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VOCI SULLA CITT

Edoardo Salzano

Memorie di un urbanista
LItalia che ho vissuto
2010 Corte del Fontego editore
Dorsoduro 3416/a - 30123 Venezia
cortedelfontego@virgilio.it
ISBN 978-88-95124-06-3

www.cortedelfontego.it

Redazione: Matilde Galli, Pippi Lanzich


ai miei figli e ai nipoti,
speranza per il futuro
Indice

Ouverture  xiii

Prologo xv
La lunga infanzia
Nonno Armando - Napoli dalla mia finestra - La casa del Corso - I coloni e Vicienzo
Ucciero - La famiglia Salzano di Casoria - Villa Diaz - Le mie educatrici - Giochi -
Il monumento a nonno Armando - Selva di Val Gardena - Accanto alla guerra -
Sfollati a Roccaraso - Cade il fascismo, arrivano le SS - Miseria e nobilt - Via
Rasella dallHotel Imperiale - Larrivo degli alleati - Ritorno a Napoli - I boy scout -
Luigi Cosenza - Villa Pavoncelli - La politica? Non cera - Unestate a Colle Isarco -
Luniversit, il cinema e Benedetto Croce - Mamm e pap entrano in crisi

Memorie di un urbanista. LItalia che ho vissuto 1

capitolo primo 3
A Roma
1. Nuove amicizie, nuove scoperte - 2. San Pietro in Vincoli - 3. Alberto
e la politica - 4. Federico Gorio e la civilit urbanistica - 5. Barbara e
limpegno sociale - 6. Pubblicista

capitolo secondo 17
Un nuovo mondo si apre
1. Franco Rodano - 2. In quegli anni, nel mondo e in Italia - 3. La rivista
il Dibattito politico - 4. Emergono i temi della ricerca - 5. Bisogno, con-
sumo, produzione, lavoro - 6. Le trasfomazioni nella societ e nel territorio
- 7. Comunista
capitolo terzo 35
Lavorare non stanca troppo
1. La laurea, e dopo - 2. Lavori e lavoretti - 3. Il piano urbanistico provin-
ciale di Teramo e il piano regolatore generale di Giulianova - 4. Il Centro
studi della Gescal - 5. Il Ministero dei lavori pubblici - 6. LItalia alle so-
glie degli anni Sessanta - 7. Da Fiorentino Sullo alla frana di Agrigento

capitolo quarto 47
Nel centro dellurbanistica italiana
1. Al Ministero di Porta Pia - 2. Salvate gli uomini prima dei mufloni -
3. Dal crollo di Agrigento al decreto sugli standard urbanistici - 4. Gli
standard urbanistici - 5. Le sentenze della Corte costituzionale - 6. Ammi-
nistrare lurbanistica - 7. La Rivista Trimestrale - 8. Che cos la citt? -
9. Urbanistica e societ opulenta

capitolo quinto 63
Esperienze di vita pubblica
1. Consigliere comunale a Roma - 2. Il lavoro sullattuazione del piano
regolatore generale di Roma del 1962 - 3. La battaglia per Capocotta -
4. Le borgate abusive - 5. Il Sessantotto - 6. Verso lautunno caldo - 7. Lo
sciopero generale del 1969

capitolo sesto 79
Organizzazione della cultura
1. Nascita e crisi dellInu - 2. La ricostruzione - 3. Da che parte sta lInu? -
4. Urbanistica informazioni

capitolo settimo 85
La fase gloriosa della sinistra
1. Il compromesso storico - 2. Le elezioni del 1975-76 - 3. Venezia rossa -
4. Venezia e il degrado - 5. Il festival nazionale dellUnit - 6. Dieci anni
nel bunker - 7. Verso un nuovo piano regolatore - 8. Il piano comprenso-
riale - 9. Cambiano le alleanze - 10. La politica della casa
capitolo ottavo 107
Venezia forma urbis
1. Le basi per il nuovo piano della citt storica - 2. La nuova cartografia
e il fotopiano della citt storica - 3. Forma urbis - 4. Interruzioni, ripresa
e prima conclusione - 5. La proposta dellarticolazione dei piani in due
componenti

capitolo nono 115


Verso il buio: Tangentopoli e Mani pulite
1. Gli anni della svolta - 2. Si affaccia lurbanistica contrattata.- 3. Intan-
to, sullabusivismo - 4. Il Pci alla testa del movimento degli abusivisti -
5. La legge Galasso - 6. LInu: la fase del consolidamento - 7. Complicit
oggettive - 8. Il tentativo del confronto aperto - 9. La sconfitta: usciamo
dallInu - 10. Lassociazione Polis - 11. La citt sostenibile

capitolo decimo 137


Attese, tentativi, speranze, delusioni
1. Dodici parchi per il Veneto - 2. La minaccia dellExpo 2000 a Venezia -
3. Il MoSE - 4. Rendiamo vivibili le citt imparando dai campi -
5. Ritorno alluniversit - 6. La riforma del tre+due - 7. Le parole - 8. Il Pci
nella bufera - 9. Nel Pds veneziano - 10. Citt storica di Venezia: il piano
distrutto

capitolo undicesimo 161


Il mestiere dellurbanista
1. Un pensionato, libero di pensare - 2. Micromega e laltra Italia possibile
- 3. Chi lurbanista - 4. Lurbanistica neoliberista

capitolo dodicesimo 171


Il mondo di eddyburg
1. Come nasce eddyburg - 2. Tanti cerchi - 3. La Scuola di eddyburg - 4. Sul
terreno della societ - 5. Lideologia di eddyburg
capitolo tredicesimo 179
Chi difende il paesaggio
1. Lavventura della Sardegna - 2. La pianificazione del paesaggio tra
top down e bottom up - 3. Il paesaggio percepito - 4. La sorpresa di Foggia

capitolo quattordicesimo  193


Urbanizzazione a go go
1. La mistificazione dei diritti edificatori - 2. La legge Lupi e il con-
sumo di suolo - 3. Pubblico e privato nella costruzione della citt -
4. La perequazione urbanistica - 5. La citt vivibile: per chi, e come? -
6. La citt come bene comune - 7. Lo spazio pubblico della citt

capitolo quindicesimo  213


Scomparsa la politica?
1. Dove siamo: il pensiero unico - 2. La politica dei partiti non c pi -
3. La fine del Pci - 4. Qualcosa si muove sul territorio: i movimenti... -
5. Il sestante e le solide scarpe - 6. Urbanista oggi

Indice dei nomi di persona 235


Ouverture

So come comincia la vecchiaia.


Tende a scomparire la forza sessuale (ma non il desiderio). Diventa fati-
coso salire gradini e pendii, senti dolore nei muscoli delle cosce, sebbe-
ne continui a camminare bene in piano. Se vai in salita ti manca presto il
fiato, anche se da molti anni hai smesso di fumare. Ci metti del tempo a
ricordarti che luniversit di cui Dereck Drummond decano si chiama
McGill, e che il democristiano di nome Mariano, che hai visto ogni set-
timana per quindici anni e con cui ti soffermi a chiacchierare in Frezze-
ria, di cognome fa Baldo. E quando non fai una cosa che ti piacerebbe
fare non pensi che la farai pi avanti nel tempo, ma che non la farai pi.
Ecco come cominciata la vecchiaia per me.
Ormai sono in pensione, ma lavoro come prima. Mi piace il mio
lavoro: mettere insieme le cose con le parole dette e le parole scritte;
raccontare e scrivere per gli amministratori e per i ragazzi, parlando e
proponendo a proposito di citt, territorio, ambiente, pianificazione.
Facendo quel mestiere che ho cominciato, quasi per caso, molti anni fa.
Ho imparato a conservare pi tempo per me: a correre meno da una
citt allaltra, da un impegno a un altro, da una riunione a unintervista,
da una relazione a un articolo. Pi tempo anche per i ricordi. Perch
con la vecchiaia i ricordi ritornano. E diventano importanti: non pi
aneddoti che racconti per far sorridere gli amici ma ragioni di vita, pos-
sibili chiavi per comprendere te stesso. Per comprendere ci che sei, e
ci che avresti potuto essere se le cose fossero andate in un altro modo.
Per lasciare qualcosa di te ai figli e ai nipoti, e far conoscere a quelli
che verranno lItalia che hai vissuto.

XIII
Ho iniziato a raccogliere i miei ricordi una decina di anni fa.
Riguardavano la famiglia e i miei primi ventanni. Quando avviai il sito
web eddyburg li misi in rete, insieme ad altri miei scritti.
Pi di un lettore mi incoraggi a proseguire. Marina Zanazzo mi
propose di pubblicarli nelle sue raffinate edizioni. Decisi di andare
avanti e di raccontare anche i decenni successivi. Raccolsi e ordinai
un po di materiale ma ben presto fui travolto da altri impegni, in
particolare proprio dalla gestione di eddyburg. Ripresi in mano il
testo solo un paio danni fa. Ma, sollecitato anche dagli amici cui
feci leggere la prima stesura (in particolare Maria Pia Guermandi e
Vezio De Lucia, vicedirettori di eddyburg), abbandonai presto lidea di
proseguire sulla strada di unautobiografia privata. Volevo raccontare
invece gli eventi interessanti relativi soprattutto allultimo mezzo
secolo cui avevo partecipato o cui avevo assistito da vicino, come
urbanista, amministratore pubblico, docente universitario. Mi sembrava
un contributo pi utile, soprattutto in una fase in cui si tende a
cancellare la memoria storica, e si impedisce ai giovani di avvalersi degli
insegnamenti che germinano dalla consapevolezza del passato.
Decisi di inserire comunque in questo libro, ormai diventato unaltra
cosa il racconto dei miei primi ricordi: con qualche sforbiciata rispetto
a quello pubblicato in eddyburg, e distinto anche graficamente dal testo,
esso costituisce il Prologo.
Nei capitoli del libro racconto invece lItalia che ho vissuto attra-
verso locchio dellurbanista quale ero diventato, che aveva imparato
che urbanistica non solamente tecnica ma un mestiere che impone di
occuparsi dei tre aspetti racchiusi nella parola citt: urbs, la citt come
ambiente fisico della vita delluomo; civitas, la societ che in quellam-
biente vive; polis, lattivit di governo mediante cui la societ organizza il
proprio spazio.
Varie stesure si sono succedute in questi mesi, continuamente
sottoposte ad aggiustamenti e integrazioni che devo in gran parte
agli amici che mi hanno letto: oltre i citati Maria Pia e Vezio, Piero
Bevilacqua, Mauro Baioni, Ilaria Boniburini. Sono grato a tutti, anche
se non ho seguito sempre i loro consigli. Ringrazio infine Marina
Zanazzo che ha riletto il testo con cura e intelligenza critica rare, e Lidia
Fersuoch che lo ha corretto.

Nota
Lindirizzo completo del sito web di Edoardo Salzano, indicato nel testo e in nota come
eddyburg, http://eddyburg.it. Per raggiungere i testi citati, basta digitarne il titolo nella
finestrina cerca, posta nella barra superiore di ogni pagina.
Prologo
La lunga infanzia

Nonno Armando

Non sarei nato se, nel 1884, a Caserta, il tenente del genio artiglieria Armando
Diaz avesse preso dal mazzo di chemin de fer una carta pi bassa. Mio nonno
era allora ufficiale di prima nomina. La sera, quando era libero, andava al circolo
degli ufficiali, dove giocava volentieri. Quella volta era stato particolarmente sfortu-
nato. A dispetto del suo carattere solitamente rigoroso si era lasciato prendere la ma-
no. Un rapido conto gli aveva fatto scoprire con terrore che perdeva molto di pi di
quanto avrebbe potuto pagare col suo stipendio. Di farsi prestare i soldi, neanche a
parlarne. Prese una decisione difficile: Gioco unultima mano: se perdo, mi brucio
le cervella, se vinco, non tocco pi una carta . Vinse, per fortuna, e visse. Quaran-
tasei anni pi tardi, nacqui io. A Napoli, in casa.
La casa era molto bella. Una specie di villa urbana, di forma molto allungata;
occupava tutto il lotto tra corso Vittorio Emanuele (la lunga strada panoramica a
mezza costa che attraversa Napoli da Mergellina al Museo) e via Torquato Tasso
(che si arrampica verso la collina del Vomero). Due piani, pi un vasto scantinato;
un cortiletto a un estremo, un giardinetto con una grande palma allincrocio tra
le due strade; entrambi racchiusi da unalta cancellata nera. L abitavano i miei
nonni Salzano, mia zia Giannina, i miei genitori: Mauro Salzano e Anna Diaz.
Si erano sposati nel 1929, un anno dopo la morte di Armando. Sontuosi entrambi,
i funerali e le nozze. Soprattutto il funerale, a Roma. Mio nonno, oltre a vincere la
grande guerra (cos ero stato abituato a pensare, e cera del vero), era stato ministro
della Guerra nel primo gabinetto Mussolini, con lammiraglio Thaon de Revel
(un altro vincitore) alla Marina militare. E poi, era cugino del re, in quanto
maresciallo dItalia e insignito del Gran Collare dellAnnunziata, la pi alta onori-
ficenza del Regno. Il trasporto funebre era un affusto di cannone (lo stesso sul quale
era stato trasportato il Milite ignoto), trainato da otto cavalli neri. Dalla abitazione

XV
XV
prologo

romana di via Giambattista Vico (su piazzale Flaminio), il corteo lo condusse


prima alla vicina chiesa di Santa Maria del Popolo, dove si svolse la cerimonia fune-
bre, poi allAltare della Patria in Piazza Venezia, dove si alternarono a vegliarlo
i grandi decorati di tutte le armi, infine a Santa Maria degli Angeli dove, in una
monumentale tomba in marmo di Verona scavata nel pavimento della chiesa e con-
tornata da una balaustra di ferro, fu infine tumulato il suo corpo imbalsamato.
Era molto popolare mio nonno. Lo ancora, non fossaltro che per il Bolletti-
no della Vittoria, con il quale annunci la disfatta generale dellarmata austriaca
sul fronte orientale, il 4 novembre 1918. Il Bollettino (che mi tocc imparare a
memoria) esposto ancora oggi, inciso su marmo o bronzo, in moltissimi municipi
grandi e piccoli, in tutte le caserme e nelle numerose scuole che portano il suo nome.
Era popolare allora non solo perch aveva vinto la guerra, ma anche perch il suo
carattere aveva fatto di lui un capo amato dai soldati tanto quanto invece Cadorna,
che laveva preceduto nel Comando supremo, era odiato.
A differenza di Cadorna, rigido e severo ufficiale di chiusa e forse un po ot-
tusa obbedienza piemontese, il giovane generale Diaz curava con molta attenzione
il fattore umano. Forse anche perch era napoletano, di antica prosapia spagnola
(i suoi avi erano sbarcati nella capitale del Sud nel xvii secolo con Carlo iii di Bor-
bone), abituato a temperare la severit dellufficiale con la bonomia tradizionale dei
governanti meridionali.
A Cadorna, noto per la severit con la quale aveva comandato la fucilazione dei
soldati in fuga durante la disfatta di Caporetto, era subentrato il napoletano Diaz
che raccomandava ai soldati (mi raccontava nonna Sara) di acquattarsi durante i
bombardamenti nelle buche delle granate perch il calcolo delle probabilit le suggeriva
come luogo pi sicuro. Allattenzione del morale dei soldati, come alla capacit di la-
voro collegiale e alla illuministica razionalit con la quale affrontava i problemi si de-
ve, secondo gli storici, il suo successo di ribaltare in un anno la sconfitta di Caporetto.
Insomma, dopo la guerra era popolare: lo era di per s, e lo era perch alla Real
Casa (come pi tardi al Fascio) conveniva utilizzare la sua immagine come elemento
di coesione sociale e come lustro dellunit nazionale, in quel periodo attraversata
dalle tensioni del sovversivismo. Dopo la firma del trattato di Versailles, Diaz fu
utilizzato anche per consolidare il prestigio del Regno allestero: fece viaggi ufficiali
in numerosi paesi stranieri, dai quali riport cimeli che, anni dopo, colpivano la mia
fantasia di bambino: uno splendido costume di cuoio da capo pellirosse con un lungo
copricapo di piume di avvoltoio, indossato in una fotografia in cui scambiava il calu-
met della pace con un capo autentico, della trib dei Crows.
Non lo conobbi: era morto da due anni quando nacqui. Me ne parlava mia non-
na, Sara De Rosa, napoletana anchessa. lei che mi raccont della scommessa al
gioco (da allora non mi ha aiutato neppure a raccogliere le carte del solitario, mi
diceva), e di qualche altro aneddoto della loro vita. La prima scintilla del loro amore
scocc forse a Portici, nel miglio doro alle pendici del Vesuvio, dove la famiglia

XVI
prologo

di nonna Sara andava in villeggiatura. Un giorno, alzatosi dopo il pranzo nel corso
del quale Sara aveva dovuto contenersi (non era bene che le signorine di buona fa-
miglia mostrassero troppo appetito), Armando, che era uscito in giardino a fumare
il sigaro, la scorse dalla finestra mentre mangiava gustosamente un peperone ripieno.
Buon appetito, donna Sara, pare le abbia detto scherzosamente.
Certo che tra i due cera una grande intesa. Memorabili in famiglia erano le
lettere che si scambiavano quando lui era al fronte, lintelligenza con la quale Sara
lo consigliava e aiutava nei rapporti politici e in quelli di corte. Non ricordo che mi
abbiano parlato molto di questo, per. Forse perch ero bambino (nonna Sara mor
quando avevo sedici anni). O forse perch, essendo bambino, ricordavo solo le storiel-
le che mi interessavano. Come quella, che mi dava molto gusto, della pesca a corte.
Quando si mangiava alla tavola del re (Vittorio Emanuele iii), appena il sovrano
aveva terminato il suo pasto nessuna forchetta, coltello, cucchiaio, bicchiere poteva
agitarsi: tutti dovevano concludere, e posare il tovagliolo. Sara Diaz De Rosa stava
mangiando una bella pesca, continu a sbucciarla (con forchetta e coltello, natural-
mente). Fulminata dagli occhi dei presenti, arross, fece cadere le posate nel piatto.
Il re lapostrof sorridendo: Continui pure, donna Sara, sarebbe un peccato lasciare
una pesca cos bella.
Mia madre era molto legata ai suoi genitori, come del resto i suoi fratelli Marcello
e Irene. Ci teneva a ricordare che quando Armando fu colpito dallinfarto che lo
condusse rapidamente alla morte fu lei a correre alla ricerca del sacerdote che gli diede
lestrema unzione. E mia nonna ricord quellevento regalando alla figlia una fotogra-
fia di Armando Diaz, a mezzo busto e in grande uniforme, racchiusa in una vistosa
cornice debano e tartaruga, attraversata da una scritta vergata a mano dalla sua
larga grafia: Ad Anna che nel momento supremo procur a Lui laiuto divino.

Napoli dalla mia finestra

Quella fotografia era sempre in evidenza, nella camera da letto di Anna, in tutte le
case che abbiamo abitato. Bella era la camera della mamma, nella casa di Napoli.
Occupava uno dei due angoli della casa volti verso il mare: laltra, allestremo oppo-
sto, era la camera dei nonni. Grande, luminosa, sia per il damasco giallo alle pareti,
sia per le tre ampie finestre sul golfo. La mia camera era quella accanto, e guardava
sullo stesso panorama.
Un panorama splendido, cos lo ricordo. E vedere Napoli oggi, confrontata
con quella della memoria, cosa che ogni volta mi fa soffrire. Intendiamoci, ancor
oggi esso bellissimo. Lampio specchio di mare, concluso a occidente dalla penisola
sorrentina e dallisola di Capri (entrambe azzurrine nelle ore pi calde della lun-
ga stagione del sole e dellazzurro; verdebrune di campagna, solcate dalle stradine
e disseminate dai bianchi granelli delle case lontane nelle ore in cui la visibilit

XVII
prologo

maggiore; grigie e confuse con le galoppanti nuvole nei giorni delle tempeste dinverno),
sovrastato dalla mole bonaria del Vesuvio (che ricordo con il pennacchio di fumo e, la
notte, rosseggiante alla bocca per la lava eruttante), solcato dalle vele, dalle barche
dei pescatori, dalle navi. La superficie delle acque cangiante nelle stagioni e nelle ore,
scintillante e screziata di sole nelle numerose belle giornate, oppure cupa e agitata nel
grigiore delle nuvole trascinate dal vento, oppure ancora pesante e immobile come una
coltre azzurra sotto lafa del solleone. Questo cera allora, e c ancora. Forse un po
pi torbido, per linquinamento dellaria offuscata e avvelenata dallo smog urbano.
Quello che non c pi la verdeggiante collina di Posillipo, protesa sul mare,
allora appena punteggiata dalle sagome di qualche villa e della Tomba di Schilizzi
(il mausoleo virgiliano: una buffa costruzione grigia sormontata da una cupola).
Quello che non c pi la campagna scoscesa di Villanova, la costa che collega
Posillipo alla collina del Vomero, alle spalle della nostra casa. Alle rare costruzioni
che nulla toglievano al carattere agreste di quelle parti della citt (la grande villa
Patrizi, la chiesetta di SantAntonio sopra Mergellina, gli sparsi e radi casolari,
le ville signorili di Posillipo), alla campagna coltivata di vigne e ortaggi, si sono
sovrapposte le orribili costruzioni realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta dagli
improvvidi distruttori del pi bel paesaggio del mondo: pseudoville, condomini, pa-
lazzine, viali e vialetti, muri di sostegno e muri di suddivisione dominicale. Una
squallida periferia progettata e realizzata con la medesima cultura rapace e cretina
che ha costruito le periferie delle tristi citt di pianura: l, seppellendo sotto palazzi e
casette le risaie abbandonate e i terreni divenuti incolti in attesa di valorizzazione
edilizia; qui, dove la natura aveva sorriso per secoli, sommergendo ogni cosa sotto
un succedersi di lottizzazioni di cui soltanto i nomi ricordano, con triste ironia, ci
che cera prima: Parco Lmaro, Parco Comola, Parco Ottieri, si chiamano ancora
quegli insediamenti parassiti.
Le mani sulla citt hanno distrutto per sempre il paesaggio della mia infanzia:
lo hanno sepolto sotto una repellente crosta di cemento e asfalto, per adoperare le
parole di Antonio Cederna. Della sua bellezza rimane in me, fortissimo, solo il
ricordo e, naturalmente, il rimpianto.

La casa del Corso

La casa del Corso era grande. Dal cortile posto a un capo del lotto si saliva una
dozzina di gradini, e si entrava in un ampio androne coperto a botte. Varcata una
porta sorvegliata dal cameriere, si accedeva a un grandissimo atrio che occupava un
quarto dellintera superficie della casa. In fondo, una grande scala a tenaglia con
ringhiera di ferro battuto dorato e bronzeo portava al piano superiore. Il soffitto,
sorretto da quattro grandi colonne scure, era tappezzato di blu. In fondo alla sala,
al di l dello scalone, un bagno di marmo bianco e lo studio del nonno. Latrio e lo

XVIII
prologo

studio occupavano quasi tutta la parete verso monte; quella verso il mare era una
fuga di saloni: la sala da pranzo, con limmenso tavolo finto Rinascimento e grandi
quadri con nature morte di fiori e frutta; il fumoir, con il classico caminetto finto
e morbide poltrone in pelle; il salottino veneziano verde e oro; in fondo, il salone
da ballo Luigi xiv, bianco e oro. Accanto alla sala da pranzo, il riposto con il
grande armadio delle stoviglie e il montacarichi collegato alla cucina.
Non sempre noi bambini (dopo di me, cadenzate di due anni, erano nate le mie
sorelline Litta e Germana) mangiavamo in sala da pranzo, e raramente frequenta-
vamo i saloni: salvo che a Natale, quando lalbero, circondato dai regali, troneggiava
nel salone da ballo; oppure quando i genitori chiamavano qualcuno di noi a salutare
gli ospiti, facendoci esibire nella canzone patriottica di turno. I luoghi a noi riservati
erano al piano di sopra. A un estremo della casa cerano le stanze dei miei genitori:
la grande camera da letto di damasco giallo, la stanza da toilette (con gli armadi a
muro in stile veneziano, la toilette della mamma, il sof per le sedute di bellezza),
il grande bagno, lo studio di mio padre. Al capo opposto, lappartamento dei nonni
e di zia Giannina. Al centro, in corrispondenza del vano della scala e del ballatoio
che la fiancheggiava, le nostre stanze. Sul lato a monte della casa, il guardaroba, il
nostro bagno, un cucinino.
Ma ci che soprattutto mi affascinava era lo scantinato dove cerano le cucine.
Una piccola scala, a fianco di quella principale, conduceva nel vasto dominio condivi-
so da nonna Carmela, dal cuoco Luigi Massaro e da Nannina, protetta e confidente
della nonna. Mitico era don Luigi. Ogni volta che uscivo gli lanciavo uno sguardo
e un saluto dalle finestre inferriate a filo di marciapiede. Piccolo di statura, asciutto,
grigio di capelli, sovrastato dallalto cappello immacolato, Luigi regnava, aiutato da
uno sguattero, nella grande cucina: sullimmenso tavolo di marmo tagliava, batteva,
impastava, scorticava, sventrava, disossava, farciva; nellacquaio di marmo lavava le
verdure, i pesci, le carni; finalmente, sui numerosi fuochi del lungo piano di cottura,
alimentato dalla brace sempre rosseggiante, governava sulle pentole scoperchiando,
mescolando, agitando, assaggiando, aggiungendo sapori e odori, spostando dal fuoco
pi vivo (l dove il piano di ghisa della cucina si apriva sulla brace) ai luoghi pi
lontani. Un maestoso mortaio di marmo, appoggiato al suo trespolo di legno massic-
cio, subiva i colpi del pesante pestello sbattuto dallo sguattero per preparare le scorte
di pangrattato, oppure per pestare la carne di pollo con la quale, mischiata con una
densa bchamel, venivano preparate a bagnomaria le chinelle di pollo, la mia pie-
tanza preferita.
Era un cuoco dalto lignaggio, don Luigi. Era stato chef sui transatlantici, e
dalle lontane terre oltre oceano aveva riportato un pappagallo di nome Loreto. Non
abitava con noi. La sua casa, che divideva con la moglie e con Loreto, era sul
Corso, pi avanti, verso la fermata della ferrovia cumana. Ma spesso, prima di
tornare a casa, si fermava nel cortile a fumare una sigaretta con il cameriere o con
lautista. Allora poteva essere interpellato, e declamava massime piene di saggezza.

XIX
prologo

Don Luigi, come finisce la guerra, chi vincer? gli chiesi in unestate del luglio
1941. Signuri, tra i vinti non ci saranno i vincitori . La Sibilla cumana non
avrebbe potuto essere pi abile.

I coloni e Vicienzo Ucciero

La cucina era alimentata dalle cantine, altro luogo essenziale dello scantinato. Oc-
cupavano la parte verso monte, sbarrate da pesanti cancelli, che nonna Carmela
chiudeva con un gigantesco mazzo di chiavi sempre pendente dalla cintura. Non so
bene cosa vi fosse riposto: ricordo solo le forme, grandi e piccole, di rossa, trasparente
e tremolante cotognata, che profumava nei primi mesi dellinverno, i formaggi, le bot-
tiglie nelle rastrelliere, i mucchi di patate, i grandi barattoli dalla bocca tappata con
la carta oleata e lo spago.
E ricordo come le cantine venivano approvvigionate: due volte allanno arrivava-
no, sui barrocci o a piedi col carretto (o con il mulo), i contadini che conducevano a
colona parziaria le numerose propriet del nonno: piccoli appezzamenti di fertile or-
to o frutteto nei paesi confinanti (Afragola, Casoria, Giugliano, Qualiano, Vico di
Pantano), per luso dei quali i coloni pagavano un canone (lestaglio) corrisposto par-
te in moneta e parte in natura. Varcata la porta di servizio le coppie di contadini si
dividevano: luomo andava su, nello studio, dove don Achille Di Santo, ragioniere
e contabile di nonno Eduardo, riempiva di minuta grafia un grande registro anno-
tando la quantit di banconote rossicce che i coloni estraevano da logori portafogli e
dai penetrali della biancheria, e i prodotti affluiti nelle cantine. Qui nonna Carmela
e Nannina ricevevano le donne, e contavano e sistemavano le galline, i capponi e i
tacchini collocandoli in una grande stia, i conigli (che venivano subito trasferiti alle
competenze di don Luigi), i sacchi di fagioli, di grano e granturco, le pannocchie, le
cassette di pomodori, melanzane, peperoni, carote, sedani, cavolfiori, trecce daglio,
cotogne, mele annurche e renette.
Un personaggio importante era Vicienzo Ucciero, mezzadro di Vico di
Pantano (lodierna Villa Literno). A Vico di Pantano cera la pi grande delle
nostre propriet: due o trecento ettari di palude, tra il Volturno e il lago Patria.
Luogo di grandi battute di caccia (ricordo le fotografie in cui massicci signori baf-
futi, con lunghi schioppi, esibivano colline di uccelli e sorreggevano ghirlande di
anatre e altri pennuti), e di bufale. Vicienzo era il bufalaro. Sempre con la febbre
terzana, amministrava bufale, mucche e qualche moggio (tre moggi sono un ettaro)
di campagna coltivata a fagioli e ortaggi. Aveva anche una grande fossa circolare
nella quale si buttava il mangiare per i conigli, carote e altre prelibatezze: quando
poi era necessario, si abbassavano le piccole saracinesche che chiudevano le gallerie
daccesso, e si prelevava dalla fossa il coniglio da cucinare, o la coppia da dare alla
Signora (mia nonna).

