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DIFFICILE
(INTERVISTA
EFFETTUATA
DA
ALLIEVI
DEL
PROGETTO
CHANCE
CHE
FANNO
ANCHE
DOMANDE
MOLTO
PERSONALI)
3
PEDOFILI - RIONE VILLA, NAPOLI – ESPERIENZE DI VITA IN PERIFERIA 22
DIRE
L'INDICIBILE:
AFFINITÀ
ED
ALLEANZE
TRA
INVENZIONE
LETTERARIA
ED
INVENZIONE
PEDAGOGICA.
EMOZIONI
IN
GIOCO
E
POSSIBILE
DIARIO
DI
UN
MAESTRO
24
Fare
scuola
dove
i
ragazzi
stanno
con
il
cuore
e
con
la
mente:
dalla
biografia
personale
al
metodo
didattico
Intervista
radiofonica
di
Giovanni
Anversa
a
Cesare
Moreno
per
la
trasmissione
“Scelte
di
vita”
trasmessa
da
RAI
TRE
il
5
gennaio
2004
Fare
scuola
dove
i
ragazzi
stanno
con
il
cuore
e
con
la
mente
-‐
Trent’anni
fa
G-‐
Trent’anni
fa
la
sua
scelta
si
chiamava
“mensa
dei
bambini
proletari”
di
Napoli,
oggi
quella
scelta
continua
ad
essere
dalla
parte
dei
ragazzi,
quelli
che
a
scuola
non
ci
vanno
più,
non
ci
vogliono
andare
o
non
sanno
cosa
farsene
dell’istruzione.
Questo
maestro
non
aspetta
i
suoi
alunni
in
classe
ma
se
li
va
a
cercare
per
i
vicoli
di
Napoli,
si
chiama
Cesare
Moreno
e
ha
capito
che
se
vuole
fare
scuola
a
loro
deve
partire
dal
luogo
in
cui
stanno
con
il
cuore
e
con
la
mente.
Il
ragazzo
con
il
cuore
e
con
la
mente
non
sta
a
pagina
27
del
libro
di
testo
ma
sta
magari
al
numero
civico
325,
dove
ha
lasciato
una
situazione
spesso
dura
e
difficile.
Bisogna
partire
da
lì.
Quel
luogo
per
Cesare
Moreno
diventa
il
quartiere
di
San
Giovanni
a
Teduccio,
dove
nessun
insegnante
napoletano
va
volentieri.
dove
ci
finisce
chi
ha
il
punteggio
basso
e
nessun’altra
chance.
Lui
il
punteggio
lo
aveva
alto
e
la
sua
chance
se
l’è
costruita
lì,
è
diventata
un
progetto
che
si
chiama
proprio
così,
“Progetto
chance”:
dare
una
chance
a
tanti
ragazzi
la
cui
realtà
sta
insegnando
molto
più
della
scuola
perché
li
ha
già
istruiti
in
fondo
su
quel
che
gli
serve
nel
quartiere
e
nella
vita,
che
con
ogni
probabilità
per
loro
è
già
scritta.
L’ho
conosciuto
da
vicino
questo
progetto
ospitato
in
un
edificio
annesso
al
circolo
didattico
“normale”
e
ho
capito
cosa
significa
l’incontro
con
quei
ragazzi
che
finiscono
fuori
dal
circuito.
Capisci
il
loro
bisogno
di
relazione,
di
espressione,
di
affettività
che
traducono
con
il
linguaggio
che
imparano
per
strada:
una
sorta
di
fisicità
esplosiva
e
arrogante.
A
volte
gioiosa,
scanzonata,
a
volte
violenta
e
disperata
ma
palesemente
fragile
e
disorientata
e
bisognosa
di
gesti
di
accoglienza
e
di
protezione.
È
con
questa
dimensione
che
Cesare
Moreno
fa
i
conti
ogni
giorno
sapendo
che
solo
così
poi
potrà
parlare
con
i
suoi
ragazzi
anche
di
Dante
o
di
Leopardi.
sistematicamente
in
punizione
Un
potenziale
evasore
scolastico
G-‐
Prima
di
parlare
dei
suoi
ragazzi,
parliamo
di
lei
ragazzo,
Moreno,
come
fu
la
sua
esperienza
scolastica?
M-‐
La
mia
esperienza
scolastica
sarebbe
stata
da
drop-‐out
se
mi
fosse
capitata
una
famiglia
diversa.
C’e’
un
episodio
che
ricordo
spesso:
dalla
prima
alla
terza
elementare,
poiché
mia
madre
insegnava
lontano
da
casa
e
non
poteva
badarmi,
mi
ha
messo
in
una
scuola
privata
e
in
questa
scuola
privata
per
tre
anni,
durante
l’intervallo
mensa,
sono
stato
sistematicamente
in
punizione,
cioè
neppure
un
giorno
non
sono
stato
punito,
perché
non
imparavo
a
memoria
gli
appunti
della
maestra.
E
questo
non
voler
imparare
a
memoria
le
cose
e
i
copioni
scritti
dagli
altri
credo
che
sia
stato
l’inizio
di
una
vita
che
sto
ancora
scrivendo
da
solo,
perché
è
difficile
che
qualcuno
riesca
a
scrivere
su
di
me.
Osservazioni
gratuite
sui
comportamenti
dei
ragazzi
G-‐
Poi
andando
avanti
come
e’
andata?
Elementari,
medie,
scuola
superiore…
Fabio:Prima
mi
stavi
dicendo
della
scrittura
di
sé
nei
bambini…
Cesare:
Appunto
visto
che
parliamo
di
autobiografia..Ai
temi
io
pigliavo
sempre
5
e
la
motivazione
era
quasi
sempre
che
ero
andato
“fuoritema”.
A
dire
il
vero
sono
arrivato
a
60
anni
e
secondo
me
sono
ancora
fuori
tema.
In
realtà
non
è
che
andavo
fuori
tema…è
che
sono
proprio
un
Fuori
Tema.
Un
outsider
e
rimarrò
sempre
uno
fuori
posto.
Due
volte
ho
avuto
8
.
Ad
un
tema
intitolato
“Io”
e
un’altra
volta
la
descrizione
alla
visita
delle
grotte
di
Palinuro.
Perché
anche
lì
erano
sostanzialmente
due
temi
liberi.
“Io”
è
libero..l’altro
era
“Di
ritorno
dalle
vacanze
ricordo
una
bella
esperienza”
e
ho
raccontato
una
bella
esperienza.
Quindi
lì
non
potevo
uscire
fuori
tema
capito?
Quando
ho
fatto
“Io”
non
potevo
uscire
fuori
tema
perché
Io
sono
Io...Io..credo
fosse
alla
scuola
elementare
e
invece..le
grotte
di
Palinuro
era
alla
scuola
media
ma
insomma,
il
problema
era
che
avevo
un
forte
senso
di
me
e..quindi
ho
detto
tutto
quello
che
dovevo
dire
compreso,
credo,
qualche
critica
alla
maestra
che
secondo
me
non
mi
capiva
etc.
Voglio
dire
che,
normalmente,
se
in
un
lavoro
scritto
ci
metti
del
tuo
la
cosa
non
viene
apprezzata,
facilmente
si
dirà
che
sei
andato
fuori
traccia.
E
comunque
diciamo
più
in
generale
il
tipo
di
scrittura
che
ti
viene
chiesta
a
scuola
è
.o
il
tema,
o
il
riassunto.
Il
riassunto
in
realtà
è
forse
la
forma
di
scrittura
più
nobile
che
ci
sia.
Perché
significa
in
qualche
modo
rivivere
in
un
modo
tuo
quello
che
è
stato
detto
da
altri.
Noi
non
lo
chiamiamo
riassunto,
ma
quando
per
esempio
verbalizziamo
le
sedute..noi
verbalizziamo
tutto..lì
ti
accorgi
subito
dell’abisso
che
c’è
tra
le
persone.
Oriana
per
esempio
lo
fa
bene.
Cesare:
Non
è
che
tu
devi
fare
una
sintesi:
Tu
in
qualche
modo
devi
aderire
al
punto
di
vista
di
chi
sta
parlando
e
in
qualche
modo
cogliere
l’essenza
di
quello
che
sta
dicendo.
Quindi
è
una
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 31 di 31
operazione
estremamente
complessa.
Non
è
un
lavoro
sintetico
in
senso
hegheliano
né
un
lavoro
sintetico
nel
senso
“mettiamoci
meno
parole”.
E’
un
lavoro
sintetico
nel
senso
che
devi
fare
una
sintesi
nel
senso
chimico
del
termine
tra
due
cose
diverse
:
Io
e
quello
che
sto
sentendo.
Se
non
hai
una
disponibilità
all’ascolto
che
è
una
disponibilità
a
capire
le
ragioni
di
chi
sta
parlando,
tu
te
ne
esci
con
due
soluzioni.
O
scrivi
pedissequamente
quello
che
senti
,
ed
ho
visti
i
verbali
di
questo
tipo
e
quando
li
vai
a
riprendere
dici
“Vabbè
è
possibile
che
ho
detto
tutte
‘ste
stronzate!”.
Oppure
invece
di
scrivere
quello
che
sta
dicendo
il
Tizio
scrivi
quello
che
pensi
tu..e
quindi
non
va
bene.
Il
tutto
deve
essere
fatto
in
tempo
reale
e
questo
conta
perché
c’è
una
terza
componente
che
è
l’emozione
del
momento
che
ti
fa
venire
fuori
un
prodotto
originale.
