero presente mentre una di loro pregava, cer-
cavo di parlare sottovoce per non disturbarla, ma mi accorsi che
la loro concentrazione nel momento della preghiera era perfetta:
a parte i momenti di incomprensione, provocati spesso dal mio
carattere dispettoso, le ho molto ammirate per questa intensità di
sentimento religioso ed è valsa la pena conoscerle e frequentarle
così a lungo.

Furono davvero dei begli esempi di donne determinate nelle loro


credenze e profondamente corrette.
Finita la preghiera spesso leggevano anche qualche brano dei
Detti del Profeta (NOTA 7), dai quali traevano spunto per ap-
profondimenti ulteriori. Io una volta dissi che questa lettura per
così dire aggiuntiva forse poteva essere definita il know how , in
quanto si imparava meglio il “come fare” per essere dei buoni
mussulmani. Come sempre, accolsero la battuta malvolentieri e
mi fecero capire che anche su questo non faceva loro piacere che
usassi un tono scherzoso.

Cercai di imparare la lezione e col tempo ricorsi, quando ero


con loro, ad una certa autocensura, vista la mia propensione alla
dissacrazione ed alla ironia.

Penso che fu questa loro incapacità di sorridere di tutto che mi


impedì di considerarle, anche dopo tanti anni, delle amiche, cosa
invece che mi successe con altre donne musulmane.

Il loro interlocutore ideale per i discorsi di tema di Islam era mio


marito, anche lui musulmano sunnita e molto religioso.
Citavano a memoria interi capitoli del Corano senza sbagliare u-
na virgola, si appellavano alle interpretazioni canoniche (NOTE
8) sciorinando date e scuole; sorgevano spesso interminabili e
per me noiosissime diatribe specialmente sul modo di interpre-
tare i versetti che riguardavano le donne nell’Islam (NOTA 22).
Nuha era la più ferrata, non recedeva mai dalle sue posizioni ed
aveva una cultura religiosa molto approfondita.
Tutto questo discutere mi convinse a credere che per dei mussul-
mani è davvero vitale l’approfondimento della lettura del Cora-
no: è’ un lungo lavoro di ricerca individuale, che va avanti tutta
la vita, una specie di ascesa per gradi.

I “fratelli” non erano così religiosi, io dicevo che la loro pre-


ghiera era la generosa disponibilità che dimostravano nel “ser-
vire” le tre sorelle, ma queste mie macchinose interpretazioni
non convincevano e non interessavano nessuno.
Il loro “essere donne” di cui andavano fierissime dava loro fa-
coltà di farsi “servire” dagli uomini della famiglia e dunque nes-
suna generosità, ma dovere. Come su molte cose anche su que-
sto argomento non si poteva scherzare.
Ogni tanto una di loro prendeva il manico della scopa e toc toc
lo batteva sul soffitto che corrispondeva al pavimento del mini-
appartamento dei fratelli. Dopo un po’ uno di loro compariva e
veniva spedito per commissioni, o doveva aiutare in qualche la-
voro in casa. Nessuno dei fratelli si ribellò mai, anzi, erano sem-
pre disponibili e prendevano molto sul serio il loro ruolo di pro-
tettori-servitori. Mai uno sbuffo, mai un gesto di stizza: mi sem-
brava che avessero verso le sorelle più che affetto fraterno, del
rispetto, della riverenza, come si ha verso esseri superiori.

Molto spesso le ragazze ospitavano per lunghi periodi qualche


amica, ed anche le ospiti assurgevano automaticamente al rango
di “sorelle” ed i fratelli dovevano intensificare la loro presenza
attiva.

Un anno fu la volta di una bellissima ragazza egiziana: Suher,


che doveva seguire un corso all’Università. Quando la vidi rima-
si impressionata dalla sua bellezza. Era anche molto appariscen-
te nel vestire, gonne strette e abbastanza corte o jeans e magliet-
te aderenti.
Era molto diversa in questo dalle tre ragazze, che avevano adot-
tato un abbigliamento che noto spesso nelle donne mussulmane
che non vogliono usare il solito cappotto lungo che copre com-
pletamente la figura, ma optano per un modo di vestire per così
dire normale, ma elaborato secondo l’insegnamento del Corano,
che consiglia alle donne di non esibire la loro femminilità.(NO-
TA 23) E’ poi lasciato alla discrezione di ognuna l’interpreta-
zione e l’applicazione dell’insegnamento. Naturalmente spesso
prendono il sopravvento usi locali o familiari e tradizioni di ori-
gini diverse, ma nella maggioranza dei casi la scelta è lasciata
alla donna. Lo stesso vale naturalmente per l’uso del coprirsi o
meno il capo. Rientra tutto in quel criterio di modestia (un po’
come le suore per la religione cristiana cattolica) consigliato alla
donna mussulmana dal Corano.

Le tre ragazze dunque avevano elaborato un loro abbigliamento


misto: gonne un po’ larghe e lunghe sotto al ginocchio, calzoni
non molto aderenti con casacche dello stesso colore, giacche sa-
gomate ma non troppo. Insomma passavamo pomeriggi interi
per negozi a cercar di combinare colori e stili, in quanto erano
ambiziosissime, stavano molto attente che un capo dell’abbiglia-
mento non contrastasse con l’altro. Il punto dolente era il fazzo-
letto per la testa, che doveva contenere nei colori le esatte grada-
zioni dei vestiti, inoltre raramente indossavano le stesse cose per
due stagioni di seguito, per cui era tutto un comprare. La cosa
mi divertiva parecchio naturalmente, visto che anch’io giro vo-
lentieri per negozi e questo era un aspetto della nostra lunga co-
noscenza che ci vedeva d’accordo e felici.

Tornando a Suher, quando vidi la sua aggressiva bellezza, pen-


sai che per i fratelli sarebbe stato imbarazzante questa conviven-
za, che durò tutto un inverno. Niente di tutto questo: il fatto di
essere una donna araba e amica delle sorelle stendeva attorno a
lei un velo angelicato, era assorbita nel nucleo della “grande fa-
miglia”.(NOTA 23)
La permanenza di Suher presso le tre ragazze rallegrò molto
l’ambiente, in quanto a lei piaceva moltissimo la musica, di
qualsiasi genere, non solo araba. Perciò l’appartamentino, di so-
lito silenzioso, era sempre rallegrato dai ritmi più diversi. Era
anche molto esperta in danza del ventre, che lei interpretava con
una naturalezza e leggerezza che non ho mai visto in nessun’al-
tra ballerina, neanche nelle più brave professioniste. La danza le
era stata insegnata ancora bambina da una zia famosa in tutto
l’Egitto per la sua bravura. Probabilmente la zia le aveva tra-
smesso non solo la tecnica giusta, ma anche la predisposizione
naturale. La povera Suher spese molto tempo per insegnare an-
che a noi le misteriose evoluzioni, con pochissima soddisfazio-
ne. Le tre ragazze la assecondavano e tanto per accontentarla si
dimenavano un po’ senza nessuna partecipazione, e io, che pur
amo molto la musica ed il ballo, non sono mai riuscita a captare
il filo conduttore sul quale muovermi e sono rimasta sempre du-
ra come un bastone.

La musica fu la cosa che ci unì molto: lei mi dette il merito di a-


verle fatto apprezzare un po’ di più la musica classica (lei conos-
ceva solo quella operistica) ed io attraverso lei capii la melodia
araba, che fino ad all’ora aveva trovato noiosa.
Come le tre ragazze anche Suher, musulmana sunnita (NOTA
9), era molto religiosa e dunque il posto riservato alla preghiera
era sempre più affollato!
Nessuna di loro andò mai nella piccola moschea (NOTA 11) a-
perta in una saletta nei pressi dell’Università. Mi spiegarono che
secondo il Profeta tutta la terra è una Moschea e dunque si può
pregare dovunque.

Un giorno mio marito ed io accompagnammo a Venezia Suher


per incontrare una sua sorella, che stava facendo un viaggio in
Europa con il marito, un uomo d’affari Kuwaitiano. Arrivammo
vicino a piazza San Marco verso sera, era Luglio, e lei ci aspet-
tava davanti al suo albergo. Era proprio come mi ero aspettata
fosse una sorella di Suher: più scura della sorella, bellissima e
molto elegante, con un tubino di lino color panna, ed appoggiata
sulle spalle una piccola giacchina in tinta appena più chiara. Fu
cordialissima e mi abbracciò con affetto, in quanto Suher le ave-
va parlato a lungo di me.”Marhaban” le dissi , “kaifa haluki?”
A Rhada (questo era il suo nome) fece molto piacere che parlas-
si un po’ di arabo, la considerò una cortesia , disse proprio
“Ahlan ua sahlan, anti latifah giddan” ( benvenuta, sei molto
gentile a parlare l’arabo!”. Ero la prima europea. tra quelle che
aveva conosciuto e che avevano sposato degli arabi, che cono-
sceva un po’ “la sacra lingua del Corano” (NOTA 6): le sembrò
così strano che si ripromise di raccontarlo subito alle amiche al
suo ritorno in Kuwait. Ci fece salire in stanza e sia lei che la
sorella si coprirono il capo con il fazzoletto, infilarono la lunga
gonna bianca e fecero la preghiera del tramonto (NOTA 12).
Siccome era arrivata da Milano il giorno prima, ci mostrò gli
acquisti fatti in via Montenapoleone e dintorni….non si era pro-
prio fatta mancare niente, come si dice! Era stata anche a Roma
la settimana prima e sarebbe partita per Parigi il giorno dopo.
Capii che i suoi viaggi erano costellati di compere, non mi rac-
contò nulla che attinesse alle bellezze artistiche delle città visi-
tate. Questo non me la fece stimare di meno.

Molte donne arabe musulmane hanno questo atteggiamento,


dipende sicuramente da una diversa cultura. Il fatto che statue e
ritratti non rientrano nella tradizione artistica islamica (NOTA
6) ha di certo influito anche sui gusti artistici di molti musulma-
ni. Ne parlai con Suher e Rhada, che mi dettero ragione.

Intanto era arrivata l’ora di uscire e Rhada si ritoccò il trucco;


vidi che accanto ai prodotti delle marche più famose aveva una
piccola bottiglietta di ottone, dalla quale svitò il coperchio, che
era come un bastoncino nero e se lo passò all’interno degli oc-
chi, nella parte sotto. Il bastoncino era coperto da una finissima
polvere nera, il kohol (NOTA 28), di cui era pieno il piccolo
contenitore. Mi volle far provare questo trucco per gli occhi e,
visto che mi stava bene, mi regalò sia la polvere che il piccolo
contenitore. Ancora oggi, ogni mattina, stendendomi con il fine
bastoncino il kohol negli occhi mi viene in mente Rhada ed il
pomeriggio veneziano trascorso assieme a lei e a Suher.
Verso sera, ci avviammo verso un ristorante, dove ci stavano a-
spettando mio marito ed il suo, che era vestito nella foggia ara-
ba, con una gallabiah (vestito arabo per uomo) bianchissima. Si
chiamava Nabil ed aveva un colorito molto scuro; i lineamenti
del viso erano, come capita a molti Arabi del golfo persico, qua-
si perfetti, con baffi e barba così in ordine, da sembrare finti. A
proposito della barba, siccome io, rivolgendomi verso mio mari-
to, anche lui “barbuto e baffuto” gli avevo fatto notare la perfe-
zione del taglio di Nabil, quest’ultimo, intuendo le mie parole,
mi disse ridendo, parlando un perfetto inglese: “Seguo gli inse-
gnamenti del profeta che consiglia di radersi i baffi seguendo il
limite del labbro superiore, senza scendervi sopra, per motivi di
igiene e di pettinare spesso la barba, quasi come fosse un mas-
saggio benefico per la circolazione sanguigna. Ad ogni modo
riconosco che il barbiere veneziano del mio albergo è un arti-
sta, come tutti gli Italiani!”
Era proprio entusiasta di questo suo primo viaggio in Italia: pas-
sò tutta la cena a raccontarci di come tutto gli era sembrato ecce-
zionale, proprio come lo aveva immaginato fin da bambino e na-
turalmente Venezia era l’apoteosi di queste meraviglie.

A questo proposito mi ricordai di quando, alcune estati prima, a-


vevamo avuto ospite uno zio di mio marito, che veniva in Euro-
pa per la prima volta. Il giorno dopo il suo arrivo, lo portammo a
Venezia: quando vide tutta quella folla rumorosa assiepata nelle
calli in quell’afa irrespirabile, i canali pieni di un’acqua non
molto limpida e piuttosto sporchi tra alghe e bottiglie di plastica,
i palazzi che a suo dire erano “cadenti e vecchi”, sbottò deluso:
“Ho fatto tanta strada per trovarmi alla fine in una città araba”.
La settimana dopo mio marito lo portò a Milano: in mezzo a tut-
to quel cemento, finalmente lo zio si sentì in Europa.

Tornando a Nabil e Rhada ed alla nostra bella serata veneziana,


dopo una breve passeggiata, eravamo andati a cena in un risto-
rante vicino al loro albergo. Ad un certo punto della intermina-
bile serata, mi ero accorta che i camerieri (stanchissimi nell’afa
estiva veneziana, che di notte diventa insopportabile) stavano
sgombrando tutto con foga, sbattendo seggiole e accatastando
tavoli con gran rumore per farci capire che era l’ora di andarce-
ne, ma Nabil, ignaro, si stava sperticando ad elencare la giovia-
lità italiana, la simpatia e non si decideva più a finire di mangia-
re. A un certo momento, sento che il cameriere, credendoci tutti
stranieri, sibila rivolto a Nabil: “Magna moro che se tardi e se
ora de andare a casa!”. Solo a Venezia un’uscita del genere
può risultare non offensiva, con quel “Moro” di antica remini-
scenza shakespeariana, però mi sentii naturalmente in imbaraz-
zo, dal momento che anche Suher capiva benissimo il dialetto
veneto. Lei si girò verso il cameriere ridendo e gli disse nel suo
buon italiano: “Ci scusi, poteva dircelo che volevate chiudere,
senza scomodare Shakespeare”. Tradusse al cognato ed alla so-
rella la frase, anche loro risero, e andandosene diedero al came-
riere una mancia così lauta da sembrare quasi offensiva.

Quando Suher se ne andò, in primavera, la sua assenza si notò


molto: l’appartamentino delle tre ragazze ripiombò nel silenzio e
nell’austerità.
Padova Um Ali Um Kamal SIRIANE

Vidi Um Ali la prima volta quando scese dal taxì che dalla sta-
zione la lasciò davanti a casa mia alle quattro di mattina, dopo
un viaggio in treno di tre giorni da una città nel Sud della Siria
fino a Padova, assieme al marito ed ad un figlio di sette anni cir-
ca.

Mi sembrò una donna anziana, infagottata in una lunga e larga


gonna, col capo coperto da un fazzoletto scuro; però, quando
sollevò tra le braccia il ragazzino che dormiva, il suo gesto fu
rapido e vigoroso. Scesi le scale per andarle incontro e mi prote-
si verso di lei per aiutarla a sorreggere il bambino: alzò verso di
me due occhi azzurri ed ironici che, squadrando la mia esile fi-
gura e il mio viso pallido per la nottata spesa ad aspettare questi
ospiti tanto attesi, mi fecero capire che sarebbe stato più naturale
se fosse stata lei a sollevare anche me con l’altro braccio. Entrò
in casa come se ci avesse abitato da sempre, mise a letto il ra-
gazzino, diede le direttive al marito su come disporre gli innu-
merevoli bagagli, lavò i vestiti usati in treno ed infine si rinfre-
scò con un bagno lungo e profumato e poi mi comparve davanti
sorridente e piena di vita. Il viso era bello rubicondo, la pelle
chiara, gli occhi azzurri, come avevo notato dal primo ironico
sguardo e i capelli erano di media lunghezza, ricci e neri; poteva
avere al massimo 45 anni. Indossava una specie di camicia da
notte molto sontuosa, fiorita ed ampia e quando le chiesi, ricor-
rendo alla scarna terminologia in arabo che mi ero preparata, se
fosse “tabanah” (stanca) mi rispose con un’espressione stupita
e divertita : “La, limadha tabanah?” (no, perché stanca?); da
quel momento in poi si convinse del tutto e per sempre che ave-
va davanti a sé l’essere più fragile del mondo. Come si poteva
pensare che uno fosse stanco dopo tre giorni di viaggio in treno,
mica era venuta a piedi!

A quel punto arrivò suo figlio, studente universitario a Padova,


la ragione del suo lungo viaggio, il primo della lunga schiera di
figli che avrebbero poi studiato all’estero, costringendola a pere-
grinare per tutto il mondo per poterli vedere. Non appena le
comparve davanti, il suo umore cambiò, si afflosciò su una pol-
trona, iniziando un pianto interminabile, quel pianto che le sentii
fare poi tante tante volte, una specie di nenia che le usciva dalla
bocca mentre il corpo dondolava avanti ed indietro, come se vo-
lesse lenire con le dolci lacrime quella ferita sul cuore che la
lontananza del figlio le apriva di continuo. Come sempre sareb-
be successo, pose fine alle lacrime solo quando il figlio affettuo-
samente la pregò di smetterla, altrimenti si poteva pensare che
non fosse felice di vederlo.

Cessò subito di piangere, nel giro di un secondo e cominciò a


parlare tranquillamente. Questa sua caratteristica di passare ra-
pidamente da un sentimento all’altro mi lasciava stupita e ci
volle del tempo per abituarmi, in quanto le prime volte scambia-
vo il suo mutamento di umore così repentino per superficialità,
come se “facesse la commedia”. Capii frequentandola che ri-
specchiava una sua interiorità molto ricca, fatta di tanti senti-
menti che lei spontaneamente esternava senza ritegno e pudore.

Quella notte iniziò dunque tutta entusiasta il resoconto della


cronaca dalla Siria, che voleva dire parlare ore e ore di quello
che era successo, durante l’assenza del figlio, a quella immensa
famiglia. Dopo un minuto che parlava, guardando ironicamente i
miei occhi ormai socchiusi che mascheravano finto interesse,
anche perché nulla capivo, ma per dovere di ospitalità volevo re-
stare fino alle ultime forze, mi fece capire che potevo andare a
letto, perché le sembravo stanchissima:”Iallah iallah” (NOTA
17) mi disse “Va’ pure a letto, anti tabanah giddan” (tu sei
molto stanca), con quell’atteggiamento già protettivo nei miei
riguardi, che sarebbe diventato usuale in lei negli anni succes-
sivi.

La mattina dopo la trovai in cucina che si dava da fare per nulla


frastornata dal nuovo ambiente, ma spedita ed energica come
fosse nella sua casa in Siria. “Sabbah’l cheir” (buon giorno), mi
disse e aggiunse “ciao”, già entusiasta di usare il famoso saluto
italiano!
Sulla tavola erano esposti come per una mostra culinaria tanti
“assaggini” portati dalla Siria: melanzanine ripiene sott’olio,
formaggini teneri, pepi vari in polvere ed in grani, una salsa
marroncina (tahina NOTA) spalmabile come il burro, varie erbe
secche, tè, della specie di grano spezzettato (il famoso bur-rhol
NOTA 25 che avrei poi apprezzato in varie pietanze) , una pila
di pane arabo, dei biscotti secchi larghi e piatti dal profumo
inten-sissimo, insomma una delizia, una goduria per persone
normali, ma uno spettacolo orripilante per una inappetente come
me, specialmente la mattina, a stomaco vuoto!
Su tutto ciò troneggiava la cosa più assurda (per me “maestra” di
bagaglio superleggero!) che avessi potuto vedere: una grande
anguria, perfettamente tondeggiante, di colore verde scuro, luci-
dissima. Il mio primo pensiero fu: sono pazzi, ma quanto pesa?
Era stata acquistata ad Istambul nel lasso di tempo necessario al
cambio di treni (tra Oriente ed Occidente) ed il padre in treno a-
veva inciso con un temperino nella scorza verde il nome del fi-
glio, con tutte le volute ed i ghirigori che la scrittura araba per-
mette di elaborare. Capii in quel momento, dalla pesantezza per
me incredibile di quel trofeo, quanto invece per quei due genito-
ri nulla era stato pesante in quel viaggio, nessuna stanchezza a-
vrebbe potuto scalfire la forza che dava loro la gioia di rivedere
il figlio.
Quando questi arrivò, verso metà mattina, la madre gli aveva
imbandito un pranzo “impressionante” (per la sottoscritta):
tabbulah, lahm bi senih, hommos , kubbah (NOTA 25), tutte
pietanze eccellenti, che avrei imparato a conoscere ed apprezza-
re col tempo, tanto che ora ritengo la cucina sirolibanese la mi-
gliore del mondo a mio gusto, ma quella mattina ero davvero
troppo stanca per dedicarmi alla buona tavola. Capii che la mia
indifferenza a qualsiasi cibo avrebbe solo rovinato l’atmosfera,
anche perché con quella donna così acuta ed intuitiva non avrei
potuto fingere entusiasmi inesistenti. E dunque le chiesi scusa
ed inventai un impegno improvviso: lei mi salutò allegra, espli-
citamente contenta che me ne andassi, lasciandola sola con l’a-
doratissimo figlio. Non mi offesi per questo atteggiamento, co-
me lei non si offese della mia inventata scusa: ognuna di noi due
aveva capito che avevamo regole di comportamento diverse, ma
la sostanza ci era piaciuta.

Nei giorni successivi, se c’era il figlio Um Ali non mi guardava


assolutamente, diventavo quasi inesistente, mentre quando era-
vamo sole cercava continuamente di comunicare con me, in
quanto era per natura cordiale e curiosa delle novità, non aveva
nessuna preclusione verso il nuovo ambiente. Mi raccontò la
sua vita, di cui andava molto fiera. Il suo vero nome era
Aminah, ma il nome da usarsi con lei era Um Ali (NOTA 26),
madre di Ali, il nome del suo primo figlio maschio, che lei por-
tava quasi come un titolo onorifico. Lei esisteva solo in quanto
Um Ali. Si era sposata a sedici anni ed aveva avuto quattordici
figli, di cui quattro morti molto piccoli. Recitava come una poe-
sia l’elenco dei nomi dei figli, anche di quelli morti, cogliendo e
sottolineando per ognuno un lato della loro personalità che li a-
vrebbe caratterizzati per tutta la vita.
La sua intelligenza e la sua acutezza rendevano ogni racconto al-
legro e spiritoso, perché sapeva cogliere il lato ironico delle vi-
cende umane, così per ogni esponente della loro grande fami-
glia, che non comprendeva solo i figli naturalmente, ma anche
schiere, anzi, eserciti come dicevo io, di parenti, lei mi metteva
in risalto una caratteristica, un particolare che me li rendeva vivi
in un baleno. Conobbi molti di loro in un viaggio in Libano, do-
ve c’era anche lei con me e tra noi si era composto un tale codi-
ce di riferimento, che per ognuno avevamo un aggettivo, una pa-
rola che ce li rendeva riconoscibili e riscontrai che erano proprio
così, come me li aveva tratteggiati lei.

Era molto espansiva, sempre se la presenza del figlio non la fa-


gocitava nella sua scia, ed anche con i miei amici, che arrivava-
no a trovarmi in quella settimana in cui rimase ospite in casa
mia, era spigliata e per nulla intimorita.
In casa vestiva con degli abiti larghi a fiori, un po’ lunghi, che
indossava sopra a dei pantaloni-pigiama, per stare più comoda,
diceva lei. Sul capo portava quasi sempre un foulard colorato,
che le lasciava scoperta la fronte ed una parte dei capelli. Solo
quando cucinava legava il fazzoletto dietro le orecchie e lo face-
va scendere sulla fronte. Invece per uscire indossava un cappotto
nero che la faceva sembrare più vecchia e le dava un certo tono
solenne.
Aveva capito subito che in Italia l’apparenza è molto importante
e per non far sfigurare il figlio, prima di uscire voleva sottoporsi
all”esame Lali” come diceva lei: mi compariva davanti e chiede-
va “Quaies?” (bene?) Io le sistemavo un po’ il fazzoletto, stu-
diavo che il vestito non pendesse sotto il cappotto e poi la rassi-
curavo: Quaies, quaies, Um Ali, anti giamìlah ua anìq, ciao”
“Bene bene Um Ali, sei proprio bella e elegante, ciao” . “Ciao
ciao”, mi rispondeva sbrigativamente, con un sorriso autoironi-
co; comprendeva che il mio complimento era di cortesia, ma lo
accettava volentieri, faceva parte della vacanza.

In effetti questo suo primo viaggio in Italia rappresentò sempre


per lei un periodo da ricordare con gioia: godeva per la prima
volta anche lei del privilegio della spensieratezza che non aveva
mai conosciuto, essendosi sposata così giovane ed essendo di-
ventata madre ancora adolescente.
Quel suo ruolo di madre non la abbandonava mai: molte volte
durante il giorno si immalinconiva e cominciava a piangere con
quella nenia lamentosa, pensando ai figli che aveva lasciato in
Siria. Certo che di Um Ali ricordo specialmente le risate, gli
sguardi ironici ed acuti, ma ricordo anche tanto le sue lacrime.
Io non ho avuto figli e non ho mai capito questo suo vivere in
pena continua per la loro lontananza, ma le dicevo sempre che le
lauree dei suoi figli, prese intorno per il mondo le erano dovute
ad honorem, in quanto le erano costate davvero tanto in dolore.

Quando ripartì ci abbracciammo come due amiche.


Dell’Italia le era piaciuto tutto e tutti ed anche lei era piaciuta
molto ai miei familiari ed agli amici che venivano a trovarmi,
ciò mi faceva presagire che il nostro rapporto si sarebbe facil-
mente consolidato in futuro.
Purtroppo le cose non furono così semplici.
L’anno successivo il figlio si laureò e ci sposammo.

A questo proposito vorrei aprire una parentesi, relativa al mio


matrimonio. Fu celebrato in due tempi: la cerimonia musulmana
si svolse in casa, un amico islamico particolarmente religioso
ebbe il ruolo di celebrante e lesse davanti a me, al futuro marito
ed ad un testimone, che mi rappresentava, le formule tratte dal
Corano attinenti l’istituto del matrimonio: un contratto, con il
quale si dà vita ad una unione valida da un punto di vista islami-
co, regolata dai dettami del Corano in tema di matrimonio
(NOTA 22). Il giorno stesso, di pomeriggio, seguì il matrimonio
concordatario, fatto in Chiesa naturalmente, con la duplice vali-
dità, sia religiosa cristiana cattolica, che civile secondo i dettami
della legge Italiana. Mi sono soffermata su questi dettagli, che
sembreranno ovvi, perché mi accorgo spesso che queste sempli-
ci precisazioni non sono chiare a tutti, mentre io sono dell’opi-
nione che quando ci si avventura in unioni per così dire miste è
meglio essere consapevoli di tutte le conseguenze che ne derive-
ranno.
Così la pensò anche una carissima amica, una suora Combonia-
na, laureatasi con me in Giurisprudenza all’Università di Pado-
va. Suor Filomena, così si chiama, vive in Africa in una zona
con forte presenza musulmana e dunque conosce bene l’Islam,
anche nelle sue applicazioni pratiche. Quando seppe del mio
imminente matrimonio, ne fu felice, anche perché era molto a-
mica del mio futuro marito e si stimavano reciprocamente. Mi
telefonò e mi disse: “Ti mando un volumetto edito da una uni-
versità africana sul diritto islamico. Leggilo bene”, mi disse ri-
dendo, “specialmente per ciò che riguarda matrimonio ed ere-
dità!”. Lo scorsi attentamente, e compresi molte cose, sulle
quali mi soffermo qui solo in modo sommario. Al momento del-
la celebrazione del matrimonio musulmano (NOTA 22), la don-
na riceve dal futuro marito una dote, più o meno ricca a seconda
della condizione economica del futuro coniuge e della sua fami-
glia. Questo perché, nel caso di morte del coniuge, la donna da
un punto di vista ereditario è poco tutelata, specialmente se non
ha figli maschi e dunque si cautela con questo versamento anti-
cipato, che rimane sempre di sua proprietà. La dote può consi-
stere oltre che in una somma in denaro, anche in gioielli, ecco
perché le donne musulmane possiedono per tradizione ricchi
monili d’oro: fanno parte del loro capitale personale, è la loro si-
curezza economica per il futuro. C’è da dire che ancora adesso
vige l’uso che la famiglia d’origine è obbligata, nel caso una
donna rimanga vedova o divorzi o venga ripudiata, a provvedere
al suo mantenimento, per cui, in teoria, le donne musulmane
hanno per tutta la vita chi deve prendersi cura di loro. E’ per la
nostra mentalità di donne occidentali una situazione inconcepi-
bile e capii il perché l’amica suor Filomena mi aveva più o me-
no spiritosamente inviato il volumetto. La rassicurai: “Niente
gioielli, niente ingenti capitali, solo una veretta d’oro, però ben
tre bei tomi veglieranno sul mio matrimonio: il Corano, il Van-
gelo ed il codice civile italiano ... con tutto ciò, speriamo
bene…”

Tornando a quell’estate che seguì il mio matrimonio, mio marito


invitò nuovamente i genitori, spiegando che, siccome non abita-
va più in una stanza da studente, ma in un bel appartamento, po-
teva ospitarli a casa sua. Naturalmente, per non creare scompigli
da lontano, aveva annunciato la laurea, ma non il matrimonio,
contando di parlargliene a voce, certo che non ci sarebbe stato
nessun problema, visti i buoni rapporti stabilitisi tra me e Um
Ali l’anno precedente. Spesso infatti nelle famiglie arabe il buon
successo di un matrimonio dipende dall’appoggio che le madri
danno all’unione, sono le donne infatti i capofamiglia per questo
tipo di “questioni” (NOTA 23).

La cosa non mi meraviglia: quest’inverno è venuta a trovarmi


un’ amica indiana, laureata in medicina a Padova dove è vissuta
molti anni anche dopo la laurea. Filomena, questo è il suo nome,
era molto in ansia e preoccupata e non vedeva l’ora di tornare a
casa, abita nel Sud dell’India, nello stato del Kerala, perché nei
prossimi mesi doveva darsi da fare a trovare una degna moglie
per il figlio anch’esso medico. I requisiti che lei pretendeva per
la ragazza erano i seguenti: laurea in medicina, specializzazione
in odontoiatria, religione naturalmente cristiana cattolica da va-
rie generazioni, stato di nascita Kerala, età tra i 24 ed i 26 anni.
La settimana scorsa Filomena mi ha mandato soddisfattissima
l’annuncio di matrimonio del figlio con la dottoressa Latha.
Sono certa che sarà un matrimonio senza scossoni!

Tornando alla seconda visita di Um Ali in Italia, essa iniziò in


modo ben diverso dalla prima.
Quando entrò in casa del figlio e vide che c’ero anch’io, la gen-
tile e fragile ragazza che l’aveva ospitata l’anno prima, e capì
che non ero più una semplice amica, ma la moglie del figlio, il
suo primo istinto fu di uscire da quella porta, riprendere il treno
e tornarsene a casa sua. A fatica la convinsero ad entrare almeno
in casa, chiudendosi tutti in soggiorno (questa volta con i genito-
ri erano arrivati due figli, non uno). Li sentii discutere per ore e
ore. Un disastro, perché, come mi spiegò dopo mio marito, la
madre aveva disposto che il figlio sposasse una cugina, aveva in
pratica organizzato tutto per il matrimonio ed era stata sul punto
di portarla già in Italia. Di ciò era partecipe naturalmente tutta la
famiglia, famiglia in senso lato, il che voleva dire qualche centi-
naio di persone.
I giorni successivi furono davvero terribili, sia per me che per
lei.
Il fatto di esserci conosciute l’anno prima e la reciproca stima e
simpatia che si era stabilita tra di noi, rese ancora più difficile lo
scontro. Perché di scontro si trattò. Optammo entrambe per un
atteggiamento torvo, una lotta silenziosa, mai alzammo la voce,
ma mai ci guardammo in viso in quei giorni. La posta in gioco
era alta: al di là del fatto che non ero io la moglie designata (nel
qual caso si sarebbe trattato solo di un allargamento della grande
famiglia), si trattava chiaramente di due modi diversi di concepi-
re la “sovranità” familiare: per me, la mia famiglia eravamo io e
mio marito e quella era casa nostra, invece chiaramente per la
mentalità dei suoi familiari (e la madre ne era portavoce silen-
ziosa) quella casa era la casa del figlio e dunque casa loro .
Avrei potuto scegliere un atteggiamento di distacco, come mi
consigliava mio marito, sorvolando “civilmente” su molte cose,
intanto si trattava di due settimane e poi ... ognuno a casa sua,
nel vero senso della parola, ma proprio la confidenza che avevo
stabilito con Um Ali nel primo incontro mi rendeva impossibile
questo atteggiamento. Radicalizzai la situazione (sbagliando) e
cominciammo a “farci i dispetti”, sempre in silenzio e rispettose
formalmente.
Mi meravigliai che anche lei, così istintiva e spontanea nel pri-
mo incontro, sapesse servirsi così sapientemente dell’ipocrisia,
ma era intelligente ed aveva capito che quel mio comportamento
gentilissimo sapeva mascherare molte cose e lo aveva sapiente-
mente fatto suo, pur non rientrando assolutamente nel suo modo
usuale di comportarsi.Era chiaro che la stupida battaglia avrebbe
avuto come teatro di azione le mura domestiche, dove una di noi
due avrebbe dovuto cedere il comando all’altra. La mattina dopo
io ebbi la mia pri-ma sconfitta, naturalmente sul campo che
meno mi si addice: la cucina. Inutilmente io mi ero alzata
all’alba per far capire che “comandavo” io e che dunque
nessuno doveva manovrare i miei fornelli: la trovai già là,
minestrone di lenticchie sul fuoco, ver-dure sparpagliate sul
tavolo pronte per elaborati manicaretti…Pensare che quel suo
atteggiamento spigliato ed intraprendente l’anno prima non mi
aveva dato fastidio, anzi mi era piaciuto, mi era sembrato una
forma cortese di aiutarmi ed alleggerire la mia ospitalità, ma
quest’anno io, resa ottusa dai miei tormenti, lo in-terpretavo
naturalmente come un’arma di guerra, una vera dimo-strazione
di forza; insomma, agendo in quel modo nel cuore pul-sante
della casa (la cucina), mi diceva implicitamente, e neanche
tanto: “Vattene da questa casa, che qui comando io” . Del resto
per lei la casa del figlio era casa sua, mentre naturalmente per
me quella era “la mia bella nuova casetta di mogliettina appena
sposata”. La battaglia era tutta giocata a suon di faccende do-
mestiche: se arrivavano amici io offrivo il caffè, lei offriva il tè,
gli amici gentilmente bevevano entrambe le bevande, ignari di
essere in un campo di battaglia. Se suonavano alla porta, io mi
precipitavo ad aprire e le facevo capire con una gelida occhiata
che lei non poteva accogliere chi mi veniva a trovare, in quanto
venivano a trovare me, “in casa mia”: pensare che l’anno prima
ero stata io ad insegnarle le parole da dire al citofono e le forme
più cortesi per accogliere gli ospiti.
Tutte queste schermaglie avvenivano nel silenzio assoluto: io
non assaggiai per giorni i suoi cibi arabi e provocatoriamente o-
gni giorno cucinavo “spaghetti al pomodoro”. I quattro uomini
si sorbivano caffè, tè, cibi arabi, cibi italiani, incapaci di sceglie-
re tra le due “padrone” incattivite. Insomma tra piccoli e grandi
dispetti , senza mai parlare, senza mai litigare, ci stavamo av-
viando ad una rottura molto pericolosa anche per il mio neonato
matrimonio.
Solo adesso, a distanza di anni riesco a parlare di quel periodo
con un tono leggero, cogliendo il lato assurdo della situazione,
ma realmente soffrimmo moltissimo tutti, in quanto comprende-
vamo che si era proposto in questa piccola ed insulsa lotta fami-
liare lo scontro naturale tra due mondi molto diversi e non sa-
rebbe bastato il reciproco affetto a sistemare le cose.
Dopo una settimana di questa atmosfera, per nostra fortuna e
come spesso capita nella vita, tutto questo groviglio, questa ac-
cozzaglia di cattiveria senza senso, si dissolse nel nulla, come
una bolla di sapone, per merito di un piccolo provvidenziale e-
vento.
Avevo notato che spesso in quei giorni lei estraeva dalla scolla-
tura la foto della nipote promessa sposa del figlio, la baciava e le
parlava sottovoce, lamentosamente. Una mattina suonarono alla
porta e lei, sempre per la lotta di prevaricazione, si lanciò verso
la porta di ingresso per aprire da “padrona di casa”, quale dove-
va dimostrare di essere. Dimenticò così la foto sul tavolino del
soggiorno. In un baleno me ne impossessai e guardai finalmente
in faccia la rivale. Mi aspettavo sinceramente di vedere una bella
“moracciona” truccata, invece vidi un visetto da ragazzina, con
uno sguardo piuttosto malinconico. Mi calarono le forze e ripre-
si a ragionare. Mi resi conto di che si trattava. Intuii da quello
sguardo quante speranze, quanti discorsi, quanti progetti quella
ragazzina di un ambiente così diverso dal mio aveva fatto con la
zia per questo matrimonio. Invece che strappare la foto, come
mi ero barbaramente ripromessa, andai da Um Ali, le battei sulla
spalla, e ci guardammo negli occhi. Ci salvò il fatto che nel pro-
fondo del nostro sguardo non cercammo affetto, pietà, compren-
sione, insomma buoni sentimenti che in quel momento non sa-
rebbero serviti a niente, ma cercammo di recuperare la reciproca
capacità di ragionare, quel lampo di ironia che ci fece cogliere
all’unisono l’assurdo della situazione. Eravamo là come due stu-
pide, lei a correre alla porta per arrivare prima, dimenticando di
nascondere il suo tesoro ed io pronta a far vendetta strappando la
foto di una ragazzina ignara di tutto. Insomma ci venne da ridere
e ridemmo. Anzi, sorridemmo amaramente e basta. Senza tante
spiegazioni, che preferimmo lasciare all’intuizione.
Da quel momento la vita familiare si mosse guidata dalla ragio-
ne: ognuna di noi faceva le cose che le venivano più familiari,
senza prevaricazioni inutili, insomma una convivenza civile e
affettuosa. A lei piaceva cucinare e cucinava, io più che altro i
giorni successivi stavo molto seduta a mangiare quello che lei
cucinava, perché questa lotta imbecille mi aveva fatto perdere
qualche chilo preziosissimo per la mia magrezza. Riprendemmo
le nostre chiacchierate, mi spiegò bene il fatto della nipote pro-
messa sposa, che venne poi destinata ad una altro cugino. Vidi
Ilham (questo era il suo nome) a Barcellona, in Spagna, alcuni
anni dopo, sposata con un cugino medico. Mi ero aspettata del
rancore da parte sua verso di me, per quel primo mancato matri-
monio, invece inaspettatamente era molto felice della seconda
scelta, in quanto questo suo cugino divenuto mio marito era se-
condo lei “troppo religioso” e dunque a suo dire la avevo salvata
da una vita alquanto rigorosa. Mah, anche con lei risolvemmo la
faccenda con una bella risata ed un brindisi: Ilham con una fre-
sca birra, io con un tè all’araba. Era proprio una degna nipote di
Um Ali.

Tornando ad Um Ali ed alla nostra sorda battaglia per un potere


mai spartito, la tempesta in cui ci eravamo trovate in quella pri-
ma settimana, lasciò una traccia indelebile. Avevamo capito en-
trambe che tra di noi ci sarebbero state sempre delle enormi dif-
ferenze di ambiente, di mentalità e di abitudini. Capimmo che
non saremmo mai state uguali, che le nostre radici erano troppo
diverse. Non analizzammo mai queste cose assieme, le demmo
come acquisite, punti fermi indelebili, e ci attenemmo ai fatti:
quello che a lei interessava era che io volessi bene a suo figlio,
unico reale oggetto del suo affetto, appurato ciò, lei avrebbe vo-
luto bene anche a me. Ma il volersi bene era solo un aspetto del
nostro rapporto, e, come ho detto, da parte sua era consequen-
ziale al fatto che volevo bene a suo figlio. Quello che ci legò per
sempre fu un accordo caratteriale, un vedere le cose allo stesso
modo, molto legato al senso dell’ironia, all’interesse per le cose
nuovo, al piacere di conoscere persone, passando le ore in lun-
ghe chiacchierate.
Adesso che il sereno era tornato tra quelle mura domestiche dal-
l’incerta connotazione, (rimase sempre irrisolto il dilemma se si
trattava di una casa araba o italiana, dilemma che fu sempre frut-
to di scherzose battute per tutta la vita. Io dicevo che di certo era
araba per il cibo, ed italiana per il caffè), ognuno riprese la sua
vita normale.
La cosa più importante per me fu recuperare i chili persi ed in
questo mi furono di aiuto i buoni manicaretti arabi, che Um Ali
sfornava ogni giorno con grande entusiasmo.

Quando non cucinava, Um Ali stava spesso distesa sul letto o


sul divano del soggiorno, intonando delle nenie che modulava su
tre quattro note basse, sottovoce. Notavo che ogni tanto si fer-
mava e poi riprendeva dopo alcuni minuti, come se stesse com-
ponendo qualcosa. Mi spiegò che con questa lunga nenia inten-
deva raccontare la storia della famiglia, così il figlio poteva regi-
strarla su audiocassetta, risentendola quando voleva. Mi sembrò
un’ottima idea.
Un pomeriggio notai che la modulazione era diversa, continuava
senza interruzioni e aveva un che di solenne. Le chiesi di che si
trattava questa volta, ma mi fece cenno che non voleva interrom-
pere. Dopo alcuni minuti mi raggiunse in studio, dove io ascol-
tavo la “mia” musica con le cuffie ben piazzate nelle orecchie e
mi disse che prima non mi aveva risposto, perchè stava pregan-
do. ”Bel modo di pregare” le dissi “sdraiata comodamente, mi
sa che mi faccio musulmana anch’io!”. La battuta la divertì
molto. E’ stata una delle poche donne arabe mussulmane con cui
ho potuto scherzare su argomenti attinenti alla religione, anzi,
direi che fu l’unica, e anche questo fatto me la fece stimare tan-
to, perché il saper sorridere di tutto è indice per me di grande li-
bertà di pensiero . Mi spiegò che, siccome aveva male alle gi-
nocchia quel pomeriggio, si era tranquillamente distesa sul letto,
recitando a memoria dei versetti del Corano. “Del resto”, con-
cluse, “ Allah u akbar, Dio è grande e vede le tue intenzioni, in
piedi o sdraiata”.
Devo dire che Um Ali è stata l’unica donna musulmana, tra
quelle che ho conosciuto, ad avere una visione di Dio molto si-
mile alla mia, come di qualcuno con cui puoi anche fare una
chiacchierata un po’ informale, qualcuno a cui rivolgerti con
confidenza, perché ti conosce e ti vuol bene al di là di tutto.

Un’estate Um Ali arrivò a Padova con una sua conoscente, Um


Kamal, madre di un amico che abita a Padova, anche lui laureato
nella nostra Università, che si era sposato quell’anno e voleva
presentare la moglie alla famiglia e dunque aveva invitato la ma-
dre per qualche settimana. Andammo io e lui a prenderle all’ae-
roporto, per accogliere la nuova arrivata con …. prudenza, pre-
parandola piano piano all’incontro con la nuora.
Um Kamal era una donnona alta ed imponente, vestita rigorosa-
mente alla musulmana: un cappotto grigio la copriva fino alla
caviglia ed il fazzoletto, anch’esso grigio, era ben calato sulla
fronte. Mi salutò con un “Assalamu aleikum”.
“Uaaleikumssalam” (NOTA 18) risposi. Rimase molto mera-
vigliata del fatto che io avessi risposto al saluto musulmano in
arabo ed in modo appropriato; guardò mia suocera con fare in-
terrogativo. A quest’ultima non sembrò vero di mostrarsi fiera di
questa nuora italiana e si girò verso l’amica come per rassicu-
rarla, “Vedi, te l’avevo detto che le italiane sono come noi!”.
Durante il viaggio in macchina fino a Padova, la nuova arrivata
stette quasi in silenzio, parlò poco anche con il figlio, guardan-
dolo ogni tanto con aria seria e triste. Sgranava di continuo tra le
dita una bel rosario (NOTA 9) sussurrando sottovoce, come e-
straniata da tutti noi. Um Ali, sempre premurosa, cercava di
rassicurare l’amica, così preoccupata per l’incontro con la mo-
glie straniera del figlio, parlando della nostra esperienza di suo-
cera e nuora. Continuava a girarsi verso di me, eravamo sedute
tutte e tre in macchina dietro, per chiedere conferma a ciò che
diceva. Io mi limitavo a dire “”Naam, naam…” (sì, sì..) senza
capire molto, e davo dei colpetti rassicuranti sulla spalla di Um
Kamal, “Iallah iallah” (NOTA) dicevo “Kullu quaies” (tutto
bene)….
Dentro di me pensavo: altro che “quaies”, saranno problemi
grossi.
Mi sentivo un po’ in colpa verso Ilaria, la moglie di Kamal, in
quanto mi era sembrato di aver fatto un po’ la parte della “prima
della classe” con quel mio parlare in arabo e con quello sbandie-
ramento di armonia familiare fatto da Um Ali.
Anche Kamal, di solito allegrissimo e sbeffeggiante su tutto e su
tutti, era serio, preoccupato, immaginavo che stesse anche lui
pensando alla moglie, a come sarebbe stata la convivenza con
questa suocera, così diversa da come lei se l’aspettava.
Ilaria, laureata come me in Giurisprudenza, era naturalmente del
tutto ignara sia di lingua araba, che tanto più di religione musul-
mana, come la maggioranza delle nostre amiche sposate con a-
rabi.
Questo di certo non ha impedito e non impedisce loro di andare
molto d’accordo sia con i mariti, che con i familiari arabi, anzi.
Certe volte questa loro per così dire ignoranza le ha messe al
riparo da quegli scontri diretti che invece io ho sempre avuto ed
ho tuttora. Per la maggioranza di loro vige giustamente il crite-
rio: “Paese che vai, usanze che trovi ” ed anche i familiari dei
mariti, più o meno, quando arrivano in Italia, adottano educata-
mente questo criterio. Solo io ho cercato e cerco di mescolare
usanze, approfondire rapporti all’apparenza impossibili, creare
microcosmi molto diversificati e questo complica le cose!
Vedendo Um Kamal e la sua rigorosità musulmana, ebbi dei
presagi di tempesta.

Infatti alcuni giorni dopo mi telefonò Ilaria molto turbata. La


convivenza con la suocera era complicatissima. Quando arriva-
vano persone estranee, Um Kamal si ritirava in camera sua, u-
scendo solo se si trattava di donne o, eccezionalmente, di qual-
che amico del figlio che lei già conosceva. Naturalmente prima
però si vestiva con rigore musulmano, facendosi aspettare a lun-
go. Così Kamal cominciò ad invitare solo poche persone “scel-
te” a piacimento della madre. Per quanto riguardava il cibo, ogni
ingrediente doveva obbedire ai canoni musulmani: niente alcool,
niente maiale e solo carne di animali sgozzati.(NOTA 20) Ilaria
mi disse che aveva tentato di convincere Kamal ad andare a
mangiar fuori, per risolvere tutte queste complicazioni, ma la
suocera non amava stare in pubblico e dunque l’avevano fatto
una volta, ma era stato un disastro, tra la suocera immusonita ed
il marito innervosito.

Altra cosa che faceva inviperire Ilaria era che, mentre con lei il
marito non andava mai e poi mai a far spese, con la mamma era
tutto un andar per negozi. Uscivano mattina e pomeriggio indaf-
faratissimi a far compere. Quando poi era in casa, la suocera
passava la maggior parte del tempo a chiacchierare fitto fitto con
il figlio, naturalmente piangendo spesso. A parte ciò, l’unica sua
occupazione era pregare e se non pregava, sgranava il rosario e
piangeva. Inoltre, sempre secondo Ilaria, sul più bello della not-
te, la sentiva alzarsi, andare in bagno con grandi lavacri (NO-
TA12) , come disse Ilaria, e poi la udiva pregare (NOTA 12) in
soggiorno. Ma la cosa che le dava più fastidio non era tanto il
comporta-mento della suocera, tanto prima o poi se ne sarebbe
andata, ma quello del marito. Secondo lei era cambiato, era
completamente … rimbecillito, ma Ilaria si espresse in modo più
colorito. Aveva perfino chiesto delle preziose ferie in più, che si
erano tenuti per un viaggio rilassante da fare assieme dopo la
partenza della suocera, per poter andar dietro a quelle che Ilaria
chiamava le fisime di sua madre. Kamal, che non era mai stato
particolar-mente religioso, aveva cominciato a fare anche lui la
preghiera assieme alla madre e pretendeva che sparissero dal
frigorifero i cibi “infetti”, inoltre cominciò a dire alla moglie che
fin che c’era la madre sarebbe stato meglio che lei indossasse
delle gon-ne un po’ più lunghe, o, meglio ancora, dei calzoni, in
quanto la suocera era scandalizzata del suo abbigliamento
sconveniente. Il grave era che non chiedeva questo per “quieto
vivere”, tanto per rabbonire la madre, cosa che a Ilaria sarebbe
forse sembrato ac-cettabile, no, sembrava quasi convinto lui
stesso che una buona moglie così avrebbe dovuto essere. Provai
anch’io a parlare con lui, ma lo sentii freddo, un po’ offeso della
mia presa di posizio-ne a favore di Ilaria. Sembrava plagiato
dalla madre. Andammo tutti a trovarla una sera e se, sentendo
parlare Ilaria al telefono, avevo finito per odiare Um Kamal,
vedendola mi fece una pena immensa. Il cappotto le pioveva
addosso come se avesse perso dieci chili, la pelle attorno agli
occhi era di color rosso sangue per il gran piangere, non disse
niente per tutta la sera. Anche mia suocera stette molto zitta,
memore come me delle nostre sofferenze del primo anno di
matrimonio. Solo mio marito parlò a lungo con Um Kamal,
probabilmente cercando di spiegare questo matrimonio del figlio
con una straniera secondo un’ottica musulmana (NOTA 22),
essendo lui molto religioso. Lei ascol-tava ed assentiva, sempre
però seria e triste.

Ilaria, da persona educata e gentile qual’è, diede alla serata un


tono di grande cortesia e portando il dolce in tavola lo mise da-
vanti alla suocera, dicendo che era in onore di “Um Kamal”.
Vidi che la povera donna trovò in questa palese cortesia un rico-
noscimento del suo ruolo di fronte a noi ed accennò un piccolis-
simo sorriso.

Capii che per tutti e tre si trattava di aspettare con calma il gior-
no della partenza, senza pretendere niente di più.

Per fortuna loro, il giorno arrivò abbastanza in fretta. Questa


volta andammo tutti assieme, con due macchine, a riportare le
due suocere all’aeroporto.

Um Kamal non tornò più in Italia e dopo pochi giorni dalla sua
partenza, Kamal tornò ad essere il marito affettuoso e l’amico
allegro di sempre. Ogni due, tre anni lui e Ilaria fanno un breve
viaggio in Siria a trovare la famiglia e tutto procede nel migliore
dei modi: ognuno a casa sua.

Invece Um Ali per molti anni venne quasi ogni estate a Padova,
sempre felicissima di rivedere oltre che il figlio, prima di tutto
ed innanzitutto, anche me, i miei familiari ed i molti amici ita-
liani, che la aspettavano per i suoi manicaretti indimenticabili.
Adesso altri figli studiavano all’estero, perciò doveva davvero
dividersi tra uno e l’altro viaggiando molto spesso specialmente
in aereo.
Il suo mezzo preferito rimase però sempre il treno, anche se or-
mai non lo prendeva più, ma sempre ricordava quel lungo viag-
gio da Aleppo fino a Padova. Forse l’aereo non le dava il senso
della distanza, diceva che era rapido, che non si vedeva niente di
interessante, solo nuvole ed aeroporti. Invece in quei tre giorni
di treno le era passato davanti il mondo, e poi quel passaggio da
Oriente a Occidente avendo Istambul come frontiera dei due
mondi l’aveva molto affascinata, specialmente la prima volta.
Mentre dopo, in aereo, anche quando arrivava in America lei
diceva che non si accorgeva nemmeno di aver lasciato la Siria:
gli aeroporti erano tutti uguali, una volta arrivati, si saliva su una
macchina, raggiungendo in poche ore da casa sua la casa del fi-
glio di turno, casa in cui riprendeva a cucinare, a chiacchierare,
a bere tè, insomma come lei diceva : il mondo è tutto uguale.

Solo in Italia conobbe persone estranee al suo nucleo familiare.


Forse questo dipese dal rapporto di amicizia che si era stabilito
con me e me ne fu molto grata. Ognuno della famiglia che veni-
va dalla Siria a trovarmi conosceva l’Italia, Padova, i miei fami-
liari ed amici come se ci fosse già stato: era Um Ali che ogni
giorno ricordava e raccontava episodi dei suoi soggiorni presso
di noi. Quando la sentivo al telefono mi pregava di salutare tutti
e li elencava nome per nome, senza sbagliare mai, senza dimen-
ticare nessuno, dimostrando, oltre che memoria, una grandezza
d’animo che non le fece mai scordare la simpatia ricevuta, il
calore e la generosità di tante persone.
Padova Salua CURDA IRACHENA
Atidal GIORDANA
Rimah IRANIANA
Sonia Fatima ITALIANA
Rubah LIBANESE

Conoscevamo Farid da diversi anni. Era uno studente in medici-


na di origine curda; la sua famiglia viveva in Iraq, a Baghdad.
Aveva una vera e propria passione per l’arte culinaria e si ani-
mava molto davanti ad una buona pietanza, a qualsiasi cucina
appartenesse. L’ho visto commuoversi davanti ad un bel piatto
di spaghetti cotti al punto giusto e conditi con un buon ragù, co-
me davanti ad un maqlubah (NOTA 25) fumante. L’amore per la
buona tavola traspariva anche dal suo aspetto, imponente e co-
lossale; la prima volta che lo vidi rimasi impressionata dalle sue
mani: non ne avevo mai viste di così grandi e grosse. Il viso gio-
viale e sempre allegro era invece piuttosto infantile e questo
contrasto gli dava un’aria di ragazzone cresciuto troppo in fretta.

Un’estate rimase in Iraq più del solito e quando tornò portò con
sé una giovane moglie: Salua, una sua cugina. Prima di partire,
ci aveva annunciato che quell’anno si sarebbe sposato, in quanto
il legame con questa cugina era già stato concordato dalla fami-
glia da diversi anni, mancava solo la celebrazione del matrimo-
nio. Molto gentilmente, dopo neanche una settimana dal loro ar-
rivo, ci invitò a cena nel suo piccolissimo appartamento da stu-
dente, che aveva ripulito e lucidato prima di partire all’inizio
dell’estate, per renderlo il più accogliente possibile, in vista del-
l’arrivo della giovane moglie.
Quando arrivammo ci venne ad aprire, ci fece sedere a tavola,
dove aveva imbandito lui stesso un vero e proprio pranzo di
nozze, fatto di piatti arabi e curdi. Dopo alcuni minuti comparve
Salua: era talmente intimidita che io non riuscii a vederla in
faccia, in quanto teneva la testa abbassata. Indossava un abito di
foggia araba, di colore blu chiaro come il fazzoletto che le co-
priva il capo. Mi diede la mano in modo così esitante, che io cer-
cai di non guardarla molto, perché capii che era davvero imba-
razzata. Farid le parlava quasi timoroso, con gran rispetto, por-
gendole ogni pietanza come fosse anche lei un’ospite. Tra di lo-
ro parlavano curdo (NOTA 30) una lingua che non avevo mai
sentito e che mi sembrò molto dolce, anche perché Farid sem-
brava quasi sussurrare quando si rivolgeva alla giovane moglie.
Lei invece gli parlava con una voce sicura, decisa e mi sembrava
che gli desse degli ordini. Mio marito le chiese qualcosa della
Siria, dove lei era vissuta da bambina, prima di trasferirsi a
Baghdad e lei prese subito a ricordare con grande entusiasmo
quel periodo della sua vita. La guardai finalmente in faccia e
vidi che non era né bella né brutta, piuttosto pallida, con degli
occhi grandi e neri. Di bello aveva il sorriso, che era, per così di-
re, totale, luminoso. Quel giorno ci limitammo a salutarci di
nuovo alla fine della cena, senza che nessuna di noi due avesse
forzato la reciproca conoscenza.
Farid ci invitò nuovamente dopo solo quindici giorni. Questa
volta venne ad aprire lei e ci fece sedere usando già un po’ di
parole in italiano.
Indossava una gonna di jersey nera, lunga, ed una camicetta
bianca. Il foulard era bianco a pois neri. Farid era affaccenda-
tissimo in cucina, ambiente così piccolo, che se entrava lui non
poteva entrare nessun altro. Lei si limitò a decorare i piatti di
portata con delle foglioline di menta, degli spicchi di pomodoro
e di peperoni rossi e verdi, dei cetriolini e dei rapanelli rossi.
Distese l’homsieh (NOTA 25) su una specie di vassoio e lo mi-
se in tavola proprio davanti a me: notai con stupore che col prez-
zemolo tagliato molto fine aveva scritto sulla pietanza il mio
nome in arabo. Mi sembrò una forma di cortesia davvero simpa-
tica e la ringraziai in arabo. Lei si sedette vicino a me questa
volta e mi spiegò che aveva cominciato a studiare italiano da so-
la e dunque voleva chiedermi il mio parere sui testi scelti.
Era proprio intelligente Salua, ed inoltre le sue radici curde le a-
vevano impresso un carattere forte e volitivo, che le rese possi-
bile affrontare questa vita in Italia con grande coraggio.
Farid cercava di starle abbastanza vicino, specialmente i primi
tempi, ma doveva seguire le lezioni all’Università e dunque lei
era sola gran parte delle giornate. Io mi abituai a passare a pren-
derla una volta alla settimana, di solito il pomeriggio in cui an-
davo a trovare tre ragazze giordane, così lei si sentiva meno so-
la. Lo studio dell’italiano le permise ben presto di diventare più
sicura di sé; cominciò ad uscire da sola, a muoversi in città sen-
za più aver bisogno né di me, né del marito. Fu lei poi che aiutò
molte ragazze arabe ad ambientarsi a Padova. Sosteneva, da
donna intelligente qual'era, che il primo passo per potersi real-
mente trovare bene qui era imparare l’italiano: non tutte lo fan-
no. Se vengono per motivi di studio ovviamente sì, ma se vengo-
no in quanto mogli di qualche studente o di qualche arabo che
lavora qui, si accontentano di imparare solo quelle poche parole
necessarie a fare la spesa e basta. Per il resto continuano a segui-
re sia la radio che la televisione in lingua araba e frequentando
solo persone del Paese di provenienza, o almeno dell’area me-
dio orientale, collegandosi quotidianamente via skype con i pa-
renti in patria.
Lei divenne una specie di referente per molte donne arabe: la
sua padronanza della lingua italiana le permise di rendersi utile
in molte occasioni.
Ho apprezzato molto questa sua disponibilità che non sempre
venne ben ricompensata, ma faceva parte del carattere sia suo
che di Farid aiutare gli amici. Lei mi spiegò spesso che il far del
bene agli altri faceva parte anche del suo senso religioso. Era
musulmana sunnita (NOTA 9) ed era molto praticante.
Raramente mancava l’appuntamento con una delle preghiere
quotidiane (NOTA 12) e, se si trovava a casa mia, mi chiedeva
il permesso di ritirarsi in una stanza, dove io avevo preparato il
tappettino per la preghiera e la lasciavo stare tranquilla. Se c’e-
rano altre persone mie ospiti non gradiva molto che dessi pub-
blicità a questo suo momento, era un’intesa tra di noi che ad un
certo punto lei si alzasse ed andasse verso la mia camera. Faceva
parte della riservatezza di cui circondava il suo mondo e le sue
abitudini, non fidandosi mai fino in fondo di come esse poteva-
no venire accolte e capite “ ... qui da voi”, come mi diceva e mi
dice sempre. “Con te è un’altra cosa” mi dice tuttora “tu sei
diversa” e quel “diversa” suona in bocca sua come un grandis-
simo complimento. Abbiamo discusso spesso sul perché di
questo suo atteggiamento, che io non ho mai approvato, ma lei
non ha mai cambiato opinione su quel …”qui da voi”. Pur a-
mando molto l’Italia, è sempre leggermente distaccata, sempre
al di là di un sottile velo: “il velo di Salua” lo chiamo, invisibile,
ma impenetrabile come una lastra di cristallo.

I primi anni della nostra conoscenza discutevamo molto su que-


ste nostre reciproche posizioni, mentre Farid per fortuna nostra,
imbandiva manicaretti “Per alimentare queste cervellotiche”,
come ci chiamava lui.

Per chiarire le nostre reciproche posizioni in materia di integra-


zione, comprensione ed accettazione, più che le infinite discus-
sioni, servì molto un episodio incredibile che capitò a me e Sa-
lua dopo alcuni anni che ci frequentavamo. Una sua amica liba-
nese aveva partorito e così andammo in clinica a trovare lei ed il
bambino. Quando arrivammo la stanza era già strapiena di loro
amici ed amiche, tanto che io dissi che forse era meglio star un
po’ distanti dal neonato, per non infastidirlo, tutti addosso a quel
modo. Una delle loro amiche arabe, Atidal, si girò ed in modo
molto sarcastico disse: “L’unica che può dar fastidio al bambi-
no qui sei tu, che non sei come noi”. Non ebbi nemmeno il tem-
po di capire il senso (se un senso c’era) di questa uscita così ot-
tusa, che vidi Salua scagliarsi verso la “magnunah”(pazza) (co-
me poi la chiamammo tutti noi amici), dandole una grande le-
zione di civiltà e svergognandola in modo per me indimenticabi-
le. Non capii molto del discorso, ma sentii che Salua citava ver-
setti del Corano, Maometto, Dio, sciorinando verità inconfuta-
bili sull’uguaglianza di tutti gli esseri umani.
Devo dire che nessuno dei presenti solidalizzò con questa imbe-
cille, nemmeno il marito, e che l’episodio fece poi il giro di tutte
le persone che conoscevo non trovando di certo consensi.
Perfino il piccolo bambino sembrò dissentire mettendosi ad urla-
re “infastidito”!
Da parte sua Salua, persona molto intransigente qual’era, non
dimenticò più questa “brutta faccenda” come diceva lei, e quel-
l’amica non entrò più in casa sua.

Quando Farid si laureò e cominciò a guadagnare, si trasferirono


in un appartamento un po’ più grande, cosicchè ci si trovava più
spesso a mangiare da loro, visto che la passione di Farid per la
cucina non era mai diminuita, anzi.

Anche per la festa che conclude il periodo del Ramadan (NOTA


13) il più delle volte ci si radunava tutti in casa loro. Salua, con
il suo senso dell’eleganza, apparecchiava la tavola in modo su-
perbo, usando delle tovaglie molto ricamate e preziose, su cui
disponeva le pietanze con gran senso del colore, come fossero su
una tavolozza. Così sia il palato che lo sguardo erano acconten-
tati, ed anche l’udito, perché mio marito portava gran quantità di
musica araba, sua passione mai sopita, e così tutto sprofondava
in una atmosfera davvero “baghdadiana, come dicevo io.
Un anno la festa fu un po’ diversa: quando entrammo in casa,
mi accorsi che le donne venivano convogliate verso la sala da
pranzo, gli uomini verso la cucina. La cosa mi stupì, e Salua mi
spiegò che Rimah, una amica iraniana sciita (NOTA 10) che non
avevo conosciuto prima d’allora, era abituata a casa sua a sepa-
rare gli uomini dalle donne, se non erano della stessa famiglia.
“Va bene”, dissi , “certo che però mi sarei aspettata che noi
donne stessimo in cucina e gli uomini in sala da pranzo. “Sei
proprio europea”, mi disse Salua “vuoi che noi donne stiamo
scomode sulle seggiole della cucina e gli uomini in salotto? Sia-
mo donne, mi disse, dobbiamo essere trattate da signore!!”
E da signore ci trattarono: Farid, aiutato dagli amici, cucinava ed
imbandiva i piatti, che poi passava lui stesso alla moglie stando
nell’ingresso dell’appartamento, in modo da non vedere le don-
ne in soggiorno e Salua li portava in sala da pranzo.
Ad un certo momento mancava un cucchiaio ed io soprapensiero
mi avviai verso la cucina per prenderlo: arrivata davanti alla
porta socchiusa, dietro alla quale si sentivano le risate dei ma-
schi, esitai un momento. Mi ricordai quando all’asilo una volta
la suora vedendomi giocare con i maschietti mi disse: “Vergo-
gnati, non devi stare con i bambini, sei una bambina…”. Aprii
la porta della cucina e ci fu un certo imbarazzo, sciolto in una
risata di Farid, che mi levò dall’impaccio dicendo: “Meno male
che ci sei tu, così io lavoro di meno a servire queste donne!”

Un giorno trovai a casa di Salua una nuova amica, che lei mi


presentò con il nome di Fatima. La aveva conosciuta in quanto i
loro figli frequentavano la stessa scuola. La signora aveva circa
trent’anni, alta, un po’ grossa e vestita alla musulmana con mol-
to rigore: lungo cappotto nero, guanti neri e fazzoletto in testa
nero, calato basso sulla fronte. Le dissi “Assalamualeikum”
(NOTA 18), lei rispose: “Uaaleikumssalam” e poi cominciò a
parlarmi speditamente in italiano, lasciandomi molto stupita. Era
infatti italianissima, nata in un paesino vicino a Modena ed in-
fatti mi accorsi che aveva nel parlare la simpatica cadenza emi-
liana romagnola. Mi raccontò che era diventata musulmana dopo
aver conosciuto uno studente siriano di Aleppo, che poi aveva
sposato e con cui viveva qui in Italia, dove lui, dopo la laurea in
ingegneria, aveva acquistato un negozio di tappeti orientali. In
origine, per così dire, si chiamava Sonia, aveva fatto il liceo
classico ed alcuni anni di Lettere all’Università, dove aveva co-
nosciuto quello che poi divenne suo marito, fatto che diede alla
sua vita una svolta completamente diversa da quella che si era
programmata, anche perché lei non era per nulla avventurosa di
temperamento e si era figurata di passare la sua esistenza come
insegnante in qualche scuola possibilmente molto vicina alla ca-
sa della sua famiglia a cui era tuttora affezionatissima!

Quando la conobbi, era sposata già da undici anni ed aveva


quattro figli, due maschi e due femmine, dai dieci anni in giù.
Rimasi molto meravigliata in quanto era la prima donna italiana
musulmana che conoscevo e glielo dissi naturalmente, chieden-
dole come era arrivata a farsi musulmana, in quanto io, sempre
per la mia tiepida fede e la scarsa propensione agli approfondi-
menti religiosi, penso che solo una particolare tendenza alla ri-
cerca spirituale può portare a questo passo. In effetti lei mi con-
fermò che era sempre stata molto interessata a qualsiasi argo-
mento religioso ed era stata una cristiana molto osservante.
Quando conobbe il suo attuale marito, anche lui religioso, sentì
che per far funzionare la loro unione affettiva lei aveva bisogno
di avere con lui anche una intesa nella fede. Troppa importanza
aveva per lei l’aspetto religioso dell’esistenza e la sua pratica
quotidiana, per non condividerlo anche nella forma con la per-
sona con cui voleva passare tutta la sua vita. Avrebbe potuto an-
che cercare di convincere il ragazzo a farsi cristiano, lei mi dis-
se, ma nel frattempo lei si era data anima e corpo allo studio del-
la lingua araba, indispensabile per entrare nel “cuore” (così lei
mi disse) del “Cur'an karim” (NOTA 17), e dopo alcuni anni era
come scivolata da una dottrina all’altra senza traumi.

Mi piacque molto per la concretezza con cui mi descrisse la sua


conversione, senza esprimere giudizi, senza pretendere certezze
assolute. La sua vita era stata guidata così da Dio, anzi da Allah,
come mi disse lei, e lei aveva accettato. Mi fece anche un’osser-
vazione a cui io penso spessissimo. E’ vero che per l’Islam è
possibile per un musulmano sposare una cristiana (NOTA 22) e
la stessa cosa è per il cristianesimo: si tratta anche per il diritto
ca-nonico di una disparitas cultus che richiede una dispensa, ma,
una volta ottenutala dalle autorità religiose competenti, nulla o-
sta, come si dice. Però “Che famiglia nasce dall’unione?”, mi
fece osservare Sonia, anzi Fatima, “cristiana” ? Allora i figli
devono esser battezzati. Musulmana? Allora i figli non devono
di certo essere battezzati”. Insomma, nella concretezza della
convivenza, lo scoglio per Sonia Fatima, desiderosa di creare
una famiglia religiosa, sarebbe stato insormontabile.

Io trovai l’argomentazione impeccabile ed apprezzai la sua scel-


ta. Purtroppo lei andò a vivere lontano da Padova ed anche
Salua la perse ben presto di vista, ma spesso io faccio riferimen-
to alla sua esperienza quando parlo di matrimoni misti tra cri-
stiani e musulmani.

Matrimoni possibili in teoria, ma che richiedono da parte di chi


li fa una consapevolezza e degli approfondimenti a priori, non
tanto per i due coniugi, ma per il figli che nasceranno da queste
unioni, che sono dei microcosmi molto complicati, non basta
l’amore per risolvere i problemi che di certo nasceranno. Come
al solito, bisogna che siano ben chiare le reciproche posizioni fin
dall’inizio per far funzionare il delicato equilibrio.

Tornando alle belle serate trascorse da Farid e Salua, di solito


l’atmosfera era molto conviviale e raramente ci si accalorava
troppo, anche perché l’ottima cucina di Farid predisponeva al
buon umore ed all’allegria: di solito dopo cena gli uomini gioca-
vano a carte e noi donne chiacchieravamo.
Una sera però fui io ad intestardirmi con una loro amica musul-
mana libanese, Rubah , in relazione ad uno dei pochi argomenti
su cui non posso transigere: la divisione tra potere politico e po-
tere religioso. Per me lo Stato deve essere assolutamente laico,
retto sulla base di una Costituzione che ne regola le norme per
l’ordinamento politico, economico e sociale: “ Questa ”, conclu-
si, “è la mia fede incrollabile “. Rubah invece sosteneva che lo
Stato ideale può essere governato dalla sharìah (NOTA 8) “Co-
sa serve che l’uomo si affatichi a fare ex novo delle leggi ” dice-
va “quando Dio ha già preordinato tutto nella stesura del Co-
rano?”. Lascio immaginare a chi legge quanto si possa accalo-
rarsi su questi argomenti se non si è d’accordo. Per fortuna
Rubah era di indole gentile e portata ad una dialettica pacifica e
ciò ci permise di affrontare questa discussione con tranquillità.
Certo che dal suo punto di vista di fede assoluta nella perfezione
del Corano e del suo contenuto era impossibile non credere che
l’unica società immaginabile fosse quella organizzata secondo i
dettami coranici. Ma, come le feci notare, questo è uno stato
teocratico e dunque parte già da una ingiustizia di fondo, in
quanto è implicita una discriminazione tra chi è di una religione,
quella che comanda, e chi non lo è e dunque esisterebbero sem-
pre dei cittadini privilegiati rispetto agli altri. Lei mi rispose che
il Corano prevede una particolare tassa per i cittadini non musul-
mani, che in tal modo acquistano pieni diritti. E poi, lei disse:
”Tutti coloro che si sottomettono alla volontà di Dio sono,
anche senza saperlo, musulmani e dunque cittadini di prima ca-
tegoria”. “E con gli agnostici, come la mettiamo?” dissi io. A
quel punto capimmo tutte due che non avremmo mai trovato
nemmeno un minimo accordo su questo argomento e preferim-
mo parlare d’altro anche per non rovinare la bella serata ai pa-
droni di casa che erano davvero molto meravigliati nel vedermi
così coinvolta ed accalorata. Il più stupito era Farìd, che cercava
di rabbonirmi con tutti i manicaretti possibili, ma … niente da
fare.

Ancora adesso, quelle poche volte che ci troviamo, dato che so-
no andati a vivere in un’altra città, Farìd mi accoglie dicendo:
“Sta’ tranquilla, pensa a mangiare, che non puoi permetterti di
perdere le forze in discussioni, lasciale fare alle ciccione!”
Kuwait City – Strasburgo
Fatimah GIORDANA
Nur e sua figlia Yasmine SIRIANE ASSIRE

Per alcuni anni un mio cognato, professore universitario, inse-


gnò in Kuwait, perciò un inverno andammo a trovare lui, la mo-
glie, una tedesca di Freiburg, e le due figlie, proprio nel periodo
di Natale. La sera della vigilia invitarono un bel gruppo di ami-
ci, perloppiù colleghi dell’Università: i vistosi addobbi natalizi
che adornavano la casa, il sottofondo musicale di cori in tedesco
e il più grande albero di Natale che abbia mai visto in vita mia,
erano riusciti a ricreare la magica atmosfera di una serata nata-
lizia nella Foresta Nera. Mancava solo una bella nevicata.
Chiudemmo le tende della porta finestra da cui si scorgeva la
torre rotante che domina Kuwait city e fingemmo che fuori ci
fossero i pini imbiancati di neve!
Gli amici erano in maggioranza musulmani sunniti, sciiti, alcuni
anche ismaeliti (NOTA 10) e provenivano da vari Paesi arabi,
gli altri erano cristiani, sia europei che americani. Data la serata,
il discorso si avviò sul tema religioso; più che altro ognuno par-
lava di sé, del suo modo di essere osservante o meno nella sua
fede. Si fecero anche molti discorsi sulle uguaglianze e disegua-
glianze tra le nostre due religioni per così dire sorelle, visto l’u-
nico Dio che ci unisce o che dovrebbe unirci. A questo proposito
Fatimah, una signora giordana musulmana, intervenne asserendo
che per il Corano non è assolutamente accettabile una suddivi-
sione tra le religioni monoteistiche, in quanto tutte rientrano nel-
la fede islamica, nel momento in cui riconoscono l’unicità di
Dio e del suo messaggio. Fatimah aggiunse che dunque nemme-
no la nascita di sette nell’ambito di queste suddivisoni è possibi-
le e che il Corano su tale concetto è chiaro e perentorio. A con-
ferma di questa sua asserzione citò con precisione i versetti del
Corano in cui i profeti Noè, Abramo, Mosè, Gesù e Maometto
affermano di essere Musulmani.
Naturalmente si dette il via ad una accaloratissima disquisizione
teologica tra gli amici cristiani e quelli musulmani, che non a-
vrebbe più avuto fine se mia cognata, con l’astuto tempismo di
una brava padrona di casa, non avesse portato in tavola il grande
panettone che io avevo portato fresco fresco dall’Italia, che non
mise d’accordo tutti, ma di certo riportò il buonumore.

Molte delle musulmane presenti palesavano la loro religione an-


che nel modo di vestire, vario come al solito nella interpretazio-
ne, lasciata al libero arbitrio di ognuna.
Tra queste avevo già incontrato anni prima Nur, una professo-
ressa di ingegneria, laureata a Mosca, dove aveva conosciuto
suo marito, un insegnante russo di fisica. Lei era siriana, di fa-
miglia assira (NOTA 29), come sempre specificava: era molto
fiera di questa sua origine e quando l’avevo conosciuta me ne a-
veva parlato a lungo; ogni volta che la rivedevo mi sottolineava
ridendo il fatto che “…era così bella ed intelligente perché era
assira oltre che siriana!”. Era anche molto fiera della sua fede
nell’Islam , e ,dato il tema della serata, le chiesi cosa significas-
se per lei essere musulmana, dal momento che mai palesava
la sua fede, né con l’abbigliamento, né con riferimenti al Cora-
no, come spesso fanno i musulmani.: “Sfruttare tutte le poten-
zialità sia fisiche che intellettive datemi da Allah”, mi rispose
“questo significa per me essere una buona musulmana: ogni a-
zione, ogni pensiero della mia esistenza terrena sono una mani-
festazione della onnipotenza di Allah, senza il quale l’uomo non
può nulla”.
Nelle sue parole, più che in altre definizioni, forse più dotte, che
sentii varie volte nella mia vita, trovai l’essenza, a mio parere, di
Dio per un musulmano (NOTA 1) e mi era piaciuto molto il mo-
do sintetico con cui Nur si era espressa, da vero ingegnere!
Rividi Nur lo scorso anno, in quanto ci invitò al matrimonio di
una delle sue tre figlie, Yasmine, anche lei laureata in ingegneria
e docente all’Università di Strasbourg, dove tutta la famiglia si è
trasferita da alcuni anni. Si sposava con un collega francese, cri-
stiano cattolico. La cerimonia fu duplice: quella musulmana si
tenne in casa, con uno zio materno come testimone della sposa e
come celebrante un amico musulmano, seguita da un rinfresco
tra i familiari e gli amici più stretti.
Quella cristiana cattolica fu più solenne: si svolse in una bella
chiesa gotica, dotata di un antico organo la cui trionfale e mae-
stosa melodia, amplificata dalla perfetta acustica delle svettanti
volte gotiche, portò i nostri spiriti, di qualsiasi religione fos-
simo, “ molto vicini a Dio”, come sussurrai a Nur, che in chiesa
mi aveva voluta accanto. Lei mi rispose molto decisa che la mu-
sica non può avvicinare a Dio, lo può fare la lettura modulata dei
versetti del Corano, non di certo una melodia profana.
A me vennero in mente i canti gregoriani e le domeniche da
bambina quando mio padre suonava l’organo in chiesa e sospirai
amaramente.
E’ sempre motivo di tristezza per me non trovare punti di con-
tatto, di questo parlai con Nur durante il pranzo che seguì la ce-
rimonia religiosa e lei convenne che le differenze spesso risalta-
no più in certe piccole cose, che non nei grandi concetti.
Beirut Giamilah Nadia LIBANESI

Un’estate, anni fa, un uomo d’affari libanese, amico di mio suo-


cero, venne ad Abano Terme, per un periodo di cura, ed una sera
ci invitò molto gentilmente a cena nell’albergo in cui soggiorna-
va. Era una signore molto anziano, Mohammad, che ci ricevette
calorosamente, e abbracciando mio marito commosso, ricordò
che l’ultima volta che l’aveva visto era un bambino ed ora…
“Schukran lillah” (NOTA 17) aveva la soddisfazione di ritrovar-
lo qui in Italia, maturo professionista.
Dopo un po’ ci raggiunse sua moglie, una signora abbastanza
giovane rispetto a lui, molto elegante; si chiamava Giamìlah ed
era di Baalbek, in Libano e, come molti Libanesi, si esprimeva
con un perfetto francese, lingua che io non conosco, ma che mi
sforzai di capire, rispondendo in inglese, che lei comprendeva
nello stesso modo in cui capivo io il francese! Era molto spirito-
sa e la divertì questa mistura di linguaggi con cui ci parlavamo,
passando dal francese, all'italiano, all'arabo in un piacevole caos
da ... torre di Babele.
Aveva due figli abbastanza grandi, che frequentavano l’Univer-
sità in Francia, mentre lei viveva in Libano. Mi parlò molto di
questi suoi ragazzi, felice perché, come succedeva due volte al-
l’anno, stavano andando proprio a trovarli in Francia.

Quando ci salutammo, alla fine della serata, Mohammad ci die-


de il suo biglietto da visita con l’indirizzo, sperando di rivederci
presto.

Anni dopo ci recammo in viaggio in Libano ed, arrivati a Beirut,


telefonammo a Mohammad, che ci dette appuntamento per la
sera dopo.

Venne a prenderci in albergo, sempre cordialissimo, e ci portò a


casa sua… per meglio dire: in una delle sue due case (NOTA
22). Infatti la padrona di casa che venne ad aprirci non era
Giamìlah, ma era una signora anziana, molto compita, vestita
perfettamente alla musulmana, con un bel vestito di velluto ver-
de scuro, tutto ricamato con un filo d’argento. Nadia, così si
chiamava, sapendo che mio marito era il figlio del vecchio ami-
co di Mohammad, fu molto cordiale e ci volle ospitare per cena,
avendo invitato per l’occasione anche i suoi tre figli, con le loro
famiglie.
Alla fine della serata, accompagnandoci in albergo, Mohammad,
un po' imbarazzato a dire il vero, mi spiegò con tutta semplicità
che Giamìlah era la seconda moglie e che avrebbe avuto piacere
di ospitarci da lei, ma in quel periodo era andata a Baalbek a tro-
vare la sua famiglia con i due figli ormai tornati dalla Francia,
dove si erano laureati.

Passando ci mostrò la villa in cui, per metà della settimana, vive


con Giamìlah, mentre il resto della settimana la trascorre con la
prima moglie.
Abu Dhabi (Emirati Arabi)
Fauzìah PALESTINESE LIBANESE
Sausan Nagiat le due figlie
Zaìnab la mamma
Fairùz Fadìlah Isamahan le tre sorelle

Lo scorso inverno andai a trovare Abd el Karim, un mio cogna-


to, che lavora negli Emirati Arabi.
La moglie, laureata in Farmacia presso l’Università di Damasco,
è Palestinese, ma è vissuta molti anni in Libano e poi si è trasfe-
rita con tutta la famiglia negli Emirati Arabi, ad Abu Dhabi.
L’ho conosciuta anni fa, quando Abd el Karim stette un certo
periodo presso di noi per un corso dopo-laurea: almeno una vol-
ta alla settimana, il Venerdì pomeriggio, squillava il telefono; e-
ra tale Fauzìah, che, con una voce gentile e dolce, mi chiedeva
di poter parlare con il mio giovane cognato. Io gli chiedevo chi
fosse questa Fauzìah e lui sosteneva che era una amica cono-
sciuta all’Università di Damasco e si seccava moltissimo quando
gli facevo notare che una semplice amica non ti telefona da così
lontano ogni Venerdì tanto per salutarti. Capii dopo, parlando
con Fauzìah, che lui davvero la considerava solo una buona ami-
ca, mentre lei ne era innamorata fin da quando erano studenti.
Insomma Fauzìah, tra lettere, biglietti e telefonate, riuscì a com-
pletare la conquista (non per niente il suo nome significa “vitto-
riosa”! (NOTA 27)), iniziata ai tempi dell’Università, tanto che
dopo alcuni anni si sposarono e per il viaggio di nozze vennero
ospiti da noi per una settimana.
Era proprio come me l’ero aspettata: molto esile, piuttosto alta,
il viso lungo e pallido, con zigomi accentuati e dei grandi occhi
neri piuttosto malinconici. Mi salutò con “Assalamu eleikum”
(NOTA 18) e mi abbracciò con grande calore, spiegandomi ri-
dendo che mi considerava sua complice nella dura conquista di
questo suo marito, per quelle telefonate del Venerdì pomeriggio,
che io le ero sembrata accogliere molto giovialmente.
Ci trovammo subito simpatiche reciprocamente: innanzitutto, e
ne convenimmo, per la nostra magrezza, difficile da riscontrare
in altre donne, tutti gli altri motivi li scoprimmo col tempo.
Fauzieh è musulmana sunnita (NOTA 9) e fin da quel primo in-
contro mi accorsi che ogni suo discorso era tutto un intercalare
di riferimenti a Dio: inshalla, allamdulillah, schukran lillah,
allahuakbar, iallah (NOTA 17).
Le feci notare che per me cristiana cattolica tutto questo “sco-
modare” Dio era irrispettoso: “Se ti dico di trovarti alle cinque
davanti al supermercato, non puoi dirmi Inshallah” le dicevo
“dimmi: sì, e basta, senza far dipendere anche questo piccolo
evento addirittura da Dio”. “No, perché è sempre Dio che gui-
da le mie azioni, grandi o piccole, tutto dipende dalla sua vo-
lontà”: questa la sua perenne risposta.

Con nessuno ho polemizzato e polemizzo come con Fauzìah.


Lei dice che questo è un segno che ci vogliamo bene e che ci
stimiamo; credo anch’io che sia così, perché di norma tendo a
sfuggire gli scontri frontali, specialmente quando penso che po-
trebbero portare a fratture; quando mi trovo danti a dei muri di
incomprensione, preferisco aggirare l’ostacolo ed arrivare ad
un’intesa per altre vie; per questa mia caratteristica mio padre
mi definiva “bizentineggiante” e mia suocera
“badauieh” ( beduina).

Fauzìah si è accorta subito di questa tecnica, e mi provoca appo-


sta. Moltissimi sono gli argomenti che ci trovarono e ci trovano
tuttora in perfetto ... disaccordo: musica (io non riesco a vivere
senza, lei la considera una riempitivo per anime vuote); cinema
(il mio passatempo preferito; lei lo ignora, considerandolo una
perdita di tempo prezioso); viaggi ( questo il mio ordine di gra-
dimento: America, Inghilterra, Paesi arabi; lei, al di fuori dei
Paesi arabi solo l’Italia, specialmente e soprattutto Venezia); let-
ture (io: in passato abbastanza, adesso poche e mai di specula-
zione religiosa; lei letture religiose, specialmente il Corano ed i
Detti del Profeta (NOTA 7 )); hobbies (io: cinema, TV, viaggi,
chiacchiere con gli amici; lei: camminate chilometriche di buon
passo con il marito e le figlie; chiacchierate con i pochissimi a-
mici ). Ecco: l’unico punto di contatto tra di noi è il piacere del
colloquio, lo scambio di opinioni contrastanti con persone che
stimi.
Le nostre dispute hanno però dovuto subire una pausa di alcuni
anni, in quanto lei e Abd el Karim hanno avuto due bambine e
perciò le loro visite si sono un po’ diradate in questi ultimi tem-
pi. E dunque, quando quest’inverno decisi di andare io a trovarli
nella bella Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, sapevo che le serate
sarebbero trascorse in discussioni accalorate per recuperare il
tempo perso, sorseggiando di certo innumerevoli tazze di “caffè
espresso”, che loro, amando molto l’Italia, bevono a litri, prefe-
rendolo al tè.

Dopo la tregua dei primi convenevoli, la polemica scoppiò già la


prima sera, in quanto io dissi che per fortuna in aereo avevo vi-
sto un bel film ambientato in Cornovaglia, così avevo un po’ al-
lentato la tensione che il terrore del volare mi provoca sempre.
Fauzìah sbottò subito “Ecco” mi disse, “chi non ha fede, deve
attaccarsi a queste stupidaggini: se dovevi morire in aereo, co-
sa ti serviva pensare alla Cornovaglia? Non ti dava più forza
pensare a Dio e alla sua presenza accanto a te in ogni luogo?
Altro che vedere film!” . Alzai gli occhi al cielo costernata e
rassegnata, sbuffando con quel poco di fiato che qualsiasi viag-
gio aereo mi lascia in corpo: la mia espressione doveva essere
stata così eloquente e la mia faccia così stanca e pallida, che le
bambine scoppiarono a ridere e la più grande, Sausan, disse ri-
volta alla mamma: ”Meno male che mi hai detto che oggi arri-
vava la cognata con cui vai più d’accordo…immagina se non
andavate d’accordo”.
Mi concesse una tregua fin alla mattina dopo: aveva preso una
bella settimana di ferie, mi disse scherzosamente minacciosa,
per parlare con me e dunque, mi raccomandò abbracciandomi:
”Dormi bene, che voglio un’avversaria lucida!”. “Non dimenti-
care che sono la cognata maggiore, pretendo rispetto…”
(NOTA 23) le risposi solennemente.
La mattina dopo mio cognato lavorava e dunque andammo noi
quattro da sole fino alla costa sulla parte esterna degli Emirati,
quella che si affaccia sulla parte alta dell’Oceano Indiano. Il
viaggio durò tre ore circa ed il panorama era davvero sbalorditi-
vo per me, anche se, siccome io ho sempre sostenuto con Fau-
ziah che nulla mi soddisfa di più di un paesaggio metropolitano
tra alti palazzi e traffico, non volevo darle soddisfazione ammet-
tendo che tutto era per me incantevole, anche perché nuovo, con
quelle montagne nere e brulle che si stagliavano nel cielo terso,
svettando all’improvviso dal deserto. “Allah u akbar (Dio è
grande” le dissi, quando, dopo alcune ore, arrivammo sulle rive
dell’Oceano, e non ero ironica… Fu una giornata indimenticabi-
le e eravamo così rilassate e contente tutte e quattro, che non
riuscivamo proprio a trovare argomenti per polemizzare! Per
fortuna anche le bambine erano di temperamento tranquillo e
non ci tediarono neanche un minuto con piagnistei. Stettero il
più del tempo vicino a noi probabilmente incuriosite dalla pre-
senza di questa zia europea di cui la mamma aveva parlato tanto.
Notai che anche loro, come la madre, usano molto intercalare il
loro discorso con espressioni musulmane: Coran el karim,
Allahu akbar ...
Sausan e Nagiàt hanno rispettivamente dodici e nove anni e so-
no iscritte ad una scuola francese libanese, dunque padroneggia-
no con la stessa scioltezza la lingua araba come quella francese,
mentre come seconda lingua straniera stanno studiando l’ingle-
se. Hanno deciso che la loro prossima lingua sarà l’italiano; mi
commossero con questo interesse e amore per l’Italia e la sua
cultura, amore di certo trasmesso loro dai genitori. La loro scuo-
la prevede lo studio di uno strumento musicale ed entrambe
hanno scelto il pianoforte, per cui durante il giorno ora una ora
l’altra si impegnavano in interminabili esercizi: chiudendo gli
occhi mi sembrava di essere a casa mia da bambina, in un paese
del Trentino, quando io e le mie due sorelle ci esercitavamo per
ore su quegli stessi testi che ora vedevo sul leggio delle due ra-
gazzine, pieni di scale lunghissime, per la mano destra, quella
sinistra, a due mani. Ricordo quanta fatica ci costavano certi
complicati accordi, anche perché quando si è bambini le dita so-
no ancora corte e i tasti del pianoforte sembrano così distanti tra
di loro! Anche Nagiàt, che ha solo nove anni, ogni tanto cerca-
va di allungare il pollice ed il mignolo borbottando indispettita
in quanto non raggiungeva le note giuste, però né lei né la so-
rella lasciavano mai l’esercizio incompiuto, con una caparbietà
presa di certo dalla loro madre, come feci notare a Fauzìah ri-
dendo. Certo che sentirle già suonare a quattro mani delle sona-
te di Schumann mi piacque davvero tanto e contribuì a farmi
sentire ancora di più “a casa”.
Vicino all’abitazione dei miei cognati c’è una piccola Moschea,
che scandisce il tempo del giorno con la voce del muezzim, che
dal minareto invita alla preghiera (NOTA 11): notai che appena
iniziava il salmodiare, le ragazzine smettevano subito di suona-
re, attendevano con le mani in grembo, compunte, fino alla fine
e poi riprendevano i loro esercizi al pianoforte. Mi spiegarono
che sembrava loro irrispettoso sovrastare con la musica profana
la melodia dei versetti coranici.
Nagiàt è ancora troppo piccola per impegnarsi anche nelle diver-
se pratiche religiose, ma Sausan, che ha dodici anni, prega già
cinque volte al giorno: si infila una lunga gonna bianca, dispone
con cura sul capo il fazzoletto ugualmente bianco che fa arrivare
fin sulla fronte e poi, se la madre è a casa, preferisce pregare con
lei, altrimenti va nella sua stanza da sola. Quest’anno ha anche
ottemperato all’obbligo del digiuno durante il mese del Rama-
dan (NOTA 13) , non saltando neanche un giorno. Rimase molto
meravigliata dei miei complimenti per tutto questo, mi disse che
quello che lei sta facendo è niente in confronto a quello che Dio
fa per lei. Mi fece questa affermazione senza nessuna enfasi,
guardandomi un po’ stupita che io, adulta, non sapessi questo.
Osservai quel visetto così serio mentre mi esprimeva questa
grande verità e chinai gli occhi, timorosa che vi leggesse l’om-
bra del dubbio, che non intendo assolutamente comunicarle.

Alcune sere dopo il mio arrivo, venne a trovarci la mamma di


Fauzìah, Zainab, una signora palestinese, trasferitasi qui ad Abu
Dhabi trent’anni fa con il marito e cinque figli: quattro femmine
ed un maschio. Purtroppo il padre di Fauzìah è morto da un anno
e mi è molto spiaciuto non poterlo conoscere, in quanto lei me
ne ha parlato sempre con grande affetto; ha sofferto moltissimo
per questa morte e mi ero decisa ad andare a trovarli anche per
starle vicina in quel momento di dolore. Sapevo che anche la
madre era ancora naturalmente affranta per la perdita del marito
e, dopo aver risposto al suo Assalamualeikum (NOTA 18), la ab-
bracciai cercando di farle sentire col gesto, più che con inutili
parole, che le ero accanto col cuore.
Zainab era abbastanza imponente, molto più alta di Fauziah, ed
era molto elegante: indossava un lungo vestito all’araba di vel-
luto nero con ricami d’argento ripetuti anche sul bordo del faz-
zoletto che le incorniciava il volto; notai che li stessi fregi erano
riportati sia sulla borsetta, che sulle scarpe di pelle nera.
L’espressione del viso era austera ed anche quando parlava non
sorrideva mai, questo non voleva dire che non fosse gentile, an-
zi, si interessò di me e della mia famiglia, dimostrandomi per
l’ennesima volta come Fauzìah parli spesso di me e della mia
vita. Anche lei, come la figlia, intercalava molte espressioni
musulmane nel discorso, e nominava spesso Dio: le raccontai
l’appunto che avevo mosso alla figlia su questo “scomodare”
Dio anche in cose di poco conto e lei si meravigliò tantissimo di
questo mio atteggiamento, anzi, più che meravigliarsi si scanda-
lizzò, come se io non riconoscessi a Dio la sua onnipotenza e
onnipresenza nella vita dell’uomo: “Vedi” mi disse “se ti guar-
di intorno tu vedi qui sei persone, fa’ conto che il settimo è Dio,
che è sempre presente”. Proprio in quel momento mio cognato
stava entrando in soggiorno con un gran vassoio esclamando
”Ecco qui sei caffè espressi italiani”. Ebbi un momento di esi-
tazione e feci fatica a non dirgli : “Ne manca uno”. Mi trattenni
per rispetto dell’anziana signora, anche se ebbi l’impressione
che Fauzìah intuisse la blasfema battuta, in quanto mi passò ac-
canto dandomi un colpetto su una spalla che non mi sembrò
molto affettuoso!
In quel momento arrivò una delle famose sorelle di Fauzìah, di-
co famose perché lei me ne aveva parlato tanto ed ero curiosis-
sima di conoscerle.
Questa, Fairùz, è la più giovane, avrà circa trent’anni, è archi-
tetto e lavora in uno studio di arredamento per interni in Dubai:
ci comparve davanti con addosso una tuta sportiva di marca,
scarpe da tennis di marca, marsupio di marca, perfino la fascetta
di spugna che le stringeva la fronte era di marca. Piombò in sog-
giorno ridendo, girando attorno attorno di buon passo, hop hop,
dicendo che non voleva perdere il ritmo del suo footing serale.
Quando mi vide esclamò: “Allamdulillah, ti conosco finalmente,
Fauzìah mi ha parlato di te per anni! Come stai buon giorno
bello elegante mi piace va bene quanto costa arrivederci” Mi
volle sciorinare subito il suo frasario di italiano che, come mi
spiegò, aveva imparato dai numerosi fornitori italiani che fre-
quentano il suo studio e che, pur esprimendosi naturalmente in
inglese, ogni tanto, su sua richiesta, le insegnano qualche parola
di italiano. Fairùz è una vera amante dell’Italia: per il suo lavoro
deve scegliere le suppellettili più adatte per ogni casa che arreda
e, a suo dire, nessuno sa armonizzare linee e colori come gli Ita-
liani. Mi fece molto piacere questo suo entusiasmo e le racco-
mandai di venire presto di persona a respirare quest’armonia
specialmente in Toscana ed in Umbria, che lei conosce di fama
per aver studiato arte all’Università di Damasco. Sempre con
quel suo piglio superattivo, si precipitò in camera della sorella
per fare la preghiera della sera (NOTA 12): “Adesso che il fisi-
co è a posto, metto a posto lo spirito”, mi disse ridendo, mentre
la madre scrollava il capo guardando questa figlia così super-
moderna, come mi disse.
Dopo una mezz’oretta arrivò anche la seconda sorella: Fadìlah,
una signora pacata, di circa quarant’anni, vestita come la madre
alla musulmana in modo rigoroso, ma meno sontuosamente.
Anche lei fu felice di conoscermi, e, rivolgendosi a Fauzìah
disse che ero proprio magra come pensava, “Avrà la taglia
extra extra small” disse ridendo. Capii dopo il perché di questo
suo interesse alle taglie; infatti da un anno si è inventata una la-
voro: ha organizzato un piccolo laboratorio di sartoria specia-
lizzato in vestiti per donne musulmane che vogliano essere mo-
derne rispettando i canoni dettati dal Corano. Si è per così dire
specializzata soprattutto in vestiti per adolescenti: completi
pantalone dalle tinte allegre, con bottoni a forma di fiori o ani-
mali; jeans non troppo aderenti, ma sfrangiati all’ultima moda,
con giubbottini uguali; gonne lunghe dai colori sgargianti o con
dei disegni di alberi o paesaggi, motivi ripresi in qualche parti-
colare anche sulle camicette o le giacche da abbinare. Sausan e
Nagiàt sono le sue modelle preferite: avevo notato infatti che
l’armadio delle ragazzine è pieno di abiti molto allegri e fatti su
misura.
Ormai mi mancava di conoscere solo una sorella di Fauzìah e
chiesi se ci avrebbe raggiunto anche lei quella sera. Vidi che la
madre si rattristò e mi spiegò che Ismahàn, la sorella mancante,
che è dentista, era partita la settimana prima per l’Australia, de-
siderosa di scoprire quel nuovo mondo.
La mamma mi spiegò che tutte quattro le sue figlie non mancano
di spirito avventuroso e sospirando disse: “Assomigliano al loro
padre, che non aveva paura di niente, ad ogni modo, schukran
lillah, Dio è con loro da qualsiasi parte del mondo si trovino”.

Alcune sere dopo, la madre di Fauzìah ci invitò a cena a casa


sua, una grande villa ad un piano, tutta circondata da alte mura
che proteggono l’ampio giardino dalla sabbia che, nelle giornate
di vento, si infila dappertutto. L’interno è molto signorile, con
grandi divani piuttosto sfarzosi e mobili bianchi, lucidi, con i
profili dorati.
Notai che anche qui, come in casa di Fauzìah non c’erano ritratti
alle pareti, in rispetto al divieto nell’Islam di esporre immagini
di esseri viventi (NOTA 6): sopra al divano del soggiorno face-
va bella mostra una grande veduta delle colline del Libano con
in primo piano un grande albero di cedro.
La tavola era così ben imbandita con tante di quelle prelibate
pietanze già in bella mostra, che come al solito quando vedo
troppe “cibarie”, mi sentii venir male, pensando a come avrei
fatto ad assaggiare tutto, vista la mia inguaribile inappetenza.
Mio cognato mi venne in aiuto dicendo che avrebbe mangiato
per due…e dunque mi sedetti a tavola rincuorata.
Fadìlah era già arrivata con il marito ed il figlio, un ragazzino di
dieci anni: sfoggiava un completo pantalone fatto da lei, di un
bel colore prugna, per il quale le feci i miei complimenti. Fairùz
arrivò con mezz’ora di ritardo, come al solito, sottolineò la ma-
dre: era molto elegante, con una gonna stretta nera, non molto
corta ed una giacca di pelle verde scuro indossata su una cami-
cetta bianca con un gran collo. Naturalmente prima di venire a
tavola si assentò per la preghiera e poi arrivò dicendo rivolta a
me: “Scusi ciao buena sera segnora bella” “Buona sera signo-
rina bella” risposi sottolineando bene le vocali e cominciammo
a mangiare.
Non sto a dire la bontà di quella cena, chi conosce la cucina si-
ro-libanese mi capirà di certo. Alla fine, volendo esprimere i
miei complimenti alla gentile ospite, che si era davvero data
tanto da fare per me, le dissi abbracciandola: “Tabachna
giaies!”. Vidi che tutti mi guardarono un po’ imbarazzati, finchè
mio cognato non sbottò a ridere, in quanto si rese conto dell’e-
quivoco in cui ero caduta: loro in famiglia usano quest’espres-
sione che vuol dire “la nostra cuoca buona a niente” per pren-
dere affettuosamente in giro o la madre o una delle sorelle che
cucinano ed io, avendola sempre udita, credevo invece volesse
dire “La nostra cuoca eccellente”. Per merito di questo sbaglio,
vidi per la prima volta la madre di Fauzìah ridere proprio di gu-
sto e quando la sento al telefono non dice sono Zainab, dice
sono “Tabachna giaies”.
Da un anno mi collego via computer con Abd el Karim e Fau-
zìah alcune volte durante la settimana, così possiamo chiacchie-
rare abbastanza a lungo, perciò quando ci salutammo all’aero-
porto dissi a Fauzìah: “Ci sentiamo di certo via msn messenger
Venerdì prossimo esattamente alle 7.30 di sera” ”Inschallah”
mi rispose ridendo, mentre già si chiudevano dietro a me le
porte scorrevoli.
Bruxelles
Hind IRACHENA Amal Leen le due figlie

Alcuni anni fa in Agosto andammo a trovare un fratello di mio


marito che è medico in Belgio, vicino a Bruxelles. Come al soli-
to la riunione aveva richiamato parecchi dei familiari ed io ero
proprio felice che quest’anno toccasse ad una delle mie cognate
e non a me la pesante ospitalità. Spesso di sera venivano a tro-
varci degli amici arabi e così conobbi una coppia di Iracheni,
che vivono da parecchio in Europa, con due figlie. La signora si
chiama Hind e nell’aspetto esteriore è molto moderna, appassio-
nata di nuoto e di ogni sport come dimostra la sua figura atleti-
ca; anche le figlie seguono l’esempio materno e tutte e tre com-
parivano il più delle volte in tenuta sportivissima. Il marito, an-
che lui medico come mio cognato, è invece di aspetto gracile,
sempre premurosissimo con tutti, ma specialmente con le sue tre
donne, che adora letteralmente.
Hind insegna matematica e mi sembrava che non scendesse mai
dalla cattedra, nel senso che la sua razionalità nell’affrontare
qualsiasi problema era quasi pedante: trasformava tutto in un’e-
quazione. Per fortuna è venuta alcune volte in Italia proprio vici-
no a Padova, ad Abano Terme, per le cure con i fanghi, perciò
con me parlava più che altro di Venezia, delle serate all’Arena
di Verona, insomma di cose non troppo impegnative e che non
potessero dar adito a discussioni. Una sera non so a che propo-
sito le dissi: ”Sai, io sono come te, una religiosa un po’ super-
ficiale: credo in Dio, ma non approfondisco troppo la ricerca e
la pratica religiosa” . Mi guardò molto seria e mi sembrò offe-
sa. “Da cosa deduci che non sono religiosa?” mi chiese con
quei suoi occhi gelidi. Capii che mi ero infilata in una via lunga
e noiosa … infatti cominciò a spiegarmi punto per punto come
ottemperava a tutti i comandi del suo essere musulmana (NO-
TA 4). Un’altra persona mi avrebbe raccontato tutto ciò in modo
interessante, ma la sua pedanteria rendeva il discorso di una noia
mortale. Cercai di pensare ad altro, annuendo di tanto in tanto.
La mia attenzione fu però risvegliata quando mi disse: ”Da
quanto poco religiosa sono” (sottolineando per l’ennesima volta
la mia infelice espressione ) “sono appena tornata dal pellegri-
naggio alla Mecca”. La cosa mi incuriosì, in quanto non ho mai
conosciuto nessun “hagi” (NOTA 4) e le chiesi di raccontarmi
come si svolse questo suo viaggio. Trovò da ridire sul termine
“viaggio”: “Per prima cosa ti prego di non chiamarlo viaggio”
puntualizzò “si tratta di un pellegrinaggio, nel senso che fin da
quando parti da casa l’intenzione è quella di ottemperare a uno
dei cinque precetti religiosi (NOTA 4), non di andare in viag-
gio”.
Mi ripromisi di non dire più una parola, visto il carattere così
puntiglioso di Hind e così mi godetti la descrizione davvero in-
teressante senza più interrompere.
Era partita con il marito esattamente una settimana prima della
“grande festa” (NOTA 15), in modo da trovarsi alla Mecca nel
periodo giusto per compiere non una semplice visita , ma il vero
hag, il vero pellegrinaggio che qualsiasi musulmano avrebbe
l’obbligo di compiere almeno una volta nella vita, se ne ha i
mezzi, e dopo il quale è definito “hagi”.
Hind mi fece notare che spesso si vedono nei paesi musulmani
sulla facciata delle case delle pitture che rappresentano un sus-
seguirsi di scene di viaggio, sulle quali campeggia la scritta
Hagi: significa che chi vi abita ha compiuto il pellegrinaggio al-
la Mecca e attraverso questi disegni che ne illustrano le varie
tappe lo rende noto a chi passa.

Hind, una volta arrivata alla Mecca, si separò dal marito, andan-
do a vivere con le altre pellegrine provenienti da tutte le parti del
mondo nelle strutture apprestate per l’occasione, iniziando il pe-
riodo di ihram, uno stato di purificazione interiore manifestato
anche esteriormente indossando dei teli bianchi, unico capo di
abbigliamento permesso.
I riti della cerimonia durano 7 giorni ed iniziano nella moschea
della Mecca (NOTA 14) con la preghiera del mezzogiorno.
Il secondo giorno i pellegrini si avviano verso la pianura di Ara-
fa, fermandosi a Minà per una sosta e la recita della preghiera
del mezzogiorno; il terzo giorno, ad Arafa, si compie il rito cul-
minante del pellegrinaggio: i fedeli si ammassano dal primo po-
meriggio fino al tramonto del sole in una grande pianura ai piedi
del cosiddetto Monte della Misericordia, vestiti nei bianchi teli
uguali per tutti, senza distinzione alcuna, e si rivolgono a Dio
con l’wuquf (eccoci a te o Dio). Appena tramontato il sole i pel-
legrini si avviano verso un’altra località dove la mattina dopo,
prima dell’alba del quarto giorno, si invoca ancora Dio, affret-
tandosi nuovamente verso Minà, dove si deve arrivare prima del
sorgere del sole: questo è il Giorno del Sacrificio (NOTA 15), e
qui a Minà si compiono particolari riti, che Hind mi descrisse
dettagliatamente, ma a me è rimasto impresso, avendolo anche
visto in un documentario, quello del lancio di sette sassi verso
un gran mucchio di pietre ammassate, mentre si invoca il nome
di Dio, come se il lancio avesse come bersaglio il malefico pote-
re del diavolo.
Il pellegrinaggio si conclude con il ritorno alla Mecca, compien-
do un giro attorno alla Kaàbah (NOTA 14).
I tre giorni successivi sono lasciati ad una meditazione meno
compulsiva e rilassata.

Fui grata ad Hind per la chiarezza davvero matematica con cui


mi descrisse il pellegrinaggio; lei convenne con il marito che la
stanchezza massacrante insita in questo rito collettivo può essere
superata solo se si è sorretti dall’entusiasmo della fede, in quan-
to, ripensando a quei giorni così pieni di emozioni, a quella con-
vivenza forzata con persone tanto diverse, a quello sforzo fisico
di andare di corsa da un posto all’altro, si rendevano conto loro
stessi che solo uno stato di grazia può permettere di affrontare e
superare questa prova.

“Certo che tu, con tutto il tuo footing quotidiano” dissi io un


po’ maligna “eri già ben allenata. Di certo io non ho né il fisi-
co, né la fede per una simile impresa”. “Tu non sei musulma-
na” mi rispose raggelante Hind “e dunque non porti nemmeno
il problema di superare l”impresa” “e sottolineò il termine im-
presa con acredine “in quanto la zona del pellegrinaggio è seve-
ramente interdetta ai non islamici”.
Per fortuna Amal, la maggiore delle due figlie, ha ereditato dalla
madre solo il fisico atletico, non il carattere scorbutico e alla mia
obiezione sul fatto che questa interdizione mi sembrava segno di
chiusura mentale verso i non musulmani, intervenne lei con un
tono più gentile, dandomi una spiegazione che trovai logica.
Detta in soldoni: sarebbe come se un non cristiano si accostasse
alla comunione, in quanto non solo il pellegrinaggio, ma anche i
luoghi sono parte del rito sacro.
Intervenne anche Leen, l’altra figlia, che spiritosamente conclu-
se: “Domani mattina vieni anche tu con noi tre a fare una bella
corsa, quella è aperta a tutti per fortuna!”.

fine
NOTE
NOTA 1
Islam (dal verbo arabo aslama: sottomettersi)

E’ una delle tre religioni monoteistiche, assieme all’ebraismo


ed al cristianesimo, con cui ha in comune:

- la dottrina di un creatore unico che regola l’intero universo;


- l’attesa alla fine della vita terrena di un giudizio universale
con un inferno ed un paradiso;
- il manifestarsi di questo unico creatore attraverso una
rivelazione.

Per il Musulmano (da muslim: colui che si sottomette alla vo-


lontà di Allah (Dio)) l’Islam non ha una data di inizio, è eterno
(surah II VERSETTO 128, 132; surah III VERS.19, 52, 67, 83, 85….)

Dio (Allah) esiste, è onnipresente, onnipotente, unico.


Negare la sua unicità è l’unico peccato che Dio non perdona
(surah IV VERSETTO 48,116)

Dio ha creato l’uomo e gli esseri invisibili (in arabo ginn) solo
per essere adorato da loro e dunque il tempo speso dal fedele
nella preghiera è il più gradito a Dio.

NOTA 2

profeti dell'islam : uomini prescelti da Dio per far cono-


scere le sue leggi. Alcuni di loro sono Noè, Sbramo, Mosè, Ge-
sù e ultimo Maometto, “sigillo dei profeti”.
NOTA 3

Maometto Mohammad Profeta dell’Islam

Nel 612d.c, quando era alla Mecca, all’età di circa 40anni, rice-
vette da Dio, tramite l’arcangelo Gabriele e durante un periodo
di 20 anni, la rivelazione del Corano, che fu trascritta da scriva-
ni testimoni, in quanto Maometto non sapeva né leggere né
scrivere.

Nel 622 si trasferisce dalla Mecca alla Medina, due città dell’o-
dierna Arabia Saudita; l’avvenimento è noto con il termine di
Egira (dal verbo arabo hagiara migrare) e segna l’anno 1 per il
conteggio del calendario musulmano.
Sulla base di questo conteggio ora siamo nel 1422.

NOTA 4

5 cardini dell’Islam

1 Dio è unico e Maometto è il suo profeta

2 Unico destinatario della preghiera è Dio

3 La zakàt (carità) che si deve fare annualmente è un


comando religioso
NOTA 5

6 precetti della fede islamica

Credere:

1 nell’unicità di Dio

2 negli angeli

3 nei libri sacri

4 nei profeti

5 nell’al di là

6 nel destino, nel bene e nel male

NOTA 6

Corano

“il Libro” sacro dei musulmani, rivelato a Maometto da Dio nel-


l’arco di 20anni per tramite dell’arcangelo Gabriele, trascritto da
scrivani testimoni su ossa piatte, foglie di palma ecc.

Per il credente “Il Libro” è il più grande miracolo divino e regola i


rapporti uomo-Dio e uomo-uomo in ogni tempo ed in ogni luo-
go (surah IV VERSETTO 81…).

Strutturalmente è costituito da 6.236 versetti, detti àiah (mira-


colo), divisi in 114 capitoli (suàr) scritti in prosa rimata.
La surah si chiama “makkiah” se i versetti che la compongono
sono stati rivelati alla Mecca, “madaniah” se a Medina.
Qualche surah è mista.
Ogni surah prende il nome da un vocabolo o una parola che la
caratterizza. (per.es: surah al fatihah: sura di apertura, surah di
Miriam….)

La lingua del Corano è l’arabo classico, considerata ancora


come il modello di riferimento più alto: è il primo grande libro
della letteratura musulmana.
Per il fedele islamico è obbligatorio l’uso della lingua araba an-
che per la preghiera.
L’ortodossia islamica proibirebbe la traduzione del Corano in
lingue straniere, considerando l’unica lingua possibile l’arabo, la
lingua sacra del paradiso. Dio stesso promette di salvaguardare
l’integrità del Corano fino alla fine dei tempi (surah XV VERSETTO
9).
La prima traduzione europea risale al 1150 circa.I più antichi
esemplari del Corano si presentano in lunghe strisce di papiro o
pergamena arrotolate, poi, verso il X sec. fu adottata la forma di
libro.Il divieto nell’Islam di riprodurre la figura umana ha fatto sì
che si usasse la lingua araba come elemento decorativo, svi-
luppandone tutte le potenzialità grafiche, insite nella sua struttu-
ra molto dinamica, cosicchè sia i testi sacri che le Moschee so-
no riccamente e sontuosamente ricoperte delle scritte arabe
riproducenti versetti del Corano.

La capacità di ogni lettera araba di stendersi in ogni direzione,


sia verticale, che orizzontale, all’infinito, è vista come un sim-
bolo dell’infinita grandezza di Dio, perciò esiste un aspetto re-
ligioso nella grafica araba.
Le stesse elaborate decorazioni sono state usate come motivo
ornamentale di tutta l’arte islamica, sia religiosa che laica.

La preziosità e l’armonia di questa grafica decorativa ha fatto sì


che venisse ripresa, probabilmente senza conoscerne il mes-
saggio religioso, da scuole pittoriche occidentali, come il Gotico
Internazionale (“L’Adorazione de Magi” GENTILE DA FABRIANO
1370 1427 FIRENZE-UFFIZI).

NOTA 7

sunnah l’insieme delle leggi divine:

1 sunnatu allah: le leggi racchiuse nel Corano, che costituisco-


no i fondamenti intoccabili della fede islamica;

2 sunnatu rrasul: sono gli hadith, leggi di comportamento tratte


dagli scritti riguardanti la vita del profeta Maometto, raccolte in
molti volumi da studiosi islamici; il profeta è infatti un esem-
pio per tutti i fedeli da seguire come modello di vita.

La sunnatu rrasul non può essere in contrasto con la sunnatu


allah

NOTA 8

sharìah l’insieme delle leggi formulate e raccolte con un ap-


profondito e lungo lavoro di interpretazione dagli studiosi islami-
ci sulla base dello studio della sunnatu allah e della sunnatu
rrasul.

I primi dotti giureconsulti islamici furono contemporanei al Pro-


feta, convissero con lui, vedendolo agire e dunque si valsero
nell’interpretazione dell’osservazione concreta del modo di
comportarsi del Profeta davanti ai fatti concreti della sua vita.

Le generazioni immediatamente successive continuarono que-


sta analisi, tenendo conto che la vera e propria stesura della
sharìah è avvenuta per i sunniti solo fino al X secolo, dopo di
che il lavoro dei giureconsulti islamici (detti mufti, ulema, mullà
ecc) è più che altro di interpretazione e di adattamento alla
sharìah già codificata ai casi pratici della vita sia dell’individuo
singolo, che della comunità islamica.

Ogni governo musulmano istituisce dei muftì ufficiali, a cui ven-


gono sottoposti i casi pratici da esaminare e da giudicare in ba-
se alla sharìah, giudizio che si conclude con la proclamazione
di un parere giuridico (detto fatuà)

Questo grande insieme di regole morali giuridiche dettagliatissi-


me, codificate da generazioni di giuristi, fa sì che la legge cora-
ranica regoli direttamente non solo la vita religiosa, ma anche la
vita socio-politica del credente e della comunità.

NOTA 9

sunniti nell’Islam esistono due grandi suddivisioni : sunniti,


sciiti.

Sono sunniti circa il 90% dei musulmani.


Per i sunniti (da “sunnah“v.sopra) l’autorità suprema a cui far
riferimento e da cui trarre insegnamenti in materia religiosa è la
sunnatu allah e la sunnatu rrasul

Capo della comunità è l’imàm, detto anche califfo; ha la funzio-


ne di esecutore della legge coranica, non ha una autorità legi-
slativa, ha solo il compito di organizzare la vita sociale e religio-
sa della comunità musulmana in base alla sharìah (v.sopra).

Si dice imam anche chi dirige la preghiera comunitaria.


Chiunque può essere imam in questo senso, ma in pratica ogni
Moschea ha dei dipendenti che svolgono a turno questa funzio-
ne.
NOTA 10

sciiti (da “sci ‘a” fazione): anche per gli sciiti come per i sunni-
ti l’autorità suprema in materia religiosa è la sunnatu allah e la
sunnatu rrasul e dunque non ci sono differenze sostanziali nei
principi fondamentali della fede.

A differenza dei sunniti che non riconoscono nessun erede di


Maometto nella sua funzione dottrinaria, ritengono che il Pro-
feta alla sua morte abbia designato come successore, non solo
come capo materiale della comunità ed esecutore pratico della
sua legge, ma anche religioso-spirituale, suo cugino Ali, marito
della figlia Fatima.

Da Ali la successione si evolve fino ad un dodicesimo imam,


che scompare nell’874: è l’imam nascosto, che apparirà alla
fine dei tempi.

NOTA 11

moschea masgid (dal verbo arabo sagiada : prostrarsi)

E’ il luogo in cui si riunisce la comunità musulmana, non solo


per pregare, ma anche per stare assieme.
Viene detta infatti anche giamea, dal verbo arabo giamaa (riu-
nire).

Può essere adibito a moschea qualsiasi spazio, anche se di


solito le moschee si presentano come costruzioni più o meno
maestose, accanto alle quali si erge una specie di torre - cam-
panile, il minareto (manara: faro), dal quale il muadhin (o
muezzin) richiama dall’alto i fedeli esortandoli alla preghiera 5
volte al giorno.

All’interno della moschea il mihrab, una nicchia preziosamente


istoriata, spesso con fregi dorati, che riproducono scritte dei
versetti del Corano, segnala la direzione della Mecca, verso la
quale deve rivolgersi il fedele pregando.

NOTA 12

Preghiera musulmana
Si svolge in 5 momenti del giorno: l’alba, il mezzogiorno, il po-
meriggio, il tramonto, la sera

A propria discrezione il fedele può aggiungere delle preghiere,


secondo la sua esigenza: quelle notturne sono particolarmente
gradite a Dio.

Prima di ogni preghiera il fedele deve porsi in stato di purezza


fisica, con abluzioni che seguono un rituale ben preciso.
Deve poi rivolgersi in direzione della Mecca (NOTA) ed espri-
mere l’intenzione di cominciare la preghiera.

Si inizia la preghiera vera e propria con la frase:


Allahu akbar (Dio è il più grande), seguita dalla prima surah del
Corano e da altre allocuzioni coraniche, inframmezzate sempre
dalla invocazione Allahu akbar. (Dio è il più grande)

La preghiera può essere fatta da soli oppure nella Moschea


assieme alla comunità dei fedeli, dove è preferibile farla di ve-
nerdì, giorno di festa per il musulmani, quando la preghiera è
diretta dall’imam, che nell’occasione pronuncia un discorso
inerente a temi religiosi ed esortazioni ad un comportamento
consono alla fede
NOTA 13

ramadan
E' il mese dedicato al digiuno, durante il quale ogni giorno
dall’alba al tramonto il musulmano si astiene da cibo, bevanda,
contatto sessuale.
Dato che il computo del calendario musulmano è basato sul
mese lunare, il ramadan inizia al tramonto del sole, quando
compare in cielo la falce della luna nuova. Non è facile questa
osservazione e spesso l’inizio del ramadan è diverso nelle varie
località, anche solo per la presenza delle nuvole che non per-
mettono ai testimoni oculari di vedere la luna.
Per il musulmano è un periodo molto intenso spiritualmente, de-
dicato alla meditazione ed alla preghiera e questo stato di gra-
zia predispone ad un atteggiamento di riflessione durante tutta
la giornata.
La rivelazione del Corano a Maometto iniziò in una notte detta
“del destino”(Lailatu’l qadr”), notte che cade negli ultimi dieci
giorni del ramadan. Durante questo periodo i musulmani ve-
gliano, scrutando il cielo alla scoperta di qualche segno che
riveli la sacralità di questa notte, quando si può chiedere a Dio
tutto ciò che si vuole, certi di essere esauditi.

Sono esclusi dall’obbligo del ramadan i minorenni, gli incapaci


di intendere e volere, le donne mestruate, in gravidanza e du-
rante l’allattamento, i malati, gli anziani.
Chi è impossibilitato per motivi contingenti ad ottemperare al-
l’obbligo, può recuperare i giorni persi o elargire un’elemosina
ai poveri.Alla fine della giornata di solito un’atmosfera di festa
aleggia sia nelle case che fuori: i cibi sono più curati e gustosi e
si esce fino a notte inoltrata.La fine del mese è salutata con “la
piccola festa” (aìd ‘lfìtr): tutti si recano da amici e parenti per lo
scambio degli auguri, tra pranzi ed allegria. Ai bambini, vestiti di
nuovo, di solito si danno mancette sostanziose per l’acquisto di
dolcetti e piccoli doni.
NOTA 14

Mecca
Città dell’Arabia Saudita, dove si trova la celebre moschea, al-
l’interno della quale si erge la Kaabah, edificio cubico, posto al
centro del cortile della moschea.

Nel lato orientale della Kaabah e è murata la pietra nera, che


potrebbe essere un meteorite; all’interno la costruzione è del
tutto vuota; mentre all’esterno è ricoperta da un velo nero, su
cui vengono poste delle scritte tratte dal Corano che ogni anno
vengono rinnovate.

La Kaabah è considerata il “centro fisico” dell’Islam e nella


sua direzione deve rivolgersi il fedele quando prega in qualsiasi
parte del mondo si trovi.
Questo fa sì che solo attorno alla KAABAH i fedeli musulmani
pregano anche uno di fronte all’altro, invece in tutto il resto del
mondo sono sempre posti uno accanto all’altro o uno dietro
l’altro.

NOTA 15

feste musulmane
1 aìd ‘lfìtr la piccola festa, alla fine del mese del Ramadan

2 aìd’lad-hà la grande festa, detta festa del sacrificio, cade nel


periodo del pellegrinaggi alla Mecca
NOTA 16

Calendario musulmano
L’anno 1 è nel 622dc, anno dell’Egira, quando Maometto migra
dalla Mecca a Medina.

Il computo della datazione non è fatto sulla base del mese sola-
re, come nel calendario gregoriano, ma sulla base del mese lu-
nare, che è più breve di quello solare e dunque l’anno musul-
mano è di 354 giorni.

Questo spiega perchè il mese del Ramadan e la Festa del pel-


lgrinaggio si spostino ogni anno, rispetto alla datazione basata
sul mese solare.

Per la datazione musulmana siamo nel 1422.

NOTA 17

espressioni religiose musulmane

- bismillah nel nome di Dio

- allhamdu lillah sia gloria a Dio

- schukran lillah grazie a Dio

- allahu akbar Dio è il più


grande

- Curan el karim Il Corano


generoso

- iallah iallah forza, forza, in


nome di Dio!

NOTA 18

saluti religiosi musulmani


- assalàmu aalàikum la pace sia con voi

- ua alèikum ‘ssalam risposta al saluto precedente

NOTA 19

Rosario misbahah, subhah


è una corona di 33 palline, spesso di materiale prezioso, che
serve per recitare i 99 attributi di Dio, sgranando le sferette per
tre volte con le dita.

NOTA 20

Cibi proibiti nell’alimentazione di un musulmano

- carne di maiale sempre


- alcool non solo nelle bevande, ma anche se presente anche
in minima parte negli alimenti
- carne di qualsiasi animale non sgozzato
NOTA 21

gente del libro: per il Corano sono gli ebrei ed i cristiani

NOTA 22

matrimonio musulmano

Per l’Islam è prevista la possibilità che un musulmano sposi un


appartenente alla “gente del libro” (ebrea o cristiana); questo
non è possibile per la donna musulmana.

E’ un contratto vero e proprio, che viene stipulato davanti a


due testimoni tra il futuro marito e il rappresentante legale della
futura moglie, previo il consenso di quest’ultima.
Spesso si richiede la presenza di un giudice civile.

L’uomo può sposare quattro mogli. Quest’uso è molto raro: la


prima moglie deve dare il consenso per il secondo matrimonio e
così via; inoltre le mogli devono essere trattate in modo perfet-
tamente uguale anche dal punto di vista economico.

Nel contratto di matrimonio è previsto che il marito disponga u-


na dote in favore della moglie: essa è descritta molto dettaglia-
tamente per iscritto nel contratto di matrimonio e può consistere
in una somma di denaro, altri beni mobili, molto spesso gioielli.
L’entità della dote deve essere concordata dalle famiglie degli
sposi prima della celebrazione delle nozze. Può essere consi-
derata una specie di garanzia economica per il futuro, in quanto
la moglie, nel caso di morte del coniuge, da un punto di vista
ereditario è poco tutelata, specialmente se non ha figli maschi e
dunque si cautela con questo versamento anticipato, che rima-
ne sempre di sua proprietà.
C’è da dire che ancora adesso gli uomini della famiglia d’origine
sono obbligati, nel caso una donna rimanga vedova o divorzi o
venga ripudiata, a provvedere al suo mantenimento, per cui, in
teoria, le donne musulmane hanno per tutta la vita chi deve
prendersi cura di loro.

Per quanto riguarda il rapporto tra i coniugi durante il matri-


monio, per il Corano la donna deve trattare il marito con la gen-
tilezza che lui usa con lei, considerando però l’uomo sempre
“un gradino più in alto”.

Scioglimento del matrimonio:

-per morte di uno dei coniugi

-per divorzio

-pagamento di una somma di denaro al marito, una specie di


riscatto da parte della moglie, per annullare il vincolo
matrimoniale

-ripudio della moglie da parte del marito

-dichiarazione di nullità da parte di un giudice

NOTA 23

la donna nell’Islam

La società pre-islamica era profondamente antifemminista e


dunque l’Islam ha avuto una funzione positiva, al suo nascere,
sulla condizione della donna, anche per l’esempio del profeta
Maometto che nella sua vita ha sempre espresso molto rispetto
ed ammirazione verso le donne e la loro saggezza.
Nel Corano (surah IV VERSETTO 36) si legge: “agli uomini sarà
data una porzione adeguata ai loro meriti ed anche alle donne
sarà data una porzione adeguata ai loro meriti…”, e (sura II):
“….che le donne si comportino con i loro mariti come questi si
comportano con loro, però devono considerali su un gradino
superiore….”

Una delle donne più celebrate nel Corano è Miryam (Maria,


madre di Gesù), che Dio ha “prescelto e resa pura” ( sura III
VERSETTO 37); i Giudei che non credono nella sua verginità (sura
IV VERSETTO 155) vengono per questo criticati duramente. La ca-
ratteristica di Miryam più ammirata dal punto di vista islamico è
la sua fiduciosa e totale sottomissione alla volontà di Dio, che è,
per il musulmano, l’essenza stessa della fede. La tradizione
vuole che abbia partorito sotto una albero di datteri, frutto che
viene in memoria di ciò dato alle partorienti come primo ali-
mento dopo le fatiche del parto.

Altre figure di grande rilevanza anche simboliche sono le mogli


di Maometto, definite tutte “madri dei credenti”.Una posizione
di rilievo viene data a Kadigiah : la prima moglie, una vedova,
commerciante molto ricca, che aiutò Maometto anche economi-
camente, oltre che moralmente, essendo dotata di un carattere
forte e volitivo. Fu accanto al profeta con coraggio, sostenendo-
lo nei primi momenti della sua missione, con un ruolo di grande
importanza.

Per quanto riguarda la posizione della donna nell'Islam, il


fatto che esso sia esteso in una vastissima area, che compren-
de zone di così diversa formazione storico-culturale, si riflette
anche nel modo in cui la donna musulmana vive la sua religio-
sità.
Un esempio è il modo di vestire in pubblico: per il Corano la
donna può mostrare solo il viso, le mani ed i piedi; tutte le altre
elaborate vesti con cui nei vari paesi islamici si presenta la don-
na musulmana sono residui di usi locali, specialmente l’abitu-
dine di coprire il volto, entrato nell’Islam per influenze cristiano-
occidentali.

Di solito il ruolo della donna nella società musulmana è mol-


to valutato all’interno del nucleo familiare, in cui è l’autorità su-
prema per tutte quelle decisioni che concernono la vita della fa-
miglia, dall’educare i figli, che dipendono completamente dalla
madre, al regolare tutti quei complicati rapporti di parentela che
le donne sanno gestire con fine arte diplomatica.
Il concetto di famiglia è molto allargato e si estende ai gradi più
lontani della parentela.

La struttura della famiglia dal punto di vista del potere autorita-


rio è a piramide: a capo il padre e la madre, poi i figli maschi dal
maggiore al minore, infine le sorelle dalla maggiore alla minore.
Con il matrimonio la donna entra a far parte della famiglia del
marito occupandone la sua stessa posizione gerarchica; il ri-
spetto formale di questa usanza acquista molta importanza nei
rapporti familiari e può avere anche dei risvolti economici molto
importanti: di solito la gerarchia è accettata con tacito accordo e
in certe famiglie è ancora abbastanza presente.
Finchè dura il matrimonio, la donna mantiene all’interno della
famiglia acquisita, il diritto di essere protetta affettivamente e
mantenuta economicamente dai familiari maschi; una volta che
il vincolo matrimoniale si spezza quest’obbligo di protezione ri-
torna alla famiglia di origine, nel cui nucleo la donna può torna-
re sicura di trovare rifugio e mantenimento economico.

Per quanto riguarda la attuale partecipazione della donna


musulmana alla vita sociale, In linea di massima “nulla osta”
da un punto di vista strettamente religioso, più che altro essa
dipende da vari fattori: geopolitici, familiari, culturali ed econo-
mici, perciò è difficile dare un giudizio generalizzato.
NOTA 24

saluti arabi più frequenti


- marhaban ciao
- sabbah’l cheir buon giorno
- masà’l cheir buona sera
- tisbah ala cheir buona notte
- ila’lliqa’ arrivederci

NOTA 25

piatti tipici arabi


- hòmmos salsa che accompagna molte pietanze, costituita
da ceci lessati macinati,aglio, olio, prezzemolo e tahina
(salsa di sesamo)

- maqlubah pasticcio di melanzane, riso, pinoli, carne maci-


nata. Significa letteralmente “rovesciata”, in quanto si serve
capovolto

- lahm bi seniah piatto di carne macinata, cotta in forno con


sugo di pomodoro, peperoni, cipolle, patate, peperoncino

- lahm bi agìn sono pizzette con carne macinata, origano,


cipolla

- schòrba bi àdes passato di lenticchie servito con cipolla


tagliata fine e fritta a parte

- kubbah polpette di grano tritato (bur-rhol) ripiene di carne


macinata, pinoli, cipolle
- tabbulah insalata mista con gli ingredienti tritati finemente,
mischiati al bur-rhol e condita con olio, limone abbondante

- bàtersch melanzane arrostite in forno, servite con sopra un


sugo fatto di aglio, sugo di pomodoro, yogourt e carne
macinata

NOTA 26

nomi arabi
Spesso non solo in famiglia, ma anche nella cerchia delle
conoscenze, una persona viene chiamata facendo riferimento
al nome del primogenito maschio: Abu Ali significa padre di Ali;
Um Ali : madre di Ali.
Il primogenito a sua volta si chiama Abu seguito dal nome del
padre, che sarà dato al primo figlio maschio che lui stesso
avràTornando all’esempio precedente, se il padre di Ali si
chiama Rhias, Ali si chiamerà Abu Rhias, e suo figlio si
chiamerà nuovamente Abu Ali come il nonno.Tutti i nomi
maschili che iniziano con “abd ul” significano “servo di..”
seguito da un aggettivo che si riferisce a Dio: es.: abd ul Karim:
servo del Generoso, abd ul Aziz: servo del GloriosoA proposito
dei nomi arabi, la traslitterazione delle lettere arabe nei caratteri
dell’alfabeto latino crea molti problemi.

Finora la trascrizione è stata lasciata per lo più alla iniziativa del


singolo e dipende molto dalla lingua europea maggiormente in
uso nel Paese di origine o dalla lingua del nuovo Paese di
residenza, per cui, per fare un esempio, un nome arabo
trascritto in Italia: Gihad, in Inghilterra potrebbe essere
trascritto: Jehad, in Francia: Jihad.

Questo vale per qualsiasi persona proveniente da Paesi di


lingua araba (o in cui si usa la scrittura araba) non solo per i
musulmani, perché se di un cristiano si può tradurre in caratteri
latini il nome di battesimo, resta però sempre il problema per il
cognome, perché è un problema di trascrizione non di
traduzione, in quanto l’alfabeto arabo è naturalmente
completamente diverso dall’alfabeto in caratteri latini e dunque
si pone la necessità di un codice grafico che preveda per ogni
lettera araba una lettera latina e, cosa questa di importanza
fondamentale, che questa chiave di lettura sia la stessa a livello
internazionale.

NOTA 27

alcuni nomi femminili musulmani

Hana felicità Nur luce


Nuha saggezza Yasmine gelsomino
Huda illuminata Fauziah vittoriosa
Suher alba Sausan fiore profumato
Rhada bella Nagiàt salvezza
Aminah tranquilla Zainab albero verde
Ilham ispirazione Fairuz pietra preziosa
Salua spensierata Fadilah dono
Atidal moderatrice Ismahan dolcezza
Rimah lancia Hind attraente
Fatimah svezzata Amal speranza
Rubah bella collina Leen gentile
Nag-ua confidenza Fàten meravigliosa
Halimah paziente Giamìlah bella
Nadhìrah simile Salìmah sana
Schahìrah famosa Nadia essere lontana

NOTA 28

Kohol polvere nera ottenuta pestando finissimamente una


pietra nera che si trova in particolari zone desertiche e che si
stende all’interno della palpebra inferiore con effetti oltre che
estetici anche curativi

NOTA 29

Civiltà Assira civiltà antichissima della parte settentrionale


della Me-sopotamia. Assieme a quella babilonese fu erede
della cultura
degli Accadi, così da abbracciare in un’unica denominazione
(assiro-babilonese) tutta la civiltà sviluppatasi nella Mesopota-
mia dalla metà del III millennio fino alla conquista persiana del
539ac.
Esistono ancora delle piccole colonie di discendenti di tale sto-
rica civiltà, fieri delle antiche origini.

NOTA 30

Lingua curda lingua iranica del gruppo nord occidentale,


parlata dalla popolazione curda. E’ divisa in molti dialetti e ser-
ve come mezzo di espressione ad una letteratura orale, accan-
to alla quale esiste anche una letteratura scritta, in caratteri a-
rabi o latini, come per la lingua turca.
Indice

- Padova Hana, Huda e Nuha, giordane


Venezia Suher e Rhada, egiziane pag 4
- Padova Um Ali e Um Kamal, siriane
Barcellona Ilham, siriana pag 22
- Padova Salua curda irachena, Atidal giordana,
Rimah iraniana, Sonia Fatima italiana, Rubah
libanese pag 50
- Kuwait City - Strasburgo Fatimah giordana,
Nur e Yasmine siriane assire pag 65
- Beirut Giamilah e Nadia libanesi pag 69
- Abu Dhabi (Emirati arabi) Fauziah, Sausan,
Nagiat, Zainab, Fairùz, Fadilah, Ismahan,
palestinesi libanesi pag 72
- Bruxelles Hind, Amal e Leen irachene pag 85
- Note
1 Islam pag 92
2 Profeti dell’Islam pag 92
3 Maometto – Mohammad pag 93
4 I 5 cardini dell’Islam pag 93
5 I 6 precetti della fede islamica pag 94
6 Corano pag 94
7 Sunnah pag 96
8 Scharìah pag 96
9 Sunniti pag 97
10 Sciiti pag 98
11 Moschea pag 98
12 Preghiera musulmana pag 99
13 Ramadan pag 100
14 Mecca pag 101
15 Feste musulmane pag 101
16 Calendario musulmano pag 102
17 Espressioni religiose musulmane pag 102
18 Saluti religiosi musulmani pag 103
19 Rosario Misbahah pag 103
20 Cibi proibiti per l’Islam pag 103
21 Gente del Libro pag 104
22 Matrimonio musulmano pag 104
23 La donna nell’Islam pag 105
24 Saluti arabi più frequenti pag 108
25 Piatti tipici arabi pag 108
26 Nomi arabi pag 109
27 Alcuni nomi femminili musulmani pag 110
28 Kohol pag 111
29 Civiltà assira pag 111
30 Lingua curda pag 111
ELENCO DELLE OPERE DELLO STESSO EDITORE

PARLIAMO L’ARABO – MANUALE DI VOCABOLI E


CONVERSAZIONITALIANO ARABO con 2 CD

PARLIAMO L’ARABO – GRAMMATICA con 6 CD

manuale e Grammatica sono connessi


metodologicamente

LE PAROLE DI ORIGINE ARABA NELLA LINGUA


ITALIANA

PARLIAMO IL CINESE con 2 CD

manuale di conversazioni italiano – cinese, cenni di grammatica


cinese, note culturali e di costume, dizionario italiano – cinese

PARLIAMO L’UNGHERESE con 2 CD

manuale di conversazioni italiano – ungherese, cenni di gram-


matica ungherese, note culturali e di costume, dizionario italiano
– ungherese, ungherese – italiano

IL SALE – il grande amico del nostro organismo

moderna analisi di saggezze della medicina islamica


ORIENTE – OCCIDENTE A TAVOLA INSIEME

7 cene salutari per amici: raccolta di ricette lette in una


audiocassetta

MUSSULMANE CHE HO CONOSCIUTO

trenta ritratti di donne mussulmane. In allegato trenta note -


cartelle di religione islamica

PADOVA è MOLTO A SUD DI TRENTO

riflessioni sul nord e il sud del mondo

CARO GIORGINO ... BACI, LA ZIA LILLI


Tenerezze in sfere d'acciaio

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