XX
prologo

Non tutte le derrate venivano conservate a lungo. Una parte si trasformava in


conserve, altre venivano consumate (subito o previa frollatura), oppure veleggiavano
verso altri lidi. Avevano diritto a due capponi o a una dozzina di polli, a mezzo
sacco di fagioli o a un paio di conigli, a un tacchino o a un canestro di mozzarelle di
bufala tutte le persone che durante lanno avevano collaborato con la Casa: i medici
e il pediatra Franz, il dentista DAmbrosio e le sarte Buonanno, la maestra priva-
ta Martini e la manicure della mamma, linfermiera che veniva a fare le iniezioni e
la signora Crisafo che minsegnava il francese, le sorelle La Morte che venivano tutte
le settimane a rammendare e sistemare i vestiti, e la stiratrice. Quantit pi sostan-
ziose di prodotti venivano consegnate alle Piccole suore dei poveri, ai beneficati del
parroco della chiesa dellArco Mirelli, alle Dame di San Vincenzo dei Paoli.

La famiglia Salzano di Casoria

Era una famiglia benefica, ed era una famiglia ricca. Come lo era diventata? Il luo-
go dorigine dei Salzano era Casoria, un grosso borgo agricolo, dagli anni Cinquan-
ta inglobato nella periferia di Napoli, subito al di l dellaeroporto di Capodichino
(una parte del quale fu costruito su terreni Salzano, indennizzati dopo decenni di
vertenze). Famiglia di origine contadina fino a inizio Ottocento, era diventata poi
di mercanti o artigiani, secondo i racconti di zia Giannina produttori e mercanti di
vino. Borghesia laboriosa di campagna, ma gi aperta a interessi urbani: i fratelli
Eduardo e Mattia, i prodotti migliori di una covata di sette tra fratelli e sorelle,
furono mandati alla celebrata scuola napoletana dei Padri Barnabiti. Abitavano
in un dignitoso palazzo, costruito da un Mauro Salzano attorno alla prima met
dell800 nella strada principale.
Senza abbandonare le radici paesane (il palazzo rimase di loro propriet
fin dopo la seconda guerra mondiale) allinizio del nuovo secolo si trasferirono a
Napoli, in un palazzo costruito da un Salzano (Mauro o Eduardo) in via San
Domenico Soriano, vicino a piazza Dante. Mio padre e sua sorella Sisina, rispet-
tivamente del 1902 e 1903, nacquero a Casoria; zia Giannina fu la prima a
nascere a Napoli, nel 1907.
Lartefice della fortuna di famiglia fu, allinizio del secolo, il mitico zio Mattia,
fratello di Eduardo: ingegnere, abile imprenditore, in societ con tale Gaetanino
DAniello (di una benestante famiglia di Villaricca, altro borgo della campagna
napoletana) mise su unimpresa di costruzioni specializzata in lavori di bonifiche e di
grandi infrastrutture, nel Napoletano e nel Foggiano. Mattia mor di febbre spagnola
nel 1918. Da allora, dellimpresa di famiglia dovette occuparsi Eduardo, mio nonno.
Mio nonno per non era tagliato per gli affari. Laureato in medicina, esercitava
la professione di chirurgo allOspedale dei Pellegrini (una qualificata istituzione di
beneficenza della nobilt napoletana), dove divenne assistente del famoso chirurgo

XXI
prologo

Caccioppoli, fratello del grande matematico Renato. Ma la chirurgia era unattivit


sociale e benefica: il reddito, e la principale occupazione, erano le terre e limpresa.
In vacanza, Eduardo portava la famiglia a Capri, isola frequentata dalla fami-
glia Salzano fin da prima della guerra 14-18. Alloggiavano allHotel Quisisana.
La famiglia Diaz invece anche Armando era innamoratissimo di Capri affit-
tava sullisola una villa. Fu a Capri che le due famiglie si conobbero: le bambine
Giannina, Sisina, Irene e Anna esploravano le campagne e le marine dellisola,
allora frequentata solo da pochi turisti, come Turgeniev e Gorki, e dai soci dei circoli
nautici che si spingevano fin l nelle gite con il cutter. Pi raramente, i Salzano vil-
leggiavano in montagna, soprattutto a Cortina dAmpezzo, dove diventarono amici
di Alberto Pincherle, poi noto come Moravia. Le leggende familiari lo raccontano in
flirt con zia Giannina.
Non ricordo molto di nonno Salzano. La sua presenza gioviale e vociante, il suo
affetto ruvido ed espansivo, i suoi munifici regali e il suo spiccato accento napoletano
(dal quale la mamma mi teneva lontano, per evitare che inflessioni poco eleganti
inquinassero il mio eloquio in formazione) mi accompagnarono solo fino ai cinque
anni. Nel 1935 un colpo apoplettico lo port via allimprovviso.
Non ricordo i suoi funerali: forse i bambini non vi erano ammessi. Furono
certo grandiosi. Dovette accompagnarlo una vastissima corte di persone dei ceti pi
diversi, legate al suo ricordo (e ai suoi redditi) dalla sua trasbordante generosit.
La sua morte concluse una fase della vita della famiglia e ne apr unaltra, posta
sotto un diverso segno: non il corno ridondante dellabbondanza e del fasto, del lusso
e della generosit scialona, ma la bilancia della parsimonia, la severit dignitosa di
un benessere difeso con accortezza e, quando le vicende della Storia lo richiesero, con
sacrifici e rinunzie.
Fino alla morte di nonno Eduardo, suo figlio Mauro mio padre non aveva
mai lavorato. Il nonno laveva tenuto lontano dagli affari. Laureato in giurispru-
denza, Maurino aveva ottenuto la libera docenza grazie ad alcuni studi, pubblicati
dalleditore Loffredo, sul negozio giuridico e sulla pubblica amministrazione.
Il suo ruolo nella vita mondana si era consolidato con il matrimonio con Anna Diaz,
figlia del duca della Vittoria e legata alla famiglia reale. Fascista come lo erano rapi-
damente diventati quelli della sua generazione e della sua classe, apparteneva a quel-
la cerchia di persone che, senza esercitare direttamente potere, n politico n economi-
co, contribuiva per a formare limmagine, la prima fascia del consenso, lopinione,
la cultura, le parole del regime. A formare una certa fronda, anche. Laristocrazia
napoletana gravitava infatti attorno alla corte di Umberto di Savoia e di Maria Jos,
vicina allala intellettuale dei Ciano e dei Bottai.
Il confine tra mondanit e impegno sociale era labile, seppure esisteva. Non so
se contassero di pi per Mauro la sua carica di presidente dellOpera nazionale ba-
lilla di Napoli oppure il suo carisma di spadaccino, di velista, di dirigente di mitici
circoli nautici, di ballerino nelle feste che, con la mamma, organizzava nella casa

XXII
prologo

del Corso o a villa Diaz. Mamm era sempre al centro: spiritosa, brillante, elegante,
era davvero molto chic. Aveva dei bellissimi capelli castani con sfumature rosse,
che ravvivava con lhenn. Amica fin da bambina dei Salzano, ne temeva, come ho
detto, il dialetto e non amava che, quando andavo a salutare nonna Carmela, lei mi
prendesse nel letto.
Formavano una coppia molto bella, i miei genitori e avevano moltissimi amici:
Gino e Didina Santasilia (che abitavano in uno splendido palazzo in piazza dei
Martiri), la baronne Anna Ricciardi, Gigione (che mi cantava O capitan, c un
uomo in mezzo al mare), i pi anziani Marcello Orilia (arbiter elegantiarum:
ordinava le camicie a dozzine a Londra, dove andava ogni anno per rinnovare il
guardaroba), Ettore Ricciardi, i baroni di feudi calabresi Baracco e Compagna, e
tanti altri che costituivano la crema dellaristocrazia napoletana. Il salotto di casa
del Corso era molto frequentato, ma le feste pi belle venivano organizzate destate,
a villa Diaz, sul Vomero.

Villa Diaz

Un grande edificio bianco, immerso nel verde di un grande giardino che, limitato da
una lunga balaustra bianca, si apriva sul golfo di Napoli. Questa era la villa che
la citt di Napoli aveva donato al generalissimo per le sue vacanze, dopo averne
decretato il trionfo. (Per il vero, avevano deciso di regalargli una villa a Posillipo, ma
lui ne aveva preferito una al Vomero). Era alle spalle della casa del Corso, a soli
cento metri a monte; probabilmente faceva parte in origine del complesso neoclassico
della grande e famosa villa Floridiana.
Quando, destate, ci trasferivamo lass (con i genitori, le sorelline, le governanti),
scendevo, appena grandicello, attraverso gli orti, i sentieri, le scalette e in dieci minuti
ero al Corso. Ricordo ancora il sapore dei pomodori colti al volo: un sapore scom-
parso, mai pi ritrovato, cancellato dallomologazione delle colture artificiosamente
allontanate dalla natura, dalla stagione e dal sito, tramite il massiccio impiego della
chimica e dei teli di plastica.
Grandi feste si svolgevano a villa Diaz, destate, coronate da un finale di fuochi
dartificio. Ricordo le signore che, accompagnate dalla mamma, venivano a vederci
nei nostri lettini, prima che ci addormentassimo. Erano feste alle quali partecipava-
no il principe ereditario Umberto di Savoia e Maria Jos, la sua alta moglie dagli
occhi cerulei.
Per me villa Diaz significava soprattutto il grande giardino e i giochi estivi.
Pochi erano i miei amici, rare le loro visite. Ma mi divertivo molto a giocare con la
terra dei vialetti e lacqua che facevo colare dai rubinetti per lirrigazione, costruendo
col fango argini e canali. Mi arrampicavo sui lecci dai tronchi rugosi, su cui costrui-
vo rifugi segreti in attesa della merenda o della passeggiata.

XXIII
prologo

E mi divertivo ma ero pi piccolo con il capitano Gamboni Mazzitelli.


Cos si chiamava linquilino dellultimo piano della villa, affittuario di zia Irene,
sorella di mia madre (a questultima era toccato il piano di mezzo, a zio Marcello,
il terzo dei figli Diaz, il piano rialzato e lo scantinato). Capitano di lungo corso in
pensione, molto vecchio (aveva probabilmente let che ho adesso io), era abilissimo
con gli attrezzi di falegname. Mi aveva costruito una daga e uno scudo, accuratamen-
te verniciati, e altri armi per guerreggiare. Ricordo che una volta, mentre duellavamo,
si fer a una mano e perse (cos mi sembr) molto sangue.
Quando nonno Eduardo mor (nel 1935) mio padre scopr che tutto era andato
a rotoli. La crisi del 1929 aveva picchiato duro, e nonno Eduardo aveva cercato di
nascondere e di aggiustare la realt: lindebitamento era molto consistente. Pap e
nonna Carmela chiesero consigli autorevoli. Fu consultato anche Raffaele Mattioli,
il famoso banchiere e mecenate, fondatore della Banca Commerciale, ma anche dei
Classici della letteratura italiana delle edizioni Ricciardi. Mattioli consigli di di-
chiarara fallimento, per tentare di salvare qualcosa. Maurino non volle. Gli sarebbe
sembrato di tradire la memoria del padre, di svergognarlo dopo morto. Sincapon.
Fece ogni sforzo per tacitare i debitori, vendendo quello che poteva e riprendendo lat-
tivit dellimpresa. In poche settimane i suoi capelli, da neri quali erano, diventarono
grigi. Non aveva ancora quarantanni.

Le mie educatrici

Ero un bambino molto perbene: si occuparono di me una bambinaia di Olevano


Romano balia Nunziata quando ero piccolo; una governante tedesca schwe-
ster Maria Simon dopo i cinque anni; una signora ginevrina, madame Crisafo
(sposata a un cuoco italiano) mi veniva a prendere il mercoled pomeriggio e mi por-
tava a spasso insegnandomi il francese. Frre Jaques e i libri di Madame de Sgur,
i libri della Scala doro, Struwelpeter (cos si chiamava in tedesco Pierino il por-
cospino), le favole di Grimm, Perrault e La Fontaine e le canzoncine dei bambini
tedeschi (mi commuoveva soprattutto Roselein rot, un leed di Schiller e Schubert)
sono stati i primi alimenti della mia cultura letteraria plurilingue.
La mamma era vicina (dormivo nella stanza accanto alla sua), ma lontanissima.
La mattina potevamo andare a salutarla, nel suo grande letto di damasco giallo, solo
quando eravamo chiamati dal suo campanello. La sera, veniva lei a salutarci di ritor-
no dai salotti che con pap frequentava. Buono e dolce era il suo profumo odoroso di
mughetto, Arpge di Lanvin; gradevole e pungente lodore dello smalto con cui cura-
va le unghie, sdraiata sul canap della toilette. La severit di schwester Maria era
un prolungamento della sua, ma in lei cera una morbida dolcezza, concessa con pru-
denza e ironia. Con troppa parsimonia rispetto al mio bisogno, come capii pi tardi.
Pap era pi distante; probabilmente, anche pi occupato. Era accanto alla

XXIV
prologo

mamma, ma in secondo piano. Mi sarebbe piaciuto seguirlo quando faceva (non


so in che modo) il comandante dei Balilla: ragazzi appena pi grandi di me, che
raramente intravedevo. Mi sarebbe piaciuto salire a bordo della sua favolosa barca a
vela, la Silphea ii, un cutter col fasciame di mogano di cui potevo solo ammirare il
modellino (fu venduta dopo la crisi).
Ma fino ai cinque anni ero troppo piccolo per queste cose. E, dopo di allora, la
crisi doveva aver cambiato le abitudini: bench noi bambini non ce ne fossimo accorti,
la vita era diventata pi seria, meno giocosa.
Dalle parole di balia Nunziata cominciai a conoscere lAmore: compariva nelle
canzonette che canterellava quando mi accompagnava ai giardini (Parlami damore,
Mari, tutta la mia vita sei tu...), nelle chiacchiere con le altre bambinaie, negli
scherzi che faceva con noi. Non avevo ancora cinque anni quando mi innamorai
di Giovanna Pignatelli, che ne aveva tre, andava ancora in carrozzina e aveva dei
lunghi boccoli biondi.
Avevo sette, otto anni quando, un pomeriggio destate, mentre scendevo la lunga
gradinata che dal Vomero conduce al corso Vittorio Emanuele, ebbi una improvvisa
illuminazione: pensai che lAmore era il pensiero centrale di tutti, uomini e donne.
Perch mi balen cos intensamente questo pensiero? Non riesco a ricordare. Ma
ricordo che mi colp con levidenza di un profumo intenso e indiscutibile: ebbi la sen-
sazione di aver raggiunto una verit che fino ad allora non avevo colto.

Giochi

Giocavo molto da solo: credo che capitasse spesso ai bambini perbene, che non
fossero forniti di una banda di fratelli. Le sorelline erano piccole ed erano femmine:
due buone ragioni per condurre vite completamente diverse. Ricordo, da piccolissimo,
un gioco amato, una grande cucina per bambini, con le provviste vere lenticchie,
pastina portate da don Luigi, forse premio di consolazione dopo qualche malattia.
Ricordo una sciabola di latta e un cappello da bersagliere sotto lalbero di Natale del
1934 e una bellissima bicicletta rossa, dono di zio Marcello, alla Pasqua dellanno
successivo. Ricordo infine una macchinetta che, mossa da uno stantuffo premuto dal
pollice, emetteva tutte le scintille che una pietra focaia pu produrre, e riusciva a illu-
minare gli angoli bui della stanza.
Era simpatico Marcello Diaz, duca della Vittoria per eredit; un avventuroso,
un pilota, volontario nella guerra dAbissinia, dove il suo aereo fu abbattuto, e nella
guerra di Spagna (su una carta geografica io registravo, con bandierine patriottiche,
le citt conquistate dalle camicie nere). Si era fatto dare una concessione in Somalia,
a Derna, dove coltivava banane. Arrivava sempre pieno di regali generosi e strani.
Era quello che mi trattava pi da grande, sia pure sfottendomi bonariamente.
La domenica, zia Giannina mi portava a catechismo, dalle suore del Sacro

XXV
prologo

Cuore, in piazza Amedeo. Tornando a casa mi comprava il Corriere dei Piccoli,


che leggevo avidamente. Erano buffe le suore, avvoltolate nei veli neri, con le dita
fredde che sporgevano dai mezzi guanti. Era buono il caffellatte nelle grandi scodelle
bianche, e il pane e cioccolata che ci davano dopo la comunione.
I primi anni ho studiato a casa. Ogni mattina veniva la signora Martini: una
volta alla settimana controllava e correggeva i compiti, firmando le pagine con la ma-
tita rossa o con quella blu. Al colore della firma corrispondeva lentit del premio
che mi dava il nonno: due lire per la firma rossa, cinque lire per la firma blu.
Quando avevo finito di studiare mi era permesso di andare ai giardinetti, al di
l della strada. Erano giardinetti privati, per gli ospiti dei due vicini alberghi, il
Britannique e il Parker.
Il giardinetto del Parker fu in definitiva il mio primo esperimento di socializ-
zazione; guardie e ladri, nasconderella, e cerimonie rituali di impiccagione e squar-
tamento delle bambole delle bambine erano i giochi consueti. A rivedere oggi quel
giardinetto (poco pi di unaiuola, qualche albero e radi cespugli) sembra incredibile
che per noi potesse essere unarena cos vasta.
Quello che cera fuori di casa e del suo cortiletto, del giardinetto del Parker, delle
passeggiate controllate e protette dalla balia, dalla schwester o da madame Crisafo,
era sconosciuto e rischioso. Anche affascinante, a volte: peccato che i bambini come
me non potessero attaccarsi al paraurti posteriore dei tram sferraglianti, e neppure
far arrabbiare il conducente mettendo i fulminanti tra ruota e rotaia oppure, addi-
rittura, staccando il trolley e provocando larresto del tram. Neppure il carruoc-
cio era permesso: quel carretto costruito con un rozzo pianale di legno, quattro cu-
scinetti a sfera come ruote (le due davanti montate su un asse incernierato al pianale
e comandato da una funicella a mo di timone), con il quale i monelli si lanciavano
in spericolate corse lungo le discese, tra i carri e le automobili.
Destate, ci portavano al mare. Ricordo il viaggio verso Lucrino, una grande
spiaggia pulitissima e deserta, subito al di l della collina di Cuma. Percorrevamo
a piedi un pezzo del corso, fermandoci alla drogheria Stinca a comprare le caramelle,
e raggiungevamo, subito dopo la casa di Luigi Massaro, la stazione della Ferrovia
cumana. Era divertente guardare dal finestrino il paesaggio prima urbano poi, dopo
Pozzuoli, aperto sulla baia. Come tutti i bambini, raccoglievamo conchiglie, faceva-
mo i castelli di sabbia, prendevamo il bagno nelle ore stabilite e ci facevamo asciugare
con grandi lenzuoli di spugna. Pi tardi, su quella spiaggia fecero arrivare la grande
cloaca che portava i liquami delle fogne napoletane.
Qualche volta andavamo a villa Pavoncelli, a Posillipo: un luogo dove sarei
tornato spesso da adulto. Era una villa di amici. Una serie di scalette e corridoi
umidi ci portava gi, alla spiaggetta contenuta tra il muro di sostegno della villa e
una breve scogliera, nei cui anfratti, mormoravano, si celavano grandi ranci felloni
(i granchi pori). L, schwester Maria mi insegnava a nuotare, con teutonica regola-
rit. Indossava un costume olimpionico nero. Al polso conservava lorologio. Allora

XXVI
prologo

stabilita scendevamo in acqua, nuotavamo con lente bracciate per un numero esatto
di minuti, poi tornavamo indietro.
Noi bambini stavamo in un angolo della spiaggia. Altrove, sulla sabbia e sulla
scogliera, chiacchieravano e giocavano i grandi, salutavano festosi gli amici che arri-
vavano a nuoto provenienti dalla barca a vela giunta dal Circolo, si cimentavano in
grandi gare di palla a nuoto, nelle quali, come al solito, mia madre eccelleva.
Altre volte, ormai pi grandicello, mamm mi portava a villa DAvalos. L non
cera spiaggia: una banchina di cemento, e scogli. Meno bambini, pi giovanotti e
ragazze. I DAvalos erano una famiglia colta, grandi appassionati di musica. Fran-
cesco, mio coetaneo, divent pi tardi un famoso direttore dorchestra e compositore.
Ammiravo molto questo ragazzo che sapeva riconoscere autori e stili diversi, valutare
cantanti, parlare di opere e di sinfonie con i grandi.
Dalla terza elementare cominciai a frequentare una scuola. Si trattava del Pon-
tano, la celebre scuola privata dei Gesuiti dalla facciata adorna dei busti degli allievi
divenuti famosi, alla quale tornai pi tardi, dopo la guerra, per il liceo. Due classi le
feci alla Ravaschieri, una scuola pubblica.
Non ho conservato molto di quelle esperienze. Frequentavo solo bambini come
me, con i quali mi vedevo fuori, ma seguendo complicati rituali: non ci sincontrava
mai casualmente, bisognava che ci fosse un invito trasmesso dallalto, dalle governan-
ti o, addirittura, dai genitori.
Per la prima media andai allUmberto i, una scuola grande e affollata. Non
feci grandi amicizie. Ricordo il contadino che, fuori dal cancello della scuola, vendeva
fichi dIndia con laffollato gioco della appizzata: bisognava appizzare un fico con
un coltellino spuntato, lasciato cadere dallalto nella cesta. Costava un soldo lap-
pizzata semplice, quattro soldi quella continuata: con la continuata, pratica-
ta dai pi esperti, potevi portar via tutti i fichi che riuscivi a centrare, fino al primo
errore. Non ho mai giocato neppure la semplice.

Il monumento a nonno Armando

Prolungando verso il mare la linea ideale che congiunge villa Diaz, al Vomero, con
casa Salzano, al Corso, si tocca un terzo punto in via Caracciolo. L c il monu-
mento ad Armando Diaz: una statua equestre posta su di un alto parallelepipedo
di marmo bianco, su cui scolpito in grandi caratteri il Bollettino della Vittoria, fir-
mato Armando Diaz, Duca della Vittoria. Mi portarono con nonna a vedere la
fonderia, verso Poggioreale, nella quale si stava realizzando la grande statua: fuoco,
fumo e odor di ferro fuso riempiono ancora le narici della mia memoria.
Linaugurazione fu una grande cerimonia. In una fotografia rivedo nonna Sara
e mamm, con tailleur e cappellini con la veletta nera, zia Giannina con velo nero in
lutto di nonno Eduardo, e me stesso (avevo sei anni), con eleganti pantaloncini dalla

XXVII
prologo

piega ben stirata, camicia col collo tondo, gilet grigio e giacchetta sul braccio: doveva
far caldo, quella mattina, in via Caracciolo. Signori in orbace e fez e militari in alta
uniforme ci circondavano, e i balilla formavano il picchetto donore.
Anche a me fu imposta luniforme, pi tardi. La divisa di figlio della lupa la
misi solo per casa. Ma quando frequentai le medie, allUmberto i, era obbligatorio
indossare il sabato la divisa di balilla e andare alle adunate. Ricordo la scomodit
delle doppie calze (i calzettoni lunghi, grigioverdi, senza piede e con la stringa sotto,
e i calzini neri arrotolati, che scendevano sempre nelle scarpe) e della larga fascia
elastica che sostituiva la cintura (e lasciava sfuggire sempre lorlo dei pantaloni), la
noia delle lunghe attese delle esercitazioni nei piazzali assolati e polverosi. Fui anche,
per un certo periodo, marinaretto, ma la cosa non era molto diversa, solo la divisa
era pi realistica e rinviava a un mestiere vero.

Selva di Val Gardena

Meta di vacanze era anche Selva di Val Gardena. Ricordo laria pulita, lo scroscio
dei torrentelli, lintenso profumo delle assi di abete sopra le quali giocavamo, le belle
passeggiate sulle vicine montagne, le fragole e le stelle alpine che raccoglievamo. Mam-
m era bravissima, la chiamavamo occhio di lince, scorgeva fragoline saporitissime
dove vedevamo solo distese di foglie, e stelle alpine lontane decine di metri.
Andavamo in treno, e dovevamo essere una bella comitiva: mamm, la sua ca-
meriera, noi tre, la bambinaia. Una volta il nostro treno fu fermato in una stazione
sulla linea del Brennero: passava il treno speciale con il quale Mussolini andava a
Monaco per incontrare Hitler. A Monaco fu stipulato il patto con il quale gli an-
glofrancesi lasciavano mano libera a Hitler di rivolgere le sue truppe verso lOriente
bolscevico. Eravamo alla vigilia della seconda guerra mondiale: una guerra nella
quale non ci sarebbe stato nessun nonno Armando a renderci vittoriosi.

Accanto alla guerra

Avevamo le serrande avvolgibili di legno, nella casa del Corso. Il sole entrava a stri-
sce, faceva strani disegni sulle pareti e i mobili. Una porta filtrante la luce, da fuori
a dentro. Da dentro a fuori filtrava i miei sguardi, il mio cercare il mondo. Anche
comunicare con il mondo, nella mia fantasia. Come nel giugno del 1940, quando
sentimmo alla radio che lItalia era entrata in guerra. Il discorso del duce, dal bal-
cone di piazza Venezia, le parole bellicose ed entusiasmanti, le ovazioni del popolo.
Mi sentivo riempito anchio di sacro furore. Ritagliai in piccole striscioline un foglio
di carta, su ciascuna scrissi viva la guerra, le ripiegai e mi accingevo a gettarle per
strada, tra le stecche della persiana, per comunicare al mondo la mia partecipazione.

XXVIII
prologo

Mi sorprese zia Giannina, mi fulmin con lo sguardo gelido e mi spieg che non si
inneggia mai alla guerra. Nelle sue parole si esprimeva la cultura cattolica.
Nonostante la sostanziale partecipazione al fascismo della mia famiglia, nono-
stante gli ascendenti militari, la guerra non entusiasm nessuno. Certo, le vicende sui
diversi fronti erano seguite giorno per giorno: si ascoltava religiosamente il quotidiano
bollettino di guerra alla radio, alluna. Unatmosfera di attesa, di sospensione, pi
che di tifo. Forse la famiglia aveva gi cominciato la revisione critica del fascismo.
Un episodio che dovette aiutare, in questa direzione, fu certamente la partenza di
Maria Simon. La mia schwester era ebrea. Quando il Fhrer venne in Italia, nel
1938, pap fu avvertito dalla questura che, se non avessimo provveduto ad allonta-
nare schwester Maria, essa sarebbe stata messa in camera di sicurezza insieme
a tutti gli altri ebrei stranieri. Non serviva che Maria avesse un genitore ariano,
che fosse cristiana protestante. La soluzione infine concordata fu di mandarla per
qualche giorno a Foggia, dove pap aveva una casa. Qualcosa mi turb, di questo
episodio, pi di quanto mi entusiasmassero le scenografie di cartapesta, le gigantesche
bandiere, i fasci e le svastiche eretti lungo il percorso che Hitler e Mussolini avrebbe-
ro compiuto salutando, dallautomobile scoperta, la folla inneggiante.
Allinizio della guerra pap fu richiamato alle armi. Non aveva fatto il servizio
militare, cos cominci dalla gavetta, soldato semplice. Stava alla caserma di fanteria
al Corso, verso Mergellina. Sul muro verso la strada cera una grande scritta: Fu il
Fante il seme e la Vittoria il fiore. Dopo laddestramento, da sottotenente e poi te-
nente, and in Grecia e in Jugoslavia: ricordo una cartolina di saluti da Mostar, con
limmagine del famoso ponte (cinquantanni dopo distrutto dalla guerra dei serbi).
Cominciarono i bombardamenti. Prima sporadicamente, poi tutte le notti. Era
diventato un rito: andando a letto ci si preparava sulla sedia il maglione, le calze, il
cappotto che avremmo indossato appena suonata la sirena dallarme. Nei primi tem-
pi, si scendeva in una stanza appositamente allestita in cantina. Travi di legno pun-
tellavano pareti e soffitto, e sacchi di sabbia avrebbero dovuto riparare dalle schegge.
Tutti i vetri di casa erano accuratamente protetti con larghe strisce di carta gommata,
per impedire che gli spostamenti daria delle esplosioni li frantumassero, minacciando
lincolumit dei passanti.
La nonna, Nannina e zia Giannina recitavano il rosario, gli uomini, negli inter-
valli tra un bombardamento e laltro, andavano in strada per fumare una sigaretta e
guardare le sventagliate dei riflettori, i fuochi degli incendi provocati dalle bombe cadu-
te, le ultime raffiche dellantiaerea. Ma dopo un po di tempo, si cap che, se una bom-
ba fosse caduta sulla nostra casa, il rifugio non avrebbe costituito riparo sufficiente.
Al di l di via Tasso cerano (e ci sono ancora) gli alberghi Britannique e
Parker, appartenenti alla stessa famiglia. Attraverso le cucine e i magazzini, dai
due alberghi si raggiungevano immense caverne scavate nella montagna di tufo che
si alzava verso il Vomero. In quelle caverne erano stati organizzati dei giganteschi
rifugi, ben pi sicuri della nostra fragile cantina. Furono presi i necessari accordi.

