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Giuseppe Genna
Io Sono. Una nuova prospettiva metafisica.
Intervista a cura di Luca Romano
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Io sono1 un libro difficile da definire e forse un libro di questo tipo non deve essere
definito necessariamente, perch si apre alla complessit dell'insieme attraverso le varie
parti che lo compongono. Cercherei pi che altro di far emergere il testo stesso attraverso
delle domande, che partono dalla fine del libro e risalgono ai primi quattro capitoli
dedicati alla storia, alla metafisica, alla coscienza e alla terapia, tutti comunque orientati
ad una prospettiva metafisica, che ridefinisce la metafisica che si imposta nel
panorama filosofico contemporaneo.
Inizierei, quindi, con una domanda pi generica che possa aprire la conversazione e
far comprendere anche il tipo di lavoro che hai svolto in Io sono. La rivista Logoi nata
sul concetto di contaminazione dei linguaggi, tra i quali la filosofia evidentemente lo
snodo fondamentale. Nello stesso modo Io sono. Studi, pratiche e terapie della coscienza:
un libro che non si annuncia come filosofico, ma la filosofia rappresenta una delle
colonne sulle quali poggia; c' molta psicologia, molti riferimenti alla fisica, ma
soprattutto c' tantissima letteratura. Per la costruzione del testo e per una sua lettura,
quanto importante il confronto tra le discipline? In senso pi ampio, si pu parlare di
letteratura oggi (e lo stesso discorso vale per la filosofia o la stessa terapia della
coscienza) senza perdere di vista la letteratura stessa? O, ancora pi direttamente,
ancora possibile parlare di letteratura non metafisica?
G. Genna: Non sono convinto quanto alle percentuali. Ritengo che nel testo Io sono
non a caso lultima parte si occupi di testualit, mbito in cui vengono trascelti alcuni nomi
e testi di ordine letterario. Mi pare di potere affermare che la quasi totalit del libro si
occupa direttamente di testualit metafisica e di pratiche metafisiche concrete. Tuttavia
esiste la questione che la domanda solleva. Questa ambiguit il risultato del sentimento
di ambiguit che si costretti ad affrontare, nel caso si voglia esporre la prospettiva
metafisica, che nulla ha a che vedere con quanto genericamente si intende oggi in ambiente
accademico o filosofico. Tale ambiguit impone una cautela estrema, poich a volte sembra
di suggerire in modo esotico e lequivoco dello spiritualismo sempre in agguato.
Forse andrebbe detto piuttosto che la filosofia occidentale contemporanea, cos come la
comprensione o lesperienza del tragico in epoca contemporanea, non altro che lesito di
un allontanamento da unattivit pratica, che rudemente posso definire lavoro sullattivit
di coscienza, la quale stata tutta la filosofia un tempo e poi ha smesso di esserlo alle
nostre latitudini, che ormai non sono nemmeno pi geografiche. possibile proporre oggi,
senza conflittualit, ci che la questione metafisica, a queste stesse latitudini?
Ci presupporrebbe un lavoro retorico, ermeneutico, filologico, storiografico ed
epistemologico prossoch immane e ne risulterebbe una certa interpretazione dellintero
corso della filosofia occidentale stessa. Non questa la prospettiva che intendevo dunque
avanzare. Ho scelto di emblematizzare il discorso metafisico (che, come si sottolinea in pi
punti, proprio il contrario di un discorso) utilizzando una tradizione assai distante da noi
contemporanei occidentali, ovverosia la prospettiva del non-dualismo che nota in oriente
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esiste e non linguificabile se non per analogia, appunto: qualunque sapere simula una
linea, una prospettiva, un raggio, che guarda al medesimo centro.
Tuttavia c un punto in cui il libro pretende di non essere minimamente espositivo in
modo analogico: si tratta della potenza terapeutica del lavoro sulla coscienza come
sensazione continua di esserci. La proposta, in questo caso, specificamente storica qui e
ora si constata una fioritura assai estesa di pratiche psichiche intese come iatrogene, in un
momento in cui lassolutismo del paradigma psicoanalitico sembra definitivamente
tramontato; in questa congerie mi permetto di osservare una prevalenza di riduzionismi;
tra questi riduzionismi non accade che ce ne sia uno in grado di spiegare o utilizzare la
potenza della coscienza quale sensazione continua di essere. dunque possibile ipotizzare
una pratica che non si occupi della psiche, bens di stare nella sensazione di essere?
Esistono ricadute di ordine psichico? Tali eventuali ricadute sono per caso iatrogene? La
tradizione metafisica ammette questa ipotesi e afferma che latto psicoterpaeutico non
esiste se non si opera a partire dalla coscienza cos intesa. Da molti anni studio e pratico
questordine terapeutico. plausibile ritenere che non la psiche, bens la coscienza, sia il
momento terapeutico, la vis curatrix, la prassi stessa dellefficacia. Cos come possibile
chiedere alla letteratura una possibilit immersiva che faccia sperimentare luscita da
qualunque discorso (e, nel testo, in questo senso, approccio Kafka e Melville e altri),
anche ammissibile chiedere a una prassi della coscienza di condurre effettivamente fuori
dal continuo monologo in forma di coro, che la legione io pratica internamente senza
requie. Ci va detto con molta decisione e precisione avviene al di l di qualunque
clinica. La psicologia contemporanea, per utilizzare lespressione di un grande
psicoanalista italiano contemporaneo, attualmente assetata di casi clinici, di clinica. Non
intendo effettuare un richiamo alla necessit di teoria. Intendo invece appuntare
lattenzione su un piano che nulla centra con la psiche, se non per il fatto che esso la
sostanza stessa della psiche, cos come del corpo: la sensazione concreta di essere qui ora,
che non discorsiva e nemmeno linguificabile.