A
volte
interviste
fatte
da
giornalisti
bravi
o
dei
report
fatte
da
Oriana
ti
restituiscono
una
immagine
di
te
migliore
di
come
te
la
vivevi
tu
.
Invece
dire
quante
stronzate
ho
detto
…dici
“Ma
che
cose
belle
che
ho
detto!”.
L’altro
ci
ha
messo
del
suo
.
Questo
accade
anche
nel
riassunto
.
Il
riassunto
quando
cerchi
di
rispondere
a
queste
domande
“Ma
io
come
l’ho
vissuta
questa
cosa?”.
Quali
sono
le
risonanze
che
ci
sono
state
tra
me
e
ciò
che
ho
letto
?
Come
restituisco
il
riassunto?
Non
uno
scritto
con
meno
parole,
ma
una
cosa
che
è
la
fusione
del
mio
punto
di
vista
con
quello
che
ha
detto
l’altro.
Questa
è
una
bella
cosa.
Fabio:
Questo
in
realtà
richiama
anche
a
dei
processi
di
ri-‐significazione.
Cesare:
Bravo.
In
conclusione
tutta
la
nostra
vita
è
questo.
Tutta
la
nostra
vita
è
come
se
noi
riscrivessimo
il
mondo,
mettendoci
del
nostro.
Una
ri-‐significazione
di
tutto.
Se
non
c’è
questo,
se
mi
limito
a
recepire
i
significati
che
mi
hanno
dato
gli
altri
..il
mondo
rimarrebbe
sempre
uguale
a
se
stesso.
Non
solo,
forse
la
metà
delle
cose
è
frutto
di
fraintendimenti
:
“ho
capito
una
cosa
per
un’altra”
ciononostante
si
produce
qualcosa
di
nuovo.
Da
questo
punto
di
vista,
il
riassunto
è
un’arte
.
Un’arte
nobilissima,
la
più
nobile
di
tutte
perché
è
facile
–
si
fa
per
dire
-‐
inventarsi
una
cosa..difficile
è
entrare
in
rapporto
con
una
cosa
già
fatta.
Non
è
facile
inventarsi
la
“Divina
Commedia”!!
Però
in
qualche
modo
riscriverla
è
molto
più
difficile.
Non
so
se
hai
mai
letto
quel
pezzo
di
Borges,
credo
“La
biblioteca
di
Babele”
che
dice
“perché
io
ho
scritto
(Quell’IO
non
è
Borges
,
è
un
personaggio)
il
Don
Chisciotte,
ma
il
primo
rigo
del
primo
capitolo
era
proprio
uguale!
E
il
secondo
rigo…e
il
terzo
rigo
etc,
etc.
E’
proprio
uguale!
Indistinguibile
dall’originale!
Però
l’ho
scritto
io”.
Va
avanti
per
pagine
e
pagine
a
spiegare
come
il
suo
Don
Chisciotte
era
proprio
identico
a
quell’altro.
Io
l’ho
sempre
preso
come
una
metafora
per
dire
che
ci
sono
dei
casi
in
cui
una
scrittura
è
talmente
importante
che
l’unica
cosa
che
posso
fare
è
di
riscrivere
virgola
per
virgola
quello
che
c’è.
Non
ci
posso
mettere
mano.
Quando
noi
parliamo
di
riassunto
pensiamo
a
un
prodotto
scolastico
osceno.
E
comunque
anche
dentro
quello,
così
osceno
del
“mettiamo
meno
parole”
in
realtà
ci
metti
tutto.
Ho
fatto
un’esperienza
con
un
bambino.
Non
davo
un
vero
riassunto
.
Dicevo
“Prendete
le
parole
che
vi
sono
piaciute
di
più.
Poi
su
queste
parole
(stavamo
in
seconda
elementare!)
e
su
queste
parole
discutiamo
insieme
e
scriviamo
una
cosa”
.
Non
lo
chiamavo
riassunto.
C’era
un
brano
di
Saverio
Strati
che
descrive
il
suo
ingresso
in
Svizzera
dove
“ammassati
come
pecore
in
un
uno
stazzo..arrivati
alla
frontiera
si
presenta
un
gendarme
con
voce
di
demonio
che
dice
<
Svelti,svelti,svelti!
Scendete!>.
Io
avevo
i
piedi
intirizziti
e
il
cervello
che
non
funzionava
per
il
freddo..”
etc,
etc.
Insomma
la
descrizione
di
una
dura
emigrazione
in
Svizzera.
Questo
Bambino
sceglie:
Pecore,
Stazzo,Congela
e
voce
di
Demonio.
Praticamente
tutte
le
parole
connotate
le
ha
beccate
tutte.
Queste
parole
messe
in
fila
costituivano
con
qualche
piccolo
connettivo
…erano
una
versione
in
versi
di
un
brano
di
2
pagine.
Dove
c’era
tutto
quello
che
ci
doveva
essere.
Che
era
esattamente
l’operazione
inversa
della
versione
in
prosa.
Questo
bambino
non
ha
fatto
niente,
non
ha
detto
niente
di
nuovo,
ha
semplicemente
scelto
in
mezzo
a
300
parole,
sette
parole,
oltretutto
era
l’unico
che
aveva
difficoltà
di
scrittura..
ma
guarda
caso
ha
beccato
tutte
le
parole
emotivamente
calde.
Tutte
le
parole
che
a
lui
dicevano
qualche
cosa.
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 32 di 32
“Stazzo
di
pecore”,
“Freddo
che
congela
il
cervello”,
“Voce
di
demonio”
etc.
Con
quattro
salti
ha
steso
la
Svizzera!
Ha
colto
l’essenziale.
E
tu
questo
me
lo
chiami
riassunto
?
Questa
è
una
operazione
creativa!
La
copia
era
meglio
dell’originale.
La
scrittura
e
la
ri-‐scrittura
comporta
sempre
una
ri-‐significazione
almeno
che
non
sia
una
operazione
meramente
idiota.
…Quando
il
ragazzino
mi
ha
presentato
queste
quattro
frasi..io
sono
saltato!
Ho
detto
“ma
guarda
questo
che
s’è
fidato
di
fare!”
Un
operazione
che
nessuno
di
noi
sarebbe
riuscito
a
fare
.
Lui
c’è
riuscito.
Un
altro
avrebbe
detto
“ma
ragazzi
qua
manca…non
c’è
scritto
che
stavano
in
treno.
Non
si
parla
di
frontiera!”
.
Ci
mancano
i
riferimenti
:
Chi,
dove,
come
e
Quando?
Invece
lui
ha
colto
le
parole
di
valore
universale
che
stanno
fuori
dal
tempo
.
Da
questo
punto
di
vista
la
scuola
facendo
una
operazione
rivolta
allo
studente
medio,
allo
studente
astratto,
non
tiene
mai
conto
dello
studente
che
vive
e
che
quindi
ci
mette
del
suo.
Quando
ci
mette
del
suo
dice:
“Sei
andato
Fuori-‐tema”.
La
scrittura
a
scuola
oltre
al
riassunto
è
il
breve
saggio
quello
che
si
chiama
“il
tema”
:
“Parla
dei
problemi
ecologici
del
giorno
d’oggi.”
La
cosa
si
chiamerebbe
breve
saggio
e
sarebbe
molto
più
serio
chiamarlo
breve
saggio
perché
tu
non
devi
mettere
delle
idee
in
libertà.
Tu
devi
riferire
di
un
argomento
.
Non
è
che
devi
dire
“Io
penso
che
il
tema
dell’ambiente
è
importante”…Chi
se
ne
frega
che
secondo
te
è
importante
!
Spiegami
perché
è
importante.
Il
tema
è
fatto
un
pochino
come
opinione
in
libertà,
invece
il
concetto
di
breve
saggio
è
dire
“Ok
.
Ti
sei
informato
su
un’argomento..adesso
riferisci”.
Anche
questa
è
una
nobile
operazione.
Oppure
c’è
il
testo
referenziale…”esponga
il
candidato
la
prima
legge
della
dinamica”
.
La
versione
degradata
e
stereotipa
di
questa
pratica
didattica
diventa
verificare
quanto
sei
capace
di
ripetere
quello
che
ti
ha
detto
il
professore
o
che
è
scritto
sul
libro.
Quindi
da
questo
punto
di
vista
non
c’è
alcun
tentativo
di
risignificazione.
L’operazione
di
risignificazione
non
viene
proprio
proposta
perché
è
una
operazione
creativa.
La
scuola
si
propone
come
un
ripetitore.
Un
antenna
che
capta
da
una
parte
e
trasmette
dall’altra
parte.
Quindi
l’operazione
creativa
non
è
contemplata
anche
perché
..l’operazione
creativa
non
è
facilmente
gestibile.
Non
è
gestibile
nei
termini
tradizionali…perché
la
scuola
è
essenzialmente
lineare.
La
creatività
non
è
lineare…se
fosse
lineare
sarebbero
tutti
creativi.
2
più
2
fa
4
..quello
lo
sanno
fare
tutti
.
Il
problema
è
quando
2
più
2
fa
4
arancione.
Fa
sempre
4
però
il
problema
è
che
è
un
4
arancione.
Un
colore
che
ti
distoglie
dal
fatto
che
è
4.
Non
solo.
Poi
non
c’è
certezza.
Nel
senso
che
in
un
discorso
lineare
due
più
due
fa
4
,
in
un
discorso
non
lineare
due
più
due
fa
4.