XXIX
prologo

Diventammo frequentatori abituali del rifugio del Britannique. L cerano bambini,


si poteva girare e giocare. Quando si prevedeva che i bombardamenti durassero a lun-
go la nonna e noi bambini dormivamo in albergo, pronti a scendere al primo allarme.
La mattina dopo i bombardamenti, la citt era piena di novit. Non erano no-
vit i fari oscurati delle automobili, n i piccoli bunker costruiti allentrata dei rifugi:
queste erano diventate immagini abituali, come le grandi strisce di carta incollate
sulle lastre delle vetrine e sulle finestre. La vera novit erano le schegge: le tracce che
avevano lasciato i bombardamenti della notte, e di cui noi ragazzi facevamo incetta
ogni mattina per arricchire le nostre collezioni. Schegge piccole e grandi, dalluminio,
di rame e di leghe sconosciute, proiettili dellantiaerea e spolette dei razzi traccianti,
pezzi dalla cui curvatura si poteva comprendere se provenivano dallesplosione di
una bomba grossa o di una di pochi chilogrammi.
Privilegiati nella raccolta di schegge erano gli scugnizzi, che si svegliavano presto
la mattina e avevano la strada come loro residenza abituale, e i bambini che, come
me, disponevano di una grande terrazza privata, luogo di raccolta riservato. Era
una strana emozione uscire la mattina e trovare questi strani pezzi di metallo, dalle
forme foggiate dallesplosione.
Era forse il primo anno di guerra quando andammo in vacanza a Fiuggi. Forse
perch era un luogo pi vicino a casa e pi distante dagli insicuri confini, rispetto
alla consueta Val Gardena.
Tornammo a Napoli. La guerra non accennava a concludersi. Si continuava ad
andare a scuola, a raccogliere le schegge, a passare le notti al rifugio del Britanni-
que. Lanno dopo andammo in villeggiatura a Sorrento. Di l, la notte, si vedevano
i bombardamenti in lontananza: sembravano fuochi dartificio, accompagnati da un
cupo rombo. La guerra era diventata la cornice permanente della nostra vita.

Sfollati a Roccaraso

Quando i bombardamenti si fecero pi intensi, un certo numero di famiglie, compresa


la nostra, prese la difficile decisione di sfollare: si radunarono armi e bagagli e ci si
trasfer a Roccaraso, un paesino dellAbruzzo dove qualche volta avevamo trascorso le
vacanze di Natale. I marchesi Santasilia con i loro bambini, il barone Enzo Strongoli
e la bella moglie, i principi DAvalos, i nostri cugini marchesi Carignani: tutti ci tra-
sferimmo tra le montagne. Ogni cosa i miei portarono con s: bauli e bauli contenenti
tutta la biancheria personale e di casa, i vestiti e le pellicce, i gioielli e le scarpe, le casse
contenenti i 150 chili dargenteria di famiglia, i libri e i ricordi preziosi, come una co-
pia del Bollettino della vittoria vergata dalla mano di nonno Armando.
Tutto si cerc di salvare dai bombardamenti: gli oggetti ci seguirono in Abruzzo,
i mobili, i quadri e i tappeti furono depositati in una villa di amici a Ottaviano
(un paesone tra Napoli e Nola).

XXX
prologo

La nostra vita cambi radicalmente. Non in peggio. Alloggiavamo in un apparta-


mento costruito sulla rocca che dominava il paese (e che gli dava il nome: rocca di raso,
si poteva pensare, e i prati erbosi che circondavano il paese giustificavano il toponimo;
solo pi tardi lo lessi come una premonizione: rocca rasata, come la storia volle).
Sotto di noi abitavano i Santasilia. Una grande stufa Becchi di terracotta riscal-
dava confortevolmente la casa. Si giocava pi di quanto si studiasse; lo studio, del
resto, era affidato prevalentemente alla buona volont del parroco, il quale disponeva
anche duna bibliotechina circolare alla quale attingevamo i libri di Fantomas e poli-
zieschi per ragazzi. Fino ad allora le mie letture si erano limitate alla traduzione per
bambini delle grandi storie della letteratura romantica nella collana della Scala dOro
e allamato Emilio Salgari (Jules Verne, di cui ricordo una splendida edizione di
Le pays des fourrures, illustrata con incisioni dautore, mi piaceva molto meno).
Nel paio danni che trascorremmo a Roccaraso le mie amicizie cambiarono.
Nel primo periodo passavo le giornate soprattutto con i bambini del paese, i roccolani.
La cosa che pi mi entusiasmava erano le gite in montagna. Si partiva la mattina
presto, con una pentola o una padella trafugata in casa, una mezza bottiglia dolio,
un pacco di pasta. Per strada si scavava in un campo qualche patata. Arrivati sulle
brulle montagne a pochi chilometri dal paese completavamo la costruzione di una
casola, iniziata magari durante la gita precedente: un ricovero rozzamente tirato
su con muri a secco, e coperto da rami di pino. Si cucinava, si mangiava, i pi abili
davano la caccia agli scoiattoli con le fionde (fatte con una forcella di legno e due stri-
sce di camera daria legate da una toppa di pelle), o addirittura con le frombole, nelle
quali il sasso, adagiato nella sede di corda e pelle, veniva scagliato dalla forza della
rotazione del braccio. In questo, come negli altri giochi dabilit e di forza, non solo
non eccellevo ma neppure mi cimentavo volentieri. E invidiavo la capacit dei miei
amici paesani di giocare a mmazza e piuze, con un bastone lungo che percuoteva,
lanciandolo lontano con mira precisa, un bastoncello pi corto, rastremato alle due
estremit, dopo averlo sollevato da terra con un appropriato colpo su una delle punte.
Invidiavo la loro bravura nel precipitarsi gi sui campi di neve, avendo ai piedi due
tavole di legno grezzamente foggiate, o due doghe di botte, e scendere pi veloci degli
sciatori di citt calzati con sci di marca accuratamente trattati con la sciolina.
Naturalmente anchio sciavo, ma senza fare grandi prodezze. Allapice della
mia carriera di sciatore arrivai a fare dei buoni spazzaneve e qualche assaggio di
christiania. Naturalmente i miei genitori erano bravissimi, specialmente mamm.
Con una slitta trainata da cavalli salivamo alla Piana dellAremogna: noi bambini
facevamo campetti e i grandi lunghe passeggiate di fondo, ai piedi le pelli di foca
(che qualche volta anchio adoperai, con notevole fatica e impaccio). Altre gite le face-
vamo in primavera e in autunno: a un certo punto veniva stesa una grande tovaglia,
sulla quale comparivano grandi frittate di maccheroni.
Una meta tipica delle gite erano le pendici del Monte Tocco, dove prima delle
feste di Natale si andava a raccogliere il vischio abbarbicato alle vecchie querce.

XXXI
prologo

A volte raggiungevamo Pietransieri, un paesino poverissimo, dove la vita scorreva


cento anni pi antica che a Roccaraso, stazione turistica distante pochi chilometri.
Pastori, contadini e taglialegna erano i mestieri degli uomini di questo paese, dove
ancora si vuotavano i pitali per strada, allora serale annunciata dal banditore.

Cade il fascismo, arrivano le SS

Nel luglio del 43 cadde il fascismo. Mussolini fu chiamato da Vittorio Emanuele


III, arrestato e portato via con unambulanza, verso il domicilio coatto dellAlbergo
Campo Imperatore, sul Gran Sasso. In tutto il Paese furono abbattuti i simboli
della dittatura: i fasci, gli emblemi del Duce. Allinizio, anche a Roccaraso fu una
gran festa. Tutti quelli che avevano ascoltato Radio Londra clandestinamente, con le
radioline a galena, uscirono allo scoperto trionfanti, prendendo in mano la situazio-
ne. Si discuteva di politica. Espressioni inusitate (come Partito dAzione, socialisti e
comunisti, Comitato di liberazione nazionale) entrarono nel nostro linguaggio.
Nel frattempo, sulle montagne e sugli altipiani era cominciata unazione clande-
stina che si svilupp in modo consistente dopo l8 settembre e il tentativo dellItalia
di uscire dalla guerra. Essa consisteva soprattutto nel fornire soccorso ai prigionieri
inglesi e americani evasi dai campi di concentramento e ai paracadutisti smarriti, ai
primi partigiani che nelle boscaglie dellAbruzzo serano arroccati. Ci fu, probabil-
mente, anche qualche colpo di mano contro i militi fascisti o le scarse truppe tedesche.
Cominciarono le rappresaglie. Come imparammo pi tardi, Pietransieri, colpevole
daver dato asilo a prigionieri e partigiani, fu distrutta, la popolazione trucidata.
A Roccaraso, i giovani e gli uomini adulti erano fuggiti suoi monti. Ogni tanto,
pattuglie tedesche guidate da qualche fascista immarcescibile facevano rapidi rastrel-
lamenti.
Ma una volta lazione avvenne in grande stile. La ricordo ancora con precisione.
Ci eravamo appena seduti a tavola. Ci attendeva una gustosa minestra di pasta e
fagioli, con le cotiche di maiale. Con noi erano i Santasilia. Pap e Gino Santasilia,
dopo un periodo di permanenza alla macchia, erano tornati: entrambi avevano assol-
to gli obblighi militari, credevano dessere al sicuro. Arrivarono in paese due camion
tedeschi: ne scesero di corsa pattuglie di SS, brandendo mitra minacciosi, con i cintu-
roni guarniti di bombe a mano. Una pattuglia sal correndo le nostre scale, irruppe
in casa. Eravamo tutti atterriti. Mia madre and incontro alle SS e, parlando in te-
desco, chiese loro con apparente tranquillit se potevano attendere che consumassimo
il pranzo e che pap facesse la valigia. Questo atteggiamento fug in noi ogni paura.
La valigia fu pronta, gli uomini vennero scortati fuori, sulla piazza. I camion li
portarono via, in direzione di Rivisondoli, Sulmona, Roma, il Nord. Il giorno dopo
apprendemmo che in realt non li avevano portati lontano: si erano fermati proprio
a Rivisondoli. Le SS li avevano affidati alla milizia territoriale tedesca, a un corpo

XXXII
prologo

del Genio. Erano prigionieri in una scuola, dormivano per terra su mucchi di paglia.
Dovevano scavare trincee.
Trascorsi pochi giorni, alcuni di loro cominciarono ad avanzare ragioni e pretesti
per essere esonerati da quella corve. Il primo fu mio zio Franz Carignani: aveva
lernia. Con lui torn a casa Enzo Strongoli. Successivamente, a mio padre fu rico-
nosciuto un vizio cardiaco. Come manovali non valevano un granch.
Il cibo a casa non mancava. Mamm aveva barattato un paio di stivali da ca-
vallo con mezzo maiale. Fu grande festa e gran lavoro quando fu macellato, quando
le carni e le frattaglie furono trasformate in salsicce, lardo, prosciutto, sugna colata
nelle vesciche e nei barattoli. Cerano poi sempre le patate, i fagioli, certi mastelli di
marmellata di paese.
Ma alla fine fummo nuovamente sfollati: non deportati, come accadeva, in
quegli anni, in tanti altri luoghi, ma allontanati forzosamente, cacciati da Roccaraso
che doveva essere rasa al suolo. Erano infatti di nuovo tornate le SS. Questa volta il
messaggio era diverso. Tutti gli abitanti di Roccaraso avevano due giorni per lasciare
il paese. Avrebbero potuto portare una valigia a testa. Autobus e camion requisiti
dai tedeschi li avrebbero condotti via, non si sapeva dove.
Levento fu traumatico. In due giorni bisognava decidere e agire. Si dette priorit
alla sussistenza: non sapendo dove i tedeschi ci avrebbero trascinati, fu deciso di ri-
empire le valigie di cibarie. Tutto il resto, in unaccorta operazione notturna, fu na-
scosto. Gli uomini avevano scoperto, sotto la cantina della Rocca, scavata nella roccia,
una cavit, raggiungibile dalla cantina attraverso una botola. L furono nascoste le
ricchezze nostre, e delle famiglie amiche; nonch una parte consistente del tesoro della
chiesa. Nel nascondiglio fu poi scavata unulteriore buca, dove furono deposti i gioiel-
li: ma allultimo momento mamm ci ripens e non volle abbandonarli. Li dissimul
invece allinterno di grandi gomitoli di lana di pecora, con i quali lavorava a maglia.
La buca dei gioielli e il fondo della cantina furono cementati, i pavimenti rifatti e
sporcati con polvere di carbone.
Gli autobus targati Roma requisiti dai tedeschi vennero puntuali a prelevarci.
Passammo con le nostre valigie in mano tra le file di militari con i mitra puntati,
fummo caricati sui camion e partimmo, per destinazione ignota. Del viaggio non ri-
cordo nulla. Ci scaricarono a Sulmona, e ci fecero accampare in una scuola. Quanto
tempo saremmo rimasti l? Nessuno poteva immaginarlo.
Nonna Sara stava a Roma. Come vedova di un ex ministro della Guerra
aveva ancora dei privilegi, e delle conoscenze. Riusc a ottenere che unautomobile del
Ministero, con autista, venisse a prelevarci a Sulmona. Un viaggio di molte ore, con
le nostre valige piene di carne di porco, ci riport a Roma. Tutti, eccetto pap: lui e
Gino Santasilia erano rimasti a Sulmona, a trenta chilometri dai nostri beni sepolti,
pronti a tornare alla Rocca e recuperarli quando la tempesta fosse passata.

XXXIII
prologo

Miseria e nobilt

Arrivammo a Roma che doveva essere trascorsa almeno una settimana dallesodo
forzato da Roccaraso. Faceva gi caldo, e i resti del mezzo maiale barattato con un
paio di stivali erano marciti.
Ci sistemammo a casa di nonna Sara, il portone al numero 1 di via Giambat-
tista Vico, affacciata su piazzale Flaminio. La nonna aveva ricavato un apparta-
mentino tutto per noi. Il bagno era separato dalla stanza da stiro da una tramezza
vetrata. Ero nella vasca quando, pochi mesi dopo il nostro arrivo a Roma, arriv
pap, con sei o sette sacchi di stracci: tutto ci che rimaneva del nostro patrimonio
domestico, dei corredi di nozze e dei regali accumulati. Scoppi irrefrenabile il pianto
della mamma.
Poi pap ci raccont. I tedeschi avevano raso al suolo Roccaraso per fare terra
bruciata allavanzata delle truppe alleate. Ma prima avevano cercato i tesori, che
certamente le famiglie abbienti avevano dovuto lasciare. Sette giorni di ricerche e
di sondaggi. Poi, alla fine, forse aiutati dalla spiata di qualche roccolano, avevano
scoperto le cantine murate. Tutto avevano portato via, compreso lautografo del Bol-
lettino della vittoria. Erano rimasti solo stracci, accuratamente raccolti e portati a
casa da pap.
Eravamo diventati quasi poveri. E ancora non sapevamo che nella villa di Otta-
viano, dove erano stati ricoverati i nostri mobili, i quadri, i tappeti, si erano accam-
pate le truppe marocchine che risalivano lo Stivale con gli alleati. Faceva freddo, non
cera di meglio per riscaldarsi che bruciare quel legname stagionato. Cos finirono le
suppellettili della casa del Corso. Cos finirono i nostri beni.
A Roma ripresi studi regolari: prima al collegio San Giuseppe Demerode, in
Piazza di Spagna, poi al ginnasio liceo Tasso, di grande fama. Al Demerode, tra
gli studenti interni cera un ragazzo che si chiamava Zamboni: era un ragazzo ebreo,
il cui nome, forse Zabban, era stato camuffato per nasconderlo ai fascisti. Lo sape-
vamo tutti. Lo sapeva anche un ragazzino fascista che, per questo, veniva rincorso e
svillaneggiato durante le ore di ricreazione. Non fece mai la spia.
Nutrirci era diventato difficile, e anche vestirci. Due persone si rivelarono pre-
ziose, agli estremi nella gerarchia sociale: il cardinale Maglione di Casoria e Maria
Ruocco di Venafro.
Il cardinale Maglione era segretario di Stato in Vaticano. Molto influente, era,
tra laltro, luomo che aveva imbastito e concluso i Patti Lateranensi, che avevano as-
sicurato la convivenza e nella sostanza lalleanza tra fascismo e Vaticano. Era
un uomo potente e nato a Casoria. Mio padre lo conosceva bene, il cardinale era un
vecchio amico di famiglia. Per suo tramite fu concesso a pap di andare talvolta ad
approvvigionarsi allo spaccio del Vaticano. Bellissimi tagli di stoffa, zucchero, tor-
roncini di fichi secchi, sigarette, qualche tavoletta di cioccolata: erano il dono che, di
tanto in tanto, arrivava grazie allintercessione del cardinale Maglione.

XXXIV
prologo

Maria Ruocco era la moglie, sfiancata dalla fatica e dai parti, di un manovale
di Venafro che aveva lavorato con pap quando limpresa aveva vinto un appalto
di strade e ponti in quella zona. Era arrivata a Roma con i figli, il marito sperduto
in qualche fronte della guerra. Mia madre la ritrov mentre era accampata in una
scuola dove si raccoglievano gli sfollati poveri, che le buone signore per bene assistevano.
Maria non sapeva dove andare. Fu sistemata con i suoi figli (uno dei quali lattante)
nella casa di via Vico, nello scantinato. Ogni tanto, Maria si recava in campagna, dai
contadini, a scambiare merci cittadine (o soldi) con olio, farina, a volte carne, uova: era
la borsa nera. Una parte di queste merci preziose arrivavano a noi, ci aiutavano a
vivere. Ancora pi prezioso divent laiuto di Maria quando arrivarono gli americani,
e la borsa nera impazz.
La casa di nonna Sara era una miniera di oggetti e di ricordi. Mi sedevo spesso
alla scrivania a calatoia che era stata di nonno Armando: nei cassettini cerano ancora
i suoi pennini, fermagli, francobolli, monetine, piccoli blocchetti riempiti di appunti.
In una grande vetrina cerano i trofei di guerra: le medaglie, le fotografie con il capo
Crow, i regali di Clemenceau e di Wilson, il Collare dellAnnunziata e cos via. In
basso, in una cassa foderata di velluto rosso, cera la sciabola di maresciallo dItalia.
Ci che mi piaceva di pi, e che mi teneva avvinto per ore, erano i libri di zia Irene,
la sorella di mamma, che, sposata con lingegner Pierino Parisi, aveva lasciato l parte
della sua adolescenza. Entrai in un mondo nuovo, Via col Vento, La saga dei
Forsyte, Cronin, Dos Passos, Steinbeck, Maurois: cominciai a conoscere la realt
del mondo attraverso i romanzi. Cominci in quel periodo anche il mio amore per la
poesia, e il romanticismo. Tra i libri di zia Irene avevo scoperto una serie di minuscoli
libriccini, rivestiti di stoffe provenzali. Facevano parte di quella serie I Fleurs du mal,
che leggevo per far colpo su Maria Stella, la ragazzina che avevo conosciuto a Roccara-
so e di cui mi ero innamorato.

Via Rasella dallHotel Imperiale

Nonna Carmela e zia Giannina, con i miei cugini Carignani, anche loro sfollati
a Roma, soggiornavano allHotel Imperiale, nellultimo tratto di via Veneto verso
piazza Barberini. Spesso andavo l per giocare con Luigi. Lalbergo era frequentato
da ufficiali tedeschi. Un giorno sentimmo un gran botto. Ci affacciammo alla finestra.
I tedeschi andavano di corsa verso piazza Barberini, alcuni seguiti da cani lupi; moto-
ciclette con sidecar arrivavano e ripartivano. Tutto quel chiasso ci stup. Pi tardi ap-
prendemmo che a via Rasella, una traversa di piazza Barberini, i partigiani avevano
fatto esplodere una bomba al passaggio dun plotone di soldati nazisti.
Dopo uno o due giorni la tragedia esplose in molte famiglie: si sparse subito la
voce della rappresaglia. Per ogni tedesco ucciso i nazisti avevano ammazzato dieci
prigionieri prelevati in fretta e furia, pi qualcuno per aggiungere peso alla punizione.

XXXV
prologo

Anche i miei genitori avevano amici a Regina Coeli o nella tremenda prigione di Via
Tasso. Mia madre era andata qualche volta in questultima prigione, camera di tortu-
ra delle SS (come si seppe pi tardi), a cercare notizie di Filippo di Montezemolo, suo
amico, ufficiale monarchico antifascista, arrestato e torturato. Uno di quelli che furono
trucidati allindomani dellattentato.

Larrivo degli alleati

Era giugno. Laria era tiepida, le finestre aperte. Quelle della casa della nonna al
primo piano davano su piazzale Flaminio. Cera attesa. Da tempo si diceva che gli
alleati, bloccati a Nettuno da mesi, sarebbero entrati a Roma: - stasera; - no, domani;
- fra una settimana al massimo.
Sentimmo colonne di camion tedeschi andare verso la Flaminia, attraversando il
piazzale oppure provenendo dal lungotevere. Poi, un lungo silenzio.
Si cominci a veder arrivare dal viale del Muro Torto una fila di soldati diversi,
con gli elmetti a padella rovesciata: inglesi o australiani. Alcune camionette con la
stella bianca (americani) arrivavano da Piazza del Popolo, quando un camion tedesco
scese allimpazzata da Villa Borghese. Un ritardatario. Scoppi, raffiche: una scara-
muccia proprio sotto casa. Ci fecero buttare per terra, dietro il davanzale.
La mattina dopo, gli alleati entrarono a Roma e la liberarono. Tripudio. Ricordo
la folla in piazza del Popolo che assaliva le jeep e i camion con la stella bianca cerchia-
ta, abbracciava i soldati in uniforme cachi che buttavano sigarette e razioni di guerra.
La carestia era finita. Gli alleati portavano ogni ben di Dio. Festeggiammo la
fine della fame con delle confezioni incerate, di cartone verdognolo, nelle quali cerano
scatolette di ham and eggs, minestre in polvere, tavolette di cioccolata, pacchettini di
sigarette: era la quotidiana razione di guerra, di cui i soldati, giunti nella grande citt,
si liberavano senza rimpianto. Poi arrivarono altre quantit. La minestra di piselli
secchi in polvere divent il cibo pi diffuso: la pea soup divenne un sapore familiare,
interessante allinizio (era insolito e sfamava), insopportabile dopo alcuni mesi.
Nel linguaggio corrente entr la politica. Cera stata la breve stagione tra la ca-
duta del fascismo e l8 settembre 1943; poi loccupazione tedesca laveva rigettata nella
clandestinit, e la preoccupazione dominante era la sopravvivenza. Lunica abitudine
politica era lascolto clandestino di Radio Londra, che trasmetteva strani messaggi in
cifra, comprensibili solo ai militanti della lotta antifascista, e dava notizie sui fronti di
guerra: a noi, ovviamente, interessava la lenta risalita dal sud dellesercito alleato.
Dopo larrivo delle truppe alleate scoprii che la politica era vicina: mio cugino Al-
berto Carignani (il fratello maggiore di Luigi) era nella Resistenza (liberale o azioni-
sta, non ricordo). I miei genitori erano vicini a esponenti della clandestinit antifascista
monarchica. Ma pap si scopr presto socialdemocratico: cominci a frequentare le ri-
unioni, le assemblee, i comizi. Peppino Galasso mi raccont molti anni dopo (quando

XXXVI
prologo

lo conobbi come sottosegretario per i Beni culturali) che mio padre era stato il primo ad
avvicinarlo alla politica, portandolo al Teatro Eliseo a una manifestazione alla quale
partecipavano Togliatti e Nenni, Ruini e De Gasperi.
Ma per noi ragazzi la politica restava una cosa estranea. Non ne capivamo nulla.
Non coglievamo il fermento che agitava la capitale, in quei mesi che separavano il
giugno del 1944 (la liberazione di Roma, a opera dellarmata alleata) dallaprile del
1945 (la liberazione, a opera dei partigiani del Comitato di liberazione italiana).
A Roma, del resto, la mia famiglia ci rimase ancora per poco: appena fu possibile tor-
nammo a Napoli, dove erano la nostra casa, i nostri averi residui, limpresa di pap.

Ritorno a Napoli

Per tornare a Napoli fu necessario aspettare il turno per salire su un camion. Le stra-
de erano interrotte, le ferrovie non funzionavano. Non so come, mediante quali canali,
i miei genitori riuscirono a organizzare quel viaggio. Era un camion scoperto, sul qua-
le erano ammassate le masserizie di alcune famiglie e, sopra, i passeggeri. Del viaggio
non ricordo granch. Ricordo per larrivo a Napoli. La strada era un canyon tra due
pareti di macerie, alte quasi quanto lo erano state le case demolite dai bombardamenti.
La nostra casa al Corso era occupata dagli alleati. Andammo ad abitare in un
palazzo nobile allinizio di via Chiaia, dove cera e c ancora la famosa pasticce-
ria Caflisch, di ottocentesca origine svizzera, come di origine olandese o belga erano le
altre famose ditte di cioccolata e dolci di Van Bol & Feste e Gay & Odin. Era un
appartamento di propriet di amici, molto bello e grande, al primo piano. Aveva un
solo inconveniente: una stanza era stata attraversata da una bomba fortunatamente
inesplosa, che per con il peso aveva sfondato tetto e pavimento: si poteva attraversare
la stanza solo sullo stretto spazio addossato alle pareti.
Ma la casa godeva di una amplissima terrazza a livello, aperta su via Chiaia,
proprio sul centro elegante della citt.
La casa del Corso fu venduta, per dieci milioni. E si scopr che limpresa di pap
di fatto non esisteva pi: la guerra aveva travolto tutto. Rimanevano le terre, che poco
a poco furono vendute.
Le ragazze si incontravano ai balletti: festicciole domestiche, dove si bevevano
aranciate e si suonavano i dischi sul fonografo a manovella; cominciavano appena ad
apparire i giradischi elettrici, e i primi dischi a 33 giri, i V-Disc dellesercito Usa.
Attraverso i dischi cominciai a imparare linglese: Frank Sinatra fu un maestro
molto migliore di quella signora (non ne ricordo il nome) presso cui andavo una volta
alla settimana a leggere Oscar Wilde, The importance of being Ernest.
Lo sport che praticavo (un poco) era il tennis. In via Caracciolo era stato riaperto,
con aiuti degli alleati, la nuova sede del circolo del tennis, uno dei luoghi di ritrovo
dellaristocrazia napoletana.

XXXVII
prologo

Unestate andammo a Capri. Era la prima volta che mettevo piede su questisola,
che ogni giorno per dieci anni quando abitavamo in corso Vittorio Emanuele ave-
vo visto dalla finestra della mia stanza, a chiudere la visuale del golfo. Eravamo in un
piccolo albergo vicino alla strada Krupp.
Pochi ricordi mi rimasero impressi, ma tutti intensi. Un concerto per pianoforte
in una villa a Tragara, una grande terrazza a strapiombo sul mare, con i faraglioni
immersi in una intensa luce lunare. Fu l forse che conobbi Perla Cacciaguerra, una
ragazza poco pi grande di me, poetessa. Mi insegn ad amare Rabindranath Tagore.
Un ingegnere che incontravamo nel ristorante dellalbergo sapeva tutto dogni cosa: non
cera evento, piccolo o grande, che non sapesse spiegare. Forse allora che sognai di
diventare ingegnere.

I boy scout

Prima del fascismo cerano a Napoli i boy scout. Lo era stato mio padre. Dopo la
guerra un gruppo di amici decise di ricostituire lantica organizzazione. Ci portavano
in giro due amici di mio padre, lingegnere Luigi Cosenza e il signor Cavallo, un sim-
patico e distinto commerciante di tessuti.
Eravamo un gruppo molto disordinato: una compagine del tutto diversa rispetto a
quella che poi i boy scout divennero: irreggimentati e tirati a lustro. Vestivamo divise
raccogliticce: pochi fortunati avevano luniforme e il cappello del padre, gli altri si ar-
rangiavano con ci che trovavano. Con grande impegno trasformammo in cappelli con
la tesa, tipici del boy scout, i feltri verdi di avanguardista sottratti ai padri o ai fratelli
maggiori: scoprimmo che bastava bagnarli e stirarli con un ferro caldo contro una pi-
gnatta, per dargli forma.
La nostra pattuglia (gli Scoiattoli) era comunque la pi organizzata. Ci eravamo
dotati di fazzoletti da collo bordeaux, nastrini omerali, fischietti col cordoncino,
bastoni regolamentari e temperini robusti. La domenica facevamo gite ai Camaldoli
accompagnati da Luigi Cosenza. In quegli anni, appena superate due file di isolati
uscendo da Piazza Sannazzaro (al Vomero) si era in aperta campagna. Ai pochi
casolari abitati da famiglie contadine seguivano rapidamente boschi di castagni, come
quello che avvolgeva lEremo nel quale ci accampavamo.
A volte pernottavamo nelle tende montate alla meglio. Allinizio erano vecchie
coperte prese a casa, legate con funicelle e spaghi; poi alcuni ufficiali tra gli alleati,
che vedevano di buon occhio la sostituzione dei balilla fascisti con la democratica
istituzione scoutistica, ci regalarono qualche avanzo della guerra. La notte facevamo
rigorosi turni di guardia. I due di turno vigilavano accanto a un fuoco di bivacco, ac-
curatamente alimentato. Pi dei vagabondi, temevamo i lupi che si diceva erano
scappati durante la guerra dallo zoo della Mostra dOltremare, ai piedi della collina
dei Camaldoli.