Ora si chiarisce la risposta alla domanda sulla letteratura metafisica: c la metafisica,
latto operativo metafisico latto naturale di essere; quindi qualunque letteratura
metafisica, come qualunque scopa, qualunque sistema. Personalmente ritengo che una
letteratura sia pi o meno metafisica a seconda di quanto e come fa sperimentare la
semplicit dellatto metafisico con consapevolezza incantata o pensata o agita ci che
chiamo vuoto, ma unetichetta imprecisa e idiomatica, per certi versi fuorviante. La
colpa di ci mia: del linguaggio.
Per entrare con le mani nel testo vorrei partire da un autore che sottotraccia, ma
nemmeno troppo, emerge con forza, in particolare nella seconda parte del testo:
Nietzsche, per ritornare poi sulla Coscienza e su una analisi metafisicamente orientata.
Nietzsche, in una delle sue lettere scrive un passo che poi stato spesso collegato alla
sua follia (presunta o reale):
Alla principessa Arianna, mia amata. Che io sia un uomo, un pregiudizio. Ma io ho gi vissuto
spesso fra gli uomini e conosco tutto ci che gli uomini possono provare, dalle cose pi basse fino a
quelle pi alte. Sono stato Buddha tra gli indiani e Dioniso in Grecia, Alessandro e Cesare sono
mie incarnazioni, come pure Lord Bacon, il poeta di Shakespeare. Da ultimo, ancora, sono stato
Voltaire e Napoleone, forse anche Richard Wagner... Ma questa volta vengo come Dioniso il
vittorioso, che far della terra una giornata di festa... Non avrei molto tempo...
questa legione di sagome, a questo Proteo che ha forgiato le nostre antropologie, le nostre
filosofie, le nostre ere. Non un caso che io affronti la funzione Dioniso in una sezione che
lultima del saggio: quella sezione poteva benissimo non essere scritta o non essere
pubblicata, poich essa, pur tentando di risultare euristica, di fatto soltanto
esemplificativa, in quanto si occupa di testualit e, nello specifico, di una testualit, ovvero
quella letteraria, quando la testualit viene indicata come funzione di lettura del mondo: la
percezione testuale e la comprensione letterale. Non si tratta della metafisica del testo
che Ricoeur ricava dallermeneutica biblica e nemmeno del grande libro del mondo, che la
Scolastica indica quale contenitore della testualit divina ammesso che questultima sia
uninterpretazione plausibile di una tradizione che mi pare molto miscompresa dalla
modernit e dalla nostra contemporaneit.
Il simbolo letterale: questa affermazione un simbolo appartenente a un orientamento
metafisico. Dioniso simbolo e, al contempo, ovverosia nello stesso istante e sotto il
medesimo aspetto, la negazione del simbolo. Chi vede Dioniso? una domanda
continuamente posta e continuamente capace di divaricare il discorso dalla domanda
stessa, la quale, essendo un simbolo essa stessa, va intesa letteralmente: non c risposta, si
sta in quella domanda. Davvero e concretamente: chi vede Dioniso? Siamo appunto
costretti a una strenua opera di reinterpretazione o possiamo stare in questa domanda
senza che il discorso parta? Poich si ritiene che questo accada: Dioniso si sviluppa
soltanto se c discorso, ovvero sviluppo simbolico. E qui, a questo crocicchio, ovverosia
stare senza sviluppo apparente, loccidente gioca il suo statuto rispetto anche alla potenza
dionisiaca. Se si pensa che una decina di anni fa Edith Hall, Fiona Macintosh e Amanda
Wrigley pubblicano Dionysus Since 69 presso la Oxford University Press, una dotta
ricognizione storica del dionisiaco e della tragedia classica, alla luce delle acquisizioni degli
studi post-strutturalisti, genderisti e post-colonialisti, ecco che possiamo notare come la
finzione di Dionismo continua ad attecchire alle nostre latitudini e nel nostro presente.
Dioniso una potenza che fa parlare: non vero che parla. Parla con finzione: la parola
finzione. Ci che tragico nel nostro tempo non detto che sia tragedia. necessario stare
in ci che non parla, nel nostro tempo. Questopera molto difficoltosa, che in immagine
possiamo accostare al processo di denudamento in vista della nudit (un termine caro
anche a Giorgio Agamben, come si sa), lontano dallepoch husserliana? Dal grande
silenzio di meister Eckhart? Dallesito parabolare kafkiano? Ecco che gi torno al discorso,
torno a parlare
Cos, ci che cura non parla. La cura stare. Quindi certamente Dioniso cura, se
vogliamo dirla in modo esoticamente vintage.