Ok.
Ma
poi
a
noi
non
interessa
più
di
tanto
che
2
più
2
fa
4
..ma
qual
è
il
significato
di
questo
4
.
Anche
su
questo..c’era
un
bambino
che
si
inceppava
sul
5
.
Io
lo
dissi
in
televisione,
senza
fare
il
nome.
Lui
il
giorno
dopo
quando
scrisse
disse
“
Il
signor
Ferrara
(che
era
Ferrara
il
giornalista
che
mi
chiese
a
tradimento
perché
due
più
due
fa
4
?
Che
non
è
una
bella
domanda!
Perché
se
ti
chiedono
“Quanto
fa
due
più
due?
“…Fa
4
.
“Ma
perché
due
più
due
fa
quattro
?”
E’
la
tipica
domanda
cretina
che
però
ti
manda
in
crisi
se
non
sei
preparato
.
Dissi
“
Qual
è
il
problema
?
E’
che
in
generale
succede
che
uno
prende
due.
Poi
conta
altri
due
dopo
il
due
e
generalmente
arriva
al
4.
Sennonché
ci
sono
alcuni
bambini
che
quando
arrivano
al
4
si
impicciano
con
le
dita
e
non
riescono
più
a
dire
se
fa
4,5,
o
6
e
quindi
2
+
2
non
fa
4!
Ma
allora
quanto
fa?
Potrebbe
fare
4
ma
potrebbe
fare
3
.
Fa
quello
che
capita.”
Il
bambino
capì
che
si
trattava
di
lui
e
quindo
scrisse
“…e
il
maestro
Moreno
ebbe
una
bacchettata
sulla
mano!”
.
Cosa
che
non
è
proprio
avvenuta
…anzi
mi
fece
i
complimenti
etc.etc.
Questa
è
una
bella
risignificazione.
“Quello
stronzo
è
andato
a
dire
i
fatti
miei
in
televisione
ed
io
lo
meno!”.
La
storia
non
finisce
lì.
Scopro
cosa
c’è
dietro
dopo
5
anni
che
avevo
questo
bambino.
L’ultimo
giorno,
il
13
Giugno,
quando
la
scuola
era
deserta
perché
gli
insegnanti
i
ragazzi
li
fanno
andar
via
prima.
L’unica
classe
che
era
presente
fino
all’ultimo
giorno
ero
io
.
(20.10
minuti)
.
Il
13
Giugno
alle
ore
11
,
facciamo
un
bilancio
di
questi
5
anni
passati
assieme
e
ognuno
scrive
quello
che
gli
sembra
etc.etc.
Allora
lui
scrive
delle
cose
.
Poi
dice
“Io
sono
un
bambino
simpatico.
Fatto
bello
fuori
..
…e
dentro
sento
le
mazzate
che
non
devo
sentire!”
.
Già
questa
è
una
bella
frase
.
Poi
va
avanti
e
dice
“
Io
…la
mia
famiglia
siamo
4
..però
…e
io
mi
chiamo
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 33 di 33
Daniele
e
si
chiamava
Daniele
anche
mio
fratello
che
è
morto
in
un
pozzo
in
Germania…
a
me
mi
piace
il
nome
di
…”
e
cancella.
Poi
scrive
“
Il
nome
di
mi…”
e
cancella
.
Poi
scrive
“
Mi
piace
il
nome
di
…”
e
cancella.
E
poi
“
a
me
piace
il
nome
Daniele
perché
un
altro
non
mi
piace”.
E
lì
ho
detto
“finalmente
è
questo
il
problema”…perché
lui
per
due
volte
stava
scrivendo
“il
nome
di
mio
fratello”,
e
siccome
il
fratello
nell’ordine
della
conta
era
il
quinto.
Quindi
lui
quando
faceva
la
conta
della
famiglia
diceva
“Mamma,
Papà,
Antonietta,
Gennaro
e…”
Quando
arrivava
a
Daniele.
Chi
era
Daniele
?
Lui
o
il
fratello
?
E
là
si
inceppava
.
E’
andato
avanti
per
5
anni
senza
dire
niente
di
questa
storia.
Poi
invece
scrive
che
il
fratello
è
magrolino
invece
lui
è
grasso
.
Sto
bambino
era
chiarissimo
che
aveva
problemi
di
identità
.
Aveva
un
bulimia
legata
a
questo.
Aveva
l’ecolalia,
ripeteva
sempre
le
parole
che
dicevi.
Un
ragazzo
normale,
intelligente,
faceva
anche
le
operazioni
più
complesse
ma
il
numero
5
era
un
tabù
gravissimo
per
lui.
Questo
esempio
serve
per
dire
che
anche
la
cosa
più
scontata
come
potrebbero
essere
i
numeri,
che
sono
sempre
uguali
a
se
stessi,
in
realtà
sono
oggetto
di
risignificazione
.
Prima
di
attingere
al
mio
5
come
equivalente
universale
di
tutti
gli
insiemi
composti
da
5
elementi,
perché
è
questo
il
numero
5,
prima
di
arrivare
a
questo
concetto,
il
5
sono
i
membri
della
mia
famiglia.
Il
5
sono
le
dita
,
i
miei
amichetti.
Non
è
l’equivalente
universale
di
un
bel
niente.
Rappresenta
un
elemento
significativo
della
mia
esperienza.
Se
non
rappresenta
un
elemento
significativo
della
mia
esperienza
io
il
5
non
lo
imparo.
Questo
discorso
della
Risignificazione
potrebbe
essere
alla
base
di
qualsiasi
didattica.
Invece
se
fai
un
intervista
a
300000
mila
insegnanti
non
sanno
che
cos’è
nemmeno
la
significazione
..figuriamoci
la
ri-‐significazione!
Fabio
:
Mi
colpiva
questa
cosa
in
merito
al
narrarsi,
al
narrare
di
sé.
Leggevo
in
uno
dei
tuoi
articoli
la
difficoltà
anche
di
parlare
di
vicende
personali
in
dei
contesti
in
cui
non
esisti
tu
solo
come
bambino
,
ma
hai
un
contesto
familiare
in
cui
parlare
può
comportare
dei
problemi
oggettivi.
Mi
viene
da
pensare
che
nel
momento
in
cui
devi
narrare
di
te,
lo
puoi
fare
solo
a
livello
simbolico.
Utilizzando
simboli
attraverso
i
quali
sprigionare
in
qualche
modo
quello
che
hai
dentro.
Possono
essere
anche
le
fiabe…modalità
diverse
del
narrarsi.
Il
simbolo
è
uno
degli
scopi
ricorrenti
che
ho
trovato
nel
corso
…anche
quello
della
madre
sociale…è
un
qualcosa
che
nella
sua
accezione
originaria
sono
proprio
due
tessere
spezzate
simbolo
dell’alleanza.
In
che
modo
vivi
l’alleanza
nell’educativo
?
Qual
è
l’aspetto
che
è
veramente
simbolico
in
senso
stretto
nella
relazione
tra
insegnante
e
bambino…in
questi
contesti
e
nel
contesto
del
narrarsi?
Cesare
:
Prima
del
simbolo,
io
parlerei
della
metafora.
Alla
base
del
simbolo
c’è
un’attività
metaforica:
il
fatto
di
stabilire
la
corrispondenza
tra
due
mondi.
Se
la
locomotiva
sta
avanti
e
i
vagoni
stanno
dietro,
in
questo
momento:
questa
poltrona
è
la
locomotiva
e
queste
sedie
sono
i
vagoni.
Stabilire
una
corrispondenza
bi-‐univoca
tra
due
mondi
che
non
c’entrano
nulla
l’uno
con
l’altro.
Questo
mi
serve
per
costruire
i
simboli.
Io
stabilisco
una
regola
d’uso
:
se
questa
penna
è
simbolo
di
questo
blocco,
la
regola
d’uso
di
questa
penna
è
che
quando
levo
il
tappo
è
equivalente
al
fatto
che
giro
il
foglio.
Quindi
questa
penna
può
essere
il
simbolo
di
quel
blocco,
se
io
ho
costruito
questa
metafora
e
questa
corrispondenza
bi-‐univoca.
Perché
se
no
il
simbolo
…se
viene
usato
in
un
modo
diverso
dal
referente
non
è
più
un
simbolo.
Il
simbolo
buono
è
quello
che
non
ha
nessun
significato
proprio.
Per
es.
La
Parola
è
il
simbolo
dell’Oggetto.
E’
un
buon
simbolo
perché
non
è
nulla
.
E’
semplicemente
un’emissione
di
voce
e
quindi
non
ha
un
suo
significato
.
O
si
riferisce
all’oggetto
oppure
non
ha
significato.
La
parola
a
sua
volta
diventa
un
oggetto
che
entra
in
relazione
con
altri
oggetti
della
stessa
specie.
Per
poter
costruire
una
narrazione
devo
avere
una
capacità
metaforica,
ossia
saper
ristabilire
la
corrispondenza
tra
le
parole
e
i
loro
referenti.
La
costruzione
e
l’uso
del
simbolo
presuppongono
una
capacità
metaforica.
La
capacità
metaforica
è
molto
importante
perché
da
un
lato
è
creativa:
attraverso
la
metafora
tu
crei
mondi
nuovi
.
Dall’altro
è
importante
perché
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 34 di 34
ti
consente
di
allontanarti
dalla
“scena
del
delitto”
senza
dimenticartene.