XXXVIII
prologo

Luigi Cosenza

Luigi Cosenza era un personaggio davvero singolare. Qualche anno pi tardi conob-
bi la sua storia. Generoso e irruento quando ci organizzava e accompagnava (ricor-
do un suo corpo a corpo con due giovinastri che ci minacciavano, nelle campagne tra
il Vomero e i Camaldoli), lo era anche nella vita. Comunista, era stato amico di
Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del Pci italiano, ingegnere come lui. Negli anni
del fascismo aveva abbracciato la scuola razionalista, e costruito alcune pregevoli
architetture a Napoli, assieme al famoso Rudofsky. Era una delle figure eminenti
dellala intellettuale del Pci a Napoli.
Cosenza era ingegnere, come ho detto, portato alla pratica pi che alla teoria.
Dicono che quando fu incarcerato a Poggioreale (capeggiava una grande dimostrazione,
repressa dalla polizia, contro la visita in Italia di Ike Eisenhower, preludio allingres-
so nella nato) convinse il direttore del carcere che le condizioni erano intollerabili e
ottenne lincarico di studiare il progetto per un carcere moderno e razionale.
Non progett il carcere, alla fine, ma la nuova sede della facolt dingegneria, a
Fuorigrotta, e la bella sede della Olivetti a Pozzuoli1. Abitava in una casa con una
splendida terrazza, a Mergellina. Sulla terrazza scorrazzavano i suoi animali. Ave-
va avuto anche un leoncino, che tenne anche quando crebbe. Si racconta che una volta
chiese agli ingegneri della Olivetti, con cui doveva andare a vedere il cantiere a Pozzuo-
li, Vi dispiace se passiamo un momento alla Mostra dOltremare, cos porto Leo a
giocare con i suoi amici? . Pensando che si trattasse di un cane gli ingegneri risposero
Senzaltro, la macchina grande . Si spaventarono molto quando scoprirono che
Leo era un leone.

Villa Pavoncelli

A quei tempi Napoli era anche, per i suoi abitanti, una stazione balneare. Destate
gli scugnizzi si tuffavano in mare dalle scogliere prospicienti via Caracciolo (ma a
noi, ragazzi per bene, era proibito andarci: si diceva gi che non fosse igienico, perch
vi scaricavano le fognature della citt). Uno stabilimento molto frequentato era per
il Sea Garden a Mergellina, proprio dove dalla strada litoranea si stacca la col-
lina di Posillipo. Noi andavamo a mare pi su, a Posillipo, dove grandi e intricate
ville occupano il costone verdeggiante tra la strada e il mare.

1 lo stabilimento nel quale Ottiero Ottieri ambient la sua appassionata descrizione della
condizione operaia nella fabbrica fordista del capitalismo avanzato, O. Ottieri, Donnarumma
allassalto, Milano, Bompiani, 1959.

XXXIX
prologo

Palazzo DonnAnna (che, secondo la leggenda, aveva ospitato Giovanna dAn-


gi) non aveva spiaggia: per scendere a mare si attraversavano i suoi diruti saloni
dove i tufi delle rocce e quello dei muri si sfaldavano mescolandosi.
Le ville che frequentavamo di pi erano oltre: villa Pavoncelli, villa Carunchio,
villa DAvalos. La prima soprattutto, abitata da famiglie dellaristocrazia napole-
tana molto legate alla mia: i Del Balzo di Presenzano e i Pavoncelli.
Da via Posillipo si scendeva per una scaletta, vigilata dal portiere. Si attra-
versavano corridoi umidi, a volte aperti sul mare, terrazze, ballatoi, scalette e atri,
finch si giungeva a una spiaggetta protetta da una breve scogliera. Prima dellul-
tima rampa un umido locale scavato nella roccia era usato come spogliatoio. Sulla
spiaggetta si apriva unampia grotta, ricovero di innumerevoli scafi.
Miei amici erano soprattutto i Pavoncelli. Famiglia di nobilt recente (si diceva,
con una certa sufficienza, che erano diventati conti con lunit dItalia), la loro
ricchezza veniva dalle terre in Puglia, a Cerignola, il paese del grande sindacalista
contadino Giuseppe Di Vittorio, che contribu significativamente a portare nella
democrazia repubblicana i mezzadri e i braccianti del Sud. Avevano unazienda
molto ben condotta che produceva, tra laltro, ottimi vini. Molti anni pi tardi
conobbi una singolare storia che aveva legato il sindacalista Di Vittorio al pro-
prietario terriero Giuseppe Pavoncelli, nonno del mio amico. Nel 1920 Giuseppe
Di Vittorio era un povero bracciante e gi un attivo sindacalista nel suo paese. Per
Natale il conte Pavoncelli gli invi un pacco dono davvero allettante: pane, for-
maggio, taralli, olio. Quella, per la mia famiglia raccont molti anni dopo la
figlia Baldina era lepoca della povert assoluta. Il giovane sindacalista rifiut
il regalo e su un paio di fogli di carta intestata della cooperativa La Falce spieg le
ragioni di quel rifiuto. Io, lei ... siamo convinti della nostra personale onest, ma
per la mia situazione politica non basta lintima coscienza della propria onest.
necessaria, e lei lo intende, anche lonest esteriore. (...) Si che io, a preventiva
tutela della mia dignit politica e del buon nome di Giuseppe Pavoncelli che stimo
moltissimo come galantuomo, come studioso e come laborioso, sono costretto a non
accettare il regalo, il cui solo pensiero mi di pieno gradimento.2 Altri tempi, altri
uomini, altri mondi, non distanti da quelli che in quel tempo frequentavo ma da
me ancora sconosciuti.

La politica? Non cera

Non ero comunista allora. Di politica si parlava poco, e meno ancora vi si pensa-
va. Se avessi dovuto definirmi, avrei detto che ero socialdemocratico: una sinistra

2 L. Parise, Baldina Di Vittorio: mi ha insegnato lonest, la Repubblica, ed. Bari, 29 set. 2007.

XL
prologo

sentimentale e perbene. per il partito di Saragat che votai infatti, al mio primo
esercizio di democrazia.
Della politica mi arrivavano solo echi lontane, attraverso le poche persone del
nostro ambiente che partecipavano anche a quel mondo. La dimensione politica di
Luigi Cosenza o di Renato Caccioppoli, oppure di Leopoldo Rubinacci (il sottose-
gretario democristiano, zio e protettore del mio amico Renato Ruggiero), la compresi
molto pi tardi.
Una volta, tra il 46 e il 48, intuii che esisteva unaltra realt sconosciuta e po-
tente, fonte per me di timore e soggezione: fu a Napoli, dallalto del ponte di Chiaia
che vidi passare, gi in strada, un grande e compatto corteo di operai delle fabbriche
di Fuorigrotta: una folla silenziosa, muta, dai volti chiusi pi dei pugni, colorata del
blu delle tute. Una realt che incuteva, insieme, paura e rispetto.

Unestate a Colle Isarco

Dopo la licenza liceale, nel 1948, andammo in villeggiatura a Colle Isarco. Ricordo
quella vacanza per la conoscenza, fugace, di un gruppo di emiliani di cui faceva
parte una ragazza che mi piaceva molto, e per la frequentazione di un singolare
personaggio: Chinchino Compagna.
Chinchino era il rampollo duna famiglia di nobili calabresi, ricchissimi e
(a quanto si diceva) altrettanto rozzi: vera nobilt borbonica. La loro ricchezza era
prodotta dai cafoni dei latifondi calabresi. Non si era trasformata n in cultura n
in lusso. Si diceva (horresco dicens!) che alla loro tavola si mangiasse il formag-
gio con le mani.
Forse oggi definiremmo il Chinchino degli anni Quaranta un giovane teppista.
Era certamente ignorante e maleducato: famoso rimase il sonoro pernacchio col quale
salut il presidente dellelegante circolo del tennis, alla festa per la sua inaugurazione.
Quando lo conobbi era in una fase di profonda trasformazione. Frequentando casa
Croce (forse ve lo condusse mio padre), aveva scoperto lesistenza dei libri. Leggere
gli aveva cambiato la testa, in pochi mesi. Ricordo le signore amiche di mia madre,
tutte rigorosamente monarchiche, commentare scandalizzate: Capisci, diventato
repubblicano perch ha letto duecento libri! , meravigliandosi del fatto che si potesse
cancellare una fede salda come quella monarchica, semplicemente perch si era fatto
lesercizio frivolo e un po stravagante della lettura!
A Colle Isarco, dove era con la giovane ed esile moglie Licia, partecipava saltua-
riamente alle nostre gite: la sua attivit preferita era la lettura, fin dalla mattina
presto. Le cameriere che facevano le pulizie nei saloni dellalbergo lo trovavano gi a
leggere allalba.
Chinchino aliment la mia passione per la poesia regalandomi un libro di cui gli
fui allora molto grato, il primo volume di una bella rivista di poesia (la testata era,

XLI
prologo

appunto, Poesia, diretta da Enrico Falqui). Con una bella dedica, Un modesto
ricordo, un sincero augurio, una certa speranza di sicuri successi in una vita serena,
rischiarata da caldi affetti, il mio compreso.
Lo persi di vista. Per meglio dire, lo seguii a distanza: era diventato un uomo
pubblico. Con i soldi dei cafoni calabresi fond una rivista, Nord e Sud, che riu-
niva gli intellettuali meridionali e meridionalisti di area repubblicana e socialdemo-
cratica. Lo ritrovai molti anni dopo, bravo ministro per i Lavori pubblici. Mor a
Capri sulla spiaggia, per un infarto, sotto il palazzo di Tiberio.

Luniversit, il cinema e Benedetto Croce

Alluniversit, in quegli anni, non mi impegnavo molto. Mi ero iscritto a ingegneria


senza una vera ragione. Gli argomenti che mi convinsero erano due: al liceo andavo
bene in matematica, mio padre aveva (ancora per poco) unimpresa di costruzioni.
Se avessi potuto seguire le mie inclinazioni, avrei scelto un mestiere pi poetico.
Ma carmina non dant panem.
Delluniversit di quegli anni ricordo la mesta cerimonia della matricola, con-
sistente in una grande abbuffata di paste offerte agli amici; le aule sovraffollate e i
professori inavvicinabili nellimmenso palazzo tra il Rettifilo e via Mezzocannone.
Non ricordo come diedi gli esami, meno ancora come mi preparai nelle difficili mate-
rie del biennio. I miei interessi erano altrove.
Conobbi Carlo Frezza, con lui condividevo la passione per il cinema. A quei
tempi si frequentava un circolo del cinema in via Martucci, dove finalmente vedem-
mo film diversi da quelli dellinfanzia (che erano Capitano Blood o Stanlio e
Ollio), e dalle americanate, tipo Bellezze al bagno, che si proiettavano dal
dopoguerra al cinema Della Palme o al cinema Corona. De Sica ed Eisenstein,
Pudovkin e Rossellini, AutantLara e Dreyer erano le nostre scoperte e i nostri
entusiasmi.
Carlo apparteneva a una famiglia della piccola borghesia intellettuale: notai e
avvocati. Fu lui a introdurmi nella politica universitaria. Mi ero appena iscritto a
ingegneria, quando mi chiese di partecipare a una lista diversa da quelle legate ai
partiti, dal titolo goliardico, e un po qualunquista, Bacco Tabacco e Venere. La
lista aveva un programma culturale impegnativo: Carlo avrebbe dovuto dirigere il
Centro universitario teatrale nel cui ambito io avrei dovuto mettere su una nuova
sezione cinema. Accettai. La lista ottenne una rappresentanza nel parlamentino
universitario. Con grande fatica organizzai la proiezione di un bellissimo film, che
a Napoli nessuno aveva ancora visto, Breve incontro, di David Lean, con Tre-
vor Howard e Celia Johnson: due eccezionali attori drammatici. Fu un grandissimo
successo; la sala del cinema Santa Lucia, che avevamo affittato per loccasione, era
gremita, il pubblico attento e silenzioso.

XLII
prologo

Ricordo le lunghe serate, con Carlo, a discutere di cinema, di arte, di poesia.


Il tema in voga, nel mondo che frequentava i circoli del cinema, era lo specifico
filmico: se ne discuteva sulle riviste che leggevamo (Bianco e Nero, Cinema,
Cinma dAujourdhui), se ne dibatteva in sala alla fine delle proiezioni. Dopo il
cinema accompagnavo Carlo fino al suo portone, poi lui riaccompagnava me, poi io
ancora lui e cos via.
In quei mesi usc un articolo di Benedetto Croce, in cui il filosofo sosteneva che
il cinema prosa e non poesia. Eravamo allora entrambi crociani: in quegli anni, a
Napoli, o si era crociani o si era comunisti: non cerano alternative per i giovani
intellettuali. La presa di posizione ci turb moltissimo: non eravamo affatto dac-
cordo con il Maestro, per noi il cinema era poesia con sei maiuscole, sebbene non
fosse ancora chiaro se lo specifico filmico risiedesse nel montaggio (come era nostra
opinione), o altrove.

Mamm e pap entrano in crisi

Negli ultimi anni napoletani la famiglia abitava in via Monte di Dio 18, nel bel
palazzo della baronessa Barracco, amica dei miei genitori. Una casa molto grande,
che girava attorno a un cortile adorno di piante. Vecchi e solidi arredi. Ricordo il
nostro bagno, con vasca e lavandini di marmo massiccio, ornati di zampe di leone e
dotati di una consunta rubinetteria inglese di ottone brunito dal tempo. Una fuga di
stanze: per raggiungere la mia dovevo attraversare quelle di rappresentanza, dove a
volte incontravo gli amici dei miei genitori, ascoltavo brevemente i loro discorsi.
La musica era sempre molto presente. Si frequentava il San Carlo, ma soprat-
tutto i concerti del conservatorio di San Pietro a Maiella. Fu l che conquistai lauto-
grafo di Rubinstein, ed l che i miei genitori conobbero il maestro Franco Caracciolo,
che frequentava la nostra casa e a volte suonava per noi.
I confini tra mondanit e cultura erano praticamente inesistenti: si scivolava
dalluna allaltra con grande leggerezza. Si discuteva dellimmortalit dellanima
e del paradiso, e la battuta pi convincente era del marchese Agostino Patrizi: Pe
mme o Paraviso quel posto che, se quando sei vivo ti piacevano le sfogliatelle, man-
gi tutto il giorno sfogliatelle. Una visione un po maomettana. Ma questo lo penso
adesso: allora limmagine, e la prospettiva mi colpirono.
Lapparente serenit della vita familiare nascondeva una crisi tra i miei genitori.
A un certo punto essa esplose: si separarono con una decisione di cui noi figli non
comprendemmo le ragioni. Mia madre con le sorelline si trasfer a Roma, mio padre
rimase a Napoli in un appartamentino ammobiliato in via Carducci, per badare
agli affari (quali, non so, visto che limpresa si era dissolta e le terre via via vendute).
Rimasi con lui, per finire il biennio alluniversit. Poi, mi trasferii anchio a Roma
e cominci una nuova vita.

XLIII
1. La casa del Corso.

XLIV
2. Zio Marcello, nonno Armando e nonna Sara.
3. Nonno Armando Diaz.

XLV
4. Con nonno Eduardo Salzano, 1932.
5. 1933.

XLVI
6. Con le mie sorelline Germana e Litta, Natale 1936.
7. Con Chinchino Compagna e un amico, 1949.

XLVII
8. Con mia madre Anna Diaz e unamica, 1949.
9. Mio padre Mauro con mia figlia Maria, 1962.

XLVIII
Memorie di un urbanista
LItalia che ho vissuto
Capitolo primo
A Roma

1. Nuove amicizie, nuove scoperte

Allinizio degli anni Cinquanta la mia famiglia si trasfer da Napoli a Ro-


ma. Gradualmente: prima mamm e le sorelle, poi io, infine mio padre.
Mi mancava un solo esame per concludere il biennio dingegneria, e
si decise che quellesame (meccanica razionale) lo avrei fatto a Roma.
Abitavamo in viale Bruno Buozzi, ai Parioli: un quartiere elegante ma
brutto, con palazzine tra lo squallido e il mediocre pretenzioso. Qualche
raro pezzo di architettura moderna.
Accanto alla nostra palazzina si trovava la bizzarra Casa del girasole
dellarchitetto Luigi Moretti, che ebbe una certa notoriet.
Avevo gi amici a Roma. Incontrati nei salotti che talvolta frequen-
tavo e raggiungevo anche da Napoli. Altri ne conobbi: nel tempo, un
nucleo compatto. Ragazzi della buona borghesia, studenti universitari o
laureati di fresco, di buona cultura e buoni sentimenti. Cincontravamo
la sera in piazza Ungheria, alla Latteria Lotti. Le chiacchiere che faceva-
mo non erano da vitelloni. Si discuteva di libri e di film, di poesia e di
musica. E, naturalmente, delle vicende universitarie. Ma anche di amori
e di politica. Il clima era quello di una sinistra moderata, con oscillazioni
tra una sinistra liberale e una timida presenza comunista.
La domenica si andava al mare. Quasi sempre a Fregene, la spiaggia
a una ventina di chilometri da Roma. Una bella spiaggia, con alle spalle
una pineta. Questultima era stata investita, negli anni Trenta, da una
lottizzazione di ville molto signorili, costruite e abitate nel decennio
prima della guerra dalle famiglie ricche della Roma della borghesia
fascista (pi tardi cedute a esponenti del mondo dello spettacolo). Negli
anni, linsediamento si era non solo ampliato (era nata Fregene Sud),

3
capitolo primo

ma erano cambiati le dimensioni dei lotti, la qualit delle case, il ceto


sociale degli abitanti.
Barbara, la ragazza che amavo, invitava spesso i nostri amici in una
bellissima villa di propriet della sua famiglia: una delle prime a essere
costruite, su un lotto grande il doppio di quelli standard. Il padre di
Barbara, Andrea Busiri Vici, architetto, aveva costruito una dimora in
stile mediterraneo, pubblicata su riviste e libri di architettura. Sul
grande prato antistante la casa si intrecciavano chiacchiere e amori.
La spiaggia era vicina: un lungo arenile, alla cui estremit nord cera
il villaggio dei pescatori. Nei primi anni in cui frequentavo Fregene,
era un vero villaggio di semplici capanne, alcune di paglia, abitato da fa-
miglie di poveri pescatori. Mano a mano, negli anni, le capanne furono
comprate da romani e trasformate in villette con qualche pretesa di lus-
so: inizialmente una sola fila frontemare, tra i relitti di duna e il Tirreno,
poi via via si infittirono, occupando abusivamente una seconda e una
terza fila.
Fregene era allora un luogo bellissimo, la spiaggia deserta, la pineta
piena di uccelli e piccoli mammiferi, i relitti di dune costellati dalle pian-
te pioniere (tra cui profumati gigli), le palline di alghe feltrite trascinate
dalla brezza.
Il mio amico pi stretto era Peppe Loy. Sardo il padre era un av-
vocato antifascista si era trasferito al seguito della famiglia a Roma ma
manteneva solide radici affettive nellisola. Aveva un fratello, Nanni, e
una sorella, Luisa, entrambi pi grandi di lui. Nanni era regista cine-
matografico, anchegli molto simpatico: divenne famoso con le spiri-
tosissime gag della candid camera ma il suo film pi bello rimane quello
dedicato alle Quattro giornate di Napoli. Raccontava in modo molto effi-
cace la lotta popolare che aveva condotto alla liberazione della mia citt
dai nazifascisti prima dellarrivo degli alleati: le truppe tedesche si erano
arrese ai partigiani a condizione di lasciare incolumi la citt. Dopo l8
settembre vi erano stati episodi sporadici di attacco ai soldati nazisti da
parte di piccoli gruppi di patrioti: qualche scaramuccia, che aveva pro-
vocato una feroce repressione e la proclamazione dello stato dassedio.
Levacuazione delle abitazioni di tutta la fascia costiera, per una pro-
fondit di 300 metri, aveva provocato lesodo forzato di oltre duecen-
tomila persone con il timore della distruzione di gran parte della citt.
Il 27 settembre 1944 era scoppiata una vera e propria battaglia: alcune
centinaia di abitanti (molti ex militari e marinai che si erano rifiutati di
consegnarsi ai fascisti) erano scesi in strada, assalendo perfino i carri ar-
mati con armi improvvisate. Dopo tre giorni di combattimento, i tede-
schi si erano arresi e avevano lasciato la citt. Un film del 1952, ancora

4
a roma

sullonda di quel neorealismo che ci ha dato immagini e storie indimen-


ticabili dellItalia di quegli anni.
Immagini e storie attraverso le quali sono entrati nei cuori e nelle
teste di una intera generazione i principi fondanti la Repubblica. Film
come Roma citt aperta (1945) di Roberto Rossellini avevano fatto com-
prendere quanto la passione civile, basata sulla dignit delluomo, po-
tesse condurre alleroismo persone appartenenti a mondi e ideologie
diversi: anzi, nel pensiero corrente percepiti addirittura come opposti,
come il militante comunista e il prete romano. Pais (1946), anchesso di
Rossellini, aveva tracciato quadri successivi delle tante Italie attraversate
dalla linea della guerra e della Resistenza: dalla Sicilia a Napoli e a Roma,
dallUmbria a Firenze, fino alla conclusione, con immagini e silenzi da
tragedia greca, nei morbidi paesaggi del Delta del Po. E ancora Sciusci
(1946) e Ladri di biciclette (1948), di Vittorio De Sica, rendevano consape-
voli, con la forza della poesia, del disagio e della sofferenza degli strati
sociali pi colpiti dal fascismo, dalla guerra e dalle diseguaglianze.
Quei film furono come delle finestre che mi si aprirono, in quegli
anni, su una storia che si era svolta accanto alla mia vita, ma di cui
avevo ricevuto solo esili segnali, filtrati dal pensiero allora corrente nel
mondo perbene a cui appartenevo.

2. San Pietro in Vincoli

Dato lultimo esame del biennio di ingegneria, mi iscrissi al triennio con-


clusivo che dur ben pi di tre anni. La sede era lex convento a San Pie-
tro in Vincoli, prospiciente il parco di Colle Oppio, sovrastante il Colos-
seo. Avevo scelto la sezione civile edile, senza troppa consapevolezza.
Allinizio, gli studi furono abbastanza pesanti: cerano gli esami che
non appartenevano al filone edilizio architettonico, ma al funzionamen-
to delle macchine e alle loro tecnologie; erano del tutto estranei ai miei
interessi e per di pi erano gestiti da professori molto esigenti e severi.
Le lezioni che si svolgevano allIstituto di architettura (uno dei mol-
ti che componevano il politecnico) invece mi aprirono il cuore. Nel
mondo arido e funzionale degli ingegneri1, sentir parlare dellestetica di
Benedetto Croce e delle poesie di Leopardi e Garcia Lorca era per me
un balsamo.

1 Ha descritto mirabilmente la figura tipica dellingegnere R. Musil, Luomo senza qualit,


Einaudi, Torino, 1957, p. 41-42.

5
capitolo primo

Del resto, la sede di San Pietro in Vincoli aveva sottili legami con la
poesia. Un verso di Leonardo Sinisgalli, poeta che amavo, raccontava
delle rondini che sfrecciavano attraverso i finestroni dellaula di disegno,
allultimo piano: Sinisgalli aveva studiato ingegneria proprio nelle aule
che io stesso frequentavo.
Cominciai a indirizzare parte dei miei pensieri, e delle mie parole,
alla politica. Soprattutto con alcuni (pochi) dei nuovi amici che sco-
privo alluniversit. Il primo fu Bruno Morandi, detto Dado. Dado era
figlio dun famoso ingegnere che progettava inventava strutture di
cemento armato, tra i primi in Italia ad applicare tecnologie molto avan-
zate, come quelle delle travi precompresse. Dado condivideva solo in
parte gli interessi del padre. Ci che ci univa era la politica. Scoprimmo
di avere gli stessi sentimenti e le stesse emozioni, e maturammo insieme
le prime convinzioni.
I valori che per noi erano divenuti centrali erano quelli della Re-
sistenza. Ne leggevamo nei libri che raccontavano la sua storia come
quello di Roberto Battaglia2 e come le Lettere dei condannati a morte della
Resistenza italiana3. In quelle lettere, scritte pochi minuti prima della
fucilazione o dellimpiccagione, scoprivamo la realt di unItalia nella
quale lantifascismo, oltre a essere un sentimento, si prolungava anche
in azioni in cui si rischiava la vita per la costruzione di una societ pi
giusta. Ci rivelavano un aspetto delleroismo molto diverso da quello
cui ci aveva abituato il patriottismo savoiardo e fascista, di cui la nostra
infanzia era stata nutrita: un eroismo votato allaffermazione di valori
quali luguaglianza, la libert del corpo e della mente.
Le mie letture mi fecero comprendere la portata di un episodio cui
avevo assistito da vicino4, a Roma, mentre giocavo con mio cugino
Luigi allHotel Imperiale in via Veneto, il 23 marzo 1944. Un piccolo
commando di partigiani aveva organizzato un attentato colpendo, con
una bomba nascosta in un carretto della spazzatura e con un successivo
attacco con pistole e bombe a mano, un reparto di soldati tedeschi che
percorrevano la centrale via Rasella. Trentadue soldati erano stati uccisi.
Immediatamente il comandante nazista diede ordine di raccogliere un
gruppo formato da dieci persone per ogni tedesco ucciso e di liquidar-
lo per rappresaglia. In realt, di uomini ne furono presi 335: militari e
partigiani, ebrei, antifascisti, ma anche civili che con la Resistenza non

2 R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953.


3 Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945), a cura
di P. Malvezzi e G. Pirelli, Torino, Einaudi, 1961.
4 In Prologo, Via Rasella dallHotel Imperiale.

6
a roma

centravano. Tradotti in una cava di pozzolana sulla via Ardeatina furo-


no trucidati con le mitragliatrici, finiti con il revolver; la cava fu sepolta
da unesplosione di mine. N quel giorno n il giorno dopo se ne seppe
nulla: i giornali, che pubblicavano solo le notizie consentite dai fasci-
sti, tacquero. Due giorni dopo, un crudele comunicato, pubblicato sul
Messaggero, diede dei fatti questa versione:
Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 elementi criminali hanno
eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna
tedesca di polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa
imboscata 32 uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e
parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti ba-
dogliani. Il Comando tedesco deciso a stroncare lattivit di
questi banditi scellerati. Nessuno dovr sabotare impunemente
la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Coman-
do tedesco, perci, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato
dieci criminali comunisti badogliani saranno fucilati. Quellordi-
ne gi stato eseguito5.

Dopo la Liberazione, il Comune band un concorso nazionale per il


monumento in memoria delleccidio delle Fosse ardeatine, che condus-
se alla costruzione del pi bellepisodio di architettura civile dellItalia
del secolo scorso, e forse uno dei pi belli in assoluto. Lo disegn un
gruppo di giovani architetti e scultori6. Accanto alla roccia tufacea della
cava, un grande parallelepipedo di calcestruzzo, come una gigantesca
lastra, copre le 365 tombe, staccato da terra da una feritoia continua;
accanto, un gigantesco gruppo scultoreo rappresenta tre uomini legati;
un cancello molto elaborato segna lingresso al complesso, da cui si
accede alla cava ripristinata, dove gli ostaggi furono raccolti e trucidati.
Molti anni dopo, quando si cominciarono a mettere in dubbio gli
ideali della Resistenza e, con essi, i metodi della lotta partigiana, si tent
di gettare fango su quellepisodio, definendolo un atto criminale dei co-
munisti (quasi riecheggiando le parole dellukase nazista). Ma la giustizia
riabilit loperato del gruppo di patrioti riconoscendone la natura di
legittimo atto di guerra7.
Parlavamo molto del comunismo, ma contemporaneamente ci diver-
tivamo alla lettura del giornale satirico anticomunista di Giovanni Guare-
schi, il Candido. Non ci piaceva quello che sentivamo definire come il

5 Il Messaggero, 25 set. 1944.


6 Gli architetti erano Nello Aprile, Aldo Cardelli, Cino Calcaprina, Mario Fiorentino, Giu-
seppe Perugini; gli scultori Francesco Coccia e Mirko Basaldella.
7 Corte di cassazione, sezione iii civile, sentenza 6 ago. 2007, n. 17.172.