Dove questo luogo in cui non si parla, concretamente? Si d cos un orientamento
metafisico.
Stare in questo luogo: si d cos latto di consapevolezza che diciamo metafisica.
Questa scena di fatto la scena del tragico. Il discorso sulla tragedia come
manifestazione della naturalezza o spontaneit e orrenda o tremenda insostenibilit
dellatto di consapevolezza, in Io sono, esemplifica e svolge ulteriormente un discorso: dal
punto di vista metafisico non esiste alcun discorso, ma anche tutti i discorsi sono
metafisici. stare che appare complicato al fenomeno umano: il suo buco nero. Tuttavia
qualunque buco manifesta un orlo.
con la tragedia che arriviamo al confronto pi stretto tra la mera sensazione
d'essere e gli stati pi qualificati del soggetto, delineando unidea di tragico
contemporaneo estremamente diversa dal concetto di Dionisiaco. Tu citi Ricur che
afferma comprendere il tragico significa risvegliare in se stessi l'esperienza greca del
tragico, non in quando caso particolare di tragedia, ma in quanto origine stessa della
tragedia. Cosa rappresenta questo slittamento?
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G. Genna: Non propriamente cos. Non mi stupisce, per, che sembri cos. Il discorso
sulla tragedia viene fatto appoggiandosi, come causa occasionale, ad un romanzino di
Philip Roth, Everyman. Inizio quella parte, citando Stephen King. Non un testo centrale
nel saggio e lardua difficolt da affrontare, nella scrittura di questo saggio, stata gi
consumata a quel punto. La difficolt consisteva nel resistere a scrivere unenciclopedia,
tanto quanto nel tentare di scrivere in modo centrato e il meno dialettico possibile circa i
testi metafisici, dalla Baghavad Gita a Plotino. Francamente non so se sono riuscito a farlo,
lo dico in tutta sincerit. Spero soltanto di essere riuscito ad aiutare qualche lettore
interessato appunto a testualit metafisiche: cio a operare la metafisica. Altro discorso,
invece, il tentativo di scendere dal livello non dialettico dellatto metafisico, per osservare
il campo mentale e la funzione di cura (solo come esito si tratta di una cura anche psichica,
ma sicuramente non psichiatrica). Qui si esplora la possibilit di una disciplina terapeutica
della mente, orientata dal fatto della coscienza pura, che appunto latto metafisico.
Tanto quanto la prima domanda sul tragico, questa seconda comunque molto
complessa. La risposte non dovrebbero essere complesse, visto il punto di partenza, cio Io
sono. Vengono per sollevati tali problemi, che sono costretto a rispondere su pi piani,
poich qui mi pare sia in gioco una delle questioni essenziali del testo e davvero non sono
per nulla sicuro che, essendomi trovato ad affrontare questo problema, sia riuscito a
risolverlo adeguatamente. Come accennavo, la risposta sarebbe estremamente semplice: la
metafisica, per come si cerca di esporla nel libro in discussione, ha soltanto in parte a che
vedere con ci che viene inteso quale metafisica qui e in questo tempo, cio in un
occidente determinato maggioritariamente da spinte e saperi e storia dopo il Novecento. Di
conseguenza, il tragico, nei suoi rapporti con la tragedia, ovverosia con la manifestazione
del tragico, passibile di un trattamento interpretativo o teorico orientato al fatto della
coscienza, che per il nostro contemporaneo rimane una chimera inafferrabile o, se la si dice
afferrata, continua a porre domande ineludibili e prive comunque di risposta. Strana
entit, la coscienza: strana potenza, strana possibilit
Ora ho ripetuto un modulo di risposta apparentemente discosto dalla seconda domanda
sul tragico e pi pertinente alla prima. Tuttavia lintenzione di chi pone la domanda
chiaramente orientata a una medesima questione. C dunque differenza e ripetizione.
Ecco una possibile retorica filosofica, cio a valenza metafisica, non attinente alla
maieutica.
Conclusivamente sottolineerei che un altro aspetto decisamente interessante della tua
analisi che non si pu definire meramente letteraria, perch ogni domanda sulla
scrittura e sulla tragedia riporta al principio del testo e alla prospettiva metafisica, cio
una attivit pratica dalla quale non si pu prescindere per parlare di nessun'altra
disciplina non a caso legato alle figure della cantante Giuseppina di Kafka e di
Bartleby di Melville (oltre a Lovecraft stesso e a Burroughs, principalmente). I due
personaggi conducono ad una definizione di letteralit coincidente con il vuoto. Forse,
allora, si pu intendere il vuoto anche come punto di risoluzione della prospettiva
dualistica e come principio per una letteratura futura (ma anche per una
cinematografia, penso ad esempio a La leggenda di Kaspar Hauser di Manuli con il quale
tu hai collaborato e nel quale gi emerge con forza la natura di Io sono testimonianza
ne un'intervista rilasciata sul film per Uzak, nella quale gi anticipi i temi).
G. Genna: S.
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