Quindi
ti
consente
di
rivisitare
la
“scena
del
delitto”,
ossia
–
sto
usando
una
metafora
-‐
situazioni
dolorose,
attraverso
le
loro
rappresentazioni,
i
loro
simboli
e
non
facendoti
male
sul
serio
.
Quindi
la
metafora
è
uno
strumento
fondamentale
per
poter
trattare
materie
difficili.
C’è
un
detto
inglese
che
dice
“se
vuoi
avere
a
che
fare
con
il
Diavolo
procurati
una
forchetta
lunga”.
La
metafora
è
la
pinza
lunga
per
trattare
argomenti
incandescenti.
La
capacità
metaforica
è
assolutamente
fondamentale
per
l’uomo
perché
ti
consente
di
gestire
nella
mente
cose
che
gestite
nel
reale
fanno
parecchio
male.
Però
c’è
anche
la
cosa
inversa.
Il
fatto
che
qualsiasi
simbolo.
Parola,
può
essere
in
grado
di
rievocare
qualcosa
di
dolorosa
senza
che
magari
tu
neppure
lo
sappia.
Allora
il
punto
critico
sta
nellae
relazioni
molteplici
che
esistono
tra
mondo
reale
e
sue
rappresentazioni;
noi
abbiamo
questa
capacità
di
costruire
rappresentazioni
maneggevoli
che
ci
consentono
di
fare
operazioni
che
nel
reale
sarebbero
molto
pesanti.
(
30
min
e
25
sec)
Sia
sotto
il
profilo
pratico
che
sotto
il
profilo
emotivo.
Viceversa
poi
le
metafore
mi
fanno
sempre
ricordare
il
mondo
reale…e
quindi
..mi
evocano
il
mondo
reale
e
i
suoi
dolori
.
Certe
volte
senza
neanche
rendersene
conto.
Tutta
lo
sviluppo
cognitivo
e
il
ruolo
della
scuola
alla
fine
riguardano
la
capacità
di
gestire
le
metafore.
Questa
pinza
lunga
che
mi
serve
per
maneggiare
realtà
incandescenti
comporta
la
consapevolezza
che
ogni
qualvolta
vi
ricorro,
questa
porta
con
sé
un
frammento
del
dolore
che
l’ha
resa
necessaria.
Con
i
bambini
noi
abbiamo
sempre
questo
problema.
Come
governare
la
capacità
metaforica?
Anche
perché
la
capacità
metaforica,
che
in
larga
parte
coincide
con
la
capacità
semiotica,
cioè
di
produrre
significati,
di
ri-‐significare:
la
semiosi
è
infinita.
Io
posso
generare
metafore
da
metafore
e
significati
da
significati.
La
semiosi,
la
capacità
metaforica
è
senza
fine.
Se
tu
non
riesci
a
dare
uno
stop
a
questa
capacità
di
autoriprodursi
impazzisci.
Anche
perché
rimandi
continuamente
ai
significati
più
profondi
e
questo
non
sempre
fa
bene.
Questi
significati
alla
fine
sono
sempre
:
la
Paura,
il
tentativo
di
rimanere
in
vita
quando
il
mondo
congiura
contro
di
te.
L’incapacità
di
porre
un
freno
a
questa
compulsione
trasformativa
è
follia;
la
follia
nelle
sue
varie
forme,
riguarda
questo.
Se
torniamo
alla
domanda
“le
metafore
che
importanza
hanno
nel
lavoro
educativo?”
,
io
dico:
esse
stesse
sono
il
lavoro
educativo.
E’
l’uso
dei
simboli
e
delle
metafore
che
devono
essere
appresi
per
poter
maneggiare
la
realtà
senza
farsi
male.
L’unico
vantaggio
del
lavoro
intellettuale,
dell’affinamento
concettuale
della
realtà,
è
il
fatto
che
io
possa
agire
a
distanza
rispetto
all’oggetto
senza
entrarci
in
relazione
diretta.
Fabio
:
certamente
questa
metafora
della
pinza
per
gli
oggetti
incandescenti
ci
fa
pensare
ad
una
sua
duplice
funzione.
Se
da
una
parte
dobbiamo
cogliere
quegli
oggetti
in
modo
tale
da
non
scottarci,
dall’altra
una
volta
che
si
sono
raffreddati
ce
ne
dobbiamo
riappropriare,
reintroiettare.
Cesare:
Il
senso
della
metafora
è
proprio
quello
di
poter
sperimentare
in
corpore
vili,
-‐
uso
volutamente
questa
espressione
a
sproposito,
per
dire
che
l’idea
di
un
esperimento
rischioso
compiuto
lontano
dalla
mia
preziosa
persona,
riguarda
proprio
la
parte
tutt’altro
che
vile
dell’uomo
–
sperimentare
nella
mente
ciò
che
sperimentato
nel
reale
sarebbe
troppo
pericoloso
o
doloroso.
Però
alla
fine
devi
passare
all’azione.
Perché
altrimenti
rischi
di
crescere
su
te
stesso.
La
favola
quando
dice
“C’era
una
volta…”
dice
subito
che
quell’universo
è
molto
distante.
Avverte
che
si
sta
entrando
in
un
mondo
magico
che
non
è
pericoloso.
Quello
che
traspare
in
modo
opportuno
è
che
le
emozioni
che
si
provano
qui
e
là
sono
esattamente
le
stesse
di
quelle
reali:
si
piange,
si
ride,
ci
si
commuove.
“Come
se”
fosse
vero.
Se
non
ci
fosse
questa
capacità
di
provare
emozioni
nel
“come
se”…
nella
significazione
è
fondamentale
legare
l’emozione
al
significato,
senza
di
essa
quest’ultimo
non
avrebbe
ragione
d’esistere.
Paura,
attesa,
angoscia,
ansia
etc.
Se
una
cosa
non
mi
provoca
un
minimo
di
ansia
è
senza
valore.
Quando
tu
doni
un
regalo,
perdi
tempo
nel
confezionarlo
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 35 di 35
con
il
fiocchettino,
legandolo
per
bene,
scegliendo
la
carta
giusta.
Perché
?
Non
solo
per
vezzo
estetico
perché
l’occhio
vuole
la
sua
parte
.
E’
l’attesa
di
scartare
.
Crei
una
piccola
attesa
che
diventa
un
investimento
emotivo
sull’oggetto.
Ritardando
la
gratificazione
accumuli
energia.
L’attesa
è
energia
che
si
accumula
e
poi
la
scarichi
al
momento
opportuno.
Bisogna
stare
sempre
attenti
ad
utilizzare
questa
potenzialità
perché
la
mia
metafora
non
è
la
tua
metafora.
Il
positivo
e
il
negativo
si
mescolano
scambiandosi
i
ruoli.
Un
tramonto
viene
ritenuto
generalmente
romantico,
se
sono
sul
mare
con
una
fidanzata.
Se
dico
invece
“mio
padre
è
ormai
al
tramonto”.
Il
sole
che
si
immerge
nel
mare
o
che
muore
assume
una
valenza
malinconica,
triste.
Il
tramonto
è
dunque
una
metafora
positiva
o
negativa?
Dipende
dallo
stato
emotivo
di
chi
guarda
il
tramonto.
Il
problema
per
noi
è
proprio
quello
di
comprendere
che
la
mente
umana
per
la
sua
capacità
metaforica
infinita
ed
indefinita,
quando
meno
te
lo
aspetti
ti
fa
ritrovare
a
parlare
di
corda
a
casa
dell’impiccato.
“piacere,
di
mestiere
faccio
il
cordaio”
e
a
quello
hanno
impiccato
il
figlio
tre
giorni
prima!
Può
un
insegnante
non
parlare
di
corda
a
casa
dell’impiccato
?
No.
E’
sicuro
che
tu
parli
di
corda
a
casa
dell’impiccato,
specie
per
i
bambini.
Vedi
l’aneddoto
del
numero
5.
Quando
utilizziamo
la
metafora
da
una
parte
facciamo
l’unica
operazione
possibile
che
possiamo
fare:
maneggiare
una
realtà
complessa
con
delle
rappresentazioni
semplificate
e
con
degli
oggetti
simbolici
che
non
fanno
male.
Lavorare
con
i
concetti
significa
non
farsi
mordere
anche
se
posso
piangere
come
se
lo
avessero
fatto.
Da
questo
lato
ti
aiuta
a
gestire
delle
realtà
diverse
pur
essendo
consci
però
che
per
le
sue
caratteristiche
peculiari
non
porta
con
sé
un
unico
significato,
ma
tendenzialmente
tante
metafore
quanto
sono
gli
individui
e
in
mezzo
agli
individui
ci
sarà
sempre
qualcuno
a
cui
quella
metafora
farà
molto
male!
Parecchi
insegnanti
hanno
pensato
di
poter
lavorare
con
emozioni
e
con
i
sentimenti
come
con
una
materia
scolastica,
senza
rendersi
conto
che
rischi
di
aprire
l’otre
dei
venti,
quello
aperto
dai
compagni
di
Ulisse.
Se
vuoi
lasciarti
sedurre
dalla
melodia
dei
sentimenti,
devi
farti
legare
come
Ulisse
fece
–
appresa
la
lezione
-‐
per
ascoltare
il
canto
delle
sirene.
Appena
si
apre
l’otre
dei
venti
vieni
sballottato
…Tu
rischi
di
ritornare
in
quello
stato
confusionario
tipico
dell’infanzia
in
cui
non
capisci
il
bene
e
il
male.