7
capitolo primo

totalitarismo del comunismo, ma ancora meno quello fascista. Scavalcam-


mo un crinale decisivo: dopo una lunga riflessione comune, convenimmo
che se si fosse dovuto scegliere tra i due totalitarismi, a quello di destra
avremmo preferito quello comunista. A differenza di molti nostri coeta-
nei, nella scelta tra Stalin e Hitler non avevamo dubbi. Era un buon inizio.

3. Alberto e la politica

Un altro amico col quale dividevo emozioni e scoperte era Alberto


Durante. Anche con lui si discuteva molto di politica. Era socialista,
ogni giorno comprava lAvanti. Io ero ancora oscillante: propendevo
verso una sinistra forse pi vicina al Pci che ai socialisti. Ma bisogna
dire che allora (eravamo negli anni Cinquanta) i socialisti erano molto
diversi da quelli che abbiamo conosciuto dagli anni di Craxi in poi. Con
Alberto cominciai a leggere i primi libri sul movimento operaio.
Il nostro preferito era un libro di Edouard Dolleans, La storia del
movimento operaio. Limpostazione di Dolleans era pi vicina a Proudhon
che a Marx, meno scientifico e pi sentimentale. Forse questo dava
una particolare concretezza alla sua descrizione dello sfruttamento nel
sistema capitalistico, dei tentativi dei proletari di migliorare la loro con-
dizione desistenza, delle sanguinose repressioni attraverso le quali si
erano via via affermati i loro fondamentali diritti, di organizzazione e di
sciopero. In assenza di questi diritti, la loro condizione era di servi.
I proletari cominciai a capire, ma poi fu la lettura di Marx a chia-
rirmi pi precisamente le idee disponevano di una sola forza per
combattere con armi quasi pari il padrone: la possibilit di gestire col-
lettivamente la loro unica ricchezza, la forza lavoro. Solo questo poteva-
no opporre al proprietario dei mezzi di produzione, del capitale. Per
farlo, dovevano necessariamente essere solidali, pronti al sacrificio dello
sciopero. Questultimo rischiava, se prolungato, di minacciare le stesse
condizioni di sussistenza delle famiglie proletarie. A sua volta, quindi,
pretendeva una solidariet pi ampia: quella degli altri operai, delle fab-
briche nelle quali i compagni continuavano a percepire il salario.
Ad Alberto e a me interessava anche la cultura architettonica. Leg-
gevamo con attenzione le riviste specializzate, partecipavamo a incontri
organizzati da studenti della facolt di architettura, culturalmente pi
vivaci dei nostri colleghi politecnici. Lessere informati su ci che avve-
niva fuori dallo stretto ambito dominato dal regolo calcolatore e dalla
tavola dei logaritmi ci diede momenti di gratificazione. Cos fu quando
lIstituto organizz un viaggio nei paesi scandinavi, la cui produzione

8
a roma

urbanistica e architettonica era allora molto studiata dagli architetti


italiani. In quel momento storico a differenza di adesso essere archi-
tetti comportava un forte impegno civile. Il messaggio della Resistenza,
la volont di impiegare ogni strumento per costruire una societ pi
giusta erano molto sentiti. Non era ammissibile praticare unedilizia
(e a maggior ragione unarchitettura) che non fosse connessa a una vi-
sione della citt e momento della sua costruzione. Da questo punto di
vista, i paesi scandinavi ci sembravano un modello esemplare.
Nel corso del viaggio, Alberto ed io, a differenza degli altri colleghi
e degli stessi professori, sapevamo che cosa cera da vedere e perch in
Danimarca e in Svezia; per gli altri linteresse massimo era rappresen-
tato dalle fantasticherie sulla facilit di rapporti sessuali con le donne
scandinave. Vedemmo Copenhagen, Malm, Gtebrg, e Stoccolma,
naturalmente, con i suoi nuovi quartieri; infine, dopo un lungo tragitto
in pullman attraverso verdissime foreste, Oslo. Avevamo preparato un
piccolo dossier con gli articoli delle riviste, soprattutto Urbanistica di
Giovanni Astengo. Era lunica documentazione seria disponibile, e cos
fummo il riferimento per quei pochi tra noi che volevano conoscere le
citt visitate dal punto di vista dei nostri interessi di studio.
La Scandinavia ci piacque moltissimo, la Svezia soprattutto, della
quale visitammo parecchio. Ammiravamo il modo in cui gli scandinavi
consideravano la natura: disegnavano i loro quartieri in modo che que-
sta fosse sempre presente, ma rispettandone i segni; consideravano ele-
menti del disegno gli alberi, i massi affioranti dal terreno. Ammiravamo
lattenzione alle esigenze della vita domestica degli abitanti, lintelligenza
con la quale provvedevano ai servizi collettivi, che potevano far rispar-
miare tempo e soldi alle famiglie: le lavatrici di caseggiato, gli stenditoi
comuni, gli angoli per i picnic, e i giochi per i bambini e i ragazzi; su su,
fino ai complessi scolastici perfettamente integrati alle aree residenziali,
alle case per anziani, alle attrezzature sanitarie, ai musei. Ammiravamo
la diffusione di quello che pi tardi si chiamer welfare urbano, le condi-
zioni di equit nelle quali viveva (cos almeno ci sembrava) la maggio-
ranza della popolazione.
Allora non ci domandavamo chi pagasse tutto questo: se gli abitanti
di qualche lontana regione nellAfrica o nellAsia, che pagavano il be-
nessere dei paesi colonialisti come il Belgio e lOlanda, il Regno Unito e
la Francia, oppure i traffici consentiti dalla posizione di neutralit della
Svezia in molte guerre. Intanto, come giovani urbanisti (o ingegneri e
architetti) ci sembrava che ci fosse moltissimo da imparare per fare me-
glio il nostro futuro mestiere. E ci stupiva che loro, invece, delle nostre
architetture invidiassero la fantasia e gli svolazzi.

9
capitolo primo

Eravamo ancora studenti quando affrontammo le prime esperienze


professionali. Un signore milanese ci commission larredamento di un
appartamentino vicino alla stazione Termini. Progettammo due piccole
sedi di unagenzia di viaggi. Questa esperienza mi fece conoscere alcuni
falegnami molto simpatici, che mi insegnarono ad apprezzare il legno e
mi regalarono dei campionari che conservai a lungo.
Ma lasciammo presto larredamento. Il grosso del nostro lavoro
divent il calcolo delle strutture di cemento armato. I miei colleghi
erano in contatto con un paio di piccole imprese di costruzione, che ci
commissionavano i calcoli delle semplici gabbie di calcestruzzo delle
palazzine e dei villini che costruivano. La tecnica di calcolo era molto
semplice, se nasceva qualche problema, Mim Del Vecchio, uno del no-
stro gruppo, era sempre in grado di risolverlo.
Una volta ci capit unoccasione importante. Il mio amico Peppe
Loy era entrato nellimpresa di costruzioni del suocero (una grossa
azienda, con grandi lavori in tutta Italia). Si trattava di partecipare allap-
palto-concorso per gli edifici della Fiera del mare di Genova. Larchitet-
to era un progettista qualificato e serio, a noi affidarono i calcoli delle
strutture. Lavorammo bene. Limpresa si aggiudic i due lotti pi gran-
di. Uno di questi era costituito da un certo numero di padiglioni molto
vasti, quadrati, ciascuno con un lato di circa quaranta metri. Secondo
il progetto, ogni quadrato era coperto da una grande cupola; quattro
robuste passerelle collegavano i quattro gruppi di pilastri agli angoli
delle cupole. Per queste lunghe passerelle impiegammo travi in cemento
armato precompresso, calcolate e disegnate da Mim.
Un giorno ci telefonarono allarmati. Tirando i primi cavi si erano
staccati alcuni pezzi di calcestruzzo in corrispondenza degli ancoraggi.
Saltammo sul primo treno. Arrivati a Genova angosciati alle sei del mat-
tino, ci precipitammo in cantiere, andammo al banco del ferraiolo, dove
si preparavano i cavi, e in particolare gli ancoraggi nelle testate delle tra-
vi. Mim si accorse subito che non li avevano realizzati secondo i nostri
disegni: lerrore era dellimpresa, non di noi progettisti. Respirammo.

4. Federico Gorio e la civilt urbanistica

Non sapevo che cosa fosse lurbanistica finch non incontrai Federico
Gorio. Federico era assistente dellunico professore di urbanistica, Cesa-
re Valle, autorevole funzionario del Ministero dei lavori pubblici (presi-
dente della sezione urbanistica del Consiglio superiore dei lavori pubblici,
il supremo organo tecnico consultivo dello Stato, del quale anni pi

10
a roma

tardi divenni membro). Di frequente, le lezioni le teneva lo stesso Gorio,


ed era ancora lui che, sempre presente in istituto, seguiva noi studenti.
Lurbanistica mi piacque subito. Mi piaceva il forte intreccio tra di-
mensione tecnica e professionale e quella sociale e politica, testimoniato
dalle esperienze alle quali Gorio aveva partecipato e di cui ci raccontava.
Tornato dal campo di concentramento in India dove era stato rinchiu-
so dagli inglesi dopo la sconfitta italiana in Africa, Gorio era stato assunto
dallUsis, un servizio di informazioni culturali degli Usa, con sede a Ro-
ma. L aveva partecipato a progetti che ci appassionavano molto: si era
occupato di edilizia abitativa pubblica, nellambito di un progetto pilota
messo a punto per affrontare la questione della povert nel Mezzogiorno,
in particolare il risanamento sociale ed edilizio dei Sassi di Matera.
Nel dopoguerra infatti, lItalia e il mondo avevano scoperto, dopo
la parentesi fascista, la questione del Mezzogiorno: cio il fortissimo
divario tra le regioni meridionali e quelle centrali e settentrionali, che
faceva parlare dun vero dualismo. A questo si intrecciava la questio-
ne agraria, che aveva nel Mezzogiorno sue caratteristiche peculiari. Il
nodo di entrambe le questioni era nel modo in cui si era formato, nel
corso dei secoli, lassetto economico e sociale delluna e dellaltra parte
dItalia. Nel Sud non cera stata accumulazione capitalistica, cio reinve-
stimento della ricchezza prodotta nello stesso processo produttivo. Non
era diventata egemone una classe borghese, legata allattivit impren-
ditoriale, ma dominatrice era rimasta la classe dei proprietari fondiari:
a differenza della prima, i signori non reinvestivano in imprese eco-
nomiche, ma potevano limitarsi a consumare, nel lusso e nello spreco,
i redditi che estraevano dallo sfruttamento dei contadini. Questi ultimi
costituivano il grosso delle classi lavoratrici, erano legati per la loro sus-
sistenza alle terre che la rapacit del signore consentiva loro di coltivare.
La formazione dellunit dItalia non aveva appianato questa sostan-
ziale differenza: il cemento dellunificazione era stato costituito dallalle-
anza tra la borghesia del Nord con le classi dominanti del Sud, legate al-
la rendita e non al profitto, allo sfruttamento delle risorse esistenti (e del
lavoro servile), non alla formazione di nuove vie per produrre ricchezza.
La stessa costituzione del regno unitario era stata vissuta dalle popola-
zioni del Sud come una conquista da parte dei piemontesi: il brigan-
taggio ne fu la conseguenza, la repressione il prezzo. Si erano formate
estese sacche di miseria profonda. Questa realt, sopravvissuta fino agli
anni del dopoguerra, fu messa in luce da una bellissimo libro, Cristo s
fermato a Eboli, di Carlo Levi: uno scrittore che, in quanto sospettato di
attivit antifasciste, era stato confinato in un paesino della Lucania dove
aveva appreso, vivendole, le condizioni del Mezzogiorno.

11
capitolo primo

La Lucania, Matera, i Sassi furono lepicentro di quelle questioni.


I Sassi erano due grandi contigui valloni scoscesi, a forma di anfiteatro,
scavati dalla natura ai margini di altopiano delle Murge, entrambi (il Sas-
so Caveoso e il Sasso Baresano) sede di preistorici insediamenti rupestri.
Le grotte, completate da povere strutture edilizie in superficie aggrappa-
te ai costoni, erano state per secoli le abitazioni di famiglie contadine. A
partire dal Settecento la citt si era espansa sullaltopiano, ma i Sassi era-
no rimasti immutati fino ai nostri giorni. I contadini vivevano nei Sassi
e lavoravano in campagna, nelle lontane terre del latifondo: si lavorava
da stelle a stelle, si lasciava labitazione prima dellalba, la si ritrovava
dopo il tramonto. Uomini e animali vivevano insieme, in condizioni
igieniche spaventose. Un indice parla per tutti: la mortalit infantile era,
nel 1948, di 436 morti su 1000 nati vivi. Si apr un dibattito:
Da una parte una sorta di nostalgia regressiva per un
ritorno a forme sociali precapitalistiche, con la mitizzazione
della filosofia della miseria, delletica grandiosa del fato dei
contadini. Dallaltra, la denuncia dei Sassi come vergogna
nazionale, sede di inaudita miseria. E, infine, il valore formale,
storico-ambientale-paesaggistico dei Sassi e delle chiese rupestri
scavate sui fianchi del burrone8.

Una missione finanziata dagli Usa condusse una serie di indagini.


Si defin un programma, che prevedeva la realizzazione di alcuni borghi
agricoli nella pianura e lassegnazione ai contadini dei terreni espropriati
ai latifondisti.
In questo quadro, Gorio partecip alla progettazione del borgo La
Martella.
Mi piaceva moltissimo lo sforzo di riprendere, in termini attuali,
elementi della tradizione abitativa, quali la prossimit della stalla allabi-
tazione; laggregazione per nuclei, ciascuno caratterizzato dalla presenza
di un forno comune; lasciutta modestia dei materiali e delle forme; la
cura negli elementi di arredo; larticolazione dei nuclei sulle gibbosit
del territorio e laggregazione dellinsieme attorno al nucleo dei servizi9.
Come spesso succede in Italia (adesso accade molto di peggio), al
buon programma e allottimo progetto urbanistico ed edilizio non
corrispose la politica. Il nucleo dei servizi non fu completato, i terreni

8 V. De Lucia, Se questa una citt. La condizione urbana nellItalia contemporanea, Roma, Don-
zelli, 2006, p. 10.
9 Al progetto parteciparono anche Ludovico Quaroni, Michele Valori, Pietro Maria Lugli,
architetti, e lingegner Mario Agati.

12
a roma

del latifondo non furono espropriati e concessi ai contadini. Allopposi-


zione della Dc, che vedeva nel progetto sociale una impronta bolscevica
(volete fare un colkoz, dicevano), si aggiungeva la diffidenza comunista
nei confronti di un progetto di matrice sociologica americana.
Gorio aveva promosso e curato ledizione originale del Manuale
dellarchitetto (1946): un manuale, redatto sulla base di materiali del bra-
vissimo architetto Mario Ridolfi, che insegnava ad architetti, ingegneri e
geometri a costruire correttamente.
Costruire correttamente: questo poteva essere il motto di Gorio. Per lui,
larchitettura non aveva senso se non a tre condizioni: di essere concepi-
ta avendo la maggiore consapevolezza possibile del sito, della sua storia,
della societ che lo frequentava; di definire il progetto con la massima
accuratezza tecnica, tenendo conto delle tecnologie impiegabili, del
livello di qualificazione delle maestranze, della necessit di tutte le parti
di funzionare nel tempo, con la massima attenzione alle parti delledifi-
cio che diventano elementi della citt; infine, di progettare ledificio con
la consapevolezza che si trattava di aggiungere un mattone a un edificio
collettivo, la citt.
Lavorai con Gorio alluniversit, poi partecipando con lui a qualche
concorso di progettazione urbanistica, poi ancora al Centro studi della
Gescal, nel quale mi chiam a collaborare.

5. Barbara e limpegno sociale

In questo racconto della mia vita ho scelto di lasciare sullo sfondo gli
aspetti pi privati. Tuttavia il motore di molte scelte di vita costituito
spesso da rapporti con altre persone: rapporti di amicizia, di discepolato
e di fraternit, e rapporti damore. Cos fu il mio amore per Barbara, poi
divenuta mia moglie e madre dei miei primi cinque figli: a esso legato
il mio avvicinamento a quegli impegni che oggi chiameremmo solidari-
stici, attivit di matrice culturale cattolica volte a intervenire in pratiche
di assistenza sociale. Andavamo nelle zone pi povere ed emarginate
della citt, portando alimenti, vestiti, medicine.
Fu unesperienza importante, per pi ragioni. Conobbi la miseria
delle borgate di Roma, sentii lodore di quegli insediamenti poverissi-
mi, abitati da unumanit dolente formata da immigrati delle campagne
dellAbruzzo, del Lazio, delle Marche e della Campania, cacciati dalla
crisi dellagricoltura e attirati dalla grande domanda di manovalanza
per ledilizia. Era lumanit descritta da Pasolini, dove ai muratori si
mescolavano, nei luoghi e nelle vite, i piccoli malviventi del borseggio,

13
capitolo primo

della ricettazione, della truffa. Le case delle borgate erano tuguri di latta
e cartone, le esigenze degli abitanti (quelle almeno cui noi potevamo in
qualche modo rispondere) del tutto elementari.
Sradicati dalle loro campagne, allontanati dai loro mestieri e dalle
loro piccole comunit, approdavano ai margini in tutti i sensi di
una metropoli che costruivano a vantaggio della speculazione. Furono
unesperienza e unemozione analoghe a quelle dellincontro con il cor-
teo degli operai in sciopero, a Napoli, sotto il ponte di Chiaia, ma molto
diverse per i soggetti che scoprivo. Due strati sociali, entrambi vittime
del sistema capitalistico. Ma della classe operaia si percepiva la centralit,
espressa nel rigoroso e determinato silenzio del loro disciplinato corteo;
del sottoproletariato delle borgate si afferrava subito invece a partire
dallodore la condizione di emarginazione, sullorlo che separa la civil-
t e il benessere dallannientamento.
Nelle riunioni che organizzavamo per ragionare e discutere, conob-
bi un approccio diverso ai temi della politica. Le chiacchiere con gli
amici di piazza Ungheria, i lunghi colloqui con i colleghi delluniversit
vertevano pi sulla meccanica della politica, sugli avvenimenti esterni,
che sulle sue matrici ideali. Nel gruppo di cattolici di sinistra che con
Barbara frequentavo10, invece, si ragionava e si studiava per compren-
dere meglio i contenuti della politica come attivit morale del governo degli
uomini. Il tema sotteso era il rapporto tra cattolicesimo (e pi in gene-
rale la dimensione religiosa) e il movimento operaio (e in particolare il
comunismo). Le esperienze dei preti operai, la letteratura francese del
personalismo (Maritain e Mounier), le pubblicazioni in Italia delloli-
vettiano movimento di comunit erano i fili conduttori. Guardavamo
al comunismo come a un pericolo e, al tempo stesso, come a una spe-
ranza. Per dei giovani della tranquilla borghesia, come noi eravamo, che
la domenica andavano a messa e nelle cui famiglie si leggevano giornali
intrisi di anticomunismo, era difficile farci i conti.
Una scoperta fu la rivista Esprit: ricchissima di saggi, essa era
espressione di un gruppo, fondato dal filosofo Emmanuel Mounier, cri-
ticamente vicino ai comunisti, molto impegnato in una riflessione che
da un lato si riallacciava al pensiero cattolico pi audace (Teilhard du
Chardin) e a quello della tradizione riletta in chiave anticapitalista (Char-
les Peguy), dallaltro militava nellazione politica impegnandosi su temi
come la Resistenza antifascista prima, la lotta contro il colonialismo e le
segregazioni poi.

10 Ricordo tra loro Piero Scoppola, Fabio Fiorentino, Rocco Cappardo, Donatella Pedace.

14
a roma

6. Pubblicista

Nellambito di questo ultimo gruppo di amici iniziai, per cos dire,


lesperienza di pubblicista.
Nel 1953 era uscita una rivista, Nuova generazione, espressione
di un gruppo di giovani che si collocavano allestrema sinistra nella Dc:
scrissi una lettera alla redazione, che venne pubblicata, in cui indicavo
quelli che a mio avviso erano i limiti e le ambiguit della loro posizio-
ne11. Seppi poi che la lettera era stata considerata come una critica di
parte comunista.
Successivamente, con Fabio Fiorentino ne scrissi unaltra in replica
a un articolo di Paolo Spriano apparso sul settimanale culturale del Pci,
il Contemporaneo, nel quale si sollevavano riserve sulle posizioni dei
francesi cui noi invece eravamo vicini: Spriano li definiva profeti disar-
mati, cio inefficaci12. Noi, naturalmente, li difendevamo. Il direttore
Carlo Salinari ci cerc e volle incontrarci, probabilmente per capire chi
eravamo. Pubblic la nostra lettera con grande evidenza: apertura in
prima pagina13. Nel numero successivo pubblic una replica di Valenti-
no Gerratana14.
La terza esperienza fu pi impegnativa, fu anzi allorigine di una
svolta decisiva nella mia vita. La redazione di Esprit aveva avviato
la preparazione di un numero speciale sullItalia. Nella politica italiana
qualcosa stava cambiando. Sul tema della pace si profilava un avvicina-
mento tra mondo cattolico e partito comunista. Nella Dc personalit
di un certo peso e gruppi di giovani cominciavano a guardare fuori dal
loro partito, verso sinistra. Ebbe un effetto dirompente il voto del
parlamento sulla costituzione della Comunit europea di difesa, vista a

11 E. Salzano, La volont di comprensione non copra equivoci interessi, Terza generazione, 2


[1954].
12 P. Spriano, La campana di Olivetti, Il Contemporaneo, 4 (17 apr. 1954). La sintesi dellar-
ticolo contenuta nel sommario era: Il movimento di Comunit recluta tutti i suoi quadri tra
gli intellettuali liberali, liberalsocialisti, socialdemocratici. Su ciascuno di essi cala silenziosa la
campana di vetro della Olivetti & C..
13 F. Fiorentino, E. Salzano, Cattolici e comunisti, Il Contemporaneo, 11 (5 giu. 1954). La
lettera fu presentata nel seguente modo: Con la pubblicazione di questa lettera dei cattolici
Edoardo Salzano e Fabio Fiorentino intendiamo offrire un nuovo contributo al dibattito dei
rapporti tra mondo comunista e mondo cattolico. Intendiamo sviluppare e approfondire que-
sta indispensabile ricerca.
14 V. Gerratana, La critica dei miscredenti, Il Contemporaneo, 12 (12 giu. 1954). In sintesi,
larticolo sosteneva: Per porre su nuove basi il dibattito tra due forze decisive della coscienza
contemporanea occorre superare il pregiudizio idealista che ha isolato le correnti pi avanzate
della cultura cattolica.

15
sinistra come unarma per la guerra contro lUnione sovietica. Si accen-
tuava intanto lattenzione del Pci nei confronti di ci che si muoveva
nellarea cattolica.
Il numero speciale di Esprit fu intitolato, significativamente,
LItalie bouge, lItalia si muove. Fu preparato da un vasto lavoro di
consultazione di intellettuali italiani, invitati a rispondere a un ampio
questionario. Anche noi (grazie ai contatti che Fabio aveva preso con la
rivista) incontrammo il suo direttore, al Caff Ruschena sul lungotevere.
In seguito a quel colloquio scrissi un lungo pezzo, in risposta alle do-
mande del questionario. Lo spedii: ne furono pubblicati numerosi pas-
saggi, soprattutto sul rapporto tra comunisti e mondo cattolico15

15 LItalie bouge, I Enqute, Esprit, xxiiime anne, 9, sep.-oct. 1955, p. 1396-1446, passim.

16
Capitolo secondo
Un nuovo mondo si apre

1. Franco Rodano

Mentre ragionavamo sulla nostra collaborazione alla rivista francese,


Fabio mi disse: Bisogna che conosciamo Franco Rodano, gli chiedia-
mo di rispondere al questionario .
Prendemmo appuntamento e andammo da lui. Fu un incontro che
cambi molto delle mie convinzioni, della mia conoscenza, delle mie
azioni.
Abitava in una bellissima villa silenziosa, in via di Porta Latina, im-
mersa in un ampio giardino con alberi secolari e piante di rose. Sapevo
poco allora di Franco Rodano. Sapevo che, durante la Resistenza, ave-
va fondato il Movimento dei cattolici comunisti. Dopo linizio della
guerra fredda aveva ricevuto dal Vaticano un decreto di interdetto (dai
sacramenti), era entrato con i suoi nel Partito comunista, aveva un ruo-
lo rilevante come pensatore.
Ci ricevette in una grande stanza, dalle spesse mura e dalle ampie
finestre sul giardino, un cesto colmo di petali di rose, moltissimi libri
alle pareti, una piccola scrivania con oggetti accuratamente sistemati.
Parl soprattutto Fabio: gli illustr il progetto del numero di Esprit
sullItalia e gli chiese di collaborare rispondendo al questionario.
Rodano fu estremamente critico. Fece domande su alcuni nodi
della politica. Coinvolgevano soprattutto il discrimine tra una posi-
zione riformista (correggere gli errori del sistema vigente) e quella
rivoluzionaria (proporsi di costruire una societ interamente nuova).
A questo discrimine corrispondeva la decisione a favore di quale dei due
blocchi schierarsi, se quello egemonizzato dellUrss o quello Atlantico.

17
capitolo secondo

Le posizioni intermedie, le terze forze, non avevano, secondo lui,


senso: esprimevano solo incertezze e timidezze intellettuali o morali.
E ancora, secondo Rodano, la posizione di Esprit, le domande del
questionario, nonostante la nobilt delle intenzioni, erano decisamente
collocate su una posizione che a lui sembrava errata e pericolosa. Fabio
via via si rivelava sempre pi riformista. Io parlavo poco, ero pieno
di perplessit e di dubbi. Le argomentazioni di Rodano mi colpivano
molto, e cos il modo in cui intrecciava considerazioni sulla storia e sul-
la filosofia, sui grandi princpi e movimenti dello spirito e sulle vicende
politiche e sociali pi vicine. Mi faceva vedere le cose sotto unangola-
zione e una prospettiva che forse avevo intuito, ma mai avevo lette cos
chiaramente.
Ci accomiatammo, tornammo a casa. Fabio deluso, io molto penso-
so. Fu dopo questo colloquio che completai le mie risposte al questio-
nario di Esprit. Le inviai anche a Rodano, accompagnandole con un
biglietto di ringraziamento per lincontro.
Dopo qualche tempo mi telefon, mi chiese di andarlo a trovare.
Mi disse che stava lavorando a una nuova rivista politica, e mi chiese di
collaborare.
Frequentai a lungo Franco Rodano. Poco alla volta imparai la sua
storia, conobbi gli eventi ai quali aveva partecipato da protagonista;
alcuni, quelli che caddero nei periodi in cui lavoravo con lui, in tempo
reale; altri, i pi, attraverso brevi racconti suoi o dei suoi pi vecchi
amici; infine, con la lettura dei due volumi che sua moglie Marisa de-
dic alla loro vita in comune16 e che mi hanno fatto comprendere la
complessit, la ricchezza, la verit della sua vita e del suo ruolo nella
Storia.
La casa in cui ci incontravamo, la villa tra via di Porta Latina e via
San Sebastiano, era stato il luogo nel quale si erano riuniti in clandesti-
nit, durante loccupazione nazista, i massimi dirigenti del Pci e degli
altri partiti antifascisti per discutere la ricostruzione della vita politica
in Italia, le tattiche per la Resistenza e le strategie per il dopoguerra.
Seppi pi tardi della vita errabonda e clandestina che i miei amici
avevano patito a Roma, negli anni bui delloccupazione nazista della
capitale, tra soffitte di conventi e alloggi di amici fidati, con pacchi di
manifestini e qualche revolver e bomba a mano; seppi dei rischi, degli
eroismi, dei martri, prezzo che il gruppo cui appartenevano Franco e
Marisa pag per fedelt ai princpi e costanza nellattivit politica.

16 M. Rodano, Del mutar dei tempi, 2 vol., Roma, Memori, 2008.

18
un nuovo mondo si apre

Seppi pi tardi che nella loro abitazione cerano stati i primi con-
tatti tra tre personaggi che furono un riferimento costante per Franco,
negli anni in cui lo frequentai: Palmiro Togliatti, il leader indiscusso
del Partito comunista italiano; don Giuseppe De Luca, uomo di gran-
de cultura e religiosit, emissario di quegli ambienti del Vaticano che
portarono al papato di Giovanni xxiii; Raffaele Mattioli, il grande
banchiere e intellettuale, coinventore dellIri e fondatore della Banca
commerciale, che aveva protetto durante la Resistenza uomini come
Ugo La Malfa e Giorgio Amendola, e creato con leditore napoletano
Ricciardi la pi grande e rigorosa antologia della letteratura italiana
(era stato anche lamico che, una ventina di anni prima, aveva consi-
gliato a mio padre di dichiarare fallimento, dopo la crisi dellimpresa
di mio nonno Eduardo).
Frequentando Franco e Marisa vissi, quasi in presa diretta, episodi
significativi della vita politica italiana. Alla costruzione di alcuni contri-
buii personalmente, a partire dai lavori che facemmo insieme: quelli in
particolare che avevano a che fare con la rendita urbana e con il ruolo
degli spazi pubblici nella citt e nella societ. (Ma su questultimo ar-
gomento torner con ampiezza pi avanti, perch costituisce un filone
importante della mia attivit, lo stesso intorno al quale sto lavorando
anche adesso, mentre scrivo queste pagine).

2. In quegli anni, nel mondo e in Italia

Verso la met degli anni Cinquanta qualche spiraglio di novit sembra-


va aprirsi, nellItalia e nel mondo, qualche incrinatura nella rigida con-
trapposizione tra i due blocchi. Il mondo era spaccato tra due realt
statuali, politiche, economiche, ideologiche, facenti capo luna allUrss
(Unione delle repubbliche socialiste sovietiche), laltra agli U sa .
La guerra contro la Germania di Hitler e i suoi alleati italiani e giappo-
nesi era stata vinta dallalleanza tra Gran Bretagna, Russia e Usa. Ma gi
allindomani della seconda guerra mondiale, nel marzo 1946, Winston
Churchill, premier del Regno Unito, aveva pronunciato a Fulton, nel
Missouri, quel discorso nel quale per la prima volta si adoperava il ter-
mine cortina di ferro17. Un anno dopo, nel marzo 1947, il presidente

17 In unintervista, il leader dellUrss Iosif Stalin comment quel discorso: Lo giudico un


atto pericoloso, diretto a seminare i germi della discordia tra gli stati alleati e a rendere difficile
la loro collaborazione, Pravda, 13 mar. 1946.

19
capitolo secondo

degli Usa lanciava quella che sarebbe stata definita, dal suo nome, la
dottrina Truman: la politica di contenimento dellespansione del co-
munismo nel mondo, attraverso la costituzione di un blocco militare
(il Patto atlantico) e il sostegno economico agli stati europei ove i par-
titi comunisti minacciavano di prendere il potere (il Piano Marshall).
La replica dellUrss era stata immediata: un blocco militare e una pi
viva ingerenza negli stati satelliti, gravitanti nellorbita di Mosca.
Il rischio implicito nella rottura dellalleanza antinazista era la
guerra: una terza, devastante guerra mondiale, questa volta dotata fin
dallinizio del nuovo armamento nucleare sperimentato dagli Usa a
Nagasaki e Hiroshima e rapidamente adottato anche dallUrss.
Perci, in quegli anni, era sorta una forte aspirazione pacifista.
E perci, in quegli stessi anni, si era manifestato un interesse di na-
zioni e stati non direttamente coinvolti nellorbita delluna o dellaltra
delle due potenze maggiori a consolidare una propria autonomia. Ini-
ziative comuni delle diplomazie dei due blocchi contrapposti per ten-
tare le vie della pace (prima tappa, il disarmo atomico), e altre dei pae-
si del Terzo mondo (cos si cominci a definire i paesi non allineati)
trovarono sbocchi significativi proprio verso la met del decennio.
Nel 1955 ebbe luogo a Ginevra un primo incontro tra i massimi
esponenti degli Stati dellalleanza anti nazista (Usa, Urss, Gran Bre-
tagna e Francia). Lo stesso anno, in Indonesia, nacque il Terzo mon-
do. Per la prima volta si riunirono nella Conferenza di Bandung i
paesi che non si riconoscevano n nel mondo dominato dalleconomia
di mercato n in quello governato da una rigida economia statalizzata:
stati e movimenti di liberazione nazionale di paesi dellAsia, dellAfrica
e dellEuropa (la Jugoslavia di Tito) che volevano essere autonomi ri-
spetto ai due blocchi.
Anche in Italia qualcosa stava cambiando, soprattutto nel mon-
do cattolico. La collaborazione con i comunisti era una compo-
nente essenziale per chiunque volesse operare sia, nel mondo del
lavoro, a sostegno alle classi lavoratrici sia, nel campo delle grandi
questioni mondiali, per sconfiggere la prospettiva di guerra ster-
minatrice. Ma lorientamento del Vaticano (era papa Eugenio Pa-
celli, Pio xii ) era violentemente anticomunista. Ecco quindi le
numerose condanne di ogni iniziativa che, dal clero o dalle or-
ganizzazioni sociali cattoliche, violasse la pregiudiziale anticomu-
nista. Furono gli anni nei quali furono pesantemente sconfessati
personaggi come don Primo Mazzolari, un parroco che diffon-
deva un pensiero di forte impegno sociale, e don Lorenzo Milani,
autore della splendida iniziativa di formazione descritta nel libro

20
un nuovo mondo si apre

Esperienze pastorali18, e soprattutto di Lettere a una professoressa19, un libro


che anim parte rilevante del Sessantotto.
Nella Dc, lopposizione alla linea dominante si espresse in modo
esplicito in occasione del dibattito parlamentare sulladesione dellItalia
allUnione europea occidentale: un dispositivo militare che avrebbe con-
sentito il riarmo della Germania occidentale, ostacolato la riunificazione
delle due parti nelle quali era stata divisa la nazione tedesca e costituito
una palese iniziativa di contrasto con lUrss, nel momento stesso in cui
si tentava di avviare iniziative di distensione e di collaborazione verso il
disarmo atomico e la pace.
in questo quadro che nacque liniziativa politica e giornalistica alla
quale Franco Rodano mi invit a collaborare, avviando un mutamento
profondo nella mia vita.

3. La rivista il Dibattito politico

Stava nascendo una nuova rivista, il Dibattito politico. Due deputati de-
mocristiani avevano votato contro ladesione dellItalia al Trattato militare
europeo ed erano stati radiati dal loro partito. Si trattava di Mario Melloni
e Ugo Bartesaghi. Il primo era stato partecipe della Resistenza a Milano;
giornalista (aveva diretto il Popolo, quotidiano della Dc), cattolico di si-
nistra vicino alle posizioni della rivista Esprit, fervido antifascista e con-
vinto avversario delle ingiustizie sociali, uomo spiritosissimo ed elegante,
avrebbe scritto sulla nuova rivista gustosissimi corsivi firmandosi emme.
Prosegu pi tardi, firmandosi Fortebraccio sullUnit. Completamente
diverso come cultura e atteggiamento era laltro compagno davventura,
Bartesaghi: sindaco di Lecco, austero e rigorosissimo, gi accusato nel suo
partito di filocomunismo per essere andato con i pescatori del lago di Co-
mo a soccorrere la gente del Delta nellalluvione del Polesine.
Contemporaneamente, un gruppo di giovani democristiani, espo-
nenti di punta delle organizzazioni giovanili della Dc (Giuseppe Chia-
rante, Lucio Magri, Ugo Baduel, Umberto Zappulli), da tempo orientati
su posizioni di sinistra vicine a quelle del Pci, avevano abbandonato il
loro partito. A casa di Franco e Marisa Rodano, che gi frequentavano,
incontrarono il gruppo (Vittorio Tranquilli, Filippo Sacconi, Tonino
Tat, Giobatta Chiesa, Franco Rinaldini, Ennio Parrelli, Erasmo Valente)

18 L. Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957.


19 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.

21
capitolo secondo

che aveva attraversato con Franco la storia dellopposizione al fascismo


e della Resistenza, lesperienza del Movimento dei cattolici comunisti
prima, della Sinistra cristiana poi, lo scioglimento di questultima e
lingresso nel Pci, e infine la vicenda culturale della rivista Lo Spetta-
tore italiano: una rivista mensile, edita da Laterza, la cui redazione era
formata da Elena Croce e altri dellarea culturale crociana, che si occu-
pavano prevalentemente della parte letteraria, e da alcuni del gruppo di
Rodano, che curavano la parte politica.
Lobiettivo del Dibattito politico era dar voce alle posizioni che
favorivano il dialogo tra il mondo cattolico e quello comunista. Il tema
immediato era la pace e la sconfitta del terrore atomico; la prospettiva
era lincontro tra due realt culturali in diverso modo interessate al su-
peramento del sistema capitalistico-borghese. Dietro cerano i colloqui
che, proprio a casa Rodano, si svolgevano tra altissimi esponenti del Pci
e del Vaticano. Ma questo lo seppi dopo.
Del rapporto stretto che legava il gruppo del Dibattito politico e il
Pci lo seppi invece subito, quando Franco mi chiese di portare a casa di
Palmiro Togliatti, nel quartiere di Montesacro, una copia appena stampata
della rivista. Un po emozionato presi la mia Vespa e lasciai la rivista alla
persona che venne ad aprirmi il cancello della piccola villa oltre lAniene.
Naturalmente accettai la proposta di collaborazione: avrei scritto solo
su ci che conoscevo, architettura e urbanistica. I primi pezzi li firmai
Cpr (Cooperativa progettisti romani): era il nome che avevamo dato al
nostro sodalizio professionale con Alberto Durante e gli altri. Mi ero
consultato con loro, era la prima volta che a uno di noi veniva fatta una
proposta simile. Decidemmo che si poteva accettare, ma che la collabo-
razione doveva essere espressione di un impegno collettivo. Ma gi dopo
poche settimane, constatato il disinteresse dei miei colleghi, firmavo col
mio nome e cognome. Ero uno dei pochi che firmava in chiaro, in-
sieme ai due direttori, Melloni e Bartesaghi, e a qualcuno dei giovani ex
Dc. In particolare, restavano coperti da pseudonimo Rodano (Michele C.
Di Pietro), Tranquilli (Valerio Trevi), Tat (Vindice Vernari), Sacconi (Leo-
nardo Castelli), la new entry Giuliana Gioggi (Giuliano Scolastici): in pratica
gli iscritti al Pci (credo anche per evitare che qualcuno in quel partito li
accusasse di costituire una fazione organizzata). Le firme esplicite erano
quindi solo quelle di ex democristiani, cui si aggiungevano quelle di due
laici sconosciuti: io e il mio amico Rocco Cacpardo.
Rocco, detto Chicco, apparteneva a quel gruppo di giovani intellet-
tuali cattolici di sinistra che frequentavo. Aveva unintelligenza molto
viva, una cultura ricca e giocata su tonalit diverse dalle mie. Aveva
ascendenze francesi che serano intrecciate ad avi siciliani. Il padre era

22
un nuovo mondo si apre

funzionario duna organizzazione internazionale che aveva base a Mon-


treal, in Canada, dove anche Chicco aveva vissuto. Aveva uno sguardo
pi cosmopolita degli altri. Il suo punto di riferimento culturale era un
gesuita canadese, padre Lonergan, di cui decantava le posizioni molto
avanzate. Anche per lui il collegamento politico culturale pi vivo erano
gli intellettuali francesi cui faceva capo Esprit, ma conosceva bene Sar-
tre e la filosofia esistenzialista.
Era molto incuriosito dal mio mondo di architetti e urbanisti. Abita-
va in un bellappartamento dei genitori, in piazza Bologna. Ci propose
di trasferire a casa sua il nostro piccolo studio (fino ad allora avevamo
utilizzato una stanzetta a casa di Mim) e ci aiut a costruire un sofisti-
cato arredamento.
Come me, ammirava molto le tesi, le iniziative e la letteratura di
Comunit, un movimento molto vivace, che faceva capo allindustriale
Adriano Olivetti, e che coniugava gli interessi per la sociologia e la filoso-
fia a quelli per lurbanistica, larchitettura, il design.
Adriano Olivetti era promotore e finanziatore di ottime esperienze.
Per molti anni finanzi lIstituto nazionale di urbanistica e la sua rivista
Urbanistica. Pubblicava a sua volta una bella rivista, Comunit, che
si occupava di tutte le questioni che gli stavano a cuore e che avevano
sullo sfondo il progetto di una societ nuova. Cera in lui una forte carica
utopistica, una grande capacit organizzativa, unattenzione estrema per
la cultura in tutte le sue espressioni. La modernissima Fabbrica Olivetti
di Ivrea, oltre a produrre le bellissime macchine da scrivere e a essere
sorretta da una rete di servizi sociali di straordinario livello, era la fucina
di un ampio gruppo di intellettuali.
Per un anno circa scrissi solo articoli in materia di urbanistica e ar-
chitettura: pezzi brevi, raramente occupavano una pagina intera. Tutti
gli articoli soprattutto quelli pi impegnativi erano il prodotto di una
discussione con Franco Rodano, di cui sempre pi mi conquistava la
capacit di intrecciare ogni argomento con le sue radici culturali, storiche,
filosofiche, politiche, vicine e remote. Ogni discussione era una lezione.
Mi sentii sempre pi legato alla rivista, e piano piano cominciai a oc-
cuparmi anche daltro: cominciai a scrivere su altri argomenti, e a parte-
cipare alle normali attivit di redazione. Scrivevo brevi note di politica
italiana e internazionale, e di economia, e mi ero assunto il compito di
illustrare i pastoni sulla politica internazionale composti da Sacconi, con
qualche vignetta satirica ripresa dalla stampa estera. Aiutavo a correg-
gere le bozze, avevo rapporti con laffascinante mondo della tipografia
(si adoperava ancora la linotype e si costruivano le pagine con pacchi di
righe di piombo fuso).

23
capitolo secondo

Quando il settimanale divent mensile proposi addirittura la nuova


copertina, che venne accettata. Un po mutuata dal modello anglosasso-
ne dellEconomist, aveva per la testata composta dai caratteri stencil,
quelli stampigliati sulle casse o sulle tavole dei concorsi di architettura
con le mascherine traforate: li avevo visti in una pubblicazione di Le
Corbusier che mi era piaciuta molto.
Cominci allora la mia passione per il lavoro di redazione, che mi
condusse a molti tentativi editoriali: qualcuno effimero, qualcuno di lun-
ga durata. Ma di questo parleremo pi avanti.
Ci che pi mi piaceva era scrivere. Pi degli articoli impegnativi mi
divertivano brevi corsivi, dalle 20 alle 60 righe, che occuparono nel tem-
po una specifica rubrica, Il rosso e il nero, su temi prevalentemente
suggeriti da Franco.
I giovani ex democristiani confluiti nel Dibattito politico avevano
provenienze e abitudini provinciali: Beppe Chiarante e Lucio Magri ve-
nivano da Bergamo e da Ferrara, Ugo Baduel da Perugia. La loro cultura
politica era sterminata, ma vivevano in un mondo dal quale ogni altra
dimensione era estranea: in particolare quella un po godereccia e spen-
sierata dei figli della buona borghesia romana.
Abitavano in un appartamento subaffittato da una certa signora Scar-
poni, vicino alla citt universitaria: un paio di stanze ingombre di pile di
giornali e di calzini sporchi. Con Rocco decisi di estrarli dal loro mondo
e di introdurli in un altro, pi arioso: almeno la domenica nelle buone
stagioni, che a Roma erano molte e lunghe. Prendemmo labitudine di
passarli a prendere con la Cinquecento di Rocco (io seguivo in Vespa)
e di portarli a Fregene, nella villa dei genitori di Barbara, la Busiriana.
L conobbero altre persone. Trascorrevano ore a discutere di un proble-
ma politico che stavano affrontando o di un articolo che stavano scriven-
do, passeggiando su e gi per il prato; ma poi chiacchieravano del pi e
del meno, facevano amicizia, si innamoravano.

4. Emergono i temi della ricerca

Sul Dibattito politico scrissi un articolo impegnativo20, capostipite di


una linea di ricerca che si sarebbe sviluppata considerevolmente negli
anni successivi. Fu in occasione del processo che vide contrapposti il

20 E. Salzano, Larretratezza economica del personale economico frena il dinamismo della Sgi, il
Dibattito politico, 77 (16 dic. 1956).

24
un nuovo mondo si apre

settimanale lEspresso e la Societ generale immobiliare, protagonista


delle peggiori speculazioni urbanistiche nella Roma papalina e democri-
stiana. Il processo era stato provocato da una serie di articoli dal titolo
Capitale corrotta=nazione infetta. Cicicov in Campidoglio, in cui il
giornalista Manlio Cancogni descriveva analiticamente e denunciava i
legami tra potere economico (la grande societ immobiliare) e potere
politico (il personale della Dc che dominava in Campidoglio).
A quella vicenda ebbi modo di partecipare, in un ruolo del tutto
marginale, col mio amico Alberto Durante. Nella sua denuncia e nella
sua successiva difesa, lEspresso era affiancato da una pattuglia di ur-
banisti (tra cui Gorio, Vittorini, Vincenzo Di Gioia, Cesare Valle) il cui
tramite con la rivista era costituito da Antonio Cederna.
Per difendere Cancogni e il suo giornale si voleva quantificare esat-
tamente il maggior valore ottenuto dallimmobiliare con una variante ad
hoc operata dal Comune di Roma per larea di propriet della societ sul
colle di Monte Mario. Bisognava misurare alcune superfici sulle tavole
del prg. Esisteva un solo planimetro (strumento tecnico per misurare
le aree su una mappa) disponibile, lo avrebbe prestato larchitetto Lu-
dovico Quaroni. Alberto ed io andammo nello studio di Quaroni in via
Frattina, misurammo le aree, calcolammo il maggior volume edificabile
ottenuto con il passaggio da una destinazione edilizia a unaltra.
Il processo si concluse in appello con la condanna del giornalista per
calunnia.
Nellarticolo sul Dibattito politico affrontavo la questione da un
punto di vista pi generale. La tesi che sostenni, e che mi sembra anco-
ra valida, che la responsabilit maggiore era quella del potere politico,
del suo asservimento alla struttura economica, e dellintreccio perverso
tra rendita urbana e profitto capitalistico. Oggi, mezzo secolo pi tardi,
sostengo (e non sono il solo) la stessa tesi nei confronti dellasservi-
mento della politica alleconomia neoliberista: in modo, ahim, molto
pi generalizzato di quanto allora fosse.
Sviluppai il ragionamento in una serie di articoli, allinizio del 1957,
dai titoli lunghi e significativi, affrontando i temi che poi rimarranno al
centro della mia attenzione. Nellarticolo intitolato La propriet privata
del suolo urbano impedisce lordinato progresso della citt e la sua organica espan-
sione urbanistica affrontavo la questione della propriet del suolo urba-
no, riprendendo largamente lallora celebre testo di Hans Bernoulli21.

21 Oggi ripubblicato, in edizione integrale: H. Bernoulli, La citt e il suolo urbano, Venezia,


Corte del Fontego, 2006.

25
capitolo secondo

In I progetti di legge sulle aree fabbricabili, non intaccando lassetto proprietario,


rinunciano ad ogni soluzione completa proseguivo il ragionamento sul terreno
legislativo22: si stavano discutendo in parlamento alcune proposte in
materia di acquisizione di aree per ledilizia economica e popolare e di
prelievo fiscale degli incrementi di rendita derivanti dalle scelte dei piani
regolatori, i primi cenni di quei tentativi di pi ampia riforma urbanisti-
ca che si manifesteranno qualche anno pi tardi.

5. Bisogno, consumo, produzione, lavoro

Nello stesso anno affrontai un tema che a partire da allora divenne


centrale sia nella riflessione del gruppo di Franco Rodano sia nel mio
specifico lavoro di urbanista: la questione dellorganizzazione del
consumo. A Franco si era riavvicinato il grande economista Claudio
Napoleoni uno dei pochissimi che abbia studiato il capitalismo e
la critica marxiana nel tentativo di guardare oltre e spesso i miei
contributi erano discussi anche con lui. Alla scuola dei miei maestri
(e grazie anche alle mie letture), avevo compreso la differenza tra il ca-
rattere specifico delle grandi funzioni delleconomia (consumo, produzio-
ne, lavoro) in relazione alla crescita delle facolt proprie delluomo, e il
ruolo che esse avevano assunto nel sistema capitalistico borghese. La
posizione che i miei amici avevano formulato, e che fu alla base della
mia ricerca successiva, ha la sua premessa in una valutazione del biso-
gno. Riprendo alcune formulazioni da un testo che Claudio Napoleoni
scrisse per le scuole medie superiori:
I bisogni umani sono molteplici, e sono suscettibili di inde-
finito sviluppo. Che i bisogni siano molteplici una circostanza
che risulta immediatamente evidente a una considerazione an-
che superficiale, della realt umana, cos come essa si presenta in
ogni momento dato. () Ma dovrebbe pure risultare chiaro che
i bisogni non solo si presentano come molteplici in ogni mo-
mento dato, ma si sviluppano anche lungo il tempo. I bisogni
delluomo di oggi non sono certo gli stessi delluomo di duemila
anni fa; e quella disponibilit di beni che nei tempi antichi po-
teva essere giudicata degna di un ricco, o magari di un sovrano,
potrebbe essere giudicata oggi intollerabile anche dal pi umile
lavoratore. () Questo sviluppo dei bisogni si presenta come

22 I due articoli sono in il Dibattito politico, rispettivamente 78 (1 gen. 1957) e 79


(16 gen. 1957).

26
un nuovo mondo si apre

illimitato, giacch il fatto stesso che certi bisogni siano stati


soddisfatti ci che fa nascere nuovi bisogni.23

E se luomo riuscito a soddisfare in qualche modo i bisogni pi


immediati, pi elementari, quelli cio che dipendono dalla sua vita ani-
male, i bisogni della sussistenza, ecco allora che
vorr poi soddisfare bisogni pi propriamente umani, come
quelli della cultura e della vita spirituale. I bisogni da soddisfare
sono imposti o suggeriti alluomo dalla sua vita fisica, dai suoi
affetti, dalla necessit di vivere in una comunit, dal suo intel-
letto, dalla sua fantasia, e, magari, dalle sue fantasticherie e dai
suoi capricci. E tutte queste fonti da cui i bisogni si formano
e si manifestano sono stimolate a produrre bisogni nuovi ogni
volta che i bisogni vecchi siano stati, in qualche misura, soddi-
sfatti. Non c limite a questo processo, n si pu immaginare
leventualit che, nella storia, si arrivi a uno stadio nel quale tutti
i bisogni possibili siano completamente soddisfatti, e nel quale
quindi luomo si possa fermare, cio, in sostanza, non vivere pi.

Il consumo lattivit economica finalizzata alla soddisfazione del


bisogno, la produzione ha a sua volta nel consumo la sua finalit. Lo stru-
mento mediante il quale luomo produce il lavoro, altra dimensione
essenziale del processo economico. Seguendo anche qui la definizione
di Napoleoni, il lavoro
, per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale
luomo consegue i suoi fini; ed strumento universale, nel senso
che esso a disposizione delluomo per ogni possibile suo fine.
I fini che luomo pu proporsi sono potenzialmente infiniti, ma
luomo, come essere finito, li pu perseguire e raggiungere solo
in un processo, passando da ogni determinato ordine di fini ad
altri ordini superiori, e intanto questo processo pienamente
umano in quanto ogni suo momento una tappa per il passag-
gio ai momenti successivi, e mai un punto di arrivo definitivo.
Corrispondentemente il lavoro, in condizioni naturali, realizza
la sua natura di strumento universale solo passando sistematica-
mente attraverso una successione di determinazioni particolari,
senza mai fissarsi in alcuna, ma anzi stando in ciascuna solo per
conseguire fini che, una volta raggiunti, lo metteranno in grado
di acquisire una maggiore efficacia come strumento e quindi
di servire per fini superiori. In questo processo naturale di

23 Questa e la citazione seguente sono in C. Napoleoni, Elementi di economia politica, Firenze,


La Nuova Italia, 1980III, p. 4 e seguenti.

27
capitolo secondo

sviluppo, c dunque un rapporto di azione reciproca tra i fini e


il lavoro: il raggiungimento del fine che arricchisce il lavoro, ed
il lavoro arricchito che consente fini pi alti24.

Questo processo naturale di sviluppo delluomo interrotto dallo


sfruttamento:
Con lo sfruttamento, infatti, il lavoro perde la sua natura di
strumento universale, in quanto viene rinchiuso entro una cer-
chia definita e invalicabile di bisogni, quella dei bisogni della vita
fisica. Quando quella parte della capacit lavorativa di un uomo
che resta ancora disponibile dopo che egli ha soddisfatto i propri
bisogni di sussistenza, e che potrebbe perci essere ordinata alla
soddisfazione di bisogni superiori, viene viceversa piegata verso
la produzione occorrente per soddisfare i bisogni di sussistenza di
un altro uomo, allora il lavoro rimane fissato entro una categoria
determinata di bisogni, il rapporto di interazione tra lavoro e fini
spezzato, il processo stesso dello sviluppo umano (almeno come
sviluppo interessante la generalit degli uomini) risulta interrotto.

Una precisa visione delluomo era quindi il presupposto filosofico


della lettura che Rodano e Napoleoni elaboravano sulla societ e sulla
sua storia. Da questa base partimmo per affrontare lanalisi della citt,
nel tentativo di individuare le ragioni della sua crisi e le possibili vie di
un suo rinnovamento. Ma per giungere a questo risultato, e percorrere
lo spazio che separa la riflessione critica sulla natura economico-sociale
del mondo attuale dai lineamenti di una adeguata politica urbanistica
fu necessario un ulteriore passaggio. Riflettendovi oggi, a quasi mezzo
secolo di distanza, esso fu possibile grazie anche allapporto di Marisa
Rodano e alle sue esperienze nella politica e nella societ.
Il lavoro teorico si intrecciava infatti strettamente con quello pratico
di Marisa, fortemente impegnata nel movimento per lemancipazione
della donna. Il suo apporto stato fondamentale per rendere la que-
stione del consumo un elemento centrale del ragionamento sulla societ
e sulla citt, che mi condusse alla ricerca sullurbanistica nella societ
attuale, sulla quale torner pi avanti. Per comprenderla necessario
tener presente che la condizione delle donne era profondamente cam-
biata nel quadro delle trasformazioni che avevano caratterizzato lItalia
dopo la guerra e la sconfitta del fascismo. Ricordiamo i tratti essenziali
di questo mutamento.

24 Questa e la citazione seguente sono in C. Napoleoni, Sfruttamento, alienazione, capitalismo,


La Rivista trimestrale, 7-8 (1963), p. 402.

28
un nuovo mondo si apre

6. Le trasformazioni nella societ e nel territorio

Il fascismo e il secondo conflitto mondiale avevano lasciato allItalia


una pesante eredit: le distruzioni di una guerra che aveva attraversato
lintero Paese, soggiornandovi a lungo; uneconomia chiusa, autarchi-
ca e tendenzialmente autosufficiente, largamente basata su unagricol-
tura spesso praticata in forme arcaiche e improduttive. Il modo in cui le
forze dominanti, che facevano capo sostanzialmente alla Dc di Alcide
De Gasperi e al partito liberale di Luigi Einaudi, affrontarono ladegua-
mento delleconomia alle condizioni di un mercato aperto provocarono
tumultuose trasformazioni nella societ e nel territorio.
Sul versante della ricostruzione, anzich adoperare gli strumenti del-
la pianificazione, si era lasciata briglia sciolta allattivit edilizia privata.
Ognuno costru dove volle, dove pi accessibili e ben serviti dalle strade
erano i terreni e dove pi forte era la domanda di case provocata dalle
distruzioni, dalla scarsit del patrimonio edilizio (nel 1931, data dellul-
timo censimento generale prebellico, 41,6 milioni di abitanti vivevano
in 31,7 milioni di stanze) e dalle migrazioni interne. La forte espansione
dellattivit edilizia svolgeva anche un altro ruolo, facilitava il passaggio
della mano dopera dallagricoltura allindustria: per un contadino era
pi facile imparare il mestiere di manovale o di muratore che quello di
operaio nella catena di montaggio.
Sul versante delleconomia, lingresso dellItalia nel mercato inter-
nazionale aveva rapidamente reso insostenibili le condizioni di gran
parte dellagricoltura e favorito invece lespansione della produzione
industriale.
La conseguenza fu che milioni di italiani furono indotti a spostarsi
dalla campagna alla citt, dalle attivit agricole al lavoro nelle fabbriche
e negli uffici, dai piccoli centri alle citt dove lindustria (Milano, Torino,
Genova) o le attivit terziarie (Roma) richiamavano occupazione.
Dal 1951 al 1971 quasi 20 milioni di abitanti cambiarono residenza.
I governi che gestirono la ricostruzione e il successivo periodo di
crescita economica (dopo la breve parentesi di quelli con la presenza
della sinistra) non governarono n luno n laltro fenomeno: si limita-
rono a stimolare la spontaneit dellimprenditoria.
Le citt in cui le migrazioni portavano nuovi abitanti crescevano
a dismisura senza regole se non quella della valorizzazione dei terreni
dei proprietari pi potenti. Estese periferie prive di servizi dilagarono a
macchia dolio. Le scelte di politica industriale, dominate dai maggiori
gruppi capitalistici del Nord, privilegiavano la produzione di beni di
consumo durevole; lenorme espansione della produzione di automobili,

29
capitolo secondo

favorita dalla costruzione delle infrastrutture stradali, impediva di in-


vestire nel trasporto collettivo, ponendo una delle pi pesanti ipoteche
sulla vivibilit delle citt e sul loro funzionamento, e sul consumo di
energia e di tempo.
Accanto alle trasformazioni dellassetto sociale e territoriale, avven-
nero trasformazioni altrettanto significative nel campo dei poteri.
La democrazia che si ricostitu dopo la Liberazione era una demo-
crazia di massa. Il quadro politico era dominato da partiti con una forte
base popolare: se i partiti comunista e socialista esprimevano soprattut-
to la classe operaia e larghi strati del bracciantato e, nelle regioni centrali,
della mezzadria, il substrato cattolico della Democrazia cristiana, e la
sua stessa storia, ne facevano linterprete, oltre che delle forze econo-
miche dominanti, anche di porzioni consistenti del mondo contadino,
dellartigianato e della piccola imprenditoria.
E dal 1946 il suffragio universale era stato realizzato nella sua pie-
nezza, estendendo il voto alle donne.
In questo quadro anche la condizione delle donne era mutata. Gi
la donna era assoggettata, senza possibilit di scelta, alle mille mansioni
del lavoro casalingo. A tutto ci si aggiungeva adesso il lavoro nelle fab-
briche e negli uffici.
Nel marzo 1958, dopo le consuete riunioni con Franco (e gli inter-
venti di Marisa) scrissi un articolo che fu intitolato Gestione domestica e
organizzazione del consumo25. La sua rilettura, a distanza di molti anni, mi
ha riportato alla memoria cose rilevanti per comprendere levoluzione
di un interesse che mi ha seguito negli anni.
Analizzavamo in primo luogo il modo in cui in Italia si svolge il
consumo.
Esso scrivevo legato strettamente alla vita familiare, e subisce
lordinamento rigidamente privatistico di questa. Una sola persona, pri-
va di ogni oggettiva qualificazione tecnica, presiede alle innumerevoli
incombenze della gestione domestica. La spesa, la scelta delle merci, la
formulazione del bilancio e la suddivisione delle sue voci, la preparazio-
ne dei cibi, la pulizia della casa, delle stoviglie, la cura degli indumenti e la
loro sostituzione, la sorveglianza dei minori anche ben oltre le necessit
della partecipazione della donna allequilibrio della vita familiare: questi
sono solo alcuni dei compiti materiali svolti, ogni giorno, dalla casalinga.

25 E. Salzano, Gestione domestica e organizzazione del consumo, il Dibattito politico, 107


(16 mar. 1958).

30
un nuovo mondo si apre

Questa attivit, mentre da un lato assolutamente empirica e non


specializzata, dallaltro avviene in forma del tutto gratuita. quindi
completamente priva di ogni metro economico, di ogni ordine
previsto, di ogni tecnica razionale, di ogni necessaria disciplina:
il servaggio delle casalinghe costrette a una fatica di cui nes-
suna remunerazione possibile viene cos a coprire la reale
e gravissima dispendiosit con il quale il servizio domestico
viene gestito.

Organizzare in forme sociali il consumo consente quindi di rag-


giungere una molteplicit di obiettivi: liberare la donna dallobbligo
del lavoro casalingo, risparmiare risorse e rendere possibile limpiego
socialmente utile di ingenti masse di forza lavoro, consentire ai lavora-
tori di ottenere, a parit di salario, maggiori e migliori consumi.
Larticolo si concludeva con una nota di pessimismo, che il mezzo
secolo trascorso pienamente conferma:
Ma pu una societ come la nostra, fondata su una strut-
tura economica torpida e anarchica, nata per liniziativa pre-
maturamente senile di una borghesia impotente, diretta da
un personale politico incapace e arruffone permettere simili
prospettive, utilizzare siffatti tesori nascosti? C, in altri ter-
mini, nel nostro sistema sociale, lesigenza di liberare le grandi
riserve esistenti di forza lavoro? Tutto ci risponde certamente
di no. Nel quadro degli attuali equilibri politici, lorganizza-
zione del consumo ove per avventura, a semplice titolo di
ipotesi, potesse in qualche misura realizzarsi coinciderebbe
fatalmente con lestromissione brutale delle braccia superflue
da attivit nelle quali, bene o male, riescono oggi a sopravvi-
vere. Per risolvere questo come altri decisivi problemi italiani il
privatismo conservatore insufficiente, i costi da esso pretesi
insopportabili.

Molti ragionamenti insomma si collegavano al tema dellorganiz-


zazione sociale del consumo e lo nutrivano: lemancipazione delle
donne, il ruolo subalterno del consumo, lindebolimento della vita
collettiva, sempre pi cancellata dal prevalere di teorie e pratiche indi-
vidualistiche.
Sul terreno del mio mestiere e della comprensione dei suoi fonda-
menti, questa linea di ricerca si svilupp negli anni successivi, in occa-
sione del lavoro sugli standard urbanistici e soprattutto in occasione
di una serie di saggi che scrissi, nel 1964 e nel 1965, sulla Rivista tri-
mestrale, che succedette al Dibattito politico, e che raccolsi poi nel
libro Urbanistica e societ opulenta. Ma su questo torner pi avanti.

31
capitolo secondo

7. Comunista

Prima di narrare delle ricadute urbanistiche del mio incontro con il


gruppo di Franco Rodano, vorrei far cenno alle ricadute che questo eb-
be sulle mie convinzioni politiche.
Lavorare con persone pi colte di me e pi vicine alla Storia (a quel-
la gi trascorsa e a quella che via via si tesseva nella politica) mi fece
comprendere moltissime cose del mondo che mi circondava. Compresi,
tra laltro, le ragioni per le quali linsegnamento di Machiavelli, ripreso
da Gramsci, aveva reso autonoma la politica da ogni altra dimensione
del sapere e del vivere, dalla religione come dalla morale.
Compresi la rilevanza del fatto che la catena del sistema capitalistico-
borghese, capovolgendo le previsioni di Marx, fosse stata spezzata nel
punto pi basso del suo sviluppo: nella Russia semiasiatica degli zar
anzich negli evoluti stati capitalistici dellEuropa occidentale. Com-
presi come, grazie a questa provvidenziale rottura e alla faticosissima
costruzione di uno Stato (quello sovietico) che aveva reso collettiva la
propriet dei mezzi della produzione capitalistica, era stato possibile
sconfiggere il nazismo prodotto dalle viscere del sistema borghese.
Compresi perch nella sua stessa nascita erano implicite le ragioni per
cui il comunismo sovietico era incapace di svilupparsi oltre le forme,
intrise di pesanti eredit autocratiche, nellambito delle quali aveva sto-
ricamente dovuto vivere. Compresi che rivoluzione non significa neces-
sariamente presa del potere con la violenza da parte di una minoranza,
ma piuttosto instaurazione di un regime sociale radicalmente diverso da
quello vigente, basato sullalienazione del lavoro e sullo sfruttamento
delluomo sulluomo; quel regime dal cui ventre sempre fecondo nasco-
no inevitabilmente fascismi e guerre.
E compresi le ragioni per le quali il compimento della rivoluzione
mondiale, al di l dei traguardi, ahim precari, raggiunti in Urss, poteva
avvenire solo a opera dei comunismi occidentali, nutriti di culture e
abitudini pi aperte alle forme colloquiali della democrazia e del plurali-
smo culturale.
Ero insomma maturo per diventare comunista: comunista italiano,
perch coglievo tutta la diversit della cultura politica del partito di
Gramsci e Togliatti rispetto a quella del comunismo sovietico e degli
altri comunismi settari dellOccidente europeo, e insieme la solidariet
con lUnione sovietica come baluardo statuale contro il prevalere del
dominio capitalistico-borghese nel mondo. Erano, tra laltro, gli anni
del tentativo dei paesi ex coloniali di associarsi per costituire un blocco
di potere autonomo rispetto ai due imperi (la Conferenza di Bandung)

32
un nuovo mondo si apre

che fu troppo presto dissolto dal prevalere dellegemonia statunitense


sui mercati mondiali.
Quando si manifestarono le prime crepe nellimpero sovietico nei
paesi occidentali a esso annessi in seguito alla conclusione della seconda
guerra mondiale , ci che mi colp dai primi resoconti giornalistici fu il
riemergere delle vecchie famiglie feudali e dei poteri reazionari sconfitti
dal blocco antifascista, e la puntigliosa narrazione del modo in cui i cit-
tadini inferociti massacravano i comunisti. Leggevo con commozione,
assieme a mia sorella Germana, i paginoni del Messaggero e la descri-
zione dei comunisti infilzati sulle punte dei cancelli di Budapest. E mi
domandavo: ma perch mai non interviene lArmata rossa per porre
termine a questo macello?
Cos, mentre molti intellettuali abbandonavano il Pci, io sentii di es-
sere ormai diventato comunista. Ma mi iscrissi molti anni dopo.

33
34
Capitolo terzo
Lavorare non stanca troppo

1. La laurea, e dopo

Gli interessi che si erano annodati attorno alla mia partecipazione al


Dibattito politico avevano rallentato la conclusione degli studi univer-
sitari. solo nel 1957 che mi laureai. Nellanno successivo mi sposai e
cominci una vita nuova. Bisognava lavorare per mantenersi. La laurea
era stata davvero deludente. La tesi (il titolo era Sistemazione urbanistica
dei Campi Flegrei) non valeva granch lavevo sostanzialmente prepara-
ta qualche tempo prima con un collega ma fu abbastanza scoraggian-
te illustrarla davanti a due professori (gli altri esaminavano altre tesi) che
chiacchieravano tra loro. Vedendoli intenti a raccontarsi i fatti loro mi
interrompevo; continui, continui! , dicevano, continuando a parlare
daltro. La cosa fin comunque con un buon voto.
Continuai a frequentare la facolt a San Pietro in Vincoli come vo-
lontario, a titolo gratuito. La mattina andavo l prestissimo per prepara-
re le diapositive per la lezione del professore Valle, titolare della cattedra
di urbanistica. Avevo cominciato a fare quel lavoro ancora da studente.
Allombra e con il sostegno di Federico Gorio avevo avviato la forma-
zione di un piccolo centro di documentazione. Con qualche collega
pi giovane di me26, preparavo le diapositive da proiettare e redigevo
le schede relative. Senza preparazione specifica, armati di molta buona
volont, ci improvvisammo documentaristi.
Avevo invece gi maturato qualche esperienza nella redazione di
riviste, quando fondammo la Rassegna dellistituto di architettura e
urbanistica: un titolo lungo per una rivista abbastanza smilza, stampata

26 Erano Umberto De Martino, Giulio Tamburini, Paolo Jacobelli, Pino Imbesi.

35
capitolo terzo

dalluniversit e alimentata dagli articoli dei docenti dellistituto. Furono


quelli, per tutti noi, i primi momenti di una carriera universitaria che
proseguimmo, fino ai livelli pi alti.
Allora, il passaggio obbligato per aspirare a diventare professori
era ancora lesame di libera docenza. Era una prova per titoli e lezione.
Mi cimentai sul tema delledilizia economica e popolare (che mi fu asse-
gnato ventiquattro ore prima della prova). Ero preparato sullargomen-
to, cucinai una buona lezione, superai lesame Uno dei membri della
commissione mi invit a illustrare lo stesso argomento al suo corso, alla
facolt dingegneria di Cagliari. Fu il mio primo volo in aereo. Ma era
ormai il 1967. Molte cose erano successe prima.

2. Lavori e lavoretti

Il lavoro alluniversit era gratis. Anche, ovviamente, quello di pubbli-


cista. Mi impegnai quindi anche nel lavoro professionale: inizialmente,
con i miei vecchi compagni della Cooperativa progettisti romani, conti-
nuai con lavoretti di piccoli progetti edilizi e calcoli di cemento armato.
Avevamo preso in affitto dei locali in via Baccina, dietro il muro della
Suburra: un ultimo piano assolato, abitato da un simpatico geco.
Per arrotondare, appena sposato, grazie a un parente di mia moglie
ebbi un incarico dinsegnamento in un istituto tecnico per periti agrari.
Insegnavo topografia. Una materia che non mi piaceva e di cui non sape-
vo niente. Preparavo le lezioni sullautobus che mi portava alla scuola, che
era appena fuori Roma: per fortuna il tragitto era lungo. Lesperienza in-
vece fu breve, e presto mi dedicai pi ampiamente al lavoro professionale.
Dalla sede di via Baccina, con una formazione di colleghi legger-
mente diversa mi spostai in un nuovo studio in via dei Leutari, tra
piazza Pasquino e Campo de fiori. L facemmo qualche bel lavoro di
progettazione urbanistica assieme al nostro maestro Gorio.
Successivamente, con Giulio Tamburini e qualche altro collega
(Mario Manieri Elia, Italo Insolera, Giorgio Ciucci, Giusa Marcialis)
aprimmo uno studio in via del Tempio, nel Ghetto. Si aggregarono al-
cuni neolaureati (Massimo DAlessandro e Maurizio Morandi).
Ci furono presto articolazioni e scissioni, dovuti a interessi diversi e
ad altre occasioni di lavoro. Giulio e io costituimmo la sezione urbani-
stica dello studio di via del Tempio, e dopo qualche tempo (con Giorgio
Ciucci, Giusa Marcialis, Umberto De Martino) ci spostammo in un ap-
partamento nel quartiere Prati, in via Montezebio: costituimmo la Stass
(Studi Associati), con una bella targa dottone lucente sulla porta.

36
lavorare non stanca troppo

3. Il piano urbanistico provinciale di Teramo e il piano regolatore gene-


rale di Giulianova

Due interessanti esperienze professionali le feci in Abruzzo, per la Pro-


vincia di Teramo e per il Comune di Giulianova. Allinizio degli anni
Sessanta si stava progettando lautostrada adriatica. Il nostro gruppo
di via del Tempio era nettamente contrario al tracciato. Gi due pesanti
infrastrutture la ferrovia e la strada statale rendevano difficile lagi-
bilit della costa e ne degradavano il paesaggio; aggiungerne una terza
significava comprometterli definitivamente. Insolera e Manieri Elia
parteciparono a un convegno promosso da Italia Nostra, a Giulianova.
I loro interventi piacquero a molti; tra gli altri, al presidente della Pro-
vincia di Teramo, Emilio Mattucci.
Mattucci era un democristiano intelligente. Aveva compreso che per
evitare guai il territorio va pianificato: bisogna comprenderne le ca-
ratteristiche, deciderne a priori lorganizzazione complessiva valutando
opportunit e rischi delle trasformazioni. Bench nessuna legge attribu-
isse alla Provincia un ruolo di pianificazione del territorio, ci incaric di
redigere uno studio, cui convenimmo di dare il nome di Piano urbanistico
provinciale. Inventammo una nostra forma di pianificazione di coordina-
mento territoriale, cercando di appoggiare le scelte che proponevamo,
da un lato, a una lettura (abbastanza empirica) del territorio, dallaltro, a
uno studio economico sociale affidato ad amici economisti un po pra-
ticoni.
Qualche anno dopo, sulla base di quel lavoro, il Comune di Giulia-
nova (un popoloso centro sulla costa in provincia di Teramo) ci chiese
di redigere il piano regolatore comunale. Ci lavorammo soprattutto
Giulio Tamburini e io.
Fu un bel lavoro. Instaurammo un ottimo rapporto con lammi-
nistrazione comunale. Il nostro principale referente era il bravissimo
assessore allurbanistica, il geometra Giuseppe Bianchetto, insegnante
di materie tecniche nella scuola media, eletto come indipendente nelle
file del Pci. Il sindaco, socialista, Romolo Trifoni, era una brava persona,
ma si occupava prevalentemente e bonariamente delle piccole richieste
dei suoi elettori (divenne pi tardi un appassionato ecologista). Un per-
sonaggio simpatico era il segretario della sezione locale del Pci, Tonino
Franchi, in bilico tra la demagogia del politico furbo e la spinta morale
verso la corretta amministrazione. Mi colp quando ci raccont del
modo in cui raccoglieva i fondi per il partito: gli iscritti agricoltori, che
erano la maggioranza, regalavano al partito una determinata quantit di
grano, che lui stesso, nel periodo della mietitura, andava a falciare.

37
capitolo terzo

Ci furono affiancati alcuni giovani professionisti locali: nel loro ufficio


si svolgeva parte del lavoro, che completavamo nel nostro studio romano,
dove avevamo assoldato due studenti capaci e motivati: Pietro Garau e
Francesco Strobbe. Il primo divent, molti anni pi tardi, direttore della
struttura dellOnu dedicata allhabitat, a Nairobi. Strobbe, invece, fu pro-
tagonista di una iniziativa della quale sono ancora oggi molto orgoglioso.
Senza fatica, avevo convinto lassessore Bianchetto della necessit di
costituire un piccolo ufficio per la gestione del piano. Il Comune prese
quindi la decisione di inserire il ruolo di un tecnico nella pianta organica
e band il relativo concorso. Inducemmo Francesco Strobbe, che si era
appena laureato a partecipare. Vinse il concorso, si trasfer e si ammogli
a Giulianova, e divenne il feroce e fedele custode del piano.
Molti anni pi tardi, gli amministratori di Giulianova mi invitarono
a un convegno che aveva come tema lurbanistica: volevano capire se
fosse necessario aggiornare il piano.
Affacciatomi alla balaustra del belvedere della piazza alta (il centro
antico era in collina, ma tutta lespansione novecentesca si era sviluppa-
ta sulla stretta pianura costiera) fui piacevolmente colpito di vedere il di-
segno del nostro piano esattamente espresso sul terreno: larea destinata
ad attrezzature pubbliche e verde trasferita dal retino cartaceo alla
realt, e cos le zone despansione, le strade e ciascuna delle previsioni
del piano regolatore generale.
Collaborai con lamministrazione di Giulianova a redigere una varian-
te del piano, che non ne mutava la struttura ma consentiva alcuni com-
pletamenti e definiva un nuovo assetto per una zona industriale dismessa,
collocata in un punto strategico. La variante fu approvata nel 1990.
Mentre scrivo queste pagine (quasi altri ventanni sono passati), a
Giulianova si formata una attiva associazione dal bel nome, Il citta-
dino governante, che difende gli spazi pubblici dai tentativi di priva-
tizzazione e i paesaggi agricoli dallinvasione del cemento. Sono guidati
da un ex sindaco, Franco Arboretti, che aveva compreso lutilit della
buona pianificazione urbanistica, e che si era dimesso dal suo partito
(Ds) quando questo laveva dimenticato. Lassociazione mi ha invitato
recentemente a presentare il mio libro Ma dove vivi? 27. Mi ha commosso
scoprire che nelle battaglie civili la loro bandiera era il vecchio piano re-
golatore, di cui difendevano con passione e consapevolezza le scelte: mi
indicavano il parco previsto dal prg e malauguratamente trasformato in
un gruppo di palazzine con una variante ad hoc, il complesso di spazi

27 E. Salzano, Ma dove vivi? La citt raccontata, Venezia, Corte del Fontego, 2007.

38
lavorare non stanca troppo

ed edifici pubblici la cui privatizzazione era stata impedita da una loro


iniziativa e dalla mobilitazione che erano riusciti a suscitare, il quartiere
di edilizia economica popolare criticato dai vincenti di oggi perch non
conveniente dare le case sul mare ai poveri, scelta che loro continua-
vano a difendere.

4. Il Centro studi della Gescal

Allinizio degli anni Sessanta si erano conclusi i due programmi set-


tennali di edilizia residenziale pubblica ed era stato sciolto lente che li
aveva amministrati, il cosidetto ina-casa. Un ente che aveva svolto un
ruolo importante nella formazione di una moderna cultura urbanisti-
ca ed edilizia, grazie al lavoro del responsabile dellufficio architettura,
Adalberto Libera, e del Centro studi, Federico Gorio.
In sostituzione dellina-casa fu costituito un nuovo ente pubblico, la
Gestione case per lavoratori (Gescal), responsabile di un nuovo pro-
gramma. Federico Gorio fu incaricato di costituirne il Centro studi.
Lina-casa aveva lavorato molto bene nella manualistica tecnica e
nellapplicazione in Italia di metodi e strumenti sperimentati nei decen-
ni precedenti dalle socialdemocrazie europee. Con il Centro studi della
Gescal si voleva proseguire e sviluppare quella esperienza. Gorio mi
chiam, mi disse che pensava di articolare il lavoro del Centro studi in
quattro ricerche, voleva affidarmi quella dedicata agli standard urbani-
stici. Si trattava di un lavoro a tempo pieno, con pochissime risorse a
disposizione.
Accettai con entusiasmo. Ma era la prima volta che sentivo parlare di
standard urbanistici (espressione su cui torner pi volte). A casa consul-
tai la Britannica, che avevamo appena comprato: scoprii che il concetto
era molto vicino ai ragionamenti sul consumo comune e sulla sua organizza-
zione sociale che avevo sviluppato sul Dibattito politico e sulla Rivista
trimestrale.
Affrontai il tema sulla base della poca letteratura disponibile; ma in
realt mi affidai al ragionamento e alla pratica pi che alla ricerca siste-
matica delle fonti.
Il punto di partenza fu costituito dallottimo lavoro di Mario Ghio e
Vittoria Calzolari, Verde per la citt28, dai pochi cenni dedicati allargomento

28 M. Ghio, V. Calzolari, Verde per la citt. Funzioni, dimensionamento, costo, attuazione di parchi
urbani, aree sportive, campi da gioco, biblioteche e altri servizi per il tempo libero, Roma, De Luca, 1961.

39
capitolo terzo

nel Manuale dellarchitetto, dal prg di Roma del 1962 e dalle istruzioni del-
la Consulta urbanistica dellEmilia Romagna.
La ricerca si concluse con una piccola pubblicazione ciclostilata, dal
titolo giustamente dimesso Primo contributo alla ricerca sugli standard
urbanistici, di cui curai anche la grafica e limpostazione redazionale:
avevo progettato e curavo io infatti la piccola collana nella quale com-
parvero i diversi contributi del Centro studi, in qualche modo la sua
pubblicazione ufficiale. Ci tenni molto a indicare, in ciascun fascicolo,
i nomi di tutte le persone che a vario titolo avevano collaborato, anche
materialmente, alla sua realizzazione.
Nel corso della ricerca avvenne che la Gescal e lInArch (una nuo-
va associazione culturale per la promozione dellarchitettura, fondata da
Bruno Zevi) organizzassero, nel 1964, un convegno sulledilizia residen-
ziale pubblica. Gorio mi chiese di preparare una comunicazione sugli
standard urbanistici. Il convegno era patrocinato anche dai diversi enti
interessati alla questione: dai sindacati dei lavoratori alle organizzazioni
di categoria. Mi diedi da fare per coinvolgere esponenti rappresentativi
di gruppi che potevano esprimere utili punti di vista sullargomento.
Il titolo che proposi per il documento che avremmo preparato
fu centrato sulla necessit di individuare gli standard urbanistici in
funzione delle esigenze del consumo collettivo. Dovevano essere co-
struiti come uno strumento per superare, mediante unorganizzazione
comune, le modalit dei consumi di beni e servizi ancora largamente
gestite in forme individualistiche: dallassistenza sanitaria, al primo ap-
prendimento e alla custodia dei bambini, dallapprovvigionamento alla
ricreazione e allo sport, alla mobilit, abbandonata allimpero dellau-
tomobile. Coinvolsi rappresentanti dellUnione donne italiane, della
cooperazione di abitazione (in quegli anni si avviarono esperienze di
cooperative a propriet indivisa caratterizzate da una forte presenza di
attrezzature collettive), dellUnione sport popolari, dellAssociazione
ricreativa e culturale italiana, dei sindacati dei lavoratori. Udi, Coop,
Uisp, Arci, Cgil e Cisl furono le sigle che sottoscrissero il nostro do-
cumento.
La presentazione del documento, nella grande sala di palazzo Taver-
na a Roma, fu per me un angoscioso fallimento. Quando venne il mio
turno, mi presentai sul palco con il breve testo che avevo concordato
con gli altri. Bruno Zevi, che presiedeva, mi diede la parola brontolan-
do ad alta voce: Che cos questa storia di presentarsi con il pezzo di
carta da leggere! Se uno ha una idea la pu esporre stando su un piede
solo!. Arrivai al termine del mio discorsetto con moltissimo imbarazzo:
era solo la seconda volta che parlavo in pubblico.

40
lavorare non stanca troppo

5. Il Ministero dei lavori pubblici

Conclusa lesperienza della Gescal, nel 1967 ne iniziai unaltra, pi lun-


ga e pi ricca, in un
luogo che in quegli anni aveva un grandissimo rilievo culturale e
politico: la piccola enclave urbanistica del poderoso Ministero dei lavori
pubblici, situata nella storica sede subito fuori Porta Pia, allinizio di via
Nomentana. Marcello Vittorini mi chiam a collaborare al Servizio stu-
di e programmazione.
In Italia lurbanistica era in forte ritardo rispetto ad altri paesi euro-
pei. Ci derivava certamente dal provincialismo culturale determinato
dal regime fascista, ma anche dal modo in cui in Italia avveniva la
formazione degli urbanisti. Negli anni Venti si era sviluppato un di-
battito circa lintroduzione in Italia di questa disciplina. Si era aperto il
confronto tra due modelli: luno, sostenuto da Silvio Ardy e da Cesare
Chiodi, proponeva la formazione di un tecnico fortemente orienta-
to alla gestione amministrativa e alla tecnica delle reti infrastrutturali
(oltre che informato sugli aspetti edilizi, giuridici, storici, sanitari); laltro
vedeva lurbanistica come una costola dellarchitettura, fortemente cen-
trata sullattivit edilizia. Questultima fu la tesi che prevalse, anche per
il ruolo che il suo promotore, larchitetto Alberto Calza Bini, svolgeva
nelle strutture del regime fascista.
Come scrive un attento studioso di storia dellurbanistica Fabrizio
Bottini quella di Calza Bini da considerarsi
una proposta organica della piattaforma culturale e organizzati-
va, che determiner la nascita della figura dellurbanista (ormai
si chiama cos) in Italia. Palesi sono le differenze con limposta-
zione di Ardy e Chiodi. Per Calza Bini lurbanistica il midollo
spinale delle applicazioni di edilizia cittadina. E la nuova figura
professionale ben diversa da quella delleletto funzionario
comunale che lArdy proponeva a Torino: un architetto-ur-
banista, un professionista solidamente legato ai diversi interessi
(amministrativi, ma anche finanziari, imprenditoriali, proprietari)
la cui sinergia caratterizzava il regime corporativo fascista. Una
concezione, quindi, omogenea sia al regime, sia ad alcune mo-
dalit italiane di produzione e funzionamento della citt, ci che
indubbiamente giov al suo successo e durata nel tempo29.

29 F. Bottini, La corporazione degli urbanisti, in eddyburg, 2004.

41
capitolo terzo

Di fatto, bench la pianificazione urbanistica fosse allora ricono-


sciuta come una competenza del potere pubblico e delle istituzioni e
la stessa legge urbanistica del 1942 attribuisse un ruolo rilevantissimo
allo Stato, non esisteva una struttura tecnico amministrativa capace di
esercitarla. Si cominci a formarla negli anni Sessanta, e di essa faceva
parte il piccolo ufficio (Servizio studi e programmazione) cui ero stato
invitato a collaborare.
Per comprendere linteresse del lavoro cui ero stato chiamato a colla-
borare conviene ricordare che cosa succedeva in quegli anni e quale era,
allora, il ruolo dellurbanistica.

6. LItalia alle soglie degli anni Sessanta

Alla fine degli anni Cinquanta lItalia era profondamente cambiata. Agli
anni della ricostruzione erano seguiti quelli del boom economico. Lab-
bandono del protezionismo era stato un banco di prova per il risveglio
dellindustria manifatturiera italiana.
I poli produttivi accrebbero fortemente il loro ruolo, grazie a unin-
telligente politica industriale dellapparato statale (Iri ed Eni), che for-
niva alle industrie acciaio a buon mercato e trovava fonti convenienti
allapprovvigionamento energetico, facendo leva su presenze di know
how industriale e di mano dopera qualificata a tutti i livelli, e soprattutto
grazie alla scelta di investire sui settori facili dei beni di consumo du-
revoli e allappoggio che a tale scelta fornivano la politica finanziaria e
quella delle opere pubbliche.
LItalia completava la sua trasformazione: da prevalentemente agri-
cola a prevalentemente industriale. I movimenti migratori si orientavano
verso il triangolo industriale: larea geografica delle tre grandi citt del
Nordovest, Milano, Torino e Genova, dove era concentrata lindustria.
Il reddito medio aumentava e aumentava la disponibilit ad acquistare i
beni di consumo durevoli che lindustria sfornava in grande quantit a
prezzi sempre pi convenienti.
Lindustria cresceva, i profitti e laccumulazione30 rafforzavano i luo-
ghi forti dello sviluppo: ma il territorio e le citt ne pagavano duramen-
te il prezzo, e specialmente le popolazioni delle aree da cui lo sviluppo

30 Nel linguaggio delleconomia laccumulazione il reinvestimento di quote di profitto nel


processo produttivo: lacquisto di nuove macchine e di nuova forza lavoro, linnovazione tec-
nologica, lintroduzione di nuovi processi ecc.

42
lavorare non stanca troppo

succhiava risorse, con la fuga della forza lavoro dal Mezzogiorno, dalle
aree interne e collinari dellItalia centromeridionale e con lindirizzarsi
degli investimenti nelle aree gi sviluppate. La scelta di privilegiare lau-
tomobile rispetto ai trasporti collettivi rendeva pi grave la congestione
delle citt. Gli squilibri territoriali cominciavano a essere vissuti come
un peso per lo sviluppo degli stessi settori avanzati delleconomia. La
spontaneit lasciata alle forze imprenditoriali, stimolata e promossa dal-
le stesse politiche governative, mostrava i suoi limiti.
Nel frattempo, mutamenti rilevanti si manifestavano nel quadro politico.
Nel 1953 fu sconfitta la legge truffa, con la quale lalleanza imper-
niata sulla Dc avrebbe avuto la garanzia di assicurarsi la maggioranza
assoluta nel parlamento anche se avesse conseguito la sola maggioranza
relativa. Di conseguenza erano iniziati processi di mutamento degli
orientamenti interni dei gruppi che componevano il partito di maggio-
ranza. Dopo varie oscillazioni, e un pesante tentativo di svolta a destra
nel 1960, cominci ad affacciarsi la proposta politica di una apertura a
sinistra che condusse, allinizio degli anni Sessanta, prima alla forma-
zione di maggioranze comunali di centro-sinistra (basate sullalleanza
della Dc con il Psi), e poi al primo governo nazionale di centro-sinistra
nel 1962. Di esso facevano parte la Dc, il Psi, Psdi e il Pri.
Un peso rilevante sul mutamento degli orientamenti della Dc lo
ebbe la fine del papato di Pio xii e lirruzione sulla scena di papa
Giovanni xxiii.
Scrive lo storico Paul Ginsborg:
Lintegralismo di Pio xii fu sostituito da una diversa conce-
zione della Chiesa, piuttosto legata al suo ruolo pastorale e spi-
rituale che non alla sua vocazione politica anticomunista. Si apr
cos lo spazio per un dialogo fra cattolici e marxisti e, in campo
politico, democristiani e socialisti poterono finalmente trovarsi
faccia a faccia per trattare31.

Degli argomenti della trattativa fecero parte la programmazione eco-


nomica, listituzione delle Regioni (previste dalla Costituzione ma mai
attuate per il timore delle forze conservatrici che si manifestasse una
prevalenza comunista in Emilia Romagna, Liguria, Toscana e Umbria),
la nazionalizzazione dellenergia elettrica, la riforma della scuola media
e la riforma urbanistica.
Questultima non and in porto.

31 P. Ginsborg, Storia dItalia dal dopoguerra a oggi. Societ e politica, 1943-1988, Torino, Einaudi,
1989I.

43
capitolo terzo

7. Da Fiorentino Sullo alla frana di Agrigento

Di riforma urbanistica si era cominciato a parlare alla fine degli anni Cin-
quanta. LIstituto nazionale di urbanistica (Inu) aveva proposto un Codi-
ce dellurbanistica, formulato sulla base delle migliori esperienze dellEu-
ropa socialdemocratica. Membri dellistituto avevano poi collaborato col
ministro dei Lavori pubblici, il democristiano Fiorentino Sullo, autore
della proposta radicale che giunse alle soglie dellapprovazione. Il centro
della sua proposta consisteva nellobbligo per i Comuni di espropriare
preventivamente tutte le aree di cui il piano regolatore prevedeva lurba-
nizzazione (zone despansione). In esse il Comune avrebbe poi realizzato
le opere di urbanizzazione (strade e altri impianti, verde, scuole e servizi)
e le avrebbe assegnate agli utilizzatori per un numero determinato di anni
(si prevedeva novantanove). La propriet delle aree sarebbe rimasta al
Comune, il quale avrebbe concesso ai privati solo il diritto di superficie:
la possibilit cio di realizzare gli edifici previsti dal piano urbanistico e di
utilizzarli a loro piacimento fino alla scadenza della concessione.
Era il modo per bloccare sul nascere la speculazione urbanistica e
realizzare, secondo progetti urbanistici ragionevoli, la grande espansio-
ne urbana che infatti si verific impetuosa negli anni successivi. Ma la
stampa di destra scaten una violentissima campagna, distorcendo pro-
fondamente il contenuto della proposta. Il giornale romano il Tempo
apr loffensiva con questo titolo Otto milioni di capifamiglia decisi a difendere
le loro case32: lesproprio generalizzato delle zone agricole in cui era previ-
sta lespansione della citt veniva fatto passare per lesproprio di tutte le
costruzioni esistenti!
La Dc si spavent. Le elezioni erano alle porte. Il disegno di legge
fu ritirato, e a Sullo non si permise neppure di rispondere pubblicamen-
te, svelando la menzogna degli attacchi33. La distruzione del territorio
prosegu.
Ma il territorio, a volte, si ribella: tre anni dopo la sconfitta di Sullo,
il crollo di alcuni palazzi ad Agrigento e, pochi mesi pi tardi, le alluvio-
ni che minacciarono di distruggere Firenze e Venezia riproposero con
forza il problema.

32 Ginsborg, Storia dItalia dal dopoguerra a oggi, p. 368.


33 Se la sua proposta organica di riforma urbanistica era stata scandalosamente bocciata, il
ministro Sullo era riuscito a far approvare una legge che costituiva unapplicazione parziale del
metodo proposto: era la legge 167 del 1962, che consentiva di espropriare le aree necessarie
per realizzare ledilizia economica e popolare. Una legge che si rivel decisiva per impostare
una coerente politica della casa nel corso degli anni Settanta.

44
lavorare non stanca troppo

Nel crollo di Agrigento non ci furono vittime perch sinistri scric-


chiolii avevano preannunciato il disastro, ma il rischio fu grande e
levento riemp per molti giorni le prime pagine dei giornali. Parlamento
e governo reagirono. Si convenne che non cera tempo di elaborare
una vera legge di riforma urbanistica: si approv cos in pochi mesi una
legge ponte, che introduceva alcuni elementi di razionalit nel siste-
ma di pianificazione vigente. Si generalizz a tutti i Comuni lobbligo
di formare il piano regolatore generale; si disciplinarono il contenuto
tecnico e quello amministrativo e patrimoniale dei piani di lottizzazione;
si dispose che in tutti i piani urbanistici dovessero essere vincolate ade-
guate quantit di aree per i servizi collettivi e il verde: erano i cosiddetti
standard urbanistici, per i quali fu demandata a unapposita commissio-
ne parlamentare la determinazione delle quantit.

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46
Capitolo quarto
Nel centro dellurbanistica italiana

1. Al Ministero di Porta Pia

Dopo i drammatici eventi del 1966, il ministro dei Lavori pubblici, il so-
cialista Giacomo Mancini, aveva deciso di costituire due nuove struttu-
re: luna nellambito della funzione consultiva, dove si form la vi sezione
urbanistica del Consiglio superiore dei lavori pubblici, laltra nellam-
bito della funzione operativa, con la Direzione generale allurbanistica.
Questultima fu affidata a Michele Martuscelli. Funzionario pubblico, di
nascita e formazione meridionale (era nato a Muro Lucano), erede della
migliore tradizione dello statalismo meridionalistico, Martuscelli era un
vero grand commis dtat come in Italia ce ne sono pochi. Ispido e genero-
so, ferratissimo nei versanti amministrativo e giuridico, curioso e attento
alle altre culture di cui si impadroniva con grande facilit.
Attorno alla Direzione dellurbanistica gravitavano rilevanti perso-
naggi della cultura urbanistica di quegli anni: Giovanni Astengo, Fabri-
zio Giovenale, Luigi Piccinato, Antonio Cederna, Federico Gorio, Mar-
cello Vittorini, Piero Moroni, Alberto Lacava. Il loro ambiente politico
era il nascente centrosinistra. La maggior parte di essi militava nella
sinistra del Psi, che faceva capo a Riccardo Lombardi. Ottimi erano i
loro rapporti con i comunisti, buoni e a volte ottimi anche quelli con
componenti significative della Dc.
Nellambito della Direzione dellurbanistica era stato istituito il Ser-
vizio studi e programmazione, affidato inizialmente a Fabrizio Giovena-
le: un vero, generoso apostolo dellurbanistica sociale. Disponeva solo
della collaborazione di due giovani funzionari: un amministrativo, Car-
melo Grasso, e un architetto, Vezio De Lucia. Lanno successivo luffi-
cio fu affidato a un attivissimo ingegnere, Marcello Vittorini, che avevo

47
capitolo quarto

conosciuto a San Pietro in Vincoli mentre era assistente del professore


di architettura tecnica.
Marcello aveva avuto le risorse per rafforzare il Centro studi. Mi
chiese di far parte di un gruppo di giovani tecnici, assunti a contratto,
tra i quali ricordo Gianluigi Nigro, Giusa Marcialis, Massimo Perna, Da-
ria Ripa di Meana, Rinaldo Sebasti, Giulio Tamburini.
Assunsi limpegno molto seriamente. Occupavo il mio posto di la-
voro nella stessa stanza del giovane architetto Vezio De Lucia, del quale
divenni presto (e rimasi sempre) inseparabile amico.
Vezio veniva, come me, da Napoli. Mi aveva molto colpito la sua
storia, la ragione per la quale era l, al Ministero. Dopo la laurea aveva
lavorato in una grande azienda immobiliare, la Beni Stabili. Guadagna-
va bene, aveva lufficio in un luogo prestigioso, la Galleria Colonna, a
Roma. Si occupava di interventi consistenti, e trattava con architetti di
fama e con amministrazioni private e pubbliche. Nei suoi ricordi scrive:
Ci misi un po a capire che le attivit di cui mi occupavo
erano nientaltro che speculazione edilizia in grande stile. Dispo-
nevo allora di un pensiero politico scadente, quello proprio della
piccolissima borghesia meridionale, e venivo da una formazione
universitaria certamente inadeguata. Ci avevano insegnato che
larchitetto deve far propri gli interessi del committente quali
che siano, e che a quegli interessi possono essere piegati regole
e comportamenti. Ma quegli insegnamenti non ressero a lungo.
A mano a mano che aumentavano i miei compiti, e la mia retri-
buzione, aumentava anche il disagio nel vedermi impiegato in
cose che cominciavano a ripugnarmi34.

Il crollo ad Agrigento nellestate del 1966, gli eventi che gli seguiro-
no, lo convinsero che si poteva fare lurbanista in un altro modo. Parte-
cip a un concorso, vinse, entr nel Servizio studi e programmazione
del Ministero, dove lo conobbi. Nella piccola stanza che condividevamo,
con uno stipendio pari a un quarto di quello di prima.
Il lavoro era stressante ma entusiasmante. Lurbanistica e la pro-
grammazione economica erano al centro dellattenzione politica. Dopo
la sconfitta del tentativo di riforma urbanistica di Fiorentino Sullo, il
crollo di Agrigento e lappassionato dibattito parlamentare che ne era
seguito avevano prodotto un vero colpo di frusta sullopinione pubbli-
ca. Politica e cultura erano combattive e lottavano su diversi fronti per

34 Traggo la citazione dalle memorie di Vezio De Lucia, in corso di stampa presso ledi-
tore Diabasis.

48
nel centro dellurbanistica italiana

un efficace e moderno governo del territorio, non pi infeudato ai po-


teri forti della rendita fondiaria urbana. Tra la cultura urbanistica, valida-
mente rappresentata in quegli anni dallIstituto nazionale di urbanistica,
e la politica del parlamento e dei partiti, il ruolo della pattuglia urbani-
stica del Ministero dei lavori pubblici era spesso di cerniera.
In concreto, lufficio svolgeva molte mansioni: collaborava allistrut-
toria per lapprovazione dei prg comunali da parte del Consiglio supe-
riore dei lavori pubblici, predisponeva proposte di legge nelle diverse
materie di competenza del Ministero, definiva programmi e progetti
speciali relativi a determinate situazioni o problemi (dai provvedimenti
per Venezia e Firenze dopo lalluvione del 1966 a quelli per le ricostru-
zioni dopo i terremoti), redigeva circolari interpretative delle leggi, col-
laborava con altri ministeri e uffici pubblici, e ne contestava le proposte
quando le giudicava lesive degli interessi pubblici territoriali.
Nei momenti pi rilevanti, la pattuglia di testa della galassia urbani-
stica del Ministero (Martuscelli, Vittorini, Di Gioia, presidente della vi
sezione del Consiglio superiore) aveva contatti diretti con parlamentari,
sia dei partiti governativi (soprattutto con quelli della sinistra socialista),
sia con alcuni del Pci. Una vera collaborazione si stabil quando furono
presentate e discusse le leggi pi importanti di quegli anni: la legge
ponte urbanistica del 1967 e il successivo decreto sugli standard urba-
nistici, le leggi per la casa dellinizio degli anni Settanta.
Diversi erano gli stili di Martuscelli, di Di Gioia e di Vittorini.
Il primo adoperava con abilit e fermezza gli strumenti della burocrazia.
Di Gioia aveva la felpata morbidezza dei diplomatici.
Marcello Vittorini era un carro armato, un corsaro; lavorava cos:
si impadroniva di una pratica, magari curiosando sulla scrivania del
ministro, o esaminando lordine del giorno delle commissioni e comi-
tati di cui il Ministero era parte, oppure perch ne veniva informato da
qualche funzionario. A seconda del tempo a disposizione (generalmente
brevissimo, un paio di giorni o poche ore) costituiva un piccolo gruppo
di lavoro, dettava la scaletta di una relazione o un promemoria o un ap-
punto, distribuiva il lavoro, lo verificava, lo completava e lo inseriva nel
fascicolo ufficiale. Poi lo consegnava al ministro, o lo illustrava lui stesso
l dove si discuteva (e magari si decideva).
Ricordo un paio di occasioni. Il ministro doveva dare il parere al
Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica)
sullinstallazione di un deposito petrolifero. uno scandalo ci diceva
Marcello . LItalia sta diventando un gigantesco deposito di prodotti
pericolosi e inquinanti nelle zone costiere pi belle. In pochissimi
giorni, mobilitando i pi diligenti e assidui del suo ufficio (Vezio cera

49
capitolo quarto

sempre) produceva una documentata relazione: lunica, oltre a quella dei


proponenti, che veniva presentata alla riunione dove si sarebbe deciso.
In unaltra occasione, il ministro in carica, il democristiano Natali,
abruzzese come lui e suo amico personale, gli chiese di preparare un
appunto per il discorso che avrebbe tenuto al convegno nazionale della
Dc. Marcello chiam Vezio e me, ci propose la scaletta del discorso, ci
sedemmo alla sua scrivania dalla sera alla mattina dopo, e ciascuno ne
compose un pezzo. Facemmo recitare al ministro un discorso nel quale,
oltre a una serie di cose molto audaci e ragionevoli in materia di opere
pubbliche e loro impatto territoriale, sosteneva la necessit di una rifor-
ma urbanistica che comprendesse (riprendendola dalla proposta di Fio-
rentino Sullo, bocciata pochi anni prima e ripresentata da parlamentari
comunisti) lesproprio generalizzato dei terreni di nuova edificazione o
ristrutturazione urbanistica. LUnit, che allora era lorgano ufficiale
del Pci, illustr con stupito compiacimento la proposta dellautorevole
ministro democristiano.

2. Salvate gli uomini prima dei mufloni

Marcello non ci faceva lavorare solo al Ministero. Lui era presente


ovunque. Durante un convegno a Cagliari un gruppo di giovani entusia-
sti lo avevano invitato a una loro iniziativa a Orgosolo. Largomento era
il Parco del Gennargentu, progetto sostenuto dal Ministero. Allultimo
momento, a causa di un impegno imprevisto, chiese a me e a Vezio
di sostituirlo. Partimmo. A Orgosolo fummo accolti da un gruppetto
di persone. Erano giovani, la maggior parte barbaricini, uno senese.
Avevano fondato un piccolo centro culturale, finanziato dalleditore
Giangiacomo Feltrinelli (allora non lo sapevamo, ma stava progettando
delle azioni di protesta incendiaria in Sardegna). Il loro obiettivo era la
promozione dello sviluppo culturale di quel povero paese di pastori, a
partire dalla scuola elementare. Uno di loro, il senese, era maestro.
Ricordo una suggestiva cena. Un grande spiedo sul fuoco vivo del
focolare, i ragazzi che ci raccontavano le loro attivit. Circolava un
fiasco di vino rosso. Unimmagine degna dei racconti di Omero, una
struggente e vivissima immersione in un mondo pastorale, primitivo e
intriso di antica cultura. Dormimmo in quella stessa casa, ma al piano
superiore faceva freddo, le lenzuola erano gelate, tardammo a prendere
sonno.
La mattina dopo, il convegno. Ci avevano illustrato la loro tesi. Sem-
brava che la necessit di istituire nel Gennargentu un parco nazionale

50
nel centro dellurbanistica italiana

fosse motivata essenzialmente dallesigenza di tutela di un particolare


ambiente, nel quale sopravviveva una specie di grande ovino dalle lun-
ghe corna ritorte, il muflone, una volta diffuso nelle grandi isole medi-
terranee, ora minacciato di estinzione. Ma il Gennargentu era anche la
sede di unantichissima societ pastorale, legata al territorio da uneco-
nomia povera ma vitale. L, secondo i nostri amici, il problema prima-
rio non era salvare i mufloni e la natura, gi abbastanza protetti dalle
usanze locali. Listituzione di un Parco, per di pi gestito dai poteri del
Continente, era sentita come limposizione di regole estranee: una colo-
nizzazione, la formazione di una riserva indiana. Limpegno culturale e
politico doveva essere volto a salvare gli uomini, a liberarli dalla povert
e dallignoranza. Pi che con parole avevano illustrato la loro tesi con
bellissimi manifesti allestiti da loro stessi, con i mezzi di fortuna di cui
disponevano. Efficacissimi.
Il convegno era nella sala del cinema: un capannone disadorno, di
cemento armato e pietra. Su lunghe panche di legno sedevano decine di
pastori dallaria severa e attenta, tutti con la coppola. Con Vezio scam-
biammo poche parole. Decidemmo di modificare radicalmente il taglio
del nostro intervento. Avrei parlato io, che ero il pi libero da obblighi
ministeriali. Del resto, in quegli anni ero gi consigliere comunale a Ro-
ma, eletto come indipendente nelle liste del Pci.
Iniziai il mio intervento con queste parole: Compagni e amici, non
vi parlo a nome del Ministero dei lavori pubblici, ma vi porto il saluto
della Roma democratica e popolare. Non ricordo le parole successi-
ve, ma il tono era quello giusto.
Allora non lo compresi, ma ero caduto su una contraddizione che
ancora aperta. Mediante quali passaggi, quali trasformazioni della co-
scienza collettiva e individuale, quale maturazione di nuove abitudini e
regole, una civilt che ha vissuto per millenni estraendo risorse da una
natura che sembrava inesauribile, pu sopravvivere in un mondo che si
scopre essere finito, limitato, vicino allesaurimento?

3. Dal crollo di Agrigento al decreto sugli standard urbanistici

Tra i lavori pi importanti della Direzione generale di Martuscelli non


facevo ancora parte del gruppo ci fu linchiesta sui crolli di Agrigen-
to e la gestione delle conseguenze positive dello scandalo sollevato
dallevento. A Martuscelli fu affidata uninchiesta sulle cause. Fu for-
mata unagguerrita commissione coordinata da Giovanni Astengo
che esamin con scrupolosa attenzione i fatti e le loro cause. Lanalisi

51
capitolo quarto

metteva in piena luce le gravi responsabilit politiche e le pesanti viola-


zioni della legalit urbanistica allorigine dei crolli.
La relazione con la quale la commissione rendeva noti al ministro
e al parlamento i risultati dellindagine, e in particolare la lettera con la
quale Astengo e Martuscelli la introducevano, costituiscono uno dei te-
sti pi limpidi e una delle denunce pi aspre del malcostume politico e
urbanistico largamente diffuso in quegli anni. Ecco le conclusioni sulla
situazione della citt dei templi:
Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e per-
vicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e
delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa
pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta,
intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione
compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale,
di spregio della condotta democratica, incalcolabile per la citt
di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben
difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommen-
surabile sotto laspetto sociale, civile e umano. La citt dei tolli
non pi lAgrigento di un tempo. Il volto urbano, sfigurato,
potr forse in parte essere ricuperato con generose piantagioni
di verde, cui affidare la cicatrizzazione delle ferite e la ricucitura
dei tessuti, ma difficilmente, e certo con costi assai elevati, potr
assumere laspetto decoroso di una citt umana: le ferite inferte,
anche curate, resteranno a lungo. Ma ancora pi delicato si pro-
spetta il problema dei rapporti umani, che, con laccertamento e
la punizione di colpe, esige che sia posto fine alle sofferenze della
popolazione agrigentina, a lungo vessata dallarbitrio35.

Non solo ad Agrigento cos:


Ma la commissione, nel rimettere gli atti, sente il dovere di
segnalare allattenzione del signor ministro, dei parlamentari e di
tutti i responsabili delle amministrazioni pubbliche e degli enti
locali, la gravit della situazione urbanistico-edilizia del Paese,
che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite. E non pu,
nel concludere, non auspicare che da questa analisi concreta par-
ta un serio stimolo nel porre un arresto deciso e irreversibile
al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico.

Quel lavoro, svolto prima del mio ingresso al Ministero, rappresenta


bene il clima politico ed etico nel quale mi immersi.

35 [G. Astengo, M. Martuscelli], [Lettera di trasmissione al ministro], in Agrigento. Relazione


della commissione di indagine, Urbanistica, 48 (dic. 1966), p. 31.

52
nel centro dellurbanistica italiana

4. Gli standard urbanistici

Il primo rilevante impegno al quale collaborai fu il decreto con il qua-


le, in attuazione alla legge ponte del 196736, si stabilivano le quantit
e le tipologie degli standard urbanistici. Lelaborazione e la discussio-
ne del decreto avvennero sostanzialmente nellambito della Direzione
generale e del Consiglio superiore: oltre a numerosi funzionari tecnici
dei ministeri facevano parte del consesso alcuni esperti esterni, tra cui
Luigi Piccinato e Antonio Cederna.
Nella lunga elaborazione tecnica, Mario Ghio presentava comples-
si documenti e griglie di parametri da assumere per la determinazione
delle quantit e delle qualit degli spazi da vincolare. Forse Mario era
luomo che in Italia aveva studiato in modo pi approfondito le que-
stioni tecniche connesse alla progettazione degli spazi pubblici. Ghio
costruiva e presentava complessi sistemi di calcolo e progettazione,
ma le ragioni dellamministrazione spinsero a fortissime semplifica-
zioni37.
Nella discussione ebbe un peso rilevante lesperienza della Con-
sulta urbanistica dellEmilia Romagna. Era una struttura di coordina-
mento volontario dei comuni di sinistra della regione, che da tempo
aveva proposto e ottenuto in essi standard molto evoluti. I criteri di
redazione dei piani che la Consulta suggeriva diventavano regola co-
munemente accettata e praticata dai comuni. Tra laltro, definivano
un limite allespansione dei piani: era suggerito di calcolare rigorosa-
mente il fabbisogno, e comunque di non superare la soglia del 10% di
nuovi alloggi. Eppure eravamo nella fase dellespansione edilizia. Gli
standard di spazi pubblici che i criteri raccomandavano erano al livello
di quelli praticati nei paesi delle socialdemocrazie europee.
E sullo sfondo sociale cera la campagna che lUnione donne ita-
liane (Udi) aveva lanciato agli inizi degli anni Sessanta, sulla base delle
esigenze e motivazioni cui mi ero riferito nellarticolo sulla gestione
domestica e lorganizzazione del consumo del 1954. LUdi aveva lan-
ciato una vasta campagna per listituzione di servizi che alleggerissero
le lavoratrici (e le donne in generale) dal peso della gestione domesti-
ca; tra le attivit svolte su questo tema: una legge diniziativa popolare,

36 Legge 6 ago. 1967, n. 765, Modifiche e integrazioni alla legge urbanistica 17 ago. 1942,
n. 1150. Fu definita legge ponte perch avrebbe dovuto costituire un momento di passag-
gio alla legge di riforma complessiva dellurbanistica, che non mai stata fatta.
37 Il decreto descritto nelle memorie di De Lucia, in corso di stampa (vedi nota 34).

53
capitolo quarto

sulla quale si raccolsero oltre 50.000 firme, e un convegno per la pre-


visione dei servizi sociali nella pianificazione urbanistica38.
Al di l delle motivazioni sociali, al di l della tecnica e delle buone
pratiche, la discussione andava al sodo: quali fossero i minimi di spazi
pubblici da riservare nei piani. I due poli del confronto erano rappresen-
tati da una parte dai parlamentari del Pci, rappresentati in quella sede da
Alberto Todros, un ingegnere piemontese, urbanista e amministratore
comunale, sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen,
e dallaltra parte dagli esponenti delle imprese di costruzione, rappre-
sentati da Carlo Odorisio, un imprenditore che pi tardi seppe lavorare
concretamente per un ruolo moderno del settore, orientando lattivit
delle aziende alla formazione di profitto industriale anzich allappro-
priazione della rendita fondiaria. Allora lo scontro si concluse sulla cifra
di 18 metri quadrati per abitante di spazi pubblici e di uso pubblico:
meno di quanto si praticasse nei comuni evoluti delle amministrazioni
di sinistra, ma molto pi di quanto si prevedesse nella pianificazione
della maggior parte dei comuni nelle altre regioni.

5. Le sentenze della Corte costituzionale

Eravamo tra aprile e linizio di maggio 1968. Franco Rodano mi disse


che Luciano Barca, un deputato del Pci, aveva saputo che una sentenza
della Corte costituzionale dichiarava illegittime alcune norme della legge
urbanistica: precisamente, quelle che consentivano di vincolare le aree
per gli spazi pubblici. Ma il 18 maggio erano state indette le elezioni po-
litiche, quindi avevano deciso di rendere nota la sentenza solo successi-
vamente. Infatti la sentenza 55 del 1968, datata 9 maggio, fu depositata
in cancelleria solo il 30, a elezioni avvenute.
La sentenza dichiarava illegittime le norme della legge urbanistica
allora vigente (quella del 1942) che consentivano di vincolare, nei piani
regolatori, le aree necessarie per servizi e altre utilit pubbliche, senza
prevedere unindennit per il proprietario finch larea non fosse effet-
tivamente espropriata. Prima ancora di entrare nel merito ci si chiedeva:
come mai quella sentenza interveniva ventisei anni dopo la norma, e a
dodici anni dallentrata in funzione della Corte? Semplice la risposta:

38 Il titolo del convegno era Obbligatoriet della programmazione dei servizi sociali in un
nuovo assetto urbanistico. Si svolse a Roma, il 21 e 22 mar. 1964. Tre delle quattro relazioni
di base furono svolte da altrettanti urbanisti: Giovanni Astengo, Edoardo Detti e Alberto
Todros.

54
nel centro dellurbanistica italiana

prima della legge ponte i vincoli per gli spazi pubblici coprivano
unestensione minima del territorio; dopo la legge e il conseguente de-
creto sugli standard, lincidenza minacciava di diventare molto pi con-
sistente (per la propriet fondiaria).
Grande fu lo scandalo. Urbanisti, amministratori comunali, parla-
mentari dei partiti di sinistra protestarono con forza: quella sentenza si-
gnificava la morte per lurbanistica, impediva di adeguare lItalia ai livelli
di civilt urbanistica degli altri paesi europei. Un animato convegno fu
indetto dallInu in un teatro romano, lEliseo.
Intervenni anchio in quellassemblea, sostenendo una tesi contro-
corrente. La lettura della sentenza e di unaltra emanata contemporanea-
mente (la n. 56, dello stesso giorno), e soprattutto unintervista rilasciata
dal presidente della Corte costituzionale, Aldo Sandulli39, mi avevano
infatti convinto di due cose: dal punto di vista dellequit tra i proprieta-
ri di aree, la sentenza era inoppugnabile; la sua attenta lettura, congiun-
tamente con laltra, suggeriva al legislatore la via duscita percorribile.
In poche parole la situazione era questa. Il piano regolatore generale
tratta differentemente due categorie di proprietari. Ad alcuni vincola
larea a tempo indeterminato, con la prospettiva dellesproprio: ma
dellesproprio non certa la data, n certo se larea verr effettiva-
mente espropriata, e quindi indennizzata. Ad altri, invece, valorizza il
terreno, rendendolo edificabile. Le sentenze, mentre dichiaravano in-
costituzionale questa sperequazione, aprivano la strada a una soluzione
accennando a una questione poi chiarita e resa del tutto esplicita nellin-
tervista di Sandulli. Egli sosteneva che, sebbene il quadro legislativo
vigente stabilisse che la facolt di edificare era un attributo dellarea che
apparteneva al suo proprietario, con una legge ordinaria il parlamen-
to avrebbe tranquillamente potuto modificare questa appartenenza,
stabilendo che alla propriet non apparteneva la facolt edificatoria.
Questultima avrebbe potuto dalla legge essere attribuita al potere pub-
blico, il quