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Don DeLillo

Punto omega

Einaudi

Titolo originale Point Omega


Traduzione di Federica Aceto
2010 Don DeLillo
2010 e 2012 Giulio Einaudi editore
Collana: Supercoralli
1a edizione giugno 2010
ISBN 978-8806202590

Indice
Note di copertina.......................................................................................................5
Anonimato.................................................................................................................8
1...............................................................................................................................14
2...............................................................................................................................24
3...............................................................................................................................35
4...............................................................................................................................43
Anonimato 2............................................................................................................53
Ringraziamenti........................................................................................................61

Note di copertina
Una inquieta e misteriosa meditazione sul destino di ogni uomo.
In una casa isolata nel deserto due uomini discutono della natura del tempo e del
significato dell'agire umano nella storia. Discutono e aspettano.
Uno, Richard Elster, un anziano intellettuale per niente pentito dell'appoggio che
ha dato al governo nella guerra in Iraq, l'altro un giovane regista che vorrebbe girare
un documentario su di lui. L'improvvisa scomparsa della figlia di Elster li costringe a
interrompere discussioni e attese e a cercare altre risposte per altre domande: che cosa
capitato alla ragazza? Scelta, fatalit oppure orrendo crimine?
L'intensit della scrittura di DeLillo al servizio di una straordinaria riflessione
sull'enigma del tempo, il tempo in cui ogni momento perduto la vita, la nuda vita.

Don DeLillo nato nel 1936 nel Bronx da una famiglia di origine italiana. Nella
sua lunga carriera ha vinto il National BookAward, il PEN/Faulkner Award e il
Jerusalem Prize ed considerato il grande maestro della narrativa postmoderna
americana. Presso Einaudi ha pubblicato: Underworld, Libra, BodyArt, Valparaiso,
Cosmopolis, Mao Il, La stanza bianca, Giocatori, Running Dog, Rumore bianco,
Love-Lies-Bleeding, I nomi, L'uomo che cade, Americana, Contrappunto, Great
Jones Street, La stella di Ratner.

Questo libro un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti, sono


il frutto dell'immaginazione dell'autore o adoperati come tali.
Ogni riferimento a fatti, ambientazioni e persone, vive o morte, realmente esistiti
puramente casuale.

2006
FINE ESTATE / INIZIO AUTUNNO

Anonimato
3 settembre
C'era un uomo appoggiato alla parete nord, appena visibile. Le persone entravano a
coppie o in tre, stavano li al buio, guardavano lo schermo e se ne andavano.
A volte quasi non varcavano la soglia, alla spicciolata arrivavano gruppi pi
numerosi, turisti imbambolati, guardavano, spostavano il peso da una gamba all'altra
e poi se ne andavano.
Non c'erano posti per sedersi nella galleria. Lo schermo stava su senza supporti, tre
metri per quattro, non rialzato da terra, sistemato al centro della stanza. Era
semitrasparente e alcune persone, non molte, indugiavano nella sala e lentamente ci
giravano attorno per vederne il retro. Rimanevano qualche altro istante e poi se ne
andavano.
La galleria era fredda e illuminata solo dal debole riverbero grigio dello schermo.
All'altezza della parete nord il buio era quasi completo e l'uomo che stava li da solo si
port una mano verso la faccia, copiando lentissimamente il gesto di una figura sullo
schermo.
Quando la porta scorrevole della galleria si apriva per far entrare la gente, filtrava
uno sprazzo di luce dalla zona retrostante dove, a una certa distanza, altre persone
sfogliavano libri d'arte e cartoline.
Il film scorreva senza dialoghi n musica, nessuna colonna sonora. Il custode del
museo stava subito al di qua della soglia, e la gente che usciva a volte lo scrutava,
cercando di coglierne lo sguardo, un possibile cenno di mutua intesa che desse
conferma al loro sconcerto. C'erano altre gallerie, piani interi, non aveva senso
perdere tempo in una sala appartata dove quello che succedeva, qualsiasi cosa fosse,
ci metteva un'eternit a succedere.
L'uomo alla parete guardava le immagini e a un certo punto cominci a muoversi
lungo il muro adiacente verso l'altro lato dello schermo, in modo da poter osservare la
stessa scena rovesciata. Guard Anthony Perkins che allungava una mano, la destra,
verso la portiera di una macchina. Sapeva che Anthony Perkins avrebbe usato la
mano destra da questa parte dello schermo e la sinistra dall'altra. Lo sapeva ma aveva
bisogno di vederlo e si spost nel buio lungo la parete laterale allontanandosene poi
di qualche decina di centimetri per vedere Anthony Perkins dall'altra parte dello
schermo, il rovescio, Anthony Perkins che usava la mano sinistra, quella sbagliata,
per afferrare la maniglia di una portiera e aprirla.
Ma poteva definire sbagliata la mano sinistra? Perch in fondo cos'era che rendeva
questo lato dello schermo meno esatto dell'altro?
Il custode fu raggiunto da un altro custode, i due si scambiarono qualche parola
sottovoce mentre la porta automatica si apriva lasciando entrare delle persone, con
bambini, senza, e l'uomo torn al suo posto contro la parete, dove ora stava immobile,
a guardare Anthony Perkins che girava la testa.
Il minimo movimento della cinepresa rappresentava un cambiamento profondo in
termini di spazio e di tempo, ma la cinepresa in quell'istante era ferma. Anthony

Perkins che gira la testa. Erano come numeri interi. L'uomo poteva contare le
gradazioni nei movimenti della testa di Anthony Perkins. Anthony Perkins gira la
testa in una serie di cinque movimenti progressivi e non in un solo movimento
continuo. Erano come i mattoni di un muro, facili da contare, non come il volo di una
freccia o di un uccello. Anche se poi non era uguale a niente n diverso da niente. La
testa di Anthony Perkins che gira un istante dopo l'altro sul collo lungo e sottile.
Una simile percezione era possibile solo grazie alla pi attenta visione. Scopr che
per diversi minuti non era stato distratto dal viavai delle altre persone, riuscendo a
guardare il film con il necessario grado di intensit.
La natura del film permetteva una concentrazione totale, e su quella faceva
affidamento. Il suo ritmo inesorabile non aveva senso senza una corrispondente
attenzione, senza l'individuo la cui assoluta vigilanza era all'altezza di ci che si
pretendeva. Lui stava li e guardava. Nel tempo che Anthony Perkins impiegava a
girare la testa ci fu come uno sciamare di idee riguardanti la scienza e la filosofia e
una serie di altre cose imprecisate, o forse lui ci vedeva troppo dietro tutto questo. Ma
vedere troppo era impossibile. Meno c'era da vedere pi lui guardava intensamente, e
pi vedeva.
Era questo il senso. Vedere quello che c', finalmente guardare e sapere che stai
guardando, sentire il tempo che passa, essere sensibile a ci che accade nei pi
piccoli registri di movimento.
Tutti ricordano il nome dell'assassino, Norman Bates, ma nessuno ricorda il nome
della vittima. Anthony Perkins Norman Bates, Janet Leigh Janet Leigh. Dalla
vittima ci si aspetta che condivida il nome dell'attrice che la interpreta. Janet Leigh
che entra nello sperduto motel gestito da Norman Bates.
Era in piedi da pi di tre ore e guardava. Andava li da cinque giorni di fila e quello
era il penultimo in programma, dopodich l'installazione sarebbe stata trasferita in
un'altra citt o sistemata in qualche oscuro magazzino chiss dove.
Pareva che nessuno di quelli che entravano sapesse cosa aspettarsi e senz'altro
nessuno si aspettava una cosa del genere.
Il film originale era stato rallentato in modo da durare ventiquattro ore. Quello che
stava guardando sembrava cinema allo stato puro, tempo allo stato puro.
L'orrore potente di quel vecchio film dalle atmosfere gotiche era incorporato nel
tempo. Quanto doveva rimanere li, quante settimane o mesi, prima che lo schema
temporale del film finisse per assorbire il suo; o forse questo processo era gi in
corso? Si avvicin allo schermo fermandosi a una trentina di centimetri; vedeva
schegge e frammenti disturbati, luce confusa e tremolante. Fece il giro dello schermo
diverse volte.
Adesso la galleria era vuota e lui poteva posizionarsi a distanze e angolazioni
diverse. Cammin all'indietro, con gli occhi fissi, sempre, sullo schermo. Capiva
perfettamente perch il film fosse proiettato senza sonoro. Non poteva che essere
muto. Non poteva che assorbire l'individuo a una profondit al di l delle solite
supposizioni, al di l delle cose che l'individuo ipotizza, presume e da per scontate.
Torn verso la parete nord, passando davanti al custode sulla soglia. Il custode era
l ma non contava come presenza nella sala. Il custode era li per non essere visto.
Era il suo lavoro. Se ne stava rivolto verso il margine dello schermo, ma non

guardava niente di preciso, guardava quello che guardano i custodi dei musei quando
le sale sono vuote. L'uomo contro la parete era li, ma forse il custode non lo
considerava una presenza pi di quanto l'uomo facesse con lui. Tornava da diversi
giorni, e ogni giorno rimaneva a lungo e comunque eccolo di nuovo vicino alla
parete, al buio, immobile.
Guardava gli occhi dell'attore che transitavano nelle loro orbite ossute. Stava
immaginando di guardare con gli occhi dell'attore? O aveva l'impressione che gli
occhi dell'attore lo stessero scrutando?
Sapeva che sarebbe rimasto fino alla chiusura del museo, di li a due ore e mezza, e
che la mattina successiva sarebbe tornato. Guard due uomini che entravano, il pi
anziano con un bastone e un completo nel quale sembrava aver fatto un lungo
viaggio, i capelli bianchi, lunghi, intrecciati all'altezza della nuca, forse un professore
emerito, forse uno studioso di cinema, e il pi giovane con una camicia casual, jeans
e scarpe da jogging, l'assistente, smilzo, un po' nervoso. Si allontanarono dall'entrata
inoltrandosi nella parziale oscurit lungo il muro adiacente. Li guard ancora per
qualche istante, i due accademici, esperti di cinema, teoria del cinema, sintassi del
cinema, cinema e mito, dialettica del cinema, metafisica del cinema, mentre Janet
Leigh cominciava a spogliarsi per l'imminente doccia di sangue.
Ogni volta che un attore muoveva un muscolo, ogni battito di ciglia, era una
rivelazione. Ciascuna azione veniva scomposta in parti cos distinte dall'entit
originaria che l'osservatore si ritrovava scollegato da qualsiasi aspettativa.
Tutti guardavano qualcosa. Lui guardava i due uomini, i due uomini guardavano lo
schermo, Anthony Perkins dallo spioncino guardava Janet Leigh che si spogliava.
Nessuno guardava lui. Era proprio il mondo ideale, come se lo sarebbe fatto lui su
misura. Non aveva idea di come appariva agli occhi degli altri. Non sapeva nemmeno
come appariva ai suoi stessi occhi. Appariva Come ci che vedeva sua madre quando
lo guardava.
Ma sua madre era morta. Ecco allora un quesito per gli studenti pi avanzati.
Cos'era rimasto di lui che gli altri riuscivano ancora a vedere?
Per la prima volta non gli dispiaceva non stare li da solo. I due uomini avevano
delle forti motivazioni per trovarsi in quel posto e si chiese se loro vedessero ci che
vedeva lui. Se anche fosse stato, avrebbero comunque tratto conclusioni diverse,
trovato riferimenti che spaziavano lungo una serie di filmografe e discipline.
Filmografia. Un tempo quella parola gli faceva tirare indietro il capo quasi a voler
frapporre un'antisettica distanza.
Pens che forse era il caso di cronometrare la scena della doccia. Poi pens che era
l'ultima cosa che gli andava di fare. Sapeva che nel film originale si trattava di una
scena molto breve, meno di un minuto, notoriamente meno, e qualche giorno prima li
nella galleria aveva guardato quella scena in forma prolungata, tutta fatta di
movimenti spezzati, senza suspense n terrore n quella musica pulsante simile
all'urlo di una civetta. Gli anelli della tenda, ecco cosa ricordava con maggior
chiarezza, gli anelli della tenda della doccia che girano sull'asta quando la tenda viene
strappata, un momento che va perso alla velocit normale, quattro anelli che girano
lentamente lass, sopra il corpo accasciato a terra di Janet Leigh, una poesia
estemporanea sopra quella morte infernale, e poi l'acqua insanguinata che scorre

serpeggiando e increspandosi nello scolo, minuto dopo minuto, e che infine sparisce
in un vortice.
Era ansioso di rivederla. Voleva contare gli anelli della tenda, quattro, forse, o
cinque o di pi o di meno.
Sapeva che anche i due uomini addossati alla parete adiacente avrebbero guardato
la scena con attenzione.
Sentiva che condividevano qualcosa, noi tre, ecco cosa sentiva. Era quel genere di
rara comunanza provocata da eventi singolari, anche se gli altri non sapevano che lui
era li.
Quasi nessuno entrava in quella sala da solo. Venivano in squadre, in plotoni,
entravano con passo strascicato, gironzolavano per un po' vicino all'entrata e poi se ne
andavano. Capitava che uno o due si voltassero per uscire e gli altri seguivano a
ruota, dimenticando, nei pochi secondi necessari all'atto di girarsi e raggiungere la
porta, quanto avevano appena visto. Lui li vedeva pi come tipi da teatro. Il cinema, a
suo avviso, qualcosa di solitario.
Janet Leigh nel lungo intervallo della sua inconsapevolezza.
La guardava mentre cominciava a lasciar cadere la vestaglia. Cap per la prima
volta che il bianco e nero era l'unico veicolo possibile per il cinema in quanto
concetto, il cinema nella mente. Arrivava quasi a capire il perch, ma non del tutto.
Gli uomini vicino a lui senz'altro capivano il perch. Per quel film, in quello spazio
freddo e buio, era assolutamente necessario, il bianco e nero, un ulteriore elemento
neutralizzante, un modo per fare dell'azione una cosa affine alla vita primordiale, una
cosa che piano piano si riduce alle sue componenti narcotizzate. Janet Leigh nel
minuzioso processo del suo non sapere cosa sta per succederle.
A un certo punto se ne andarono, di colpo, s'incamminarono verso l'uscita. Non
sapeva come prenderla.
La prese male. L'alta porta scorrevole si apr lasciando passare l'uomo col bastone
e poi l'assistente. Uscirono dalla sala. Cos'era, si stavano annoiando? Passarono
davanti al custode e sparirono. Erano stati costretti a pensare in parole. Era questo il
loro problema. L'azione procedeva troppo lentamente per adeguarsi al lessico
cinematografico. Sempre che questo avesse un qualche senso. Non sentivano le
pulsazioni delle immagini proiettate a quella velocit. Il loro lessico cinematografico,
pens, non poteva adattarsi alle aste, agli anelli per tende, alle asole. Cos'era,
dovevano prendere l'aereo?
Credevano di essere seri, ma non lo erano. E se non sei serio questo posto non fa
per te.
Poi pens: Serio riguardo a cosa?
Entr una persona che si ferm in un punto della sala da cui proiettava un'ombra
sullo schermo.
Questa esperienza aveva a che fare in qualche modo col dimenticare. Lui voleva
dimenticare il film originale o perlomeno limitarne il ricordo a un riferimento remoto,
non invadente. C'era anche il ricordo di questa versione, vista e rivista per tutta la
settimana. Anthony Perkins nei panni di Norman Bates, collo da trampoliere, testa di
uccello visto di profilo.
Quel film lo faceva sentire come qualcuno che guarda un film. Il senso della cosa

gli sfuggiva. Continuava a provare sensazioni il cui significato gli sfuggiva. Ma se


per film s'intende pellicola, quello non era veramente un film. Era una videocassetta.
Che per sempre un film. Nel senso pi ampio del termine, lui stava guardando un
film, un lungometraggio, delle immagini pi o meno in movimento.
Ecco la vestaglia che finalmente si posa sul coperchio del water.
Gli era sembrato che il pi giovane, con le sue scarpe da jogging consumate,
volesse rimanere. Ma poi aveva dovuto seguire il teorico tradizionale con i capelli
intrecciati, altrimenti avrebbe rischiato di mettere a repentaglio il suo futuro
accademico.
O la caduta per le scale, ancora lontanissima, ore, forse, prima che Arbogast,
l'investigatore privato, vada gi per le scale, di schiena, con la faccia tutta sfregiata,
gli occhi sbarrati, le braccia che roteano, una scena che aveva visto all'inizio della
settimana, o forse solo il giorno prima, ormai era impossibile distinguere i giorni e le
immagini. Arbogast. Quel nome annidato in qualche oscuro meandro dell'emisfero
cerebrale sinistro.
Norman Bates e l'investigatore Arbogast. Questi erano i nomi che ricordava dopo
tutti gli anni che erano passati da quando aveva visto il film originale.
Arbogast sulle scale, in un'eterna caduta.
Ventiquattro ore. Il museo chiudeva quasi ogni giorno alle cinque e mezza. La
situazione ideale per lui sarebbe stata che il museo chiudesse e la galleria no. Voleva
vedere il film dall'inizio alla fine, per ventiquattro ore consecutive. Ingresso vietato
dopo l'inizio della proiezione.
In un certo senso stava guardando qualcosa di storico, un film che tutti, ovunque,
conoscevano. Cominci a trastullarsi con l'idea che la galleria fosse un luogo protetto,
il cottage o la tomba silenziosa di un poeta defunto, una cappella medievale. Eccolo,
il Bates Motel.
Ma non questo che la gente vede. La gente vede movimenti spezzati, dei fermo
immagine sull'orlo di una vita semiparalizzata. Lui capisce cos' che vede la gente.
Vede una sala dall'encefalogramma piatto in mezzo a sei piani scintillanti pieni di
opere d'arte. Alla gente importa solo del film originale, un'esperienza comune da
rivivere sul piccolo schermo, a casa, con i piatti da lavare in cucina.
La stanchezza se la sentiva nelle gambe, ore e giorni in piedi, il peso del corpo
eretto. Ventiquattro ore.
Chi potrebbe sopravvivere, dal punto di vista fisico e non solo? Sarebbe stato in
grado di uscire per strada dopo un giorno e una notte passati ininterrottamente a
vivere in quel piano temporale cos radicalmente diverso?
In piedi al buio a guardare uno schermo. A guardare in questo momento l'acqua che
danza davanti al viso di lei che si muove lentamente lungo le piastrelle e allunga una
mano verso la tenda della doccia per afferrarsi a qualcosa e fermare il corpo per
accogliere l'ultimo respiro.
Lo sfarfallio dell'acqua che cade dalla doccia, un'illusione di ondeggiamento o
fluttuazione.
Sarebbe uscito in strada dimenticando chi era e dove viveva, dopo ventiquattro ore
di fila. O anche ai ritmi attuali, se avessero prorogato i tempi di permanenza
dell'installazione e lui avesse continuato ad andare l, cinque, sei, sette ore al giorno,

settimana dopo settimana, sarebbe riuscito poi a vivere nel mondo? Voleva viverci?
Ma dov'era, in realt, il mondo?
Cont sei anelli. Gli anelli che girano sull'asta della tenda quando lei se la trascina
dietro. Il coltello, il silenzio, gli anelli che girano.
Ci vuole un'attenzione estrema per vedere cosa succede davanti a te. Ci vuole
impegno, pi sforzo, per vedere cosa stai guardando. Era incantato da tutto questo,
dalle profondit che si schiudevano nel movimento rallentato, le cose che c'erano da
vedere, le profondit delle cose che cos facilmente vanno perse nella superficiale
abitudine a vedere.
Gente e poi ombre proiettate sullo schermo.
Cominci a pensare alla relazione fra una cosa e l'altra. Quel film e la pellicola
originale avevano la stessa relazione che c'era fra la pellicola originale e l'esperienza
vissuta realmente. Quello era lo scostamento dallo scostamento. Il film originale era
finzione, quello era vero.
Senza senso, si disse, ma forse no.
Il giorno si dileguava, entravano sempre meno persone, poi quasi pi nessuno. Non
c'era altro posto dove volesse essere, al buio appoggiato a quel muro.
Il modo in cui una stanza pare scivolare su un binario dietro un personaggio. Il
personaggio si muove, ma sembra che a muoversi sia la stanza. Le scene che pi lo
interessavano erano quelle con un solo personaggio da guardare, o meglio ancora
nessuno.
La scalinata vuota vista dall'alto. La suspense cerca di crescere, ma il silenzio e
l'immobilit la sopravanzano.
Dopo tutto quel tempo cominciava a capire che lui era li, in piedi, in attesa di
qualcosa. Cos'era? Qualcosa che fino a quel momento era sfuggito alla coscienza.
Aspettava che arrivasse una donna, una donna da sola, qualcuno con cui parlare, li
vicino alla parete, a bassa voce, poche battute, naturalmente, o pi tardi, da qualche
altra parte, scambiarsi idee e impressioni, quello che avevano visto e cosa gli aveva
lasciato dentro. Non era forse cos? Pensava che sarebbe entrata una donna che si
sarebbe fermata li un po' a guardare, trovandosi un posto dove fermarsi lungo la
parete, un'ora, mezz'ora, anche quella poteva bastare, mezz'ora, era sufficiente, una
persona seria, dalla voce flautata, con un vestitino estivo di un colore chiaro.
Imbecille.
Sembrava reale, il ritmo era paradossalmente reale, i corpi che si muovono come
su una musica, quasi non si muovono, dodecafonia, le cose che accadono e non
accadono, causa ed effetto separati in modo cos reciso da sembrargli reali, come si
dice che sono reali tutte le cose del mondo fisico che non capiamo.
La porta scorrevole si apr e ci fu un lieve fermento in fondo al piano, gente sulle
scale mobili, un commesso che passava carte di credito nell'apposita macchinetta, una
commessa che infilava la merce acquistata dentro le grosse buste patinate del museo.
Luce e suoni, monotonia senza parole, un accenno a una vita altra, un mondo altro,
quella strana luminosa realt che respira e mangia, quella cosa che non cinema.