La
differenza
tra
la
Maga
Circe
e
una
buona
samaritana.
Molti
insegnanti
hanno
pensato
che
mettendo
qualche
parolina
più
personale
potevano
educare
il
pupo.
Hanno
semplicemente
scatenato
emozioni
incontrollabili
e
poi
sono
costretti
a
tirare
i
remi
in
barca.
E
questo
i
ragazzi
lo
vivono
come
“tradimento”,
molto
di
più
che
non
la
freddezza
professionale.
Ci
sono
docenti
aperti
paternalisticamente
alle
‘confidenze’.
Spesso
più
le
proprie
che
non
quelle
degli
allievi,
ma
poi
sul
più
bello
riprendono
in
mano
il
registro
e
l’attitudine
giudicante.
Sotto
questo
aspetto
l’insegnante
austero
di
vecchio
stampo
è
di
gran
lunga
preferibile
e
preferito.
(47
minuti
e
25
secondi)
Fabio:
Rispetto
al
viversi
le
emozioni
da
parte
degli
insegnanti
occorre
rilevare
che
è
molto
poco
sviluppata
l’intelligenza
emotiva
.
Viene
lasciata
a
sé
sia
nell’adulto
che
nel
bambino.
Quanto
e
come
credi
possa
influire
e
soprattutto
come
lavorate
in
quei
contesti
in
cui
gestire
le
emozioni
fa
la
differenza
delle
relazioni.
A
scuola
questo,
almeno
in
quelle
istituzionali,
non
viene
neanche
preso
in
considerazione.
Cesare
:
Il
problema
…non
è
la
scuola
che
non
considera
le
emozioni.
E’
un’intera
cultura
che
ha
una
idea
dello
sviluppo
personale
come
di
….come
una
sorte
di
evoluzione
creativa.
In
questa
l’uomo
pensante
razionale
lineare,
intelligente,
etc.
ha
sepolto
l’Uomo
emozionale
ed
ha
sepolto
anche
il
bambino
emozionale.
In
realtà
non
è
così…in
ogni
singolo
atto
di
conoscenza
si
mescolano
emotività,
casualità,
casualità,
ragione.
L’atto
di
conoscenza
è
un
atto
complesso
e
non
lineare.
Entro
in
rapporto
con
l’oggetto
lo
manipolo,
stabiliscono
relazioni
con
lui,
mi
lascio
invadere
dal
sentimento
di
lui
.
La
famosa
sintesi,
in
cui
l’oggetto
esiste
in
sé,
è
un
universale
e
non
è
solo
‘per
me’
viene
molto
dopo,
e
comporta
ogni
volta
un
travaglio
interminabile.
In
realtà
ogni
atto
di
conoscenza
è
un
complesso
di
atti
di
conoscenza
su
piani
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 36 di 36
diversi.
Il
piano
emotivo
è
sempre
presente.
Ho
fatto
una
raccolta
di
citazioni
a
riguardo
.
Anche
Einstein
che
può
essere
tacciato
di
tutto
tranne
che
di
irrazionalità,
lo
dice
in
modo
chiaro:
la
ricerca
scientifica
è
possibile
solo
perché
c’è
una
passione
che
è
dello
stesso
tipo
di
quella
che
un
amante
ha
per
la
propria
amata.
E’
lo
stesso
tipo
di
rapporto
–
dice
Albert
-‐
che
San
Francesco
e
Democrito
hanno
con
la
natura.
Il
contemplativo,
la
cosmica
meraviglia
del
mondo
vengono
prima
di
qualsiasi
discorso
razionale.
E
se
questo
non
c‘è
la
ragione
è
vuota,
è
follia.
Fabio:
Leggendo
il
tuo
articolo
sul
fatto
di
cronaca
accaduto
a
Palermo
mi
era
venuto
in
mente,
mi
aveva
richiamato
il
senso
della
punizione.
Ho
quindi
ripensato
ad
un
romanzo
che
per
antonomasia
affronta
il
senso
del
pentimento
e
della
punizione
:
Delitto
e
castigo
di
Dostoevskij
.
In
cui
c’è
da
parte
di
Raskol’nikov
una
serie
tormentata,
prima
di
arrivare
a
concepire
il
passaggio
attraverso
il
perdono
istituzionalizzato.
D.
ti
porta
fino
ad
un
certo
limite
in
cui
ti
domandi
“Vabbè
ma
se
fondamentalmente
si
è
pentito
e
lo
ha
fatto
con
tormento…serve
poi
andare
oltre?”
.
In
realtà
l’incontro
con
Sonia
è
rivelatore
rispetto
al
Perdono
.
Decide,
pur
avendola
fatta
franca
di
costituirsi.
Per
cui
ciò
che
mi
colpisce
è
quanto
conta
il
pentimento
personale
rispetto
ai
canali
istituzionali
nelle
situazioni
di
disagio.
Nel
momento
in
cui
ti
vivi
un
contesto
che
avverti
come
ingiusto…secondo
te
c’è
il
senso
o
la
necessità
di
essere
perdonati
in
contesti
di
difficoltà
primaria
nell’approccio,
nell’integrarsi
all’interno
della
società?
Avverti
che
ci
sia
questa
necessità
da
parte
di
tutti
di
essere
perdonati,
chiaramente
non
nel
senso
cattolico,
quasi
un
riconoscimento
della
totalità
dell’altro
nei
suoi
aspetti
positivi
o
negativi
.
Cesare:
Avere
il
perdono…io
ripeto
il
discorso
che
ho
fatto
in
quella
lettera.
La
prima
cosa
è
che
io
mi
devo
sentire
in
colpa..e
io
mi
sento
in
colpa
se
ho
il
senso
di
un
debito
non
pagato,
una
rottura
che
è
avvenuta.
Il
discorso
del
Perdono
non
lo
riesco
a
vedere
se
non
nel
discorso
di
dire
“Devo
riparare”.
Ma
questo
riparare
naturalmente
deve
fare
i
conti
con
la
soggettività
dell’altro
.
Riparare
non
può
significare
che
io
me
ne
vado
in
una
grotta
in
montagna
mi
metto
il
cilicio
e
mi
auto-‐
punisco.
Perché
ciò
che
è
importante
non
è
infliggere
il
dolore
al
Reo
ma
riprendere
il
confronto
con
l’altro
e
da
questo
punto
di
vista
..ci
sto
riflettendo
in
questo
momento…questa
idea
del
perdono,
forase
c’entra.
L’idea
che
ci
debba
essere
un’attività
di
conciliazione.
Tutto
quel
discorso
che
faccio
sulla
punizione
ha
un
unico
corollario
..insisto
a
dire
che
l’unica
punizione
che
ha
senso
è
quella
vissuta
socialmente.
Adesso
la
tua
domanda
sul
perdono
ripropone
in
termini
diversi
la
stessa
cosa.
O
la
parte
offesa,
o
un
suo
rappresentante
…qualcuno
ci
deve
essere
che
mi
restituisce
il
senso
della
mia
espiazione.
Uno
che
dice
“ok.
Hai
saldato
il
conto!”.
Non
è
possibile
farlo
mettendo
i
soldi
su
un
conto
anonimo
in
una
banca
svizzera.
Se
sono
in
debito
con
te
i
soldi
li
devo
restituire
a
te
e
la
ricevuta
me
la
devi
dare
tu.
Che
io
Prenda
10
volte
tanto
la
cifra
e
la
versi
in
un
conto
svizzero
dove
faccio
beneficenza
ai
bambini
malati
di
AIDS…non
ha
senso.
Questa
idea
che
dici
tu..il
Perdono
…avere
di
fronte
a
me
o
la
vittima
o
un
suo
rappresentante,
o
una
persona
che
rappresenta
la
vittima
per
eccellenza
,
l’Innocente
è
quello.
Colui
che
è
Innocente
è
l’unico
che
mi
può
restituire
tutte
le
colpe
di
cui
non
conosco
la
vittima.
Per
il
semplice
fatto
di
esistere
e
di
avere
relazioni
sociali
qualche
colpa
ce
la
devo
avere.
Come
bisogno
generale
e
non
quindi
come
“ho
fatto
un
errore”
e
devo
essere
perdonato.
Ma
in
un
certo
senso
è
come
se
ci
fosse
una
sorta
di
peccato
originale
per
il
fatto
di
stare
in
società.
Faccio
parte
dei
meccanismi
e
il
senso
di
appartenenza
ad
una
comunità
mi
può
essere
dato
soltanto
dal
fatto
che
qualcuno
mi
accetti
per
quello
che
sono,
con
i
miei
difetti
.
Qualcuno
che
mi
perdoni
per
le
cose
che
io
posso
aver
fatto.
Del
resto
guarda
che
nel
meccanismo
del
capro
espiatorio
che
oggi
si
usa
a
sproposito
indicando
una
persona
colpevole,
quando
invece
la
sua
caratteristica
è
appunto
quella
di
essere
innocente
..altrimenti
non
sarebbe
un
capro
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 37 di 37
espiatorio.
(1
ora
e
19
secondi)
Quello
che
voglio
dire
..Questa
idea
che
dobbiamo
farci
perdonare
quindi
dobbiamo
fare
un
sacrificio
alla
divinità,
possiamo
dire
un
sacrificio
all’ordine
sociale
esistente…Pagare
un
prezzo
per
entrare
nella
comunità…da
questo
punto
di
vista
il
perdono
dobbiamo
averlo
un
po’
tutti
anche
se
non
abbiamo
fatto
niente.
E’
come
dire
per
poter
entrare
alla
comunità
io
devo
rinunciare
ad
una
parte
di
me
stesso
…finché
sono
tutto
centrato
su
me
stesso
non
potrò
mai
entrare
nel
gruppo.
Ci
dovrà
essere
da
un
lato
un
atto
di
contrizione
iniziale
dall’altro
lato
ci
deve
essere
un
atto
di
accettazione
che
qualche
volta
noi
chiamiamo
perdono.
Tutta
la
ritualità
cattolica
è
basata
su
questo
:
ripetere
continuamente
questo
atto
di
contrizione,
sacrificio
rituale
dell’innocente
e
il
perdono
perché
sono
peccatore.
Da
questo
punto
di
vista
io
penso
che
…non
me
lo
ricordavo
Dostoevskij
così…l’esempio
mi
pare
che
funzioni
bene,cioè
non
basta
che
lui
si
costituisca.
Attraverso
Sonia
deve
rientrare
in
contatto
con
le
sue
vittime.
In
sostanza
deve
rientrare
in
contatto
con
l’umanità
e
dire
comunque
“Io
faccio
parte
di
Voi”.
Ha
bisogno
del
perdono
non
può
limitarsi
solo
a
pagare
in
galera.
Penso
che
ci
sia
questo.
Anche
se
bisogna
stare
attenti
a
non
vivere
questa
cosa
come
una
sorta
di
desiderio
di
espiazione
o
di
auto-‐punizione.
In
realtà
il
perdono
è
un
atto
liberatorio.
E’
il
rientro
nel
gruppo
.
La
richiesta
di
perdono
è
anche
un
atto
di
sottomissione
al
gruppo,
alla
società.
Viceversa
viverlo
come
espiazione
per
i
prossimi
trenta
anni
anziché
essere
un
atto
di
libertà
diviene
chiusura.
Ho
visto
dei
miei
colleghi
che
hanno
un
po’
la
volontà
di
espiazione…
di
riscattare
.
Non
so
se
il
loro
peccato
o
i
peccati
del
mondo
quindi
questo
voler
dare,
volere
dare…”perché
hai
tanta
voglia
di
dare
?”
Prendi
pure
qualche
cosa.
Quando
tu
non
ti
prendi
niente
non
fai
parte
del
gruppo.
Auto intervista
Venti domade formulate da Valentina Ghione
Domanda 01 – Percorso per arrivare a Chance
Nel dicembre del 1966 occupai per la prima volta l’Università e cominciai a leggere
qualcosa sulla scuola. Mi fecero leggere “Lettera a una professoressa” e io stesso scrissi
un opuscolo pubblicato da Freltrinelli che si apriva così:” la scuola italiana è scuola di
classe due volte”. Il linguaggio e la logica erano molto primitivi, ma ancora oggi mi trovo
ad affrontare il problema della emarginazione sotto due aspetti: quello strutturale e quello
dell’emarginazione interiore. Oggi penso che il problema più grave sia il secondo. Quando
per decisione collettiva familiare – avevo già un figlio e non avevo alcun lavoro regolare - è
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 38 di 38
stato deciso che dovessi fare il concorso ho letto ogni genere di cose; però insieme a mia
moglie studiavamo da un pezzo questioni che ci aiutavano a criticare un pensiero politico
troppo schematico: studiavamo di biologia, di epistemologia, di psicologia. I libri che più ci
colpivano oltre a Freud – che sommariamente conoscevamo già – erano quelli di Bruno
Bettelehim, per il modo libero in cui affrontava i problemi e per la sua capacità di proporre
risposte semplici e sensate partendo da analisi e metodologie complesse. In particolare
Bettelheim mi ha passato l’idea che non esistono problemi solo cognitivi o solo ‘organici’
ma che ci sono sempre emozioni che finiscono per essere la cosa più importante
(magistrale il suo testo sugli errori di lettura). Ma soprattutto di Bettelheim ci attraeva il
modo in cui coniugava il suo essere ebreo, la sua vita nei campi di concentramento,
l’esercizio della professione e purtroppo anche il modo di essere isolato ed inviso ed
infine anche il modo della sua morte. Tra i libri che ho letto in quel periodo il filone “Itard,
Montessori, Vigotsky, Bruner” è quello che mi ha influenzato maggiormente. Vigotsky
soprattutto, lui ed altri molto diversi ( ad esempio Wittegenstein, Karl Kraus di Detti e
contradetti, Huizinga di Homo Ludens….Benveniste del Vocabolario delle istituzioni indo-
eropee; Adorno della Terminologia Filosofica….. ) mi hanno dato la convinzione che tutto
passa attraverso il linguaggio e che il linguaggio ha una capacità generativa. Nelle mie
letture, non guidate, ho certamente saltato delle cose: per esempio non sono mai riuscito
a leggere le cose di Mario Lodi o di Ciari o quelle di Freinet. Venivo da una forte
ideologizzazione e la retorica proletaria o di sinistra mi dava piuttosto fastidio. In seguito
quando avrei potuto leggerli con maggiore serenità non ne ho avuto più tanta voglia, ero
convinto e sono ancora convinto che una nuova pedagogia vada sperimentata in gruppo
e nelle situazioni urbane di maggior disagio e che le piccole scuole di paese o gli
esperimenti individuali contano piuttosto poco per cambiare i metodi di lavoro. (del resto
anche esperimenti consistenti come il nostro non mi sembra che cambino molto). Quanto
a Don Milani ho preso le distanze da molto tempo: ha detto cose molto vere e molto
giuste, tuttavia – non era questo il suo compito – non ha proposto un metodo di validità
generale e troppo presto i suoi allievi si sono sentiti in dovere di schierarsi come se
l’appartenere ad un campo fosse sufficiente a fare le cose giuste. Poi ho visto troppa
gente che con il moralismo invece di costruire ha contribuito a spaccare in un lavoro dove
tutto è necessario salvo che tracciare linee di fuoco tra amici e nemici.
Come ripeto non avevo voglia di trovare ispiratori; temevo anche di farmi influenzare,
volevo provare in prima persona e poi confrontarmi. Del resto se avevo bisogno di esempi
avevo una famiglia piena di insegnanti che si erano da sempre distinti per spremere succo
anche dai sassi; ma soprattutto sapevo che non era di una diversa didattica che avevo
bisogno ma di una diversa relazione con gli allievi e quello me la dovevo conquistare da
solo sul campo.
Ho portato con me una assoluta mancanza di rispetto reverenziale per ogni autorità
costituita sia in campo burocratico politico sia in campo culturale e scientifico. Un altro
cavallo di battaglia del mio insegnamento è il processo a Galileo e lo scontro tra autorità e
ragione. Penso ostinatamente che una buona autorità debba mostrare le proprie carte,
che non può aspirare all’infallibilità. Ho portato con me il rispetto sacro per ogni attività
degli allievi. Ho letto nei fogli strappati, sotto le cancellature, dietro i silenzi, oltre le
aggressioni, sempre convinto di incontrare una persona che mi arricchiva. Non mi sono
spaventato di fronte al programma scolastico, incompleto in relazione a ciò che mi veniva
imposto d’autorità, non mi sono tirato indietro nell’affrontare temi che facevano gelare il
sangue quando me lo richiedeva la vita dei bambini che avevo di fronte. Nel corso del
viaggio a scuola e poi a Chance ho aggiunto una sconfinata fiducia nella possibilità di
trovare un strada insieme agli altri. Prima di Chance non avevo le prove se un modo di
lavoro fosse il risultato di una attitudine personale irripetibile o il risultato di un metodo
riproducibile. Dopo sei anni di esperienza sono convinto che sotto certe condizioni sia
possibile riprodurre un metodo e che questo dia risultati positivi.
Del resto dell’equipaggio. Nel mio modulo, conoscevo abbastanza a fondo la vita
professionale dei docenti: li avevo incontrati sul campo e avevo constatato negli anni che
adottavano un atteggiamento giusto verso i ragazzi. Quando sono stato chiamato a
scegliere i miei compagni di viaggio mi sono diretto solo in questa direzione ed i fatti mi
hanno dato ragione. Mi sono fidato di più delle capacità operative che delle dichiarazioni
ideologiche o della militanza ostentata. Mi sono visto e mi vedo come un nostromo e
come un ufficiale di rotta, anche se purtroppo il nostro progetto manca di uno stato
maggiore ufficialmente costituito e troppo spesso abbiamo anche dovuto fare le veci di
questo; e ciò non va bene sotto molti aspetti.
La differenza più importante è che siamo un gruppo ed è nel modo in cui costituiamo
gruppo. Si può essere gruppo per motivi di efficienza, di solidarietà politico-sindacale, per
amicizia, per appartenenza culturale o sociale. Noi siamo un gruppo professionale, che sta
assieme in quanto svolge una ricerca e realizza un apprendimento intorno al compito di
educare le giovani generazioni. Noi rispettiamo in modo implicito - e sempre più in modo
esplicito - una deontologia basata sul rispetto assoluto degli utenti e delle loro famiglie.
Non credo che nella scuola ordinaria ci sia sufficiente consapevolezza di questo e che ci
sia un lavoro per fondare la colleganza su una condivisione delle pratiche didattiche. Per
questi motivi nel gruppo docente Chance le emozioni circolano con molta più libertà
cosicché diventano forza produttiva quand’anche si presentino in forme aggressive.
Viceversa nella scuola ordinaria si finge che ogni emozione sia ricacciata nel limbo della
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 40 di 40
irrazionalità; col solo risultato che le emozioni agiscono sotteraneamente in modo
devastante sia nel rapporto tra colleghi sia nel rapporto con gli allievi.
Primo: noi facciamo sul serio. Troppi docenti ingannano se stessi con paroloni e salti
mortali di concetti: sempre al passo con i tempi mai al passo con la realtà. Parole come
accoglienza, organizzazione, condivisione, laboratori, dialogo, ascolto sono dotate di
senso e si appoggiano a pratiche riconoscibili. Lo scarto tra ciò che dichiariamo e ciò che
realizziamo è minimo e sottoposto a verifica sistematica. Noi puntiamo solo e soltanto al
risultato e mai ad adempiere formalità ( le formalità ci sono e sono tanto più importanti
quanto più corrispondono a pratiche reali in quanto le rendono visibili e condivisibili). Noi
cerchiamo ogni giorno con fatica di creare una organizzazione e reperire risorse che siano
al servizio del progetto educativo degli allievi. Ogni ingranaggio del complesso
meccanismo organizzativo di CHANCE è teso nello sforzo di realizzare gli obiettivi del
progetto. Viceversa nella macchina organizzativa della scuola – così come in generale
nelle organizzazioni complesse - ogni pezzo se ne va per conto suo, ognuno sente con
fastidio la presenza delle altre parti e si comporta come quella rondine che godendo del
proprio volo e sentendo il fruscio dell’aria tra le piume sospirava di quanto sarebbe stato
bello volare senza l’ostacolo dell’aria. I meccanismo organizzativi non controllati e non
diretti secondo una idea unitaria, sono meccanismi profondamente espulsivi, che
sistematicamente sviluppano reazioni spontanee ed incontrollate di rigetto verso qualsiasi
cosa turbi la mortale routine esistente.
C’è stata una fase iniziale, ancora prima dell’inizio, in cui forse si voleva solo fare un
onesto recupero scolastico un po’ per rispondere a un bisogno sociale, un po’ per mettersi
a posto con la propria deontologia, un po’ per mettere la propria bandierina su un
progetto, visto che molti si inventavano progetti. La fase della prima realizzazione ha fatto
capire quanto invece si stavano mettendo le mani in un vespaio, che i problemi erano
molto più complessi e la sfida tutt’altro che una semplice presa di posizione morale. Il
secondo anno ha rappresentato un immediato rilancio della posta in modo che ha
irreversibilmente trasformato il progetto: il cambiamento della legge sull’obbligo(legge
9/99) ha portato a prolungare il nostro impegno con i ragazzi, ma questo, ce ne rendiamo
conto a distanza, significava cambiare radicalmente la natura del progetto. Il febbraio
2001, con il convegno Il Chiasso e la Parola può considerarsi uno spartiacque tra una fase
esplorativa ed una fase riflessiva: dalla confusione iniziale, il chiasso appunto, alla
parola. La terza fase ha visto il consolidarsi di un modello di scuola della seconda
occasione e di una scuola di percorsi integrati. E’ diventata sempre più forte la
consapevolezza che il progetto rappresentava una sfida complessiva non solo
relativamente alla pedagogia ma anche rispetto al tipo di comunità che attraverso la
scuola andiamo costruendo. La quarta fase che è cominciata già nell’anno scolastico
2003/2004 ha visto un impegno sempre maggiore per la trasformazione istituzionale da
noi intesa innanzi tutto come codifica delle pratiche realizzate e poi, ovviamente, anche
come riconoscimento da parte delle organizzazioni istituzionali esistenti, che sono molte.
Mi riferisco innanzi tutto alla comunità locale, alle istituzioni cittadine, alle istituzioni
nazionali dell’istruzione, alle istituzioni scientifiche nazionali ed internazionali. Attualmente
forse siamo in una quinta fase che chiamerei del negoziato, in cui forse siamo riconosciuti
come interlocutori e dobbiamo condurre un negoziato per la migliore realizzazione
possibile della missione del progetto. Forse è la fase più difficile di tutte, una fase
costituente in cui si può svendere, senza accorgersene, le migliori conquiste sul campo.
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 41 di 41
Domanda 10 – Momenti di difficoltà
C’è una difficoltà permanente che è l’assenza di una direzione del progetto. Questo è il
frutto di una schizofrenia istituzionale che da un lato ci affida una missione difficile e forse
impossibile ma anche doverosa, dall’altro c’è un desiderio segreto e diffuso che noi si
fallisca, una tendenza a metterci ostacoli sul cammino, perché il nostro successo
rappresenta anche una critica dell’insuccesso diffuso e sistemico della scuola ordinaria.
C’è anche una forte invidia nei confronti di figure come quelle dei tre coordinatori che
senza avere né titoli accademici né protezioni politico culturali hanno resistito e sono
andati avanti tra vasi di bronzo di grande spessore. Tutto questo si traduce in una
svalutazione sistematica del nostro lavoro in termini economici ed in termini di potere. Sui
termini economici c’è poco da dire: i docenti Chance sono puniti relativamente ai propri
colleghi, lavorano per più ore e non hanno avuto accesso agli incentivi del fondo
autonomia, non hanno avuto accesso ai fondi per le scuole a rischio. In termini di potere
noi ancora oggi non abbiamo neppure il potere sul nostro tempo: ogni anno siamo costretti
alla umiliante pratica della ‘utilizzazione’ che ci tiene sistematicamente sulla corda di una
precarietà immeritata e professionalmente devastante. Tutto questo si moltiplica per dieci
nelle figure dei coordinatori, sui quali non posso dire nulla per non essere colto da un
accesso di rabbia. L’assenza di potere si è particolarmente manifestata quando c’era la
necessità di decisioni dolorose o impossibili da prendere all’unanimità: ad esempio si
trattava di allontanare dal progetto persone che si erano dimostrate inadatte al compito. Le
decisioni alla fine sono state prese ma con molto ritardo e fatica e ancora oggi paghiamo
per i danni conseguenti a tali ritardi. Le misure prese nei confronti di questi problemi
sono:
Come abbiamo detto Chance è una occasione per la città. Una occasione perché tutti i
cittadini si sentano migliori perché condividono una missione importante nei confronti delle
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 42 di 42
giovani generazioni. Dentro questo quadro esistono categorie sociali e comunità
particolari che hanno un grado di esposizione maggiore e quindi anche un grado di
possibile partecipazione maggiore: parlo della comunità dei docenti, della comunità
scientifica, delle diverse istituzioni sociali e culturali. Purtroppo vedo che questi gruppi
partecipano poco e male, che bisogna trascinarceli, che anche chi sta dentro ci sta quasi
come su un autobus strapieno: sul predellino pronto a saltare giù alla prossima fermata.
C’è un qualche difetto d’origine del progetto, che non abbiamo ancora individuato, (ma
forse è solo l’antica tendenza delle razze padrone ad escludere chi non è nato bene) che
ci porta comunque ad essere distanti dalle comunità che contano.
Chance è senz’altro una comunità che apprende. Tuttavia occorre dire che i tassi di
apprendimento sono estremamente differenziati tra individui diversi, zone e livelli diversi
del progetto. Ad esempio l’apprendimento nelle istituzioni di riferimento è vicino a zero,
perché vicino a zero è il tasso di diffusione delle pratiche adottate da Chance. In generale
le professioni e le istituzioni fortemente strutturate sono quelle che apprendono meno. Noi
docenti apparteniamo ad una professione meno strutturata e meno difesa, meno protetta e
forse siamo – in alcuni casi – più disponibili all’apprendimento. Ho notato nei nostri
colleghi coordinatori dei servizi sociali di zona un buon tasso di apprendimento perché
sono come noi vicino al cuore del problema; ho notato un buon tasso di apprendimento
negli psicologi quando sono stati costretti a confrontarsi con forti emergenze, ma in
generale i livelli di protezione sono troppo alti perché ci sia una apprendimento efficace e
diffuso. Il problema dei differenziali di apprendimento credo che sia il problema principale
da affrontare nella creazione di organizzazioni interprofessionali. L’apprendimento è come
un’onda che di propaga su una superficie: sono più scosse le persone vicino al centro
perturbante e che vanno navigando, sono meno scosse le persone lontane dal centro o
che hanno salde fondamenta sul fondo roccioso.
Mi sono fermato molto su questa domanda. Mesi orsono avevo composto una specie di
glossario di tutti gli scritti di (e su) Chance trovando che contengono almeno 200
espressioni significative e caratterizzanti. Nel compilare il questionario ho cercato di
scoprire se ce ne era qualcuna ricorrente e veramente tipica. Ho verificato che 66 sono
abbastanza tipiche anche se alcune si possono trovare anche in altri contesti. Infine 37
sono ineliminabili o di nuovo conio. Volendo ulteriormente ridurre si giunge a cinque
raggruppamenti concettuali che costituiscono i pilastri portanti dell’architettura Chance: 1)
Attivazione dei processi di pensiero, 2) la promozione dell’apprendimento in ogni contesto,
3) il sostegno sociale ai processi di sviluppo personale, 4) la promozione di cittadinanza
giovanile, 5) lo sviluppo di una comunità di apprendimento tra tutti gli attori del progetto.
Quindi dopo ore di lavoro non è venuta fuori una o poche frasi. Pensandoci bene riesce
difficile trovare una espressione ripetuta di frequente perché una delle caratteristiche del
nostro linguaggio è di rinnovarsi continuamente e di aderire alla situazione e all’oggetto di
cui parla, quindi mancano quelle frasi intercalari che sono tipiche di un linguaggio
stereotipo che si preoccupa di annunciare e dichiarare appartenenze varie attraverso la
ripetizione di formule sacramentali. Forse la frase che ripetiamo più spesso è: “attenzione
alle docce scozzesi”, che è un invito a tenere la guardia alta dopo un successo per non
restare scioccati dalla puntuale delusione del giorno dopo. E’ ormai legge che i nostri
adolescenti non possono reggere più di un giorno un comportamento per così dire
tranquillo. Un’altra frase ricorrente è “dove abbiamo sbagliato”. Più rituale è la frase ‘sento
di dover dire’ che preannuncia in genere una scarica di emozioni con un discreto
contenuto aggressivo.
Colombo – sono sicuro - ha più volte ingannato i propri uomini rivelando segni
inesistenti della terra vicina. Ed ha ingannato se stesso quando ha immaginato immensi
tesori subito disponibili. Forse poteva permettersi questi inganni perché non pensava di
scoprire un nuovo continente ma solo una nuova via. Noi purtroppo non possiamo più
essere ingenui. So di non poter scoprire un continente. So anche che mai gli esploratori
hanno potuto godere dei frutti delle loro scoperte. Nella mia vita ho già sperimentato
alcune volte come il successo apra la strada a orde di conquistatori che calpestano i
primi esploratori che si attardano sul bagnasciuga; so anche che al di là della spiaggia c’è
un continente da esplorare e che questo è popolato da indigeni qualche volta pacifici e
accoglienti ma il più delle volte giustamente preoccupati ed aggressivi. L’equipaggio ha già
fatto molta fatica a reggere lo stress di un viaggio a meta ignota e durata indefinita ed è
giustamente stanco; non so se abbia voglia di addentrasi nei territori interni; non so se è in
grado di affrontare i problemi nuovi e diversi che pone una esplorazione terrestre rispetto
ad un viaggio in mare aperto. Insomma penso che se arriviamo a toccare terra – ma ci
sono dubbi in proposito - la nostra missione sia compiuta e che non bisogna prolungarla
oltre il suo limite.
Cesare Moreno Napoli 03/09/1946 Due figli di 25 e 20 anni Maturità Classica, Maturità
Magistrale, due anni di esami fatti alla Facoltà di Fisica di Pisa; tre anni di esami fatti al
Magistero di Salerno. Studi pedagogici di buon livello compiuti da autodidatta e
testimoniati da numerose pubblicazioni in autorevoli riviste.
Esperienze precedenti:
Militanza politica a tempo pieno dal 1967 al 1976 Lavori precari nel campo della ricerca
sociale dal 1974 al 1984 Concorso vinto come insegnante elementare nel 1983/1984; ho
insegnato solo e soltanto nelle zone più difficili e nelle classi rifiutate da altri docenti. Nel
1994-96 sono stato consulente del Ministro per i problemi della dispersione e responsabile
a Napoli del piano provinciale di intervento sulla dispersione che contava su oltre 400
docenti utilizzati. Sono stato cacciato per eccesso di zelo e per dichiarata invidia. Dopo la
mia cacciata gli interventi sistemici sulla dispersione sono stati progressivamente
smantellati e il progetto Chance rappresenta sempre più una sorta di relitto fossile in un
panorama di rovine. Dal 1996 al 2003 ho svolto gratuitamente l’incarico di responsabile
educativo dell’Opera Pia Orfanotrofio Famiglia di Maria, un semiconvitto che si occupa dei
ragazzi che vivono le condizioni più difficili nel mio quartiere. Un’esperienza che mi ha
nesso in contatto con il lavoro di comunità e che ha avuto una importanza centrale nel
suggerirmi una serie di costrutti pedagogici in genere non presenti nelle organizzazioni
scolastiche. Da questa esperienza sono stato estromesso per il semplice fatto di non
appartenere a nessun raggruppamento politico: ciò mi è stato detto esplicitamente dallo
stesso assessore che finanzia il Progetto Chance e che è responsabile dei semiconvitti.
Nessuna delle innovazioni da me portate nell’istituto è stata mantenuta.
Nel 1998 ho cominciato il progetto Chance come coordinatore del modulo San
Giovanni Barra.
Forse mancano delle domande – a cui del resto si può rispondere consultando altre
fonti – sugli assetti istituzionali.
Quale motivazione?
Una domanda che ritengo particolarmente importante è quella sulle motivazioni, su ciò
che muove ciascuno a impegnarsi in una impresa così difficile.
La mia risposta è che questo è l’unico modo per appartenere ad una città che è
profondamente ingiusta e che lo è particolarmente verso i giovani. E anche l’unico modo
che conosco per soddisfare la mia smisurata ambizione di contribuire ad affrontare un
problema vero piuttosto che limitarmi a svolgere diligentemente un lavoro salariato. Ho
piuttosto in sospetto invece le motivazioni altruistiche, riparatorie, missionarie,
ideologiche. Mi piacerebbe di avere una motivazione puramente egoistica, ma sempre più
spesso sono assalito dal dubbio che in realtà la mia sia una motivazione profondamente
masochistica. Da evitare come la peste.
1) Illustri sinteticamente cosa si intende per “maestro di strada”, come nasce, come
opera nella scuola e quali attività svolge come associazione.
La definizione sloganistica è andare dove l’allievo sta con la mente e con il cuore e non dove lo
abbiamo confinato noi che sia un regolamento, un ordinamento didattico, o una pagina di manuale.
Il nostro punto di vista è che l’educazione nasce da un incontro il cui esito non è scontato, che
occorre stabilire innanzi tutto una relazione, poi viene tutto il resto. Questo sul piano della didattica
significa valorizzare i vissuti degli allievi. L’allievo non è una tabula rasa ma portatore di diverse e
contraddittorie esperienze. L’abilità didattica del docente non è saper esporre la disciplina ma saper
incontrare l’esperienza dei giovani e aiutarli a rielaborarla e tradurla nei linguaggi formali,
attribuendo, quindi, grande importanza agli apprendimenti informali e situati. Sul piano della
metodologia pedagogica significa attribuire grande importanza ai contesti, alle condizioni
relazionali ed emotive in cui ha luogo il processo di apprendimento. Ma l’apprendimento
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 48 di 48
dall’esperienza è ostacolato da innumerevoli ostacoli emotivi per cui essere maestri di strada
significa anche essere guide in cammini perigliosi, accompagnatori dei giovani in un percorso di
conoscenza che ha necessariamente anche alcuni caratteri iniziatici.
E’ nata prima l’istituzione “Progetto Chance” che è parte della scuola statale, e poi
l’associazione. Maestri di strada. Questa è una espressione che, credo, sia stata usata per la prima
volta dall’UNICEF a New York o in Israele per designare un docente a tutto campo che si muoveva
anche fuori delle aule scolastiche. Nella città di Napoli abbiamo cominciato ad operare in questa
direzione nell’ambito del Progetto Chance che consisteva e consiste nel recupero dei ragazzi drop-
out dalla scuola dell’obbligo alla relazione positiva con sé e con gli adulti di riferimento, nel
recupero alla socialità e alla cittadinanza, nel recupero alla scuola. L’associazione è nata da
operatori del progetto non solo per fare operazioni che riusciva difficile fare in ambito istituzionale
o per diffondere le metodologie ad ambiti non scolastici ma anche per promuovere lo sviluppo di
una comunità di apprendimento professionale che vada oltre i confini del progetto napoletano.
2) Che bisogni di psicologia percepisce nella scuola? Dove vede l’utilità della
psicologia nella/per la scuola?
Nella scuola come in altre istituzioni in cui si lavora essendo fortemente implicati in una
relazione, c’è un forte bisogno di riflessione sulle pratiche, su se stessi e di capire cosa accade nelle
persone con cui interagiamo. Spesso la risposta istituzionale agli evidenti problemi della scuola e
dei giovani in generale ripropone formule stereotipate derivate da varie scienze e che sono
inadeguate e talora dannose perché impediscono un serio esame dei processi reali. Altre volte
singoli docenti o loro espressioni organizzate propongono formule e battaglie ingenuamente
solidaristiche, ma la voglia di aiutare l’altro scivola facilmente in forme collusive verso
comportamenti regressivi. La psicologia potrebbe dare un grande aiuto a dipanare una situazione
fortemente complessa, intricata fino al garbuglio. Non sempre però, da parte di chi domanda e da
parte di chi risponde, ci si riferisce ad una simile complessa professionalità e si scivola troppo
spesso verso interventi ad hoc puntiformi e mai sistemici.
Il primo bisogno che avverto è quindi quello di una buona psicologia che sia centrata sui processi
di apprendimento. Questi sono profondamente e radicalmente sociali e di conseguenza
profondamente collegati alle relazioni e alle emozioni. L’apprendimento non è un processo lineare
solo cognitivo, ma un processo complesso connotato da forti emozioni. Le emozioni motivano
all’apprendimento e al tempo stesso creano ostacoli e barriere. Aiutare i docenti a trovare la giusta
strada tra emozioni motivanti – insegnamento significativo – e il modo di contenere ansie e paure
dovrebbe essere il compito della psicologia, quindi non un compito per affrontare ‘casi’ e neppure
per affrontare situazioni difficili, ma uno strumento ordinario per gestire la complessità del processo
di istruzione ed educazione.