1
La vita vera non si pu ridurre a parole dette o scritte, nessuno pu farlo, mai. La
vita vera si svolge quando siamo soli, quando pensiamo, percepiamo, persi nei
ricordi, trasognati eppure presenti a noi stessi, gli istanti submicroscopici. Questo
Elster lo disse diverse volte, in modi diversi. Diceva che la sua vita avveniva quando
stava seduto a fissare una parete bianca, pensando alla cena.
Una biografia di ottocento pagine soltanto una sterile congettura, cos diceva.
Io quasi gli credevo quando diceva queste cose. Secondo lui capita in
continuazione, a tutti: diventiamo quello che siamo sotto i pensieri che scorrono e le
immagini indistinte, chiedendoci oziosamente quando moriremo. E cos che viviamo
e pensiamo, anche se non sempre ce ne rendiamo conto. Sono questi i pensieri che ci
arrivano senza filtro, mentre guardiamo fuori dal finestrino del treno, macchioline
opache di panico meditativo.
Il sole bruciava. Era proprio quello che voleva lui: sentire il calore che picchiava e
gli entrava nel corpo, sentire il corpo, affrancarlo da quella che chiamava la nausea da
News e Traffico.
Era cos il deserto, lontano, oltre le citt e i paesini sparsi. Lui era l per mangiare,
dormire e sudare, era li per non fare niente, per stare seduto e pensare. C'era la casa e
basta, poi solo distanze, niente scorci panoramici n vedute a perdita d'occhio, solo
distanze. Diceva di essere li per smettere di parlare. A parte me, non c'era nessuno
con cui parlare. E questo all'inizio lo faceva con frugalit, e mai all'ora del tramonto.
Non si trattava del fulgido tramonto su un viale lastricato di fondi pensione in azioni
e obbligazioni. Per Elster il tramonto era un'invenzione umana, il modo in cui
percepiamo e disponiamo la luce e lo spazio a formare gli elementi della meraviglia.
Guardavamo e restavamo meravigliati.
L'aria tremolava mentre i colori e le forme senza nome del paesaggio diventavano
pi nitidi, prendevano chiarezza di contorni ed estensioni. Forse era la differenza
d'et fra di noi a farmi pensare che lui provasse qualcosa di diverso davanti alle
ultime luci del giorno, un'inquietudine persistente, non inventata. Questo poteva
spiegare il silenzio.
La casa era un triste ibrido. Un tetto di lamiera ondulata sopra la facciata rivestita
in legno, sul davanti un vialetto di pietra lasciato a met e da un lato sbucava un
terrazzone aggiunto in un secondo momento.
Era li che stavamo, seduti, durante quella sua ora di quiete, il cielo, un bagliore di
torcia, la vicinanza di colline appena visibili nel bianco accecante del meriggio.
News e Traffico. Sport e Meteo. Queste erano le caustiche definizioni che riservava
alla vita che si era lasciato alle spalle, oltre due anni trascorsi con le menti tutte d'un
pezzo che avevano fatto la guerra. Semplici rumori di fondo, diceva agitando una
mano. Gli piaceva fare quel gesto per esprimere sufficienza. C'erano la valutazione
dei rischi e i documenti programmatici, i gruppi di lavoro interagenzia.
Lui era l'outsider, uno studioso che godeva di un'alta considerazione ma di nessuna
esperienza in ambito governativo. Stava intorno al tavolo di una sala conferenze

protetta insieme a strateghi e analisti militari. Era l per concettualizzare, questa era la
parola che usava lui, per applicare idee e principi ad ampio raggio a questioni quali lo
schieramento delle truppe e le iniziative di contro-insurrezione. Raccont che aveva il
permesso di leggere telegrammi confidenziali e trascrizioni riservate, e ascoltava il
chiacchiericcio degli esperti interni, dei metafisici dei servizi segreti, dei visionari del
Pentagono.
Il terzo piano dell'anello E del Pentagono. L'arroganza delle dimensioni, diceva.
Tutto ci lui l'aveva dato via in cambio di spazio e tempo. Era come se queste cose
le assorbisse attraverso i pori. C'erano le distanze che abbracciavano ogni
caratteristica del paesaggio e c'era la forza del tempo geologico, l, da qualche parte, i
reticoli di spago dei paleontologi in cerca di ossa erose dalle intemperie.
Continuo a vedere queste parole. Calore, spazio, immobilit, distanza. Sono
diventate stati mentali visivi.
Non so bene che cosa significhi. Continuo a vedere figure isolate, vedo le
sensazioni provocate da queste parole, oltre la dimensione fisica, sensazioni che si
fanno pi profonde col passare del tempo. Ecco l'altra parola: tempo.
Io guidavo e osservavo. Lui rimaneva a casa, seduto in una striscia d'ombra sul
terrazzo scricchiolante, a leggere. Io mi addentravo nelle fessure dei canyon e su
sentieri non riportati nelle cartine, l'acqua sempre, portavo dell'acqua ovunque,
sempre un cappello, indossavo un cappello a tesa larga e un fazzoletto al collo e mi
fermavo sui promontori sotto un sole proibitivo, mi fermavo e osservavo. Il deserto
era al di l della mia portata, era un essere alieno, era fantascienza, saturante e remoto
al tempo stesso, e io mi dovevo sforzare per convincermi di essere veramente li.
Lui sapeva dov'era, sulla sua sedia, cosciente del proto-mondo, cos pensavo io, dei
mari e delle barriere rocciose sommerse di dieci milioni di anni fa.
Chiudeva gli occhi, divinando in silenzio la natura delle estinzioni pi recenti,
pianure erbose su libri illustrati per bambini, una regione pullulante di cammelli felici
e zebre giganti, mastodonti, tigri dai denti a sciabola.
L'estinzione era uno dei suoi temi ricorrenti in quel periodo. Era il paesaggio a
ispirargli i temi. Spazi aperti e claustrofobia. Anche questo sarebbe diventato un
tema.
Richard Elster aveva settantatre anni, io meno della met. Mi aveva invitato a
raggiungerlo li, casa vecchia, pochissimi mobili, in qualche punto a sud del nulla nel
deserto di Sonora, o forse era il deserto del Mojave o un altro deserto. Una visita
breve, cos aveva detto.
Quello era il decimo giorno.
Con lui avevo parlato due volte, a New York, e sapeva cosa avevo in mente, la sua
partecipazione a un film che volevo girare sul periodo in cui era stato al governo, tra
le ciance e i farfugliamenti sull'Iraq.
In realt lui sarebbe stato l'unico partecipante. Il suo viso, le sue parole. Non mi
serviva altro.
Inizialmente disse di no. In seguito disse mai e poi mai. Alla fine mi chiam e disse
che potevamo parlarne, ma non a New York e nemmeno a Washington.
Echi su echi, l.

Presi l'aereo e andai a San Diego, noleggiai una macchina e mi diressi verso est,
con le montagne che sembravano sbucare improvvisamente da dietro le curve della
strada, le nubi temporalesche di fine estate che si addensavano, e poi tagliai fra
colline brune, cartelli di caduta massi e sghembi mucchietti di steli spinosi, e infine
lasciai la strada asfaltata e giunsi su un sentiero primitivo, perdendomi per un po' in
quello scarabocchio indistinto della cartina che Elster aveva tracciato a matita.
Arrivai dopo il calare della sera.
- Niente poltrona imbottita, n luci soffuse e libreria sullo sfondo, - gli dissi. - Solo
un uomo e una parete.
L'uomo sta in piedi e racconta tutta la sua esperienza, ogni cosa che gli viene in
mente, personalit, teorie, dettagli, sensazioni. Quell'uomo lei. Non. c' nessuna
voce fuori campo a fare le domande. Non ci sono spezzoni di combattimenti n altre
persone che commentano, in video o fuori.
-Cos'altro?
- Un semplice primo piano.
- Cos'altro? - chiese.
- Le pause, fa quelle che vuole, io riprendo senza interruzioni.
- Cos'altro?
- Videocamera con hard drive. Un'unica ripresa.
- Lunga quanto?
- Dipende da lei. C' un film russo, un lungometraggio, Arca russa, di Aleksandr
Sokurov. Un unico piano sequenza, un migliaio fra attori e comparse, tre orchestre,
eventi storici e di fantasia, scene di folla, sale da ballo, e a un certo punto, dopo
un'ora di film, a un cameriere cade un tovagliolo, ma niente tagli, non si pu tagliare,
e la cinepresa vola lungo i corridoi, gira gli angoli. Novantanove minuti, - dissi.
- Ma lui si chiamava Aleksandr Sokurov. Tu ti chiami Jim Finley.
Mi sarei messo a ridere se non avesse accompagnato la battuta con un sorrisetto
ironico. Elster parlava russo e pronunci il nome del regista con ruspante leziosit.
Cosa che aggiunse un'ulteriore nota di autocompiacimento alla sua osservazione.
Avrei potuto muovere l'ovvia obiezione che io non avrei fatto riprese di folle in
textured motion. Ma lasciai che la battuta esaurisse il suo effetto. Non era tipo da dar
spazio anche alla pi garbata delle correzioni.
Era seduto sul terrazzo, un uomo alto in pantaloni di cotone sgualciti ormai assurti
al rango di pietra miliare. Stava a torso nudo per gran parte del giorno, tutto spalmato
di protezione solare anche all'ombra, e i capelli argentei erano intrecciati, come
sempre, e raccolti in un codino.
- Decimo giorno, - dissi.
La mattina affrontava eroicamente il sole. Aveva bisogno di incrementare le sue
scorte di vitamina D e alzava le braccia verso il sole, rivolgeva una supplica agli di,
cos diceva, anche se ci significava la furtiva comparsa di tessuti anomali.
- pi sano rifiutare certe precauzioni piuttosto che adeguarsi alla massa.
Immagino che queste cose tu le sappia, - disse.
Aveva un viso lungo e florido, leggermente flaccido all'altezza delle mascelle. Il
naso era grande e butterato, gli occhi forse tra il verde e il grigio, le sopracciglia a
ventaglio. Quei capelli intrecciati in teoria sarebbero dovuti sembrare incongrui,

eppure non era cos. Non erano pettinati a ciocche, ma solo raggruppati a grossi ciuffi
all'altezza della nuca, cosa che gli conferiva una certa identit culturale, eleganza e
distinzione, l'intellettuale come anziano della trib.
- Si tratta di un esilio? Sei qui in esilio?
- Wolfowitz andato alla Banca Mondiale. Quello stato un esilio, - disse. Questo diverso, un ritiro spirituale.
La casa apparteneva a un qualche parente della mia prima moglie. Per anni sono
venuto qui a passare dei periodi ogni tanto. Venivo a scrivere, a pensare. In altri posti,
ovunque, la mia giornata comincia nel conflitto, ogni mio passo su una strada
cittadina un conflitto, gli altri sono il conflitto. Qui diverso.
- Ma stavolta niente scrittura.
- Ho avuto delle offerte per un libro. Il ritratto della stanza della guerra dal punto di
vista di un outsider privilegiato. Ma io non voglio scrivere un libro, nessun genere di
libro.
- Vuoi stare seduto qui.
- La casa mia adesso e sta andando in rovina, ma chi se ne frega. Il tempo rallenta
quando sono qui. Il tempo diventa cieco. Il paesaggio pi che vederlo io lo percepisco
con i sensi. Non so mai che giorno . Non so mai se passato un minuto o un'ora. Qui
non invecchio.
- Vorrei poter dire la stessa cosa.
- Ti serve una risposta. E questo che stai dicendo?
- Mi serve una risposta.
- Hai una vita li dove abiti.
- Una vita. Forse un parolone.
Stava seduto con il capo reclinato all'indietro, gli occhi chiusi, la faccia al sole.
- Non sei sposato, giusto?
- Separato. Ci siamo separati, - risposi.
- Separati. Che parola familiare. Hai un lavoro, un'occupazione fra un progetto e
l'altro?
Probabilmente cerc di non caricare la parola progetto di funerea ironia.
- Lavori sporadici. Produzione, montaggio.
Ora mi stava guardando. Forse si domandava chi fossi.
- Ti ho gi chiesto come fai a essere cos secco? Mangiare mangi. Il cibo lo mandi
gi, come me.
- Direi che mangio, si. Mangio eccome. Ma tutta l'energia, tutto il nutrimento viene
risucchiato dal film, - dissi. - Per il corpo non resta niente.
Chiuse di nuovo gli occhi e io guardai il sudore e la crema solare che gli
scorrevano lungo la fronte. Aspettai che mi chiedesse dei lavori cinematografici che
avevo fatto per conto mio, la domanda che avevo sperato di non sentire. Ma nel
frattempo lui non aveva pi interesse per la conversazione o pi semplicemente aveva
quel tipo di ego rigurgitante che tralascia di badare a simili dettagli. Avrebbe accettato
o rifiutato non in virt delle mie qualifiche ma secondo i capricci del suo umore,
prendendosela comoda. Entrai per controllare l'e-mail sul mio portatile, avevo
bisogno di contatti esterni, ma mi sentivo corrotto, come se stessi infrangendo un
tacito patto di ascesi creativa.

Perlopi leggeva poesia, rileggeva la sua giovinezza, cos diceva, Zukovskij e


Pound, a volte ad alta voce, e anche Rilke in originale, sussurrando, ogni tanto, solo
un paio di versi dalle Elegie. Stava rispolverando il suo tedesco.
Avevo fatto un solo film, un'idea di film, secondo alcuni. L'avevo fatto, l'avevo
finito, la gente l'aveva visto, ma cosa aveva visto, in effetti? Un'idea, dicevano, che
rimane un'idea.
Non mi andava di definirlo documentario, anche se era composto interamente di
documenti, vecchi filmati di repertorio, spezzoni di programmi televisivi degli anni
Cinquanta. Era materiale storico e di costume, ma montato e rielaborato ben oltre i
limiti dell'informazione e dell'obiettivit per cui non era pi un documento.
Io ci trovavo qualcosa di religioso, forse ero l'unico, religioso, estatico, un uomo
invasato.
L'uomo era il solo individuo sullo schermo per tutta la durata del film, il comico
Jerry Lewis. Era il Jerry Lewis dei primi Telethon, quegli show televisivi trasmessi
una volta all'anno per fare beneficenza a favore dei malati di distrofia muscolare,
Jerry Lewis per tutto il giorno e la notte e poi ancora il giorno dopo, eroico,
tragicomico, surreale.
Guardavo gli spezzoni dei primi anni, ogni lontano minuto, era un'altra civilt,
l'America di met secolo, il filmato di repertorio somigliava a una forma di vita
tecnologica deviante che cercava di venir fuori dalla polvere irradiata dell'era
atomica. Avevo eliminato tutti gli ospiti, comici e cantanti, attori, ballerini, bambini
disabili, il pubblico in studio, il gruppo musicale. Il film era Jerry e basta,
performance allo stato puro, Jerry che parla, canta, piange, Jerry con la camicia
stazzonata e il colletto aperto, il papillon sfatto, un procione sulle spalle, Jerry che fa
appello all'amore e allo stupore della nazione alle quattro del mattino, in primo piano,
un uomo sudato, con i capelli a spazzola, in preda a una sorta di delirio, un artista
della malattia, che ci supplica di mandare soldi per curare i suoi bambini sofferenti.
Lo lasciavo sproloquiare in filmati non sequenziali, gli anni che sfumano uno
nell'altro, o ancora Jerry senza audio, che fa il clown, con le gambe a X e i dentoni,
che salta al rallentatore su un tappeto elastico, il vecchio spezzone danneggiato, il
segnale disturbato, rumori qua e l nel sonoro, strisce sullo schermo. Si infila nel naso
delle bacchette da tamburo, si ficca il microfono in bocca. Avevo inserito dei brani di
musica moderna, sequenze di intervalli, il suono di un ronzio riecheggiante. C'era un
elemento di austera drammaticit nella musica, che collocava Jerry al di fuori del
momento contingente, in un paesaggio pi vasto, astorico, un uomo in missione per
conto di Dio.
Mi ero tormentato sulla possibile lunghezza, decidendo alla fine di fare un film
dall'anomala durata di cinquantasette minuti, proiettato in un paio di festival di
documentari. Avrebbe potuto essere di centocinquantasette minuti, avrebbe potuto
essere di quattro ore, di sei. Mi aveva spossato, schiacciato, ero diventato il doppio
delirante di Jerry, con gli occhi fuori dalle orbite.
A volte una cosa difficile difficile perch la fai male. In questo caso non c'era
niente di sbagliato. Ma non volevo che Elster ne sapesse nulla. Perch come si
sarebbe sentito a fare il successore, un uomo ammodo dopo un comico scatenato?
Mia moglie una volta mi disse: - Cinema, cinema, cinema. Se fossi ancora un po'

pi denso saresti un buco nero. Un fenomeno, - disse. - La luce non ha via d'uscita.
Io dissi: - La parete ce l'ho, ho in mente la parete, in un loft, a Brooklyn, un
grosso loft industriale tutto sottosopra. Vi ho accesso praticamente a qualsiasi ora del
giorno e della notte. La parete perlopi di un colore grigio pallido, con delle crepe,
delle macchie, ma non distraggono, non sono elementi ornamentali in senso stretto.
La parete giusta, ci penso, la sogno, apro gli occhi e la vedo, chiudo gli occhi ed
li.
- Senti proprio un bisogno profondo di fare questa cosa. Spiegami perch, - disse.
- La risposta a questa domanda sei tu. Quello che dici, quello che ci dirai a
proposito di questi ultimi anni, quello che sai e che nessun altro sa.
Eravamo in casa, era tardi, lui indossava i vecchi pantaloni sgualciti, una felpa
lurida, i grossi piedoni ottusi erano dentro eleganti sandali in cuoio.
- Ti dico questo. La guerra crea un mondo chiuso, e non soltanto per quelli che
combattono, ma anche per quelli che tramano, gli strateghi. Solo che la loro guerra
fatta di acronimi, proiezioni, contingenze, metodologie.
Quelle parole le salmodi, in tono liturgico.
- Rimangono paralizzati dai sistemi a loro disposizione.
La loro guerra astratta. Pensano di mandare l'esercito in un posto che si trova
sulla cartina.
Lui non era uno stratega, specific senza che ce ne fosse bisogno. Sapevo cos'era,
o cosa doveva essere sulla carta, un Teorico della Difesa, senza le credenziali
consuete, e quando la pronunciai, quella definizione gli fece serrare la mascella per
l'orgogliosa nostalgia di quelle settimane, quei mesi dei primi tempi, prima che
cominciasse a capire che in realt stava solo occupando un posto vacante.
- A volte non c'erano nemmeno cartine che combaciassero con la realt che
stavamo cercando di creare.
- Che realt?
- E una cosa che facciamo a ogni battito di ciglia.
La percezione umana non che una saga di realt ricreate.
Ma noi li stavamo ideando entit che andavano oltre i limiti comunemente accettati
del riconoscimento o dell'interpretazione. Mentire necessario. Lo stato deve
mentire. In guerra o quando si prepara una guerra non ci sono bugie che non possano
essere difese.
Noi siamo andati oltre questo. Abbiamo cercato di creare nuove realt da un giorno
all'altro, parole ben confezionate simili a slogan pubblicitari, orecchiabili e ripetibili.
Queste parole dovevano avere il compito di generare immagini, diventando infine
tridimensionali.
La realt sta in piedi, cammina, si acquatta. Solo che non sempre funziona.
Non era un fumatore, ma la sua voce aveva una consistenza sabbiosa, forse solo
stridula per l'et, a volte gli scivolava dentro, diventava quasi impercettibile.
Rimanemmo seduti per un po'. Lui era stravaccato in mezzo al divano, guardava in
alto, un punto in un angolo della stanza. Stringeva all'altezza della vita una tazza
grande da caff con dentro dello scotch allungato con acqua.
A un certo punto disse: - Haiku.
Io annuii assorto, come un idiota, con una serie di gesti lenti volti a comunicare che

avevo capito tutto alla perfezione.


- L'haiku non significa nulla oltre quello che . Uno stagno d'estate, una foglia
d'inverno. la coscienza umana calata nella natura. E la risposta a tutto in un
determinato numero di versi, un conto sillabico prestabilito.
Io volevo una guerra formato haiku, - disse. - Volevo una guerra in tre versi. Non
era una questione di livelli di potenza o di logistica. Quello che volevo era una serie
di idee legate a cose transitorie. Questa l'anima dell' haiku. Svelare ogni cosa alla
vista. Vedere quello che c'. Le cose in guerra sono transitorie. Vedere quello che c'
ed essere pronti a guardarlo scomparire.
- Hai usato questa parola con loro. Haiku, - dissi.
- Ho usato questa parola. Ero li per quello, per dar loro parole e significati. Parole
che non avevano ancora usato, nuovi modi di pensare e vedere. In una delle varie
discussioni probabilmente ho usato questa parola.
Non sono certo caduti dalla sedia.
Io non sapevo nulla di questi uomini che non erano caduti dalla sedia. Ma
cominciavo a conoscere Elster e mi ponevo delle domande sulla tattica, non che
importasse qualcosa alla fine. Non mi interessava l'impressione che faceva sugli altri,
mi interessavano solo le sue sensazioni riguardo a quell'esperienza. Per il resto, che
fosse pure in errore, sconsiderato, furioso, stanco. Versi e sillabe. Tanfo di piedi |
ansia di notte estiva. Eccetera.
- Tu volevi una guerra. Solo che la volevi migliore, dissi.
- La voglio ancora, una guerra. Una grande potenza deve agire. Siamo stati colpiti
duramente. Abbiamo bisogno di riprenderci il futuro. La forza di volont, il puro
bisogno viscerale. Non possiamo lasciare che siano altri a dare forma al nostro
mondo, alle nostre menti. Loro non hanno che vecchie tradizioni dispotiche, morte.
Noi abbiamo una storia viva, e io pensavo che sarei stato al centro di tutto questo. Ma
in quelle stanze, con quegli uomini, si parlava solo di priorit, statistiche, stime,
razionalizzazioni.
La cupezza liturgica era scomparsa dalla sua voce. Era stanco e distaccato, troppo
distante dagli eventi per fare onore al suo risentimento. Presi la ferma decisione di
non sollecitare ulteriori commenti. Sarebbero venuti al momento opportuno,
spontanei, davanti alla videocamera.
Fin il suo scotch ma tenne la tazza in grembo. Io bevevo vodka e succo d'arancia
con ghiaccio sciolto. Il drink era arrivato a quello stadio nella vita dei drink in cui
bevi un ultimo leggero sorso prima di scivolare in una dolente introspezione, a met
fra l'autocommiserazione e l' autofustigazione.
Rimanemmo seduti a pensare.
Gli lanciai un'occhiata. Avevo voglia di andare a letto, ma non mi sembrava il caso
di andarmene prima di lui, e non sapevo nemmeno io il perch visto che altre sere mi
era capitato di lasciarlo l da solo. C'era un silenzio assoluto nella stanza, nella casa,
ovunque l fuori, le finestre aperte, nient'altro che notte. A un certo punto sentii lo
scatto di una trappola per topi in cucina, il martelletto che si liberava, la trappola che
saltava.
Eravamo in tre, allora. Ma Elster non parve farci caso.
A New York camminava con un bastone di cui non aveva bisogno. Forse aveva un

semplice dolorino a un ginocchio, ma il bastone era un accessorio emotivo, ne ero


certo, a cui era ricorso subito dopo la fine della sua collaborazione col ministero delle
News e del Traffico. Faceva vaghi accenni a un'operazione al ginocchio, parlando pi
con se stesso che con me, trovando appigli per autocommiserarsi. Elster aveva la
tendenza a essere ovunque, in tutti e quattro gli angoli di una stanza, a raccogliere
impressioni su se stesso. Il bastone mi piaceva. Mi aiutava a vederlo, lo sollevava
dall'immagine pubblica di un uomo che ha bisogno di vivere in una cavit protettiva
simile a un utero e a forma di mondo, libero dalle derive omogeneizzanti degli eventi
e dei legami umani.
In quei giorni nel deserto poche cose lo scuotevano dalla calma apparente. Le
nostre macchine erano a trazione integrale, indispensabile da quelle parti, e dopo tutti
gli anni passati l sembrava che lui ancora dovesse abituarsi alla guida fuori strada, o
alla guida in generale, ovunque. Mi chiese di programmargli il navigatore satellitare
dell'auto. Voleva che quel dispositivo venisse utilizzato, lo sfidava a funzionare. Fu
suo malgrado soddisfatto quando l'aggeggio gli disse, con sobria voce maschile, cose
che lui gi sapeva, girate a destra fra uno punto quattro miglia, guidandolo fino al
parcheggio del supermercato cittadino, venticinque miglia all'andata, venticinque al
ritorno. Ogni sera cucinava lui per tutti e due, ci teneva a preparare la cena, senza
mostrare la minima preoccupazione che la gente della sua et di solito ha nei
confronti di certi cibi e del modo in cui essi agiscono sull'organismo che li consuma.
Ogni tanto prendevo la macchina per conto mio e andavo in cerca di remoti punti
d'origine dei sentieri e poi me ne stavo seduto in auto, a evocare il film, a girarlo, con
lo sguardo fisso sulle distese desertiche d'arenaria.
Oppure mi inoltravo con l'auto fino al fondo di stretti canyon altissimi, passando
sulla terra dura e spaccata, la macchina che galleggiava nel caldo, e pensavo al mio
appartamento, due stanzette, l'affitto, le bollette, le chiamate senza risposta, la moglie
che non c'era pi, la moglie separata, il portiere strafatto di crack, la signora anziana
che scendeva le scale camminando all'indietro, lentamente, un'eternit, quattro rampe,
all'indietro, e io non le ho mai chiesto il perch.
Parlai con Elster di un saggio che aveva scritto qualche anno prima, intitolato
Renditions. Era stato pubblicato su una rivista accademica e subito si era attirato
critiche a sinistra. Probabilmente la cosa era anche voluta, ma in quelle pagine io
vedevo solo una tacita sfida al lettore a cercare di capire di cosa si stava parlando.
La prima frase era: I governi sono imprese criminali.
L'ultima frase era: Negli anni a venire, naturalmente, ci saranno uomini e donne,
dentro cabine, con gli auricolari, che ascolteranno nastri segreti riguardanti i crimini
commessi dall'amministrazione, mentre altri studieranno le registrazioni elettroniche
sullo schermo di un computer e altri ancora guarderanno videocassette scampate alla
distruzione, con immagini di uomini in gabbia sottoposti a tremendi dolori fisici, e
infine altri, altri ancora, dietro una porta chiusa, faranno domande incalzanti a
persone in carne e ossa.
A separare queste due frasi uno studio sulla parola inglese rendition, con
riferimenti all'inglese medio, al francese antico, al latino volgare e ad altre fonti e
origini.
All'inizio del saggio, Elster citava uno dei significati della parola rendering,

rinzaffo, mano d'intonaco applicata a una costruzione in muratura. Partendo da quel


punto chiedeva al lettore di pensare a un luogo circondato da mura in un paese senza
nome e a un metodo d'interrogatorio che impiegasse quelle che lui definiva tecniche
avanzate, atte a provocare una resa (uno dei significati di rendition, arrendersi o
rendere) nella persona interrogata.
All'epoca non avevo letto il saggio, non ne sapevo nulla. Se ne fossi stato a
conoscenza, prima di conoscere Elster, cosa avrei pensato? Etimologia e prigioni
segrete.
Francese antico, francese obsoleto e tortura per procura. Il saggio si concentrava su
quella parola, sulle sue occorrenze pi antiche, cambiamenti di forma e significato,
forme al grado zero, forme raddoppiate, forme suffissate. C'erano note a pie di
pagina, simili a serpenti annidati. Ma nessuna specifica menzione di luoghi segreti,
stati terzi o trattati e convenzioni internazionali.
Paragonava l'evoluzione di una parola a quella della materia organica.
Sottolineava che le parole non sono necessarie all'esperienza in prima persona
della vita vera.
Verso la fine del suo studio critico analizzava alcuni significati correnti della parola
rendition: interpretazione, traduzione, esecuzione. All'interno di quelle mura, in un
qualche luogo appartato, viene rappresentato un dramma, vecchio come la memoria
umana - cos scriveva attori nudi, incatenati, bendati, altri attori con oggetti di scena
volti a intimidire, gli agenti della rendition, senza nome e mascherati, vestiti di nero,
e quel che ne deriva - continuava - una rappresentazione scenica della vendetta che
riflette la volont della massa e interpreta il bisogno nascosto di un'intera nazione, la
nostra.
Io stavo in piedi in un angolo del terrazzo, al riparo dal sole, e gli chiesi del saggio.
Con un gesto della mano liquid la cosa, l'argomento in toto. Gli chiesi della prima e
dell'ultima frase. Dissi che sembravano fuori tema all'interno del pi ampio contesto
in cui il delitto e la colpa non vengono menzionati. L'incongruenza salta decisamente
agli occhi.
- Volutamente.
Volutamente. Okay. Destabilizzare volutamente chi critico nei confronti
dell'amministrazione, dissi io, e non chi le decisioni le prende. Ironia senza quartiere.
Era seduto su una vecchia sdraio che aveva trovato nel capanno dietro casa, una
sedia da spiaggia fuori contesto; sollev una palpebra con pigro disprezzo,
inquadrando lo scemo che diceva banalit.
Okay. Ma cosa pensava lui dell'accusa che gli era stata mossa, e cio che aveva
cercato di trovare tracce di mistero e romanticismo in una parola che veniva usata
come strumento della sicurezza di stato, una parola ridisegnata per essere artificiale e
nascondere il vergognoso argomento che conteneva?
Ma non glielo chiesi. Andai in casa, versai due bicchieri di acqua ghiacciata e
tornai fuori a sedermi accanto a lui. Mi chiesi se aveva ragione, se davvero il paese
aveva bisogno di questo, se ne avevamo bisogno nella nostra disperazione, nel nostro
assottigliamento, se avevamo bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, tutto quello che
potevamo prendere, tutti i significati della parola rendition, s, e poi l'invasione.
Port il bicchiere freddo alla guancia e disse che la reazione negativa non l'aveva

sorpreso. La sorpresa venne in seguito, quando fu contattato da un ex collega


dell'universit che lo invit a una riunione privata in un istituto di ricerca appena
fuori Washington.
Stava seduto in una stanza dalle pareti rivestite in legno, insieme ad altre persone
fra cui il vicedirettore di un nucleo di valutazione strategica la cui esistenza non era
attestata da nessun documento ufficiale.
Non fece il nome di questa persona, probabilmente perch era quel genere di
informazione riservata che deve rimanere fra quattro mura rivestite in legno, o forse
perch sapeva che tanto quel nome non mi avrebbe detto nulla. Dissero a Elster che
stavano cercando proprio qualcuno con le sue conoscenze interdisciplinari, un uomo
con un'ottima reputazione che potesse dare freschezza al dialogo, ampliare gli
orizzonti.
Dopodich cominci il suo lavoro per il governo, che gli avrebbe fatto
interrompere una serie di conferenze a Zurigo su quello che lui chiamava il sogno
dell'estinzione, e dopo due anni e parte di un terzo, eccolo, di nuovo l, nel deserto.
Non c'erano mattine n pomeriggi. Era un unico giorno senza soluzione di
continuit, ogni giorno cos, finch il sole cominciava la sua curva e scompariva, e le
montagne emergevano dai loro contorni appena accennati.
Era il momento in cui ci sedevamo e guardavamo in silenzio.
A cena, pi tardi, ancora silenzio. Volevo sentire il rumore della pioggia che
cadeva. Mangiammo costolette d'agnello che lui aveva cotto alla brace sul terrazzo.
Io mangiavo a testa bassa, con la faccia nel piatto. Era quel genere d'incantesimo
silenzioso che difficile da spezzare, diventava pi tenace a ogni boccone che
mandavamo gi. Pensavo al tempo morto, al senso di autoreclusione, e sentivo il
rumore di noi due che masticavamo. Volevo dirgli quanto era buona la carne, ma
l'aveva fatta cuocere troppo, e ogni traccia di rosata succulenza si era persa nelle
fiamme.
Volevo sentire il vento tra le colline, i pipistrelli che raspavano nelle grondaie.
Era il dodicesimo giorno.
Guard il bicchiere di birra che aveva in mano e annunci che sarebbe venuta a
trovarlo sua figlia. Fu come sentire che la terra si era spostata sul suo asse,
ricacciando la notte verso il giorno nascente. Notizia di rilievo, qualcun altro, una
faccia e una voce, si chiamava Jessie, disse, una mente eccezionale, lontana da questo
mondo.
Non ho mai chiesto alla vecchia signora quale fosse il motivo. La vedevo scendere
le scale all'indietro, aggrappata al corrimano. Mi fermavo e la guardavo, le offrivo
aiuto, ma non ho mai fatto domande, non ho mai indagato il problema, una ferita,
questione di equilibrio, un disturbo mentale. Mi limitavo a stare fermo sul
pianerottolo guardandola scendere, gradino dopo gradino, era lettone, solo questo
sapevo, e quella era New York City, sapevo anche questo, la citt dove la gente non fa
domande.

2
Una fitta pioggia scendeva sferzante dalle montagne, troppo forte per infilarci
dentro qualunque pensiero, lasciandoci senza nulla da dire. Eravamo in piedi
nell'ingresso coperto del terrazzo, noi tre, a guardare e ascoltare, con il mondo
sommerso dall'acqua.
Jessie si stringeva fra le braccia, ogni mano protesa ad afferrare la spalla opposta.
L'aria era pungente e carica, e quando la pioggia cess, di li a qualche minuto,
tornammo in soggiorno e riprendemmo i discorsi interrotti quando era cominciato a
venir gi il finimondo. In quei primi giorni io pensavo a lei come alla Figlia.
La possessivit di Elster, l'avvolgenza del suo spazio, mi rendevano arduo
distinguerla, trovare in lei le sembianze di un essere a s stante. Lui la voleva sempre
vicina.
Quando si rivolgeva a me, la includeva comunque, l'attirava nel discorso con lo
sguardo o con un gesto.
I suoi occhi avevano una scintilla non cos insolita nel padre che osserva la sua
creatura, ma l'effetto sembrava quello di soffocare qualsiasi reazione, o forse a lei non
interessava mostrarne alcuna.
Era pallida e magra, sui venticinque anni, goffa, la faccia morbida, non paffuta, ma
tonda e placida, e dava come l'impressione di essere attenta a una qualche presenza
interiore. Suo padre diceva che sentiva le parole dentro di loro. Non chiesi cosa
volesse dire. Dire cose del genere era il suo mestiere.
Portava jeans e scarpe da ginnastica, come me, e una camicia larga, ed era una
persona con cui parlare e questo faceva passare le giornate. Raccont che viveva con
sua madre nell'Upper East Side, in un appartamento che liquid con una scrollata di
spalle. Faceva volontariato con gli anziani, andava al supermercato, li accompagnava
dal medico. Ognuno aveva qualcosa come cinque medici a testa, raccont, e a lei non
dispiaceva stare seduta in sala d'attesa, le sale d'attesa le piacevano, le piacevano i
portieri degli alberghi che fermano i taxi con un cenno della mano, uomini in divisa,
l'unica divisa che ti pu capitare di vedere in un giorno tipo, perch i poliziotti di
solito se ne stanno rintanati nelle loro macchine.
Aspettai che mi chiedesse dove vivevo, come vivevo, con chi, qualsiasi cosa. Forse
questo la rese interessante, il fatto che non me lo chiese.
Dissi: - Avevo uno studio dalle parti di Queens. Prima potevo permettermelo, poi
non pi. Lavoro fuori casa, che pi o meno dalle parti di Chinatown. Metto su
progetti, parlo con la gente, penso ad altri progetti.
Dove trovare i soldi? Penso al gap financing. Non sono sicuro di sapere cosa
significhi. Penso ai fondi di investimento a capitale proprio, a capitali stranieri, a
fondi speculativi. Ogni progetto diventa un'ossessione senn che senso ha. E adesso
c' questo, tuo padre. So che la persona giusta e ho la sensazione che anche lui la
pensi cos. Ma non riesco a strappargli una risposta. Lo facciamo, non lo facciamo,
forse, mai, dopo. Guardo il cielo e mi chiedo: che diavolo ci faccio qui?
- Compagnia, - disse lei. - Lui odia completamente, fisicamente, la solitudine.

- Odia la solitudine ma viene qui perch qui non c' niente, non c' nessuno. Gli
altri sono il conflitto, dice lui.
- Non quelli con cui sceglie di stare. Qualche studente! nel corso degli anni, poi ci
sono io tra i fortunati e tanto tanto tempo fa mia madre. Ha due figli maschi dal primo
matrimonio. Disastro e Sfacelo, cos li chiama. Che non ti venga mai in mente di
nominarli davanti a lui.
Perlopi parlavamo di nulla, io e lei. Sembrava che non avessimo niente in
comune, ma gli argomenti di conversazione continuavano a spuntare come funghi.
Raccont che aveva avuto un momento di confusione salendo su una scala mobile
che non funzionava. Questo era accaduto all'aeroporto di San Diego, dove suo padre
era andato a prenderla. Era salita su una scala mobile che portava al piano superiore,
solo che non funzionava, e lei non riusciva ad adeguarsi, ogni passo che faceva
doveva ragionarci ed era stato difficile perch continuava ad aspettarsi che i gradini si
muovessero e quindi faceva come dei mezzi passi e aveva, l'impressione di rimanere
ferma per via del fatto che i gradini non si muovevano.
Non guidava perch non riusciva a coordinare i comandi con mani e piedi
contemporaneamente. Una delle persone a cui badava era morta da poco di una
qualche -osi multipla. Al telefono sua madre parlava russo, bufere di russo, giorno e
notte. Le piaceva l'inverno, di, stese di neve nel parco, ma non si addentrava mai pi
di tanto, gli scoiattoli d'inverno a volte sono idrofobi.
Mi piacevano queste chiacchierate, erano tranquille, con una misteriosa profondit
in ogni sua casuale., osservazione. A volte la fissavo, aspettando chiss cosa, che
ricambiasse lo sguardo, che desse un cenno di disagio. Aveva lineamenti comuni,
occhi castani, capelli castani che si ravviava spesso dietro le orecchie.
C'era qualcosa di autodeterminato nel suo aspetto, una inespressivit che sembrava
voluta. Aveva deciso lei di avere quell'aspetto, o cos mi dicevo io. La sua era una vita
diversa, molto distante dalla mia, e questo offriva una tregua dalla continua
introiezione del mio tempo l e in un certo senso serviva anche a controbilanciare il
potere che suo padre esercitava sul mio immediato futuro.
Elster usc dalla sua camera in pigiama e trascinandosi ci raggiunse sul terrazzo,
scalzo, con una tazza di caff in mano. Guard Jessie e sorrise, come ricordando nel
suo stordimento che c'era qualcosa che voleva fare. Voleva sorridere.
Si accomod su una sedia, parlando lentamente, con voce debole e riarsa,
nottataccia, levataccia.
- Prima di addormentarmi, finalmente, pensavo a quando da piccolo cercavo di
immaginarmi la fine del secolo, che mi appariva come un prodigio lontanissimo, e
calcolavo che et avrei avuto alla fine del secolo, anni, mesi, giorni, e ora ecco,
incredibile, ci siamo: sono passati sei anni dall'inizio del secolo e mi rendo conto di
essere ancora lo stesso ragazzino magro, la sua ombra si proietta sulla mia vita, non
calpesto le fessure sui marciapiedi, non per superstizione ma come una sorta di prova,
di disciplina, ancora lo faccio. Che altro?
Lui si mangia le pellicine del pollice, sempre il pollice destro, io ancora lo faccio,
un pezzetto di pelle morta, cos che so chi sono.
Una volta avevo guardato nell'armadietto delle medicine in bagno. Nessun bisogno
di aprire lo sportello, non c'era. File di bottiglie, tubetti, scatole di pillole, quasi tre

ripiani, e ancora altre boccette, una senza tappo, sul coperchio dello sciacquone, e
vari bugiardini sparsi su una panchetta, aperti, piccoli caratteri in grassetto, dall'aria
ammonitrice.
- Non nei miei libri, nelle conferenze, nelle conversazioni, o altro. E nella pipita,
accidentaccio, nelle pellicine, ecco dove sono io, la mia vita, da li fino a qui. Parlo nel
sonno, l'ho sempre fatto, un tempo me lo diceva mia madre e ora non ho bisogno che
me lo dica nessuno, lo so, lo sento con le mie orecchie, e questo ancora pi
significativo, qualcuno dovrebbe fare degli studi sulle cose che si dicono nel sonno, e
probabilmente qualcuno gi l'avr fatto, qualche paralinguista, perch sono cose che
significano pi di mille lettere personali scritte nel corso di una vita e si tratta
comunque di letteratura.
Non erano tutte medicine con obbligo di ricetta, ma molte si, e tutte insieme erano
Elster. Le lozioni, le compresse, le capsule, le supposte, le creme e i gel e le boccette
e i tubetti che le contenevano, le etichette, i bugiardini e gli adesivi col prezzo: tutto
questo era Elster, vulnerabile, e forse c'era qualcosa di moralmente degradato nella
mia presenza in quella stanza ma io non mi sentivo in colpa, solo interessato a
conoscere l'uomo e tutti quegli accessori dell'essere, gli agenti che stabilizzano
l'umore, gli agenti che creano dipendenza, quelli che nessuno vede o cerca di
immaginare. Non che queste cose fossero aspetti seri della vita vera alla quale lui
amava fare riferimento, i pensieri perduti, i ricordi che spaziano nei decenni, le
pellicine del pollice.
Eppure, in un certo qual modo, lui era tutto l, nell'armadietto dei medicinali,
l'uomo nel suo complesso, contrassegnato con precisione da gocce, cucchiaini e
milligrammi.
- Guardate tutto questo, - disse senza guardarlo, il paesaggio, il cielo che aveva
indicato con un ampio gesto all'indietro del braccio.
Nemmeno noi guardammo.
- Alla fine il giorno diventa notte, ma una questione di luce e oscurit, non il
tempo che passa, il tempo mortale. Non c' il solito terrore. Qui differente, il tempo
enorme, ecco cosa sento qui, in modo tangibile.
Il tempo che ci precede e ci sopravvive.
Mi ci stavo abituando, al modo in cui tarava il suo discorso, decenni e decenni di
pensieri e parole su questioni trascendenti. In questo caso lui parlava a Jessie, era a lei
che si era rivolto fin dall'inizio, sporto in avanti sulla sedia.
Lei disse: - Il solito terrore. Cos' il solito terrore?
- Qui non c', il calcolo minuto per minuto, quella cosa che sento quando sono in
una citt.
E tutto incastrato, le ore e i minuti, parole e numeri ovunque, cos diceva, le
stazioni ferroviarie, gli itinerari degli autobus, i tassametri, le telecamere di
sorveglianza.
Tutto ruota intorno al tempo, tempo cretino, tempo inferiore, la gente che controlla
l'orologio e altri aggeggi, altri sistemi che aiutano a ricordare. il tempo che scorre
via lentissimamente dalla nostra vita.
Le citt sono state costruite per misurare il tempo, per togliere il tempo dalla
natura. C' un eterno conto alla rovescia, diceva. Quando hai strappato via tutte le:.

superfici, quando guardi sotto, ci che resta il terrore. E questo che la letteratura
vuole curare. Il poema: epico, la favola prima di andare a letto.
- Il film, - dissi io.
Mi guard.
- Un uomo davanti al muro.
: - S, - dissi.
- Spalle al muro.
- No, non come un nemico, ma una specie di visione, un fantasma dei consigli di
guerra, una persona libera di dire tutto quello che vuole, cose non dette, cose
confidenziali, valutare, condannare, divagare. Qualsiasi cosa tu dica, quello il film,
tu sei il film, tu parli, io riprendo. Niente grafici, cartine, informazioni aggiuntive.
Faccia e occhi, bianco e nero, quello il film.
Lui disse: - Spalle al muro, pezzo di merda, - e mi diede un'occhiataccia. - Solo che
gli anni Sessanta sono passati da un pezzo e le barricate non ci sono pi.
- Il film la barricata, - gli dissi. - Quella che erigiamo noi, io e te. Quella dove c'
un uomo dritto in piedi che dice la verit.
- Non so mai che dire quando parla cos.
- E una vita che parla ai suoi studenti, - dissi. - Non si aspetta che gli altri dicano
qualcosa.
- Ogni secondo il suo ultimo respiro.
- Sta seduto e pensa, qui per questo.
- E il film che vuoi girare.
- Non posso farlo da solo.
- Ma non ti andrebbe invece di fare un film vero?
Perch quanta gente sarebbe disposta a passare tutto quel tempo a guardare una
cosa cos da zombie?
- Giusto.
- Anche se alla fine lui magari dice roba interessante, sono tutte cose che si
potrebbero leggere su una rivista.
- Giusto, - dissi.
- Non che io vada spesso al cinema. Mi piacciono i vecchi film in televisione, dove
si vede un uomo che accende una sigaretta alla donna. Sembrava non facessero altro
in quei vecchi film, uomini e donne. Di solito io sono cos svaghevole. Ma ogni volta
che vedo un vecchio film in televisione, sto attenta a vedere se c' un uomo che
accende una sigaretta a una donna.
Io dissi: - I passi nei film.
- I passi.
; - Il rumore dei passi nei film non sembra mai reale.
- Sono passi nei film.
- Stai dicendo: perch in fondo dovrebbero sembrare reali?
- Sono passi nei film, - disse lei.
- Un giorno ho accompagnato tuo padre a vedere un film. Si intitolava 24
HourPsycho. Non era un film, ma un'opera d'arte concettuale. Il vecchio film di
Hitchcock proiettato cos lentamente da durare ventiquattro ore.
- Me ne ha parlato.

- Che cosa ti ha detto?


- Mi ha detto che era come stare a guardare l'universo che muore in un periodo di
circa sette miliardi di anni.
- Siamo rimasti li dieci minuti.
- Ha detto che era come vedere l'universo che si contrae.
- uno che pensa in proporzioni cosmiche. Questo lo sappiamo.
- La morte termica dell'universo, - disse lei.
- Pensavo potesse interessargli. Siamo entrati e ce ne siamo andati, dieci minuti, lui
scappato e io l'ho seguito. Per tutte e sei le rampe di scale non mi ha rivolto la
parola. All'epoca camminava col bastone. Discesa lenta, scale mobili, gente, corridoi,
infine le scale.
Nemmeno una parola.
- L'ho incontrato quella sera e me ne ha parlato. Ho pensato che mi sarebbe andato
di vederlo. Il fatto che non succeda nulla, - disse. - Il fatto di aspettare solo per
aspettare. Il giorno dopo sono andata.
- Sei rimasta un po'?
- Sono rimasta un po'. Perch anche quando una cosa succede, tu aspetti comunque
che succeda.
- Quanto sei rimasta?
- Non lo so. Mezz'ora.
- Bene. Mezz'ora va bene.
- Bene, male, boh, - disse.
Elster disse: - Quando era piccola muoveva impercettibilmente le labbra, ripetendo
tra s quello che io stavo dicendo o quello che stava dicendo sua madre.
Osservava con grande attenzione. Io parlavo e lei osservava, cercando di prevedere
quello che avrei detto parola per parola, quasi sillaba per sillaba. Le sue labbra si
muovevano quasi in totale sincronia con le mie.
Jessie gli era seduta di fronte mentre Elster parlava.
Eravamo a tavola, mangiavamo una frittata, mangiavamo frittata quasi ogni sera
ormai. Lui era fiero delle sue frittate e cercava di farsi guardare da lei mentre
rompeva le uova, le sbatteva con la forchetta e cos via, parlando durante tutto il
processo fino al condimento e l'olio d'oliva e le verdure, enunciando la parola
omelette, ma lei non era interessata.
- Pareva una straniera che impara l'inglese, - disse Elster. - Mi stava a un palmo
dalla faccia, cercava di definire le parole che pronunciavo, di assorbirle ed elaborarle.
Osservava, pensava, ripeteva, interpretava. Mi guardava la bocca, mi studiava le
labbra, muoveva le sue. Devo ammettere che ci sono rimasto male quando ha smesso
di farlo. Una persona che ascolta veramente.
Intanto la guardava, sorridendo.
- All'epoca parlava con la gente, sconosciuti. A volte ancora lo fa. Ancora lo fai a
volte, - disse. - Con chi parli?
Jessie che scrolla le spalle.
- La gente in fila alla posta, - disse lui. - Le tate con i bambini.
Lei masticava, a testa bassa, ruotando la frittata nel piatto con la forchetta prima di
tagliarla.

Usavamo lo stesso bagno, io e lei, ma sembrava che non ci andasse quasi mai. Un
piccolo kit da viaggio, unica traccia della sua presenza, era pigiato in un angolo del
davanzale. Sapone e asciugamani li teneva in camera sua.
Era simile a una silfide, il suo elemento era l'aria.
Dava l'impressione che quel posto non fosse diverso da qualsiasi altro, quel Sud e
quell'Ovest, latitudine e longitudine. Si muoveva da uno spazio all'altro con passo
leggero, provando ovunque le stesse sensazioni, ecco cosa c'era, lo spazio interiore.
Il suo letto era sempre sfatto. Diverse volte aprii la porta della sua camera e mi
affacciai a guardare, ma non entrai mai.
Rimanevamo seduti fino a tardi, scotch per tutti e due, la bottiglia sul terrazzo e
stelle a sciami. Elster guardava il cielo, tutto quello che c' stato prima, diceva, li da
vedere, riprodurre su una mappa, pensare.
Gli chiesi se era stato in Iraq. Aveva bisogno di riflettere sulla domanda. Non
volevo che credesse che io gi conoscessi la risposta e gli facessi quella domanda
solo per mettere in discussione la vastit della sua esperienza. La risposta non la
conoscevo.
Disse: - Odio la violenza. Il solo pensiero mi fa paura, non guardo film violenti,
quando al telegiornale fanno vedere morti o feriti mi giro dall'altra parte. Ho fatto a
pugni, da bambino, e ho avuto le convulsioni, - disse. La violenza mi gela il sangue.
Mi disse che aveva un nullaosta pieno, cio l'accesso a ogni minuzia sensibile dell'
intelligence militare.
Sapevo che non era vero. Lo dicevano la sua voce e la sua faccia, una brama piena
di risentimento, e io capivo naturalmente che lui mi raccontava certe cose, vere o no,
soltanto perch ero l, eravamo li tutti e due, isolati, a bere. Ero il suo confidente per
mancanza di meglio, il giovane a cui venivano affidati i dettagli della sua realt
surrogata.
- Un giorno ho parlato loro della guerra. L'Iraq un sussurro, ho detto, I nostri flirt
nucleari con questo o quel governo. Piccoli sussurri, - disse. - Sono convinto che tutto
questo cambier. Sta per succedere qualcosa.
Ma non questo che vogliamo? Non questo il peso della coscienza? Abbiamo
tutti fatto il nostro tempo.
La materia vuole perdere il peso della propria coscienza di s. Noi siamo la mente
e il cuore in cui la materia si trasformata. E giunta l'ora di chiudere bottega. E
questo che ci guida adesso.
Rabbocc il suo bicchiere e mi pass la bottiglia. Ci stavo provando gusto.
- Vogliamo essere la materia inerte che eravamo un tempo. Siamo l'ultimo
miliardesimo di secondo nell'evoluzione della materia. Da studente andavo alla
ricerca di idee radicali. Scienziati, teologi, leggevo gli scritti dei mistici dei vari
secoli, ero una mente famelica, una mente pura. Riempivo quaderni con le mie
versioni della filosofia mondiale. E oggi eccoci qua. Non facciamo che inventare
leggende popolari sulla fine. La diffusione di malattie animali, tumori contagiosi. Che
altro?
- Il clima, - dissi io.
- Il clima.
- L'asteroide, - dissi.

- L'asteroide, il meteorite. Che altro?


- Carestia, su scala planetaria.
- Carestia, - disse lui. - Che altro?
- Dammi un secondo.
- Non importa. Perch tutto questo non mi interessa.
Non so che farmene. Dobbiamo pensare al di l di queste cose.
Non volevo che si fermasse. Eravamo seduti tranquilli a bere e io cercavo di
pensare ad altre possibili prospettive per la fine della vita umana sulla terra.
- Ero uno studente. Pranzavo e studiavo. Studiavo l'opera di Teilhard de Chardin, disse. - And in Cina, un prete fuorilegge, Cina, Mongolia, in cerca di ossa. Pranzavo
sui libri aperti. Non avevo bisogno del vassoio. I vassoi restavano impilati all'inizio
della fila nella mensa dell'universit. Lui diceva che il pensiero umano vivo, circola.
E la sfera del pensiero umano collettivo, ecco, quella si sta avvicinando al suo
periodo finale, gli ultimi bagliori. Un tempo esisteva il cammello nordamericano. Che
fine ha fatto?
Stavo quasi per dire: E in Arabia Saudita. Ma mi limitai a ripassargli la bottiglia.
- Tu parlavi con loro. Si trattava di riunioni del gruppo normativo? Chi c'era? chiesi. - Pezzi grossi dei ministeri? Gente dell'esercito?
- C'era chi c'era. Ecco chi c'era.
Mi piacque questa risposta. Diceva tutto. Pi ci pensavo pi tutto mi appariva
chiaro.
Disse: - La materia. Tutti gli stadi, dal livello subatomico agli atomi alle molecole
inorganiche. Noi ci espandiamo, corriamo verso l'esterno, la natura della vita dalla
nascita della cellula in poi. La cellula ha rappresentato una rivoluzione. Cio, pensa. I
protozoi, le piante, gli insetti, che altro?
- Non lo so.
:. - I vertebrati.
- I vertebrati, - dissi.
- E le conformazioni finali. Il serpeggiare, lo strisciare, il bipede accovacciato,
l'essere cosciente, l'essere cosciente di s. La materia bruta che diventa il pensiero
umano analitico. La nostra meravigliosa complessit mentale.
Fece una pausa, bevve, fece un'altra pausa.
- Cosa siamo?
- Non lo so.
- Siamo una folla, uno sciame. Pensiamo in gruppi, viaggiamo in eserciti. Gli
eserciti portano il gene dell'autodistruzione.
Una bomba non mai abbastanza. La confusione della tecnologia, l che gli
oracoli tramano le loro guerre. Perch adesso arriva l'introversione.
Padre Teilhard lo sapeva, il punto omega. Un salto fuori dalla nostra biologia.
Chieditelo. Dobbiamo essere umani per sempre? La coscienza esaurita. Ora si
ritorna alla materia inorganica. questo che vogliamo.
Vogliamo essere pietre in un campo.
Entrai a prendere del ghiaccio. Quando tornai lui stava pisciando gi dal terrazzo,
in punta di piedi per impedire al flusso che affiorava di toccare la ringhiera.
Ci mettemmo seduti ad ascoltare i versi degli animali lontani tra gli alberi e poi ci

ricordammo dove eravamo e, quando i versi non si sentirono pi, rimanemmo un po'
senza parlare. Disse che gli sarebbe piaciuto aver continuato a fare lo studente, essere
andato in Mongolia, vera lontananza, a vivere, lavorare e pensare. Mi chiam Jimmy.
- Avrai modo di parlare di tutte queste cose, - dissi. Parlare, fermarti, pensare,
parlare. La tua faccia, dissi. - Quello che sei, le cose in cui credi. Altri pensatori,
scrittori, artisti, nessuno ha mai fatto un film del genere, niente di programmato,
niente di provato, nessuna ambientazione elaborata, nessuna conclusione in anticipo,
una cosa completamente a viso scoperto, per cos dire, senza tagli.
Pronunciai queste battute biascicando per il whisky, semiconsapevole che non era
la prima volta che le dicevo; sentii un profondo respiro e poi la sua voce, tranquilla e
controllata, triste, addirittura.
- Quello che vuoi, amico mio, che tu te ne renda conto o no, una confessione
pubblica.
Non aveva senso. Gli dissi che non era assolutamente cos. Gli dissi che non avevo
la minima intenzione di fare una cosa del genere.
- Una conversione in punto di morte. Ecco cosa vuoi. La stoltezza, la vanit
dell'intellettuale. La cieca vanit, l'idolatria del potere. Perdonatemi, assolvetemi.
Respinsi con forza questa ipotesi, dentro di me, e gli dissi che non avevo nessuna
idea precisa oltre a quello che gli avevo descritto.
- Tu vuoi riprendere il crollo di un uomo, - disse.
- Lo capisco. Altrimenti che senso ha?
Un uomo che si fonde con la guerra. Un uomo che ancora crede nella giustezza
della guerra, la sua guerra.
Che faccia avrebbe, che direbbe in un film, in un cinema, su uno schermo
qualsiasi, mentre parla di una guerra haiku? Ci avevo pensato? Avevo pensato alla
parete, al colore e al materiale della parete, e avevo pensato alla faccia dell'uomo, a
quei lineamenti che erano forti ma anche facili ad afflosciarsi davanti alle varie
crudeli verit che avrebbero potuto pervadergli gli occhi, e poi mi venne in mente un
primo piano di Jerry Lewis del 1952, Jerry che si strappava via la cravatta mentre
cantava una ballata struggente di un qualche musical di Broadway.
Prima di entrare in casa, Elster mi strinse una spalla con fare apparentemente
rassicurante e io rimasi sul terrazzo per un po', troppo sprofondato nella mia sdraio,
nella notte, per arrivare a prendere la bottiglia di scotch. Dietro di me la luce della sua
camera da letto si spense, rischiarando il cielo, e che strana sensazione, mezzo
firmamento che si avvicinava, tutte quelle masse incandescenti che diventavano pi
numerose, stelle e costellazioni, solo perch qualcuno spegneva una luce in una casa
nel deserto, e mi dispiacque che lui non fosse li con me a parlarmi di tutto questo, ci
che vicino e ci che lontano, quello che pensiamo di vedere, ma che in realt non
vediamo.
Mi chiesi se non stessimo diventando una famiglia, non pi strana della maggior
parte delle famiglie, solo che noi non avevamo niente da fare, nessun posto dove
andare, ma nemmeno questo particolarmente strano, padre, figlia e io, che non si
sapeva bene cosa fossi.
C'era un'altra cosa che diceva lei, mia moglie, con benevolenza, a proposito del

mio atteggiamento nei confronti della vita da una parte e del cinema dall'altra.
Perch cos difficile essere seri e cos facile essere troppo seri? La porta del
bagno era aperta, mezzogiorno, e dentro c'era Jessie, a piedi nudi, in T-shirt e
mutande, con la testa sul lavandino, che si lavava la faccia. Indugiai sulla soglia. Non
sapevo se volevo che mi vedesse li.
Non immaginai di entrare e fermarmi alle sue spalle per curvarmi verso di lei, non
lo vidi chiaramente, le mie mani che si infilavano sotto la T-shirt, le mie ginocchia
che le allargavano le gambe in modo da permettermi di stringere pi forte, infilarmi
su e dentro, ma era li in un labile accenno del momento, l'idea di tutto questo, e
quando mi allontanai dalla soglia non mi preoccupai pi di tanto di non fare rumore.
Arriv il custode in macchina, un uomo tozzo con un berretto col disegno di un
trattore e un orecchino.
Si occupava della casa quando Elster non c'era, e cio, quasi ogni anno, pi o meno
per dieci mesi l'anno.
Lo osservai mentre girava l'angolo e raggiungeva il lato della casa dove si trovava
il serbatoio di gas propano. Quando torn sul davanti gli feci un cenno col capo
mentre mi passava vicino entrando in casa.
Non mostr di aver notato la mia presenza. Pensai che probabilmente viveva in
uno di quegli eccentrici ammassi di baracche, roulotte e macchinone ferme sui
mattoni, piccoli insediamenti acquattati a volte visibili dalle strade asfaltate.
Elster lo segu in cucina, parlandogli di un problema ai fornelli, e io rivolsi lo
sguardo alle colline di gesso e mi osservai in cornice da quella distanza, con occhio
clinico, uomo con paesaggio contro il lungo giorno, appena visibile.
Il pranzo era elastico, flessibile, si mangiava quando e dove si voleva. Mi ritrovai a
tavola con Elster, che esaminava le sottilette che Jessie aveva comprato durante il
nostro ultimo viaggio in citt. Disse che erano state colorate con uranio impoverito e
poi le mangi, spalmandoci sopra abbondante senape, tra fette di pane da galera, e io
feci lo stesso.
Lei era il sogno di suo padre. Il quale non sembrava sconcertato dalla reazione
stentata della ragazza alle sue manifestazioni d'affetto. Era una cosa naturale per lui
non farci caso. Non sono sicuro che Elster capisse il fatto che lei non era lui.
Quando ebbe finito il panino si sporse in avanti, con i gomiti poggiati sul tavolo, la
voce pi bassa.
- Io non devo per forza vedere un bighorn prima di morire.
- Okay, - dissi.
- Ma voglio che Jessie lo veda.
- Okay. Prendiamo la macchina.
- Prendiamo la macchina, - disse lui.
- A un certo punto probabilmente dovremo scendere dalla macchina e salire a piedi.
Credo che stiano spesso sulle cornici di roccia. Anch'io vorrei vederli. Non so
esattamente perch.
Si sporse ancora pi in avanti.
- Sai perch lei qui?
- Immagino che ti andasse di vederla.
- Mi va sempre di vederla. Sua madre, stata un'idea di sua madre. C' un uomo

con cui Jessie si vede.


- Okay.
- E sua madre ha certe idee sulle mire di quest'uomo o il suo modo di fare in genere
o il suo aspetto o quello che . E col solito atteggiamento autoritario ha stabilito che
Jessie dovesse allontanarsi un po' da lui, per ora, temporaneamente, per vedere
quanto gli fosse davvero affezionata.
- E quindi eccola qui. E tu gliene hai parlato.
- Ci ho provato. Lei non dice molto. Non c' problema, ecco cosa dice lei. Sembra
che questo tizio le piaccia. Si vedono. Parlano.
- Che grado di intimit c' fra di loro?
- Parlano.
- Fanno sesso?
- Parlano, - disse lui.
A quel punto eravamo tutti e due curvi sul tavolo, uno di fronte all'altro, e
bisbigliavamo con un certo imbarazzo.
- Ha mai avuto una storia?
- Devo ammettere che me lo sono chiesto.
- Nessun fidanzato serio.
- Non credo, no, decisamente.?
- L'ha mandata sua madre. Questo deve pur voler dire qualcosa.
- Sua madre una donna bellissima, ancora oggi, ma fra me e lei continua a non
correre buon sangue, e quando manda la ragazza da me, si, vuol dire qualcosa.
Per anche pazza. E una persona completamente squilibrata che tende a esagerare
qualsiasi cosa.
- Il tizio non uno stalker. Non si tratta di questo.
- Cristo, no, non uno stalker, odio questa parola.
Forse insistente, tutto qui. Oppure balbetta. O ha un occhio marrone e uno
celeste.
- Le mogli. Che argomento, - dissi.
- Le mogli, s.
- Quante?
- Quante. Due, - disse.
- Solo due. Pensavo di pi.
- Solo due, - disse. - Sembrano di pi.
- Tutte e due pazze. Tiro a indovinare.
- Tutte e due pazze. Con gli anni matura.
- Cosa, la pazzia?
- All'inizio non si nota. O la nascondono o ha solo bisogno di maturare. E una volta
che matura inconfondibile.
- Ma Jessie il tesoro, la gioia.
- Infatti. E tu?
- Niente figli.
- Tua moglie. La moglie separata. pazza?
- Lei pensa che il pazzo sia io.
- Ma tu non ci credi, - disse lui.

- Non lo so.
- Cosa vuoi proteggere? E pazza. Dillo.
Parlavamo ancora a voce bassissima, a forza di sussurri il nostro legame si stava
consolidando, eppure non avevo intenzione di dirlo. Mi appoggiai allo schienale della
sedia, chiusi gli occhi per qualche istante e vidi il mio appartamento, nitido, calmo e
vuoto, le quattro del pomeriggio ora locale, e sembrava ci fossero pi cose di me in
quella luce polverosa di quante ce ne fossero qui, in casa o sotto il cielo aperto, e mi
chiesi se volevo davvero tornare a essere quello che vive nel bilocale circondato dalla
citt costruita per misurare il tempo, secondo la visione di Elster, il tempo furtivo
degli orologi, dei calendari, dei minuti ancora da vivere.
Poi lo guardai e gli chiesi se c'era un binocolo in casa.
Avremo bisogno di un binocolo per la spedizione, gli dissi. Sembrava perplesso. Il
bighorn, dissi. Se non veniamo spazzati via da un'esondazione. Se non moriamo per il
caldo. Ci serve un binocolo a portata di mano per poter osservare i particolari. Il
maschio quello con le corna, grandi e curve.
A cena lei disse una cosa buffa, che a New York i suoi occhi erano pi vicini, per
via della continua congestione del traffico. Dove era adesso invece gli occhi si
allontanavano, gli occhi si adattano alle condizioni ambientali, come le ali e il becco
degli animali.
Altre volte appariva sorda a tutto ci che poteva sollecitare una reazione. Il suo
sguardo era come limitato, non arrivava al muro o alla finestra. Osservarla mi
turbava, sapendo che non si sentiva osservata. Dov'era?
Non era persa nei pensieri o nei ricordi, non stava misurando il corso dell'ora o del
minuto successivo. Era irreperibile, saldamente ancorata dentro di s.
Il padre si sforzava in tutti i modi di non far caso a questi suoi momenti. Se ne
stava seduto in fondo alla stanza con i suoi poeti, muovendo le labbra mentre
leggeva.
Avevo avvicinato Richard Elster dopo una sua conferenza alla New School, e
senza perdere tempo gli avevo parlato subito della mia idea per il film, semplice e
incisivo, gli dissi, un uomo e la guerra, e nemmeno lui perse tempo, lasciandomi
inchiodato a un gesto nel bel mezzo di una frase, ma solo per un momento. Lo seguii
lungo il corridoio, parlando meno velocemente, e poi in ascensore, continuando a
parlare, e quando fummo in strada lui mi guard e fece un commento sul mio aspetto,
disse che somigliavo a lui quando era molto pi giovane, uno studente denutrito e
stremato.
Lo presi come un incoraggiamento, gli diedi il mio biglietto da visita e lo ascoltai
mentre lo leggeva ad alta voce, Jim Finley, Deadbeat Films. Ma a lui non interessava
prendere parte a un film, n il mio n quello di nessun altro.
Il secondo incontro fu pi lungo e strano. Museum of Modern Art. Per quante volte
io vada in quel museo, camminando da est verso ovest, l'edificio ogni volta un po'
pi gi rispetto a quella precedente. Guardavo una mostra sul dadaismo e vidi Elster,
solo, curvo su una vetrinetta. Sapevo che aveva scritto qualcosa sui significati del
maternese e perci non poteva che provare interesse per un'importante mostra di
oggetti creati in nome della logica demolita. Lo seguii per mezz'ora.
Guardai le cose che guardava lui. Alcune volte si appoggiava al bastone, altre lo

portava e basta, come capitava, orizzontalmente, tra le ondate di persone. Mi dissi sta'
calmo, sii civile, parla lentamente. Quando fece per imboccare l'uscita lo avvicinai,
gli ricordai del nostro incontro precedente, usai un po' di maternese e poi lo spinsi
gentilmente per tutto il sesto piano fino alla galleria dove c'era l'installazione dello
Psycho rallentato.
Rimanemmo in piedi al buio a guardare. Sentii quasi immediatamente che Elster
stava opponendo resistenza. C'era qualcosa che veniva sovvertito, il suo tradizionale
linguaggio di reazione. Immagini abortite, tempo che crollava, un'idea cos aperta alla
teoria e alla discussione da non lasciargli alcun contesto chiaro da dominare, solo
puro e semplice rifiuto. Una volta in strada finalmente parl, perlopi del suo
ginocchio dolorante.
Niente film, neanche per idea, mai e poi mai.
Una settimana dopo telefon e disse di trovarsi in una localit chiamata Anza
Borrego, in California. Non l'avevo mai sentita nominare. E poi per posta arriv una
cartina disegnata a mano, strade e sentieri per jeep, e cos il pomeriggio seguente
presi un volo economico.
Due giorni, pensai. Al massimo tre.
3
Ogni momento perduto la vita. Non si pu conoscere se non singolarmente,
ognuno di noi in modo ineffabile, quest'uomo, questa donna. L'infanzia vita perduta
rivendicata ogni secondo, cos diceva lui. Due bambini piccoli da soli in una stanza,
una luce fiochissima, sono gemelli, ridono. Trent'anni dopo, uno a Chicago, l'altro a
Hong Kong, sono il tema del momento.
Un momento, un pensiero, che arriva e scompare, ognuno di noi, su una strada in
un posto qualsiasi, e questo tutto quanto. Mi chiesi cosa intendesse per tutto quanto.
quello che chiamiamo io, la vita vera, disse, l'essere essenziale. E l'io che sguazza
beato in ci che sa, e ci che sa che non vivr per sempre.
Un tempo, quando andavo al cinema, rimanevo seduto a leggere i titoli di coda,
fino alla fine. Era un'abitudine che andava contro la logica e il buonsenso. Avevo una
ventina d'anni, non ero allineato da nessun punto di vista, e non lasciavo mai il mio
posto a sedere finch non erano scorsi tutti i nomi e i titoli. I titoli erano una lingua
risalente a una guerra antica. Ciacchista, maestro d'armi, cascatore, organizzatore di
scene di massa.
Non potevo fare a meno di stare seduto a leggere.
La sensazione era quella di cedere a una qualche debolezza morale. L'esempio pi
potente di tutto questo si manifest dopo l'ultimo fotogramma di un grosso film
hollywoodiano, nel momento in cui cominciarono i titoli di coda, una cosa che dur
cinque, dieci, quindici minuti e comprendeva centinaia di nomi, migliaia di nomi. Era
il declino e la caduta, uno spettacolo dell'eccesso quasi pari al film, ma io non volevo
che finisse.
Era parte dell'esperienza, ogni cosa era importante, assorbirla, sopportarla,
stuntmen delle scene in auto, arredatori, contabilit del personale. Lessi i nomi, tutti,

la maggior parte, gente reale, chi erano, perch cos tanti, nomi che mi
perseguitavano al buio. Alla fine dei titoli io ero da solo in sala, forse una signora
anziana seduta da qualche parte, vedova, i cui figli non la chiamano mai. Smisi di
farlo quando cominciai a lavorare nel business, anche se non lo consideravo per
niente un business. Era cinema e basta, e io ero pi che mai deciso a fare un film,
girare un film. A film. Ein film.
Li, con loro, non sentivo la mancanza dei film. Il paesaggio cominciava a sembrare
normale, la distanza era normale, il caldo era il tempo che faceva e il tempo che
faceva era il caldo. Cominciavo a capire cosa intendeva Elster quando diceva che da
quelle parti il tempo che passava era cieco. Al di l degli arbusti e dei cactus tipici
della regione, solo onde di spazio, ogni tanto qualche tuono lontano, l'attesa della
pioggia, lo sguardo che spazia dalle colline alla catena montuosa che ieri c'era e oggi
persa nei cieli senza vita.
- Caldo.
- Esatto, - disse Jessie.
- Di' la parola.
- Caldo.
- Senti come picchia.
- Caldo, - disse.
Era seduta al sole, la prima volta che la vedevo al sole, indossava quello che
portava sempre, dei jeans che adesso erano arrotolati fino al polpaccio, le maniche
della camicia tirate sui gomiti, e io stavo in piedi all'ombra e la guardavo.
- Cos muori.
- Cos come?
- Seduta al sole.
- Cos'altro c' da fare?
- Stare dentro e programmare la giornata.
- E comunque dov' che siamo? - disse. - Probabilmente nemmeno lo so.
Io non usavo il cellulare e non toccavo quasi mai il mio laptop. Cominciavano a
sembrare aggeggi deboli, a prescindere dalla velocit e dal campo, sopraffatti dal
paesaggio. Jessie cercava di leggere libri di fantascienza, ma niente di quello che
aveva letto fino ad allora poteva avvicinarsi all'assoluta inimmaginabilit della vita
ordinaria su questo pianeta, cos diceva lei.
Suo padre trov una coppia di manubri in un armadio, tre chili, tre chili e mezzo
l'uno, made in Austria. Da quanto tempo erano li? Chi ce li aveva portati? Chi li
aveva usati? Cominci a usarli lui, sollevava e respirava, sollevava e ansimava, un
braccio, poi l'altro, su e gi, facendo dei versi come durante uno strangolamento
controllato, asfissia autoerotica.
Io che facevo? Riempivo il frigo box di blocchetti di ghiaccio e bottiglie d'acqua e
facevo giri in macchina senza meta, ascoltando cassette di cantanti blues.
Scrissi una lettera a mia moglie e poi cercai di decidere se spedirla o stracciarla o
aspettare un paio di giorni per poi riscriverla e spedirla oppure stracciarla. Buttavo
bucce di banana per gli animali gi dal terrazzo e, pi o meno verso il ventiduesimo
giorno, smisi di contare i giorni trascorsi dal mio arrivo.
In cucina lui disse: - Conosco la tua vita coniugale.

Era quel genere di rapporto in cui ci si dice tutto. Tu le dicevi tutto. Ti guardo e te
lo leggo in faccia. la cosa peggiore che si possa fare in un matrimonio. Dirle tutto
quello che provi, tutto quello che fai. Ecco perch lei pensa che sei pazzo.
A cena, davanti a un'altra frittata, agitando la forchetta disse: - Tu capisci che non
una questione di strategia.
Io non parlo di segreti o inganni. Parlo di essere se stessi. Se riveli tutto, se metti a
nudo ogni sentimento, se chiedi comprensione, perdi qualcosa di cruciale per il senso
che hai di te stesso. Abbiamo bisogno di sapere cose che gli altri non sanno. E quello
che nessuno sa di te che ti permette di conoscerti.
Jessie spostava i bicchieri e i piatti nella credenza in modo che non usassimo
sempre gli stessi trascurando gli altri. Lo faceva durante periodici attacchi di energia,
come posseduta, trovando una disposizione sistematica nel lavello, nello scolapiatti e
sui ripiani. Suo padre la incoraggiava in questo. Asciugava i piatti e poi la guardava
sistemarli, ognuno nel suo posto preciso. Era operativa, dava una mano in giro per
casa e lo faceva al massimo grado, cosa buona, cosa ottima, diceva lui, perch che
senso ha lavare i piatti se non si spinti da qualcosa che va oltre la mera necessit.
Le disse: - Prima che te ne vai voglio che tu veda, un bighorn.
Lei rimase a bocca aperta e allung le mani, con i palmi in su, quasi a voler dire
ma come ti venuto in mente, quasi a voler dire cosa ho fatto per meritarmelo, gli
occhi spalancati, da bambina di un fumetto, sbalordita.
La notte parl delle gallerie d'arte nella zona di Chelsea.
Andava in queste gallerie con un'amica di nome Alicia.
Disse che Alicia era un po' un'oca giuliva. Disse che passeggiavano per il lungo
stradone scegliendo le gallerie a caso, guardavano le opere d'arte e poi tornavano in
strada, giravano l'angolo e prendevano la strada successiva, passeggiavano e
guardavano, e un giorno le venne in mente qualcosa di inspiegabile.
Facciamo la stessa cosa, avanti e indietro sulle stesse strade, ma senza entrare nelle
gallerie. Alicia disse di si, all'istante o quasi. Fecero cos e fu una cosa sottilmente
emozionante, disse lei, praticamente fu l'ideona della loro vita, per entrambe.
Passeggiare per quelle strade lunghe e quasi vuote nei pomeriggi feriali e senza
neanche dirselo saltare a pie pari le opere d'arte e poi attraversare la strada,
camminare sull'altro lato della stessa strada, girare l'angolo e imboccare la strada
successiva e camminare per la strada successiva e attraversare e camminare per la
stessa strada. Avanti e indietro e poi la strada successiva, sempre cos, passeggiando e
chiacchierando. Tutto questo rendeva davvero l'esperienza pi profonda, disse lei, la
migliorava e la rendeva comprensiva, di strada in strada.
La notte si mise sul bordo del terrazzo, rivolta verso il buio, con le mani sulla
ringhiera.
Era quasi una posa studiata, cosa non da lei, e io mi alzai, senza sapere bene il
perch, mi alzai a guardarla.
La luce nella camera di Elster era ancora accesa. Forse volevo che lei si girasse e
mi vedesse li, in piedi. Se avessi parlato avrebbe intuito che ero in piedi. La
provenienza della voce le avrebbe fatto capire che ero in piedi e si sarebbe chiesta
perch e poi si sarebbe girata a guardarmi. Da questo avrei capito cosa voleva, dal
modo in cui si girava, dalla sua espressione, o cosa volevo io. Perch dovevo essere

abile, accorto. Li eravamo soli, noi tre, e io ero quello in mezzo, il potenziale
distruttore, quello che mandava a puttane la famiglia.
Quando la luce nella camera di Elster si spense mi resi conto che quel momento era
una innocente regressione, il ragazzino e la ragazzina di un'altra epoca che aspettano
che i genitori di lei vadano a letto, solo che i genitori erano divorziati e in pessimi
rapporti e la madre era a letto gi da tre ore, fuso orario della costa orientale, e
probabilmente non da sola.
Le chiesi di venire a sedersi con me. Usai quell'espressione, sedersi con me. Lei
venne dalla mia parte del terrazzo e rimanemmo seduti cos per un po'. Disse che
stava pensando a una coppia di anziani che qualche volta aveva accompagnato dai
medici e che aveva aiutato un po' nelle faccende di casa. Passavano i pomeriggi a
guardare la TV e la donna non faceva che osservare il marito per controllare le sue
reazioni a qualsiasi cosa dicessero o facessero le persone sullo schermo. Ma lui non
aveva nessuna reazione, non aveva mai reazioni, non faceva nemmeno caso al fatto
che lei lo osservava, e Jessie pensava che quello in un certo senso fosse il lungo
spettacolo di un matrimonio, goccia a goccia, una testa che si gira, l'altra che non si
rende conto di niente.
Perdevano le cose in continuazione e trascorrevano ore e poi giorni a cercarle, il
mistero degli oggetti che sparivano, occhiali, penne stilografiche, documenti delle
tasse, le chiavi naturalmente, scarpe, una scarpa, tutte e due, e a Jessie piaceva
cercare, le riusciva bene, tutti e tre si aggiravano nell'appartamento parlando,
cercando, provando a ricostruire. Marito e moglie usavano vecchie penne
stilografiche con l'inchiostro vero. Erano due brave persone, ricche ma non
schifosamente, che perdevano le cose, le mettevano nel posto sbagliato, le facevano
cadere in continuazione.
Facevano cadere cucchiai, libri, perdevano spazzolini da denti. Persero un quadro
di un famoso artista americano vivente che Jessie ritrov in fondo a un armadio. Poi
osserv la moglie che guardava il marito per controllare la sua reazione e si rese
conto che era diventata parte del rituale, lei che guardava l'altra che guardava l'altro.
Erano persone normalissime come tutte le altre e nonostante questo erano normali,
disse. Se fossero state solo un poco pi normali avrebbero rischiato di diventare
pericolose.
Le presi una mano, senza sapere nemmeno io bene il perch. Mi piaceva
immaginarla con quelle persone anziane, tre innocenti che setacciavano le stanze per
ore e ore. Lei mi lasci fare, comportandosi come se non se ne fosse nemmeno
accorta. Era parte della sua asimmetria, la mano inerte, il viso impassibile, e questo
non mi fece necessariamente pensare che il momento potesse estendersi fino a
comprendere altri gesti, di natura pi intima. Era seduta accanto a uno qualsiasi,
parlava attraverso me con la donna in sari sull'autobus, con la segretaria nello studio
medico.
Tutto questo non import pi quando si accese la luce nella stanza di suo padre. Io
non sapevo come liberare la mia mano senza sentirmi ridicolo. La mossa doveva
essere strategica, non tattica, doveva coinvolgere tutto il corpo, cos mi alzai e andai
alla ringhiera, la mano era solo un dettaglio secondario. Lui venne fuori strascicando i
piedi e mi pass davanti, il pigiama puzzava di vecchio, il corpo di vecchio, la stanza,

le lenzuola, la puzza fedele lo segu fino alla sedia.


- Vuoi qualcosa da bere?
- Scotch, liscio, - rispose.
Dentro sentii la porta a zanzariera che si apriva e si chiudeva e guardai lei che
attraversava il soggiorno e imboccava il corridoio, serata finita, una delle cento volte
che l'avevo scorta o le ero passato accanto o avevo varcato una soglia mentre lei
usciva, una piccola vita di incontri mancati, come quando vedi tua sorella che cresce,
solo che in questo caso c'era un disturbo, un'indistinta agitazione nell'aria.
Gli portai lo scotch fuori, vodka per me, un cubetto, la vastit della notte, luna in
transito. Quando era piccola, disse lui, e io aspettai che bevesse un sorso di whisky.
Doveva toccarsi un braccio o la faccia per sapere chi era. Succedeva di rado, ma
succedeva, continu.
Si portava la mano alla faccia. Questa Jessica. Il suo corpo non c'era finch lei
non lo toccava. Adesso non se lo ricorda, era piccola, dottori, visite, sua madre che la
pizzicava, reazioni minime. Non era il tipo di bambina che ha bisogno di amici
immaginari. Era gi immaginaria a se stessa.
Dopodich non parlammo di nulla di speciale, questioni domestiche, andare in
citt, ma il sussurro di certi temi continuava ad aleggiare ai margini del discorso.
L'amore del padre, eccone uno, e la vita impantanata dell'altro uomo, e la ragazza
che non voleva essere li, e anche altre questioni, implicite, la guerra, il ruolo di lui, il
mio film.
Dissi: - La cinepresa poggia su un treppiede. Io ci sto seduto accanto. Tu guardi
me, non in macchina. Mi servir della luce che c'. Ci sono i rumori della strada?
Chi se ne frega. E un film allo stato scimmiesco.
L'alba dell'uomo.
Un accenno di sorriso. Sapeva che le mie erano solo chiacchiere. Il motivo per cui
ero l stava cominciando a svanire. Ero l e basta, e parlavo. Volevo smarrire l'idea di
dover tornare dov'ero prima, alla responsabilit, alle vecchie afflizioni, all'assillo di
cominciare qualcosa che non avrebbe portato da nessuna parte. Quanti inizi ci
vogliono prima che si comincino a vedere le menzogne del proprio entusiasmo? Ben
presto, un giorno o l'altro, tutti i nostri discorsi, i miei e i suoi, saranno come quelli di
lei, solo discorsi, autonomi, senza riferimenti esterni. Staremo qui come ci stanno le
mosche e i topi, limitati nello spazio, senza vedere e sapere nulla se non quello che ci
permette la nostra natura inadeguata. Un fioco idillio nelle piatte lande estive.
- Il tempo che si sgretola. Ecco cosa sento qui, disse. - Il tempo che lentamente
invecchia. Diventa vecchissimo. Non giorno dopo giorno. Si tratta di un tempo
profondo, tempo epocale. Le nostre vite che si ritirano nel lungo passato. Ecco cosa
c' qui. Il deserto del pleistocene, la legge dell'estinzione.
Pensavo a Jessie che dormiva. Chiudeva gli occhi e scompariva, era uno dei suoi
talenti, pensavo, sprofonda in un sonno immediato. Ogni notte la stessa cosa.
Dorme su un fianco, rannicchiata, embrionale, senza quasi respirare.
- La coscienza si accumula. Comincia a riflettere su se stessa. C' qualcosa in tutto
questo che mi sa quasi di matematico. C' quasi una legge matematica o fisica che
non abbiamo ancora del tutto inquadrato, secondo la quale la mente trascende ogni
direzione procedendo verso l'interno. Il punto omega, - disse. - A prescindere dal

senso originario di questa espressione, se un senso ce l'ha, se non uno di quei casi in
cui la lingua si sforza di arrivare a un'idea al di fuori della nostra esperienza.
- Che idea?
- Che idea. Il parossismo. O una sublime trasformazione di mente e anima o una
convulsione materiale.
Vogliamo che succeda.
- Secondo te vogliamo che succeda.
- Vogliamo che succeda. Una forma di parossismo.
Gli piaceva quella parola. Lasciammo che aleggiasse fra noi.
- Pensaci. Abbandoniamo del tutto l'essere. Pietre.
A meno che le pietre non siano anche loro degli esseri.
A meno che una mutazione profondamente mistica non trasfonda l'essere in una
pietra.
Le nostre camere avevano una parete in comune, la mia stanza e quella di lei, e io
mi immaginavo disteso sul letto, semincosciente, per met in preda ad allucinazioni,
c' una parola che descrive questo stato, e provai a pensare a questa parola su due
livelli, seduto sul terrazzo e buttato sul letto, ipnagogico, questa era la parola, ed ecco
Jessie a solo un metro di distanza da me, che sogna serena.
- Basta cos per una notte sola, - fece. - Direi proprio che basta.
Sembrava cercasse un posto dove poggiare il bicchiere.
Glielo presi di mano e lo guardai entrare in casa e poco dopo la luce della sua
camera si spense.
O completamente sveglia, non riesce a dormire, nessuno dei due ci riesce, e lei
distesa supina, con le gambe divaricate, e io sono seduto a letto e fumo anche se non
tocco una sigaretta da cinque anni, e lei indossa quello che normalmente indossa
quando si mette a letto, una T-shirt che le arriva alle cosce.
Avevo ancora in mano il bicchiere di Elster. Lo poggiai sul terrazzo e finii il mio
drink, lentamente, e alla fine posai il mio bicchiere accanto al suo. Entrai in casa e
spensi un paio di luci e poi mi fermai davanti alla sua stanza. C'era una fessura tra la
porta e lo stipite, io spinsi piano la porta e rimasi l, aspettando che il buio si
dissipasse permettendomi di distinguere le forme. Ed eccola li, a letto, ma ci misi un
po' prima di capire che mi stava guardando. Era sotto le lenzuola e mi guardava e poi
si gir su un fianco con la faccia rivolta al muro, tirandosi le coperte fino al collo.
Pass un istante e riaccostai la porta nella sua posizione iniziale senza fare rumore.
Uscii di nuovo e mi fermai per un po' alla ringhiera. Poi allungai al massimo la sdraio
e mi distesi sulla schiena, con gli occhi chiusi, le mani sul petto, cercando di sentirmi
come nessuno in nessun luogo, un'ombra che parte della notte.
Elster guidava in un silenzio torvo. Era la prassi.
Anche senza traffico, c'erano forze coalizzate contro, a seconda del giorno e
dell'ora: condizioni della strada, minaccia di pioggia, oscurit imminente, le persone
in macchina, la macchina stessa. Il navigatore satellitare era a posto, lo avvisava
quando c'erano svolte, confermava i dettagli delle esperienze passate. Se c'era anche
Jessie, semidistesa sul sedile posteriore, lui cercava di non perdersi niente di quello
che diceva e per lo sforzo stava ingobbito verso il volante tutto teso e concentrato.
A lei piaceva leggere i segnali stradali ad alta voce, Zona Riservata, Pericolo

Inondazioni Improvvise, Telefono Pubblico, Caduta Massi Per Le Prossime 6 Miglia.


Stavolta eravamo soli, io e lui, andavamo in citt per fare il pieno di provviste. Non
voleva che guidassi io, non si fidava di altri guidatori, gli altri guidatori non erano lui.
Nel supermercato si muoveva tra gli scaffali scegliendo i vari prodotti, buttandoli
nel cestino. Io facevo lo stesso, ci eravamo divisi il negozio, camminando
velocemente e con competenza e incrociandoci, qualche volta, ma senza guardarci
negli occhi.
Sulla via del ritorno mi sorpresi a osservare con una certa attenzione le scritte
sull'asfalto che avvertivano dei lavori in corso. Ero assonnato, fissavo davanti a me, e
subito gli schizzi sul parabrezza mi sembrarono ancora pi interessanti dell'asfalto.
Quando passammo sul pietrisco della strada sterrata, Elster rallent di colpo e quel
leggero ballonzolio mi fece quasi addormentare.
Non avevo la cintura allacciata. Di solito appena metteva in moto Elster diceva:
La cintura.
Mi raddrizzai sul sedile e sciolsi le spalle. Mi guardai lo sporco sotto le unghie. La
regola della cintura di sicurezza era nata per Jessie, ma lei non sempre ottemperava.
Superammo il letto lungo e sottile di un torrente e a me venne l'impulso di
tamburellare sul cruscotto, come fosse un tamtam, per riattivare la circolazione.
Invece chiusi gli occhi e rimasi seduto li dov'ero, in nessun luogo preciso, ad
ascoltare.
Quando tornammo lei non c'era.
Lui la chiam dalla cucina. Poi la cerc per tutta la casa. Volevo dirgli che era
uscita a fare una passeggiata.
Ma sarebbe sembrato falso. Era una cosa che non faceva li. Non l'aveva mai fatto
da quando era arrivata.
Poggiai la spesa sul ripiano della cucina e andai fuori per battere le immediate
vicinanze, scalciando tra gli arbusti spinosi e abbassandomi per schivare i rami dei
mesquite. Non sapevo nemmeno io cosa stavo cercando.
La macchina che avevo noleggiato era dove l'avevo lasciata. Controllai l'interno
dell'auto e poi cercai di vedere se c'erano segni recenti di pneumatici sul vialetto
sabbioso che portava alla casa e dopo un po' ci mettemmo sul terrazzo a fissare
intensamente l'immobilit.
Era difficile essere lucidi. Tutta quell'enormit, quel paesaggio vuoto. Lei
continuava ad apparire da qualche parte, in un campo di visione interiore, indistinta
come qualcosa che avevo dimenticato di dire o di fare.
Tornammo di nuovo in casa e cercammo meglio, stanza per stanza, trovammo la
sua valigia, frugammo nel suo armadio, aprimmo i cassetti del suo com. Senza quasi
scambiarci parola, senza fare congetture sul cosa o sul dove. Elster parlava, ma non
con me, poche frasi smozzicate e perplesse sull'imprevedibilit della ragazza.
Attraversai il corridoio ed entrai nel bagno che io e lei avevamo in comune. Il kit
da viaggio sul davanzale.
Nessun bigliettino attaccato allo specchio con lo scotch. Aprii la tenda della doccia,
facendo pi rumore di quanto fosse mia intenzione.
Poi mi venne in mente il capanno, come avevamo fatto a non pensare al capanno.

Provai uno strano senso di stupida euforia. Lo dissi a Elster. Il capanno.


Era stata la prima volta che andavamo da qualche parte senza di lei. Non era voluta
venire, ma noi avremmo dovuto dire qualcosa, e suo padre infatti le aveva detto
qualcosa, ma avremmo dovuto insistere, avremmo dovuto essere irremovibili.
D'accordo, non era impossibile, una lunga passeggiata.
Da qualche giorno faceva meno caldo, il cielo era coperto, c'era persino un po' di
brezza.
Forse non voleva trascorrere un solo minuto di pi in quel posto ed era arrivata a
piedi fino alla prima strada asfaltata sperando in un passaggio. Era difficile credere
che potesse pensare di raggiungere San Diego e poi prendere un aereo per New York,
apparentemente senza bagagli, senza nemmeno un portafoglio. Il portafoglio era sul
suo cassettone con le banconote e le monete sparpagliate attorno, la carta di credito
nel taschino laterale.
Mi fermai sulla soglia del capanno. Cento anni di paccottiglia, ecco cosa vidi,
vetro, stracci, metallo, legno, l da sola, l'avevamo lasciata, e la sensazione nel corpo,
il completo intorpidimento delle braccia e delle spalle, il non sapere cosa dire a lui, e
la possibilit, la pallida eventualit di trovarci sul terrazzo nella luce che svaniva e
vedere lei che avanzava sul vialetto di sabbia e noi che quasi non credevamo ai nostri
occhi, io e lui, e dopo solo qualche istante dimenticare le ultime ore e andare a cena
ed essere quelli che eravamo prima.
Lui era in casa, sul divano, piegato in avanti, parlava rivolto al pavimento.
- Ho provato a convincerla a venire con me. Le ho parlato. Tu mi hai sentito. Lei
ha risposto che non stava bene. Mal di testa. A volte le viene il mal di testa.
Voleva rimanere qui e fare un pisolino. Le ho dato un'aspirina. Le ho portato
un'aspirina e un bicchiere d'acqua. L'ho vista che ingoiava quella cavolo di aspirina.
Era come se cercasse di convincersi che tutto era accaduto proprio cos come lo
diceva.
- Dobbiamo chiamare.
- Dobbiamo chiamare, - disse. - Ma forse diranno che troppo presto? E
scomparsa soltanto da un paio d'ore.
- Chiss quante telefonate ricevono in continuazione per denunciare la scomparsa
di escursionisti. Gente che si perde in continuazione. Da queste parti, in questo
periodo dell'anno, a prescindere dal caso specifico, devono agire in fretta, - dissi.
Gli unici telefoni erano i nostri cellulari, il pi veloce mezzo d'accesso che
avevamo a un qualsiasi tipo di assistenza. Elster aveva una mappa della regione, con
dei numeri che aveva appuntato per il custode, l'ufficio dello sceriffo e la guardia
forestale. Presi il mio e il suo cellulare e staccai la mappa appesa alla parete della
cucina.
Telefonai alla guardia forestale e mi rispose un tizio.
Gli fornii il nome, la descrizione, il luogo approssimativo in cui si trovava la casa
di Elster. Gli dissi di Jessie, che non era una che se ne andava nel deserto, n a piedi
sui sentieri n in mountain bike, non guidava, non era equipaggiata per resistere
nemmeno per un tempo limitato in balia delle intemperie. L'uomo disse di essere un
volontario e che avrebbe cercato di parlare col sovrintendente che in quel momento
era uscito con una squadra di soccorso per recuperare un gruppo di messicani portati

oltreconfine e poi abbandonati senza cibo n acqua. C'erano aeroplani, segugi,


navigatori satellitari portatili, spesso le ricerche si svolgevano di notte. Disse che
sarebbero stati all'erta.
Elster era ancora sul divano, col telefono accanto.
Nell'ufficio dello sceriffo nessuna risposta, aveva lasciato un messaggio. Ora
voleva chiamare il custode, qualcuno che conoscesse la zona, e io cercai di ricordare
bene come era fatto quell'uomo, la faccia macchiata dal sole e dal vento, gli occhi
stretti. Se Jessie fosse stata vittima di un crimine, io avrei senz'altro voluto sapere
dove si trovava lui all'ora del delitto.
Elster chiam, il telefono squill una decina di volte.
Finii di mettere a posto la spesa. Cercai di concentrarmi su questo compito, dove
va cosa, ma gli oggetti sembravano trasparenti, il mio sguardo li oltrepassava, il mio
pensiero li oltrepassava. Lui era di nuovo uscito sul terrazzo. Feci un'altra volta il giro
della casa, cercando un indizio, un barlume di intenzione. L'impatto, che continuava a
crescere dal momento iniziale, difficile da assorbire. Non volevo uscire e rimanere di
vedetta accanto a lui. La paura aumentava in sua presenza, il presagio. Ma dopo un
po' versai dello scotch sul ghiaccio in un bicchiere alto e glielo portai fuori e subito la
notte fu ovunque attorno a noi.
4
Svanire nel nulla, era come se questo fosse il suo ruolo, il fine stesso del suo
essere, due giorni interi, non una parola, non un segno. Si era smarrita oltre i confini
delle ipotesi, o eravamo disposti a immaginare cosa era successo? Cercavo di non
pensare al di l della geografia, ogni momento era definito dalla desolazione che ci
circondava. Ma l'immaginazione stessa era una forza naturale, ingovernabile. Gli
animali, pensai, come riducono i corpi nei luoghi selvaggi, nella mente, nessun posto
sicuro.
Il giorno prima, dopo aver fatto quelle telefonate e aver allertato tutti quanti,
mentre ero fuori avevo visto una macchina all'orizzonte che fluttuava lentamente fino
a guadagnare movimento, ondeggiante nella polvere e nella foschia, come un campo
lungo in un film, un momento di lenta attesa.
Era lo sceriffo di zona, faccia larga e rossa, barbetta rasa. Disse che si era alzato un
elicottero, mentre a terra le pattuglie di ricerca battevano la regione. La prima cosa
che aveva voluto sapere era se di recente c'erano stati dei cambiamenti nelle normali
abitudini di Jessie. L'unico cambiamento, risposi, era il fatto che era scomparsa.
Lo accompagnai a fare il giro della casa. Sembrava cercasse segni di colluttazione.
Controll la stanza di Jessie e parl brevemente con Elster, che per tutto il tempo
rimase seduto sul divano, quasi incapace di muoversi, vuoi per le medicine vuoi per
la mancanza di sonno. Elster non disse quasi nulla e mostr qualche cenno di
confusione alla vista di un uomo in divisa in giro per casa, un omone che faceva
sembrare minuscola la stanza, distintivo sul petto, pistola nella cintura.
Una volta usciti, lo sceriffo mi disse che per come stavano le cose non c'erano
prove di un delitto sul quale investigare. Gli stadi successivi delle indagini avrebbero

previsto il coordinamento di un programma con funzionari di altre contee per


verificare i registri dei motel, tabulati telefonici, autonoleggi, prenotazioni aeree e
altre cose.
Accennai qualcosa a proposito del custode. Lui disse che lo conosceva da
trent'anni. Era un naturalista volontario, un esperto delle piante e dei fossili della
zona.
Erano vicini di casa, disse, dopodich mi guard e fece un elenco di alcune
tipologie di soggetti in difficolt, concludendo con quelli che vanno nel deserto per
suicidarsi.
Alla fine Elster acconsent a fare quella telefonata, la telefonata alla madre di
Jessie. Verificai per lui la qualit del segnale in vari punti e il migliore era fuori,
pomeriggio tardi, lui con le spalle alla casa. Parlava russo, il corpo afflosciato, faceva
fatica ad alzare il tono della voce oltre un sommesso bisbiglio. Ci furono lunghe
pause.
Ascoltava, poi parlava di nuovo, ogni parola una supplica, la risposta di un uomo
sotto accusa, negligente, stupido, colpevole. Rimasi li vicino, e capii che l'unico goffo
passaggio all'inglese era un'impotente parodia del modo di parlare di lei,
un'espressione di dolore condiviso e identit genitoriale. Nel cielo pallido, a est,
comparve un elicottero e vidi lui che raddrizzava la schiena, lentamente, con la testa
sollevata, riparandosi dal sole con la mano libera.
In seguito gli chiesi se aveva fatto quello che gli avevo detto di fare. Lui distolse lo
sguardo e si avvi verso la sua stanza. Gli avevo detto di menzionare l'amico di
Jessie, l'uomo con cui lei si vedeva. Non era forse quello il motivo per cui la madre
l'aveva mandata li?
Mi fermai sulla porta di camera sua. Lui era seduto sul letto, con una mano
sollevata in un gesto che non riuscii a interpretare. A che serve oppure che c'entra o
lasciami in pace.
Voleva il mistero allo stato puro. Forse era pi facile per lui, qualcosa oltre la
viscida portata delle motivazioni umane. Cercavo di pensare i suoi pensieri. Il mistero
aveva la sua verit, ancora pi profonda perch informe, un significato elusivo che
poteva evitargli tutti gli espliciti dettagli che altrimenti sarebbero venuti in mente.
Ma i suoi pensieri non erano questi. I suoi pensieri non li conoscevo. A malapena
conoscevo i miei. Riuscivo ad aggirare il pensiero della scomparsa, ma nel profondo,
nel momento stesso, il nodo fisico di tutto quanto, solo un buco nell'aria.
Dissi: - Vuoi che chiami io?
- Non ha senso. Un tizio di New York.
- Non sta scritto da nessuna parte che deve avere senso. Cosa ha senso? La gente
che scompare non ha mai senso, - dissi. - Come si chiama, la madre di Jessie?
Ora la chiamo.
Solo la mattina dopo acconsent a darmi il suo numero di telefono. Linea occupata
per mezz'ora, poi una donna arrabbiata che opponeva resistenza alle domande di uno
sconosciuto. Per un po' la conversazione gir a vuoto. Quel tipo lei lo aveva visto una
volta, non sapeva dove abitasse, quanti anni avesse esattamente, cosa facesse di
lavoro.
- Mi dica come si chiama. Questo lo pu fare?

- Lei ha tre amiche, tutte donne, questi nomi conosco.


Altrimenti chi vede, dove va, lei non sta a sentire nomi, non mi dice nomi.
- Ma quest'uomo. Uscivano insieme, no? Lei ha detto di averlo conosciuto.
- Perch ho insistito. Due minuti lui sta l in piedi.
Poi vanno.
- Ma lui le ha detto come si chiamava, oppure gliel'ha detto Jessie.
- Forse lei mi ha detto, solo il nome.
Quel nome non se lo ricordava e questo la fece arrabbiare ancora di pi. Le passai
Elster che le disse qualcosa per calmarla. Non funzion ma non mi arresi. Le ricordai
che a lei quest'uomo non piaceva tanto. Me ne parli, le dissi, e lei per una volta non
rispose di malanimo.
Per una settimana o forse pi c'erano state delle telefonate.
Quando lei rispondeva, la persona dall'altra parte riattaccava. Lei sapeva che era lui
che cercava di parlare con Jessie. Sul display compariva la scritta ID nascosto. Era lui
ogni volta, riagganciava piano, lei se lo ricordava fermo sulla soglia, come se fosse
stato uno che vedi tre volte a settimana, un fattorino che ti porta la spesa, di cui
comunque non ricordi il viso.
- Ultima volta che ho visto ID nascosto rispondo e non dico niente. Nessuno parla.
Facciamo come stupido gioco. Io aspetto, lui non dice niente. Lui aspetta, io non dico
niente. Minuto intero. Poi io dico so chi sei. L'uomo riattacca.
- Lei sicura che si trattasse di lui.
- A quel punto le dico che deve andare via.
- E una volta che andata via?
- Niente pi telefonate, - disse la madre.;.
Lui smise di radersi, per me invece era importante radermi ogni giorno, non fare
nulla di diverso. Aspettavamo notizie. Io volevo uscire, mettermi in macchina e
unirmi alle ricerche. Ma immaginavo Elster con la bocca piena di sonniferi, una
boccetta intera. Immaginavo un ammasso umidiccio, un bolo, trenta o quaranta
pillole compattate insieme e la bava che gli colava dalla bocca. Stavo seduto e gli
parlavo delle medicine nel suo armadietto. Solo le dosi prescritte, gli dissi. Controlla
bene le indicazioni, rispetta le avvertenze.
Dissi proprio cos, rispetta le avvertenze, e la frase non sembr artefatta. Lo
immaginavo fermo sulla soglia del suo bagno, con la bocca semiaperta per via di quel
malloppo denso, un tentativo a titolo di prova, un letterale assaggio, una mano su
ciascuno degli stipiti che lo puntellavano.
Jessie non aveva un cellulare, ma la polizia stava controllando i tabulati per vedere
se aveva fatto o ricevuto chiamate sui nostri telefoni. Stavano controllando i registri
dei motel, le denunce nelle contee e negli stati vicini.
- Non possiamo andarcene.
- No, non possiamo.
- E se lei torna?
- Uno di noi deve esserci, - dissi.
Adesso ero io che facevo le frittate. Sembrava che lui non sapesse cosa fare con la
forchetta che reggeva in mano. La mattina preparavo il caff, tiravo fuori il pane, i
cereali, il latte, il burro e la marmellata. Poi andavo in camera sua e lo convincevo ad

alzarsi. Tutto quello che succedeva era segnato dall'assenza di Jessie.


Mangiava in modo frugale. Camminava per casa come se stesse passando lo
straccio, con passi dettati da circostanze faticose.
Di li a una settimana sarebbe dovuto andare a Berlino, per una lezione, una
conferenza, non fu chiaro sui dettagli.
Cominci a vedere cose con la coda dell'occhio, l'occhio destro. Entrava in una
stanza e scorgeva qualcosa, un colore, un movimento. Quando si girava, niente.
Succedeva una o due volte al giorno. Gli dicevo che era una cosa fisiologica, ogni
volta lo stesso occhio, un disturbo normale, non grave, succede alle persone in l con
gli anni. Lui si girava e guardava. C'era qualcuno, ma poi lei non c'era.
Contavo di nuovo i giorni come facevo i primi tempi.
Giorni dalla scomparsa. Uno di noi era quasi sempre sul terrazzo, di vedetta. Ci
rimanevamo fino a notte inoltrata.
Divent un rituale, l'osservanza di un precetto religioso, e spesso, quando stavamo
fuori tutti e due, senza nemmeno una parola.
La porta della sua stanza la tenevamo chiusa.
Lui cominci ad assumere l'aspetto di un eremita che vive in una baracca o in una
miniera abbandonata, un vecchio che non si lava, malfermo, mal rasato, guardingo,
con la paura che a ogni passo ci fosse qualcuno in agguato.
Adesso quando parlava di lei la chiamava Jessica, il vero nome, quello che le
avevano dato alla nascita.
Parlava per frammenti, aprendo e chiudendo la mano.
Lo vedevo come risucchiato insistentemente verso l'interno.
Il deserto era chiaroveggente, questo era quanto aveva sempre creduto, che il
paesaggio dipana e disvela, conosce il futuro tanto quanto il passato. Ma adesso lo
faceva sentire rinchiuso e io questo lo capivo, circondato, incalzato. Stavamo fuori e
sentivamo il deserto che incombeva. Uno sterile tuono sembrava aleggiare sulle
colline, lampi di temporale che si infrangevano verso di noi. Cento infanzie, disse in
modo enigmatico. Intendendo cosa, il tuono forse, un lieve rombo evocativo che
risuonava nel corso degli anni.
Per la prima volta mi chiese cos'era successo. Non cosa pensavo, o immaginavo, o
mi figuravo. Cos' successo, Jimmy? Non seppi cosa dirgli. Niente di quello che
potevo dire era pi o meno probabile di qualcos'altro.
Era successo, qualsiasi cosa fosse, e non aveva senso starci a ripensare, anche se
naturalmente lo facevamo, o perlomeno io si. Lui aveva l'intimit del passato a cui
ripensare, la sua, quella di lei, quella della madre.
Questo gli era rimasto, tempi e posti perduti, la vita vera, in continuazione.
Una telefonata a notte fonda, la madre.
- Credo di sapere il nome.
- Crede di saperlo.
- Dormivo. Poi mi sveglio con suo nome. Dennis.
- Lei crede che si chiami Dennis.
- Dennis di sicuro.
- Di nome fa Dennis.
- Ho sentito solo questo, il nome. Sono svegliata, proprio ora, Dennis, - disse.

Di notte le stanze erano orologi. La calma era quasi completa, pareti nude,
pavimento in legno, il tempo li e fuori, sui sentieri pi erti, ogni minuto che passava
era una funzione della nostra attesa. Io bevevo, lui no. Io non lo lasciavo bere e a lui
pareva che non importasse.
Ormai i tramonti erano solo luce che moriva, le possibilit che sfumavano. Per
settimane non c'era stato altro da fare se non parlare. Ora, niente da dire.
Il nome sembrava richiamare oscuri presagi, Jessica, sembrava una resa ufficiale.
Io ero l'uomo appostato al buio che l'aveva guardata distesa nel letto. Quale che fosse
il senso della responsabilit di Elster in tutto questo, la natura della sua colpa e del
suo fallimento, io la condividevo. Stava seduto, apriva e chiudeva la mano. Quando
sentiva il rumore degli elicotteri che scendevano allontanandosi dal sole lui alzava lo
sguardo, sorpreso, ogni volta, e poi ricordava il motivo per cui erano li.
Passavamo il tempo a controllare se i cellulari prendevano, uno rivolto in una
direzione, uno in un'altra, dentro casa, fuori, facevamo telefonate, ne ricevevamo, il
cellulare a un orecchio, la mano libera sull'altro orecchio, lui sul terrazzo, io una
quarantina di metri gi per il vialetto. Cercavo di non guardarci quando facevamo
cos. Io volevo rimanere dentro la cosa, nel punto in cui la danza era una questione
pratica. Volevo non dover vedere.
Cominciai a usare i vecchi manubri che aveva trovato Elster. Mi mettevo in camera
mia, li sollevavo e contavo. Chiamai la forestale e lo sceriffo.
Non riuscivo a dimenticare quello che aveva detto lo sceriffo. La gente viene nel
deserto per suicidarsi.
Sapevo di dover chiedere a Elster se avesse mai mostrato tendenze suicide. Jessica.
Era in cura da un medico? Prendeva antidepressivi? Il suo kit da viaggio era ancora
nel bagno che avevamo condiviso. Non trovai nulla, parlai con suo padre, chiamai la
madre, non scoprii nulla che potesse indicare una deriva in quella direzione.
Sollevavo i pesi uno alla volta, poi tutti e due assieme, venti volte da una parte,
dieci dall'altra, sollevavo e contavo, e via cos.
Lo portai fuori sul terrazzo e lo feci sedere. Era in pigiama e vecchie scarpe da
tennis, slacciate, gli occhi che sembravano inseguire un solo pensiero. Ecco dove
fissava lo sguardo ora, non sugli oggetti ma sui pensieri.
Mi misi dietro di lui con un paio di forbici e un pettine e gli dissi che era giunto il
momento di farsi dare una spuntatina.
Lui gir di poco la testa, con aria interrogativa, ma io la riposizionai e cominciai a
spuntargli le basette.
Parlavo e lavoravo. Parlavo in una sorta di flusso continuo, pettinando e tagliando i
ciuffi arruffati su un lato della testa. Gli dissi che quello che stavo facendo era diverso
dalla rasatura. A un certo punto magari si sarebbe voluto rasare e avrebbe dovuto
farlo da solo, ma tagliarsi i capelli serviva a tenere su il morale, il suo e il mio. Dissi
molte cose vacue quella mattina, con estrema semplicit, quasi credendoci. Gli tolsi
l'elastico marcio dal ciuffo di capelli intrecciati che aveva sulla nuca e cercai di
pettinare e tagliare. Saltavo da un punto all'altro della testa. Lui parlava della madre
di Jessie, la faccia e gli occhi, la sua ammirazione per lei, e intanto la voce si
affievoliva, bassa e roca. Sentii l'urgenza di tagliargli i peli delle orecchie, lunghe
fibre bianche che spuntavano arricciate dal buio. Cercavo di sbrogliare ogni

centimetro di vegetazione aggrovigliata prima di tagliare. Parl dei suoi figli. Tu


questo non lo sai, disse. Ho due maschi dal primo matrimonio. La madre era una
paleontologa. Poi lo disse un'altra volta.
La madre era una paleontologa. La ricordava, la vedeva in quella parola. A lei
questo posto piaceva tanto, e anche ai ragazzi. A me no, disse. Ma poi le cose erano
cambiate nel corso degli anni. Lui aveva cominciato ad aspettare con impazienza il
tempo che passava li, disse, e poi il matrimonio fin e i ragazzi ormai erano grandi e
questo fu tutto ci che riusc a dire.
Io stavo di fianco, con la testa inclinata, e osservavo la mia opera. Avevo
dimenticato di coprirgli il busto con un asciugamano e c'erano ciuffi ovunque, capelli
sulla faccia, sul collo, in grembo e sulle spalle, capelli nel pigiama. Non dissi niente a
proposito dei figli. Continuai a tagliare e basta. Se era il caso, gli avrei fatto anche la
doccia. Gli avrei infilato la testa nel lavandino della cucina e gli avrei lavato i capelli.
Avrei sfregato via l'odore acre che si portava dietro. Gli dissi che avevo quasi finito,
ma non avevo quasi finito. Poi mi resi conto di essermi dimenticato di qualcos'altro,
una spazzola per levargli di dosso tutti quei capelli. Ma non entrai in casa per
cercarne una. Continuai a tagliare, a pettinare e tagliare.
La telefonata arriv sul presto. I ricercatori avevano trovato un coltello in un
profondo burrone non lontano da una distesa di terra conosciuta come la Zona
d'Impatto, ingresso vietato, un'ex zona di esercitazioni militari, piena di bombe
inesplose. Avevano isolato l'area attorno all'oggetto e stavano ampliando le ricerche.
La guardia forestale fu attenta a non definire il coltello arma. Poteva appartenere a
un escursionista o a un campeggiatore, per gli usi pi svariati. Stabil
approssimativamente la posizione di una strada sterrata che portava nei pressi
dell'area e quando finimmo di parlare trovai la cartina di Elster e subito localizzai la
Zona d'Impatto, un grosso insieme geometrico di scampoli dai confini squadrati.
Verso ovest c'erano sottili linee ondeggianti: canyon, torrenti in secca e vie minerarie.
Elster era in camera sua, dormiva, io mi chinai sul letto e lo ascoltai respirare. Non
so perch facendo questo chiusi gli occhi. Poi controllai nell'armadietto delle
medicine per vedere se il numero di pillole e compresse nelle varie boccette fosse
diminuito in modo considerevole.
Preparai il caff, gli apparecchiai un posto e lasciai un bigliettino con cui lo
avvertivo che andavo in citt.
La lama sembrava priva di sangue, aveva detto la guardia forestale.
Guidai in direzione della citt e poi per un po' mi diressi a est e infine svoltai verso
la zona in questione.
Lasciai la strada asfaltata e seguii un sentiero pieno di solchi di pneumatici che
portava a un lungo torrente arenoso in secca. Improvvisamente tutto attorno alla
macchina comparvero alte pareti rocciose e ben presto mi ritrovai in un punto senza
uscita. Mi misi il cappello, scesi dalla macchina e sentii il caldo, tutto il suo impatto,
la sua forza. Aprii il bagagliaio e sollevai il coperchio del frigo box nel quale c'erano
due bottiglie d'acqua in mezzo a del ghiaccio sciolto. Non sapevo quanto ero distante
dal luogo delle ricerche e cercai di chiamare la guardia forestale, ma l non c'era
campo. Mi aggirai fra tozzi massi strappati dalle cime delle montagne dalle piene

improvvise o da eventi sismici. In quel punto il sentiero sconnesso sembrava di


granito sgretolato. Ogni tanto mi fermavo a guardare in alto e vedevo un cielo che
pareva confinato, compresso. Passavo un sacco di tempo a guardare. Il cielo era ben
tirato fra la cresta di una parete rocciosa e quella dopo, era basso e concentrato, era
una cosa strana, il cielo da quelle parti, se ti arrampicavi sulle rocce arrivavi a
toccarlo. Ripresi a camminare e raggiunsi la fine dello stretto passaggio sbucando poi
in uno spazio aperto il cui terreno era soffocato da boscaglia e detriti pietrosi; quasi a
quattro zampe salii in cima a una collinetta di pietrisco ed ecco davanti a me l'intero
mondo riarso.
Guardai le accecanti ondate di luce e cielo e gi, verso le colline di rame a pieghe,
che ipotizzai essere i calanchi, una serie di crinali primitivi che si sollevavano dal
deserto disegnando varie forme. Poteva esserci una persona morta l in mezzo? Non
riuscivo a immaginarlo.
Quel posto era troppo vasto, non era reale, la simmetria di solchi e sporgenze mi
schiacciava, in tutta la sua bellezza straziante, in tutta la sua indifferenza, e pi stavo
l a guardare pi ero certo che non avremmo mai avuto una risposta.
Dovevo allontanarmi dal sole e cos scivolai di nuovo gi sul terreno piano, in uno
spicchio d'ombra, e l sfilai la bottiglia d'acqua dalla tasca posteriore dove la tenevo.
Cercai di nuovo di chiamare la guardia forestale.
Volevo che mi dicesse dov'ero. Volevo sapere dov'era lui, con indicazioni precise
questa volta. Volevo raggiungere la scena solo per vedere, per percepire cosa c'era.
Immaginai che il coltello fosse stato inviato in qualche laboratorio della scientifica
della contea.
Immaginai che lo sceriffo avesse agito in base alle informazioni che gli avevo
riferito sulle telefonate che la madre di Jessie riceveva dall'ID nascosto. Dennis.
Per me lui era Dennis X. Esistevano le basi legali per rintracciare l'autore delle
telefonate? La madre ricordava bene il nome dell'uomo? Una volta a casa, avrei
trovato il padre ancora a letto, inghiottito dai ricordi, immobilizzato? L'acqua era
tiepida e chimica, scomposta in molecole, e un po' la bevvi un po' me la buttai in
faccia e sulla camicia.
Tornai nel torrente in secca sotto la linea bassa del cielo e poi mi fermai, poggiai
una mano sulla parete e sentii i gradini di roccia, fessure e rigetti orizzontali che mi
fecero pensare a enormi movimenti tellurici.
Chiusi gli occhi e mi misi in ascolto. Il silenzio era completo. Non avevo mai
sentito un'immobilit come quella, mai un nulla cos avviluppante. Ma un nulla che
era, che si avvolgeva attorno a me, o forse era lei, Jessie, calda al tatto. Non so quanto
tempo rimasi l, ogni muscolo del mio corpo in ascolto. Avrei potuto dimenticare
come mi chiamavo in tutto quel silenzio?
Staccai la mano dalla parete e me la portai sulla faccia.
Sudavo abbondantemente e mi leccai via quella puzza umida dalle dita. Aprii gli
occhi. Ero sempre l, nel mondo esterno. Poi qualcosa mi fece voltare e nel mio
stupore dovetti dire a me stesso di cosa si trattava, una mosca, che mi ronzava vicino.
Dovetti dirmi la parola, mosca. Mi aveva trovato e si era avvicinata, in tutto quello
spazio fluttuante, ronzando, io smanacciai in direzione del rumore e poi mi
incamminai di nuovo verso il punto senza uscita. Mi muovevo con lentezza

rimanendo vicino alla parete, nell'ombra intermittente.


Dopo un po' pensai che ormai avrei gi dovuto essere arrivato alla macchina. Ero
stanco, affamato, l'acqua era finita. Mi chiesi se quella gola, quel passo si aprisse in
due direzioni opposte, una verso nord e una verso sud, e se era possibile che io fossi
finito in quella sbagliata. Non riuscivo a convincermi che non era possibile. Il cielo
sembrava assottigliarsi verso un punto in cui le pareti rocciose si incontravano e io
pensai di tornare indietro. Presi la bottiglia d'acqua che avevo in tasca e cercai di
farmi cadere in bocca le ultime gocce. Facevo qualche passo e poi mi dicevo che era
il caso di tornare indietro, ma intanto procedevo, aumentando la velocit. Non ero
sicuro che si trattasse dello stesso sentiero di granito sbriciolato che avevo percorso
all'andata. Cercai di ricordare il colore e la consistenza, e anche il rumore che le mie
scarpe avevano fatto sul terreno scabro. Proprio quando mi convinsi che mi ero perso
vidi il sentiero che si allargava leggermente e poi ecco la macchina, una schifezza
polverosa di metallo e vetro, aprii la portiera e mi lasciai cadere sul sedile. Misi la
chiave nell'accensione e premetti il pulsante dell'aria condizionata e quello della
ventola e un altro paio di pulsanti. Rimasi seduto appoggiato allo schienale per
qualche istante facendo una serie di respiri lenti. Era giunto il momento di dire a
Elster che dovevamo tornare a casa.
Quella notte non riuscii a dormire. Ero in preda a continue fantasticherie. La donna
nell'altra stanza, dall'altra parte del muro, a volte Jessie, altre volte non chiaramente e
non semplicemente lei, e poi io e Jessie in camera sua, nel suo letto, intrecciati, che ci
giravamo e ci inarcavamo come il mare, come onde, un momento trasparente e irreale
di sesso che durava tutta la notte. Ha gli occhi chiusi, la faccia scongelata, Jessie e
nello stesso tempo troppo espressiva per essere Jessie.
Sembra fluttuare fuori di s proprio nel momento in cui la porto dentro di me. Sono
li, eccitato, ma mi vedo a malapena, fermo sulla soglia mentre osservo me e lei.
Lo guardai. La faccia affondava piano piano nel fitto contorno della testa. Lui era
sul sedile del passeggero e io dissi quelle parole sottovoce.
- La cintura.
Era come se sentisse in ritardo, sapeva che avevo detto qualcosa ma non ne
afferrava il senso. Cominciava ad assomigliare a una radiografia, tutto orbite e denti.
- La cintura, - dissi di nuovo.
Allacciai la mia cintura e aspettando lo guardai. Eravamo nella macchina
noleggiata, la mia. L'avevo lavata con la pompa. Avevo preparato le valigie e le avevo
messe nel bagagliaio. Avevo fatto una decina di telefonate.
Questa volta Elster annu e cominci ad afferrare la cintura all'altezza della spalla
destra.
Ce la stavamo lasciando alle spalle. Era difficile pensare in questi termini.
All'inizio avevamo stabilito che ' uno di noi due sarebbe stato li, sempre. Adesso una
casa vuota in autunno e per tutto l'inverno e nessuna possibilit che lui vi tornasse
mai pi. Mi sganciai la cintura e mi sporsi per aiutarlo a mettere la sua. Poi andai in
citt per fare il pieno ed eccoci di nuovo in viaggio tra faglie e tratti di spirali di
rocce, la storia che scorreva fuori dai finestrini, le montagne che si formavano, i mari
che si ritiravano, la storia secondo Elster, il tempo e il vento, l'impronta di un dente di

squalo su una pietra del deserto.


Era giusto portarlo via di li. Se fossimo rimasti un altro po' sarebbe arrivato a
pesare quarantacinque chili.
Lo portavo da Galina, cos si chiamava, la madre, e avrei affidato l'uomo alla sua
compassione. Eccolo, fragile e stremato. Eccolo, inconsolabilmente umano.
Erano insieme in questo, mi dissi. Lei probabilmente desiderava condividere con
lui quel momento difficile, mi dissi. Ma non l'avevo ancora chiamata per dirle che
stavamo andando a casa. La telefonata a Galina era quella che pi temevo di fare.
Lo sbirciavo spesso. Stava appoggiato allo schienale, con gli occhi spalancati, e io
gli parlavo come avevo fatto tagliandogli i capelli, chiacchierai di questo e di quello
per tutta la lunga mattinata, cercando di fargli compagnia, distrarre sia lui che me. Ma
ormai non c'era quasi pi nessuno con cui parlare. Sembrava, al di l del ricordo e il
viluppo di rimorsi a esso legati, un uomo ridotto al suo contorno essenziale, senza
peso. Io guidavo e parlavo, gli dicevo del nostro volo, gli leggevo il numero, gli
facevo sapere che eravamo in lista d'attesa, enunciavo l'ora di partenza, l'ora d'arrivo.
Fatti nudi e crudi. Nel rumore delle mie parole mi sembr di sentire traccia di una
debole strategia per riportarlo al mondo.
La strada cominci a salire, il passaggio attorno a noi si faceva verde, qualche casa
sparsa, un campo di roulotte, un silo, lui cominci a tossire e ad ansimare,
sforzandosi di tirare su il catarro. Pensai che stesse per soffocare. La strada era stretta
e ripida, fiancheggiata dal guardrail, e io non potevo fare altro che guidare.
Alla fine riusci a buttare fuori quella porcheria, scatarr e se la sput sul palmo
aperto della mano.
Rimase a guardare quella cosa tremolante, la guardai anch'io, per qualche attimo,
una roba pulsante densa e filamentosa, color verde perla. Non c'era nessun posto dove
metterla. Riuscii a tirarmi fuori dalla tasca un fazzoletto e glielo lanciai. Non so cosa
vedesse in quella manciata di muco, ma non smetteva di guardarla.
Passammo davanti a una fila di querce sempreverdi.
E a un certo punto gracchi qualche parola.
- Uno degli antichi umori.
- Cosa?
- La flemma.
- La flemma, - dissi.
- Uno degli antichi umori medievali.
Aveva il fazzoletto poggiato su una coscia. Lo presi, con gli occhi fissi sulla strada,
lo scrollai per aprirlo e glielo misi sulla mano, sopra il grumo. Dietro di noi pass un
elicottero, io guardai lo specchietto retrovisore e poi Elster. Non si mosse, rimase
seduto con la mano tesa, coperta dalla stoffa. Ce la stavamo lasciando alle spalle.
Sentimmo il rumore dell'elica che spariva in lontananza.
Si pul la mano impiastricciata, appallottol il fazzoletto e lo butt a terra sul
tappetino, fra i piedi.
Proseguimmo in silenzio dietro un motoscafo trainato da un pickup nero. Pensai
alle sue osservazioni sulla materia e l'essere, quelle lunghe notti sul terrazzo, mezzi
sbronzi, io e lui, la trascendenza, il parossismo, la fine della coscienza umana. Ora
sembrava un'eco morta.

Punto omega. Un milione di anni fa. Il punto omega si ristretto, qui e ora, alla
punta di un coltello che penetra un corpo. Tutti gli elevati temi di quell'uomo ristretti
in un dolore locale, un solo corpo, li da qualche parte, o forse no.
Passammo tra i pini, lungo un lago, con gli uccellini che volavano bassi sull'acqua.
Aveva gli occhi chiusi e respirava con un costante ronzio al naso. Cercai di pensare al
futuro, le settimane e i mesi sconosciuti a venire, e mi resi conto che c'era una cosa
che mi era passata di mente fino ad allora. Era il film. Mi ricordai del film.
Eccolo di nuovo, l'uomo e la parete, faccia e occhi, ma non uno dei soliti
opinionisti televisivi. Nel film la faccia l'anima. L'uomo un'anima in pena, come
in Dreyer o in Bergman, il personaggio imperfetto di un dramma da camera, che
giustifica la sua guerra e condanna gli uomini che l'hanno fatta. Ormai non ci sarebbe
pi stato, nemmeno un fotogramma. Lui non avrebbe avuto la forza di volont n il
semplice coraggio per farlo, e nemmeno io. La storia era qui, non in Iraq o a
Washington, e noi ce la stavamo lasciando alle spalle e ce la stavamo portando dietro,
tutt'e due.
La strada cominci a scendere, verso l'autostrada.
Era tenuto fermo dalla cintura come un bambino, addormentato.
Pensai all'aeroporto, al bagaglio, procurargli una sedia a rotelle. Pensai agli umori
medievali.
Continuavo a guardarlo, a controllarlo.
Eccoci, uscivamo da un cielo vuoto. Un uomo al di l del sapere. L'altro, che
sapeva solo che da quel giorno in avanti avrebbe portato qualcosa con s, una calma,
una distanza, e si vide nell'affollato loft di qualcuno, dove allunga la mano verso la
ruvida superficie di un vecchio muro di mattoni e poi chiude gli occhi e ascolta.
Poco dopo ci dirigemmo verso ovest, sciami di macchine e camion, il rumore
sferragliante del traffico, quattro corsie, e il mio cellulare che squill. Aspettai un
istante, poi me lo strappai dal fianco e dissi si. Nessuna risposta.
Dissi si, guardai il display. ID nascosto. Dissi si, pronto, a voce pi alta. Nessuna
risposta. Guardai Elster. Adesso aveva gli occhi aperti, la testa girata verso di me, era
una settimana che non lo vedevo cos sveglio. Dissi si e guardai il display. ID
nascosto. Schiacciai il tasto per riattaccare e infilai di nuovo il telefono nella custodia
agganciata alla cintura.
Odiavo guidare in autostrada, il traffico adesso era pi pesante, le macchine che
sfrecciavano da una corsia all'altra. Io tenevo gli occhi fissi sulla strada. Non volevo
guardarlo, non volevo sentire domande o ipotesi.
Pensavo sei cose contemporaneamente. La madre. Le era venuto in mente il nome
mentre dormiva. Qualcuno che mi richiamava. Tutto li, non poteva essere altro,
qualcuno che conoscevo che mi richiamava dopo una mia telefonata della sera prima
o di quella mattina, amico, collega, padrone di casa, poco campo, telefonata
interrotta. Cosa significava? Significava che presto sarebbe arrivata la citt, New
York all'infinito, facce, lingue, impalcature ovunque, il flusso dei taxi alle quattro del
pomeriggio, nessuno disponibile.
Pensai al mio appartamento, a come mi sarebbe parso distante quando sarei
entrato. La mia vita in un colpo d'occhio, tutto li, musica, film, libri, il letto e la

scrivania, lo smalto bruciato attorno ai fornelli della cucina.


Pensai al telefono che suonava mentre entravo.
Anonimato 2
4 settembre
Norman Bates, spaventosamente normale, mette gi il telefono.
L'uomo contro la parete correva avanti col pensiero.
Era da un po' che faceva cos, saltava le scene, le anticipava mentalmente,
visivamente, e l'orario di chiusura ormai non era lontano. Non voleva controllare che
ora era. Cerc di contenere l'impazienza, dirigere ogni energia verso lo schermo,
vedere cosa stava succedendo.
La porta che si apre in un movimento eterno.
Il fascio di luce elettrica che si spande sul pavimento mentre la porta continua a
muoversi.
L'ombra della porta che svanisce sotto la porta.
Questi momenti astratti, tutti forma e gradazione, il disegno del tappeto, le
venature delle assi del pavimento, lo costringevano a essere del tutto vigile, occhio e
mente, e poi la ripresa dall'alto del pianerottolo e l'aggressione ad Arbogast.
Le varie visite alla galleria si confondevano nella sua mente senza soluzione di
continuit. Non ricordava, in quale giorno avesse visto una data scena o quante volte
avesse guardato certe scene. Si potevano definire scene, stagnanti com'erano, il
grezzo formarsi di un gesto, il lungo arco di una mano che si muove verso una faccia?
Lui era dove doveva essere, come sempre, al suo posto, a contatto corporeo con la
parete nord. La gente passava inquieta, entrava e usciva. I visitatori sarebbero rimasti
pi a lungo, pensava, se ci fossero state sedie o panche. Ma qualsiasi tipo di posto a
sedere avrebbe sabotato il concetto. La cornice scarna e il buio, e l'aria gelida, e il
custode immobile vicino alla porta. Il custode purificava l'occasione, la rendeva pi
nobile e preziosa.
Ma cosa custodiva? Il silenzio, forse. O lo schermo.
Qualcuno avrebbe potuto arrampicarsi sullo schermo e graffiarlo, i turisti dei
multisala.
Stare in piedi era parte dell'opera, l'uomo in piedi partecipa. Cos lui, per il sesto
giorno di fila, l'ultimo dell'installazione. Avrebbe sentito la mancanza di quella sala,
libero a volte di camminare attorno allo schermo e osservarlo dal lato opposto, per
notare la mancinit delle persone e degli oggetti. Ma sempre spalle alla parete,
contatto fisico, altrimenti avrebbe potuto finire per fare cosa, non lo sapeva nemmeno
lui, trasmigrare, passare dal suo corpo a un'immagine tremolante sullo schermo.
Le parti noiose del film originale non erano pi noiose.
Erano come tutto il resto, al di fuori di qualsiasi categoria, aperte all'ingresso. Era
questo che voleva credere. Eppure cedeva allo schermo con maggiore prontezza in
determinati momenti. Questo lui lo ammetteva, lo schermo senza personaggi, lo
schermo che rivelava un uccello impagliato o un solo occhio umano.

Entrarono tre bambini, due maschi e una femmina, biondi in modo intercambiabile,
e subito dopo una donna.
Non riusciva a capire perch l'investigatore, Arbogast, chiaramente pugnalato una
volta sotto il cuore, precipitasse per le scale con ferite da taglio sul viso.
Forse ci si aspetta che chi guarda immagini una seconda, una terza e una quarta
coltellata, ma lui non era disposto a farlo. C'era un'ovvia discrepanza tra l'azione e
l'effetto visibile.
Cerc di riflettere sulle complessit del montaggio.
Cerc di pensare in termini di proiezione convenzionale.
Non ricordava di aver notato il problema l'ultima volta che aveva visto il film, in
TV. Forse l'errore non si nota a ventiquattro fotogrammi al secondo. Aveva letto da
qualche parte che questa la velocit a cui si percepisce la realt, alla quale il
cervello elabora le immagini.
Se si altera il formato vengono a galla i difetti.
Era anche possibile perdonare questo genere di difetto se non si era una persona
dalle vedute limitate. Se lui era cos era cos e basta.
I bambini si aggiravano vicino all'ingresso, senza sapere bene se volevano capirci
qualcosa in pi del posto dove erano finiti, e nel frattempo la donna scivol lungo la
parete laterale, si ferm, guard lo schermo e poi si spost nel punto di incontro fra le
due pareti.
Lui guard i bambini che piano piano si disinteressavano del film e cominciavano
a guardarsi attorno. Dove sono, cos' questa roba? Uno di loro guard verso la porta,
nel punto in cui stava il custode, con gli occhi fissi nella strettoia diuturna del suo
distacco, Arbogast sempre l che cade dalle scale.
L'uomo ripens a una situazione. Gliela fecero tornare in mente i bambini, una
situazione in cui il film proiettato dall'inizio alla fine in un arco di ventiquattro ore
consecutive. Non era gi successo una volta, in un altro museo, in un'altra citt?
Pens a come avrebbe potuto stabilire le condizioni di una proiezione del genere.
Pubblico selezionato. Niente bambini, niente spettatori occasionali. Divieto di
accesso una volta che la proiezione avesse avuto inizio. E se qualcuno vuole andar
via, deve proprio? Va bene, te ne puoi andare.
Vai se proprio devi. Ma quando sei fuori poi non rientri pi. Farne una prova
personale di sopportazione e pazienza, una specie di punizione.
Ma punizione per cosa? Punizione per guardare? Punizione per star li giorno dopo
giorno, ora dopo ora, immerso in un infelice anonimato? Pens agli altri. Ecco cosa
potevano dire gli altri. Ma chi erano questi altri?
La donna sembrava scivolare lungo la parete impercettibilmente, per piccoli
avanzamenti regolari. Lui la vedeva a malapena ed era certo che lei non potesse
vedere lui. Era con i bambini o no? I bambini erano tre oggetti luminosi, d'et
compresa grossomodo tra gli otto e i dieci anni, assorbivano luce dallo schermo, dove
la livida morte veniva raschiata via in microsecondi.
Anthony Perkins nei panni di Norman Bates. Norman Bates nei panni della
mamma, ora accovacciato ai piedi delle scale, con una parrucca da vedova e un
vestito lungo fino al pavimento. Si avventa come un ragno sull'investigatore, supino
sul tappeto dell'ingresso, e riprende il suo lavoro col coltello.

Anonimi, lui e il custode del museo. Il custode che era l quel giorno era lo stesso
dei cinque giorni precedenti? Il custode dei cinque giorni precedenti era lo stesso per
tutto il giorno? Dovevano per forza darsi il cambio a un certo punto della giornata,
ma lui non ci aveva fatto caso o se n'era dimenticato. Entrarono un uomo e una
donna, genitori dei bambini, sprizzi di codice genetico nell'aria. Erano grandi e
grossi, con pantaloncini color kaki, spaventosamente tridimensionali, con borsoni e
zaini. Lui guardava il film, osservava gli altri, guardava il film. E in tutto questo, la
mente che lavorava, il cervello che elaborava. Voleva che quel giorno non finisse mai.
Poi qualcuno disse qualcosa.
Qualcuno disse: - Ma cosa sto guardando?
Era la donna alla sua sinistra, che adesso era pi vicina, e gli stava parlando.
Rimase confuso. La domanda lo spinse a guardare lo schermo con maggiore intensit.
Cerc di assorbire quello che lei aveva detto. Cerc di metabolizzare il fatto che
c'era qualcuno accanto a lui. Non era mai successo, non li dentro. E cerc di abituarsi
all'altra cosa che non era mai successa, che in un certo senso non sarebbe mai dovuta
succedere. Che qualcuno gli rivolgesse la parola. Questa donna in qualche modo
vicina a lui stava alterando qualunque regola della separazione.
Guardava lo schermo, cercando di pensare a cosa poteva dire. Aveva una buona
padronanza lessicale, ma non quando parlava con le persone.
Alla fine sussurr: - L'investigatore privato. Quello per terra.
Fu un sussurro contenuto, non era sicuro che lei lo avesse sentito. Per la risposta
giunse quasi immediata.
- Devo saperlo chi lo sta pugnalando?
Di nuovo dovette riflettere un istante prima di decidere cosa rispondere. Decise per
il no.
E lo disse: - No, - scuotendo la testa a indicare risolutezza, fosse anche solo per s.
Aspett un po', osservando la mano e il coltello nel fotogramma, isolati, ed eccola
di nuovo, la voce che era tutt'altro che un sussurro.
- Io voglio morire dopo una lunga malattia di quelle tradizionali. E lei?
La cosa interessante di quella esperienza, fino ad allora, era stata che apparteneva
solo a lui. Nessuno sapeva che era l. Era solo e ignorato. Non c'era nulla da
condividere, niente da prendere dagli altri, niente da dare agli altri.
E ora questo. Dal nulla, lei entra nella galleria, si ferma vicino a lui accanto alla
parete, gli parla al buio.
Lui era pi alto di lei. Almeno quello. Non la guardava, ma sapeva di essere pi
alto, di poco, non molto.
Non c'era bisogno di guardare. Lo sentiva, lo percepiva.
I bambini biondi seguirono i genitori fuori dalla sala con i musi lunghi, e lui
immagin che si lasciassero alle spalle il bianco e nero per sempre. Guardava la
sorella e il fidanzato di Janet Leigh che parlavano al buio. Non sentiva la mancanza
del dialogo. Non voleva sentirlo, non ne aveva bisogno. Non sarebbe riuscito a
guardare il film vero, l'altro Psycho, mai pi.
Era quello il film vero. Li vedeva tutto per la prima volta. Quante cose accadevano
in un secondo, dopo:, sei giorni, dodici giorni, centododici, viste per la prima volta.
La donna disse: - Chiss come sarebbe vivere al rallentatore.

Se vivessimo al rallentatore, questo film sarebbe solo un film tra tanti. Ma non lo
disse.
Disse invece: - Immagino che questa sia la sua prima volta.
Lei disse: - Ogni cosa la mia prima volta.
Aspett che gli chiedesse quante volte ci era andato.
Si stava ancora abituando alla presenza di un'altra persona, ma non era forse questo
che aveva desiderato nei giorni precedenti, qualcuno che gli facesse compagnia
durante la visione, una donna, che avesse voglia di parlare del film, commentare
l'esperienza?
Lei disse che si sentiva a milioni di chilometri da qualsiasi cosa stesse accadendo
sullo schermo. Le piaceva.
Gli disse che le piaceva l'idea della lentezza in genere.
Troppe cose vanno velocissime, disse. Abbiamo bisogno di tempo per
disinteressarci delle cose.
O gli altri non li sentivano, oppure non si curavano di loro. Lui guardava dritto
davanti a s. Era certo che il museo avrebbe chiuso prima che il film raggiungesse la
fine, la fine della storia, Anthony Perkins avvolto in una coperta, gli occhi di Norman
Bates, la faccia che si avvicina, il sorriso malato, il lungo sguardo carico di sottintesi,
lo sguardo complice rivolto alla persona che l al buio, e guarda.
Ancora aspettava che lei gli chiedesse quante volte era andato li.
Giorno dopo giorno, avrebbe risposto lui. Ho perso il conto.
Qual la sua scena preferita, gli avrebbe chiesto lei.
Prendo il film momento per momento, secondo per secondo.
Non gli venne in mente cosa avrebbe potuto dire lei dopo questo. Pens che aveva
voglia di andar via un attimo, andare in bagno a guardarsi allo specchio. Capelli,
faccia, camicia, la stessa camicia tutta la settimana, darsi solo uno sguardo veloce e
lavarsi le mani e poi tornare di corsa. Localizz il posto in anticipo, il bagno degli
uomini, sesto piano, doveva vedersi nel caso lei fosse rimasta fino all'orario di
chiusura e poi fossero usciti insieme dalla galleria e si fossero fermati alla luce. Che
cosa avrebbe visto lei guardandolo? Ma rimase dov'era, con gli occhi fissi sullo
schermo.
Lei disse: - Dove siamo, geograficamente parlando?
- Il film inizia a Phoenix, Arizona.
Non sapeva nemmeno lui perch avesse detto citt e stato insieme. Era necessario
specificare lo stato? Stava parlando con una persona che poteva non sapere che
Phoenix in Arizona?
- Poi l'ambientazione cambia. California, credo. Ci sono segnali stradali e targhe, disse.
Entr una coppia di francesi. Erano francesi o italiani, dalla faccia intelligente, si
fermarono nella luce fioca vicino alla porta scorrevole. Forse aveva detto Phoenix,
Arizona perch quelle parole comparivano sullo schermo dopo i titoli di testa. Cerc
di ricordare se il nome del personaggio interpretato da Janet Leigh fosse o no nei
titoli di testa. Janet Leigh nel ruolo di... ma il nome non gli era rimasto impresso, se
mai lo aveva visto.
Aspettava che la donna dicesse qualcosa. Ripens a quando andava al liceo ed

essere pi basso della ragazza con cui parlava gli faceva venire voglia di buttarsi a
terra e farsi prendere a calci dai passanti.
- Certi film fanno troppo affidamento sulle immagini.
- Non credo sia il caso di questo, - disse lui. - Penso che questo sia stato curato nei
minimi dettagli, ogni ripresa.
Ci pens. Pens alla scena della doccia. Pens all'idea di guardare la scena della
doccia con lei. Sarebbe stato interessante, insieme. Ma poich l'aveva vista il giorno
prima, e poich le proiezioni giornaliere venivano interrotte quando il museo
chiudeva, la scena della doccia non sarebbe stata parte della proiezione di quel
giorno.
E gli anelli della tenda. Era proprio sicuro che fossero sei gli anelli che giravano
sull'asta quando Janet Leigh, nella sua caduta mortale, si tira dietro la tenda? Voleva
guardare di nuovo la scena, riconfermare gli anelli.
Ne aveva contati sei, ne era sicuro, ma aveva bisogno di una conferma.
Questi ripensamenti vanno avanti all'infinito e la situazione non faceva che
intensificare il processo, essere li, guardare e pensare per ore, stare in piedi e
guardare, sprofondare i pensieri dentro il film, dentro se stesso. O era il film che
sprofondava i pensieri dentro di lui, che lo inondava come una specie di fluido
cerebrale impazzito?
- Ha visto altre cose nel museo?
- Sono venuta dritta qui, - disse lei, e non aggiunse altro, purtroppo.
Poteva dirle qualcosa sulla storia e sui personaggi, ma forse poteva anche
rimandare tutto a dopo, se la fortuna lo assisteva. Pens di chiederle che lavoro
facesse. Come due persone che imparano una lingua.
Che lavoro fai? Io non lo so, tu che lavoro fai? Non era il tipo di conversazione che
potevano avere in un posto del genere.
Voleva pensare a loro due come anime affini. Immagin che si scambiassero un
lungo sguardo l al buio, uno sguardo aperto e sincero, uno sguardo onesto, forte e
penetrante, e che poi si girassero a guardare il film, senza dirsi una parola.
La sorella di Janet Leigh si avvicina alla cinepresa.
Corre dentro il buio, bella da vedere, decelerata, la donna che corre, ingrandendo
la luce sullo sfondo man mano che si avvicina, il viso e le spalle appena accennati, il
buio totale che la inghiotte. Ecco di cosa dovrebbero parlare in un posto del genere,
se parleranno, quando parleranno, di luce e ombra, dell'immagine sullo schermo,
della sala in cui si trovano, parlare di dove sono, non di che lavoro fanno.
Cerc di credere che la tensione del proprio corpo le comunicasse la drammaticit
della scena. Lei doveva sentirla, li vicino a lui. Ecco cosa pens. Poi pens di
pettinarsi. Non aveva un pettine con s. Avrebbe dovuto ravviarsi i capelli con le
mani davanti al primo specchio, dove e quando possibile, senza dare nell'occhio, o
magari guardandosi in una superficie riflettente, una porta o una colonna.
La coppia di francesi cambi posizione, attravers la stanza verso la parete ovest.
Erano una presenza positiva, attenta, lui era certo che poi avrebbero parlato di quella
esperienza per ore. Immagin la cadenza delle loro voci, il ritmo degli accenti e delle
pause, parlavano a cena in un ristorante consigliato loro da amici, un locale indiano,
un locale vietnamita, a Brooklyn, sperduto, pi difficile da raggiungere meglio si

mangia. Erano fuori di lui, persone con la loro vita, era una questione di realt
concreta. Quella donna, la donna accanto a lui, mentre la guardava, era un'ombra che
emergeva dalla parete.
- Sicuro che non sia una commedia?-disse.
- Cio, guardi.
Lei guardava la casa alta e spaventosa che si staglia va sopra il basso motel, la casa
con le torrette, dove la mamma a volte si siede alla finestra della camera da letto e
dove Norman Bates indossa i panni di un travestito diabolico.
Lui ci pens su, a Norman Bates e alla madre.
Disse: - Immagina di poter vivere un'altra vita?
- troppo facile. Mi chieda qualcos'altro.
Ma non gli venne in mente nessun'altra domanda. Voleva allontanare l'idea che il
film fosse una commedia.
Lei vedeva forse qualcosa che a lui sfuggiva? Il ritmo lento della proiezione
rivelava qualcosa a qualcuno nascondendola magari a un altro? Guardavano la sorella
e il fidanzato che parlavano con lo sceriffo e con la moglie.
Si chiese se avrebbe potuto fare in modo che quella conversazione proseguisse a
cena, anche se al momento non c'era nessuna conversazione.
Potremmo andare a mangiare qualcosa qua vicino, avrebbe potuto dire.
Non so, avrebbe detto lei. Dovrei trovarmi in un posto tra mezz'ora.
Lui immagin di girarsi e inchiodarla al muro nella stanza senza pi nessuno a
eccezione del custode che guarda dritto davanti a s, nel vuoto, immobile, col film
che intanto scorre, la donna inchiodata al muro, anche lei immobile, che guarda il
film dietro le spalle di lui. I custodi dei musei dovrebbero essere armati, pens. Ci
sono opere d'arte dal valore inestimabile che vanno protette e un uomo con una
pistola purificherebbe l'atto del vedere a beneficio di tutte le persone presenti in sala.
- Okay, - disse la donna, - devo andare.
Lui disse: - Se ne va.
Era una semplice constatazione, se ne va, detta di riflesso, priva di qualsiasi
delusione. Non aveva avuto tempo di provare delusione. Controll l'ora senza alcun
motivo. Era comunque un'alternativa allo star li come un cretino. In teoria era una
cosa che gli dava il tempo di pensare. Lei intanto si avvicinava alla porta e lui le
corse dietro, ma senza foga, distogliendo gli occhi da chiunque potesse guardarlo. La
porta scorrevole si apr e lui fu dietro di lei, fuori alla luce, sulle scale mobili, piano
dopo piano, e poi all'ingresso e fuori dalle porte girevoli, in strada.
La raggiunse, attento a non sorridere e a non toccarla, e disse: - Che ne dice di farlo
magari qualche volta in un cinema vero, coi sedili su cui sedersi e la gente sullo
schermo che ride, piange e grida?
Lei si ferm per ascoltare, girandosi appena verso di lui, in mezzo al marciapiede,
con i corpi della gente che li urtavano passando.
Lei chiese: - Sarebbe un passo avanti?
- Probabilmente no, - rispose lui, e stavolta sorrise.
Poi disse: - Vuole sapere qualcosa su di me?
Lei si strinse nelle spalle.
- Quando ero bambino facevo le moltiplicazioni a mente. Numeri di sei cifre

moltiplicati per numeri di cinque cifre. Otto cifre per sette cifre, giorno e notte.
Ero uno pseudogenio.
Lei disse: - Io leggevo le labbra delle persone quando parlavano. Osservavo le
labbra e capivo cosa stavano per dire prima che lo dicessero. Non ascoltavo,
guardavo e basta. Li stava il bello. Ero in grado di escludere il suono delle loro voci
quando dicevano quello che dicevano.
- Da piccola.
- Da piccola, - disse lei.
La guard dritta in faccia.
- Se mi da il suo numero di telefono, magari la chiamo.
Lei si strinse nelle spalle per dire okay. Era quello il significato del gesto, okay, ma
si, pu darsi. Per quanto, se lei l'avesse visto per strada di li a un'ora, probabilmente
non avrebbe saputo chi era o dove l'aveva incontrato. La ragazza disse il suo numero
di corsa e poi si gir e and a est, verso la sovrabbondanza di Midtown.
L'uomo entr nell'atrio affollato e trov uno spazio risicato su una delle panche.
Abbass il capo per pensare, per ripararsi da tutto, il tono sostenuto di voci, lingue,
accenti, persone in movimento che portavano con s rumori, vite di rumori, un
clamore che rimbalzava sulle pareti e sul soffitto ed era forte e tutto intorno, gli
faceva venire voglia di rannicchiarsi. Ma lui aveva il suo numero di telefono, e questo
era quello che contava, il numero era stato memorizzato per bene.
Chiamarla quando, dopo due giorni, tre. Nel frattempo stare seduto a pensare a
quello che si erano detti, al suo aspetto, dove poteva vivere, come poteva trascorrere
il suo tempo.
Fu allora che si fece questa domanda. Le aveva chiesto come si chiamava? Non
gliel'aveva chiesto. Fece dentro di s un gesto di rimprovero, il disegno fumettistico
di un insegnante che agita il dito davanti a un bambino. Okay, questa un'altra
questione alla quale avrebbe avuto modo di pensare. Pensare ai nomi.
Scrivere nomi. Vedere se riusciva a indovinare come si chiamava dalla sua faccia.
La faccia si era leggermente illuminata quando lui aveva parlato dei calcoli mentali
che faceva da bambino. Non proprio illuminata, ma un po' rilassata, gli occhi avevano
mostrato un certo interesse. Solo che la storia non era vera. Non aveva mai fatto le
moltiplicazioni a mente con i grossi numeri, mai. Era una cosa che ogni tanto diceva
perch lo aiutava a spiegare agli altri come era fatto.
Gett un'occhiata furtiva all'orologio e non perse tempo, and alla biglietteria e
pag il prezzo intero. Avrebbe dovuto essere met del biglietto adulti, vista l'ora, o
gratis, avrebbe dovuto essere gratis. Strizz gli occhi guardando il biglietto che
stringeva in pugno e corse al sesto piano, due gradini per volta sulla scala mobile,
tutti che andavano nella direzione opposta. Entr nella galleria buia. Voleva
immergersi nel tempo, nel ritmo quasi statico dell'immagine. La coppia di francesi
non c'era pi.
C'era una persona e poi il custode e poi lui, l per l'ultima oretta scarsa. Trov il suo
posto contro la parete.
Voleva un'immersione completa, pur non sapendo bene cosa significasse. Poi si
rese conto di cosa significava.
Voleva che il film procedesse ancora pi lentamente, che comportasse un impegno

ancora pi profondo dell'occhio e della mente, sempre lo stesso, la cosa che vede che
gli penetra nel sangue, in una densa sensazione, condividendo la sua coscienza.
Norman Bates, spaventosamente normale, mette gi il telefono. Tra un po'
spegner la luce nell'ufficio del motel. Camminer sui gradini del sentiero che porta
alla vecchia casa, dove diverse luci sono accese, il cielo buio sullo sfondo. Poi una
serie di riprese, varie angolazioni, lui ricorda la sequenza, sta li vicino alla parete e se
le prefigura. Il tempo reale privo di significato. l'espressione stessa a essere priva
di significato.
E una cosa che non esiste. Sullo schermo c' Norman Bates che mette gi il
telefono. Il resto non ancora successo. Lui vede in anticipo, con la paura che il
museo chiuda prima che la scena finisca.
L'annuncio risuoner per tutto il museo in tutte le lingue delle nazioni che ospitano
i pi importanti musei e Anthony Perkins nei panni di Norman Bates sar ancora l
che sale le scale che portano nella ca mera da letto, dove la madre giace morta da
tempo.
L'altra persona esce dall'alta porta scorrevole. Ora ci sono solo lui e il custode.
Immagina che il movimento si fermi del tutto sullo schermo, che l'immagine cominci
a tremolare e a dissolversi. Immagina il custode che toglie la pistola dalla fondina e si
spara un colpo in testa. Dopodich la proiezione finisce, il museo chiude, lui da solo
nella sala buia con il cadavere del custode.
Lui non responsabile di questi pensieri. Ma sono i suoi pensieri, no? Torna a
concentrarsi sullo schermo, dove ogni cosa quello che con estrema intensit.
Guarda ci che accade e vuole che accada ancora pi lentamente, si, per con il
pensiero gi corre al momento in cui Norman Bates porter gi la mamma con la sua
camicia da notte bianca.
Questo lo porta a pensare a sua madre, inevitabilmente, prima che scomparisse,
loro due ristretti in un piccolo appartamento rosicchiato dai nuovi grattacieli, ed ecco
l'ombra di Norman Bates che sta davanti alla porta della vecchia casa, l'ombra vista
dall'interno, e poi la porta che comincia ad aprirsi.
L'uomo si stacca dalla parete e aspetta di essere assimilato, poro dopo poro, per poi
dissolversi nella figura di Norman Bates, che entrer nella casa e salir le scale in un
tempo subliminale, due fotogrammi al secondo, e poi si girer verso la porta della
stanza della mamma.
A volte sta seduto accanto al suo letto e dice qualcosa e poi la guarda e aspetta una
risposta.
A volte la guarda e basta.
A volte arriva il vento prima della pioggia e accelera il volo degli uccelli fuori dalla
finestra, uccelli fantasma che cavalcano la notte, pi strani dei sogni.

Ringraziamenti
24 Hour Psycho, una videoinstallazione di Douglas Gordon, stata esposta per la
prima volta nel 1993 a Glasgow e a Berlino. stata ospitata dal Museum of Modern
Art di New York nell'estate del 2006.

Stampato per conto della Casa editrice Einaudi presso Mondadori Printing
S.p.a., Stabilimento N. S. M. Cles (Trento) nel mese di gennaio 2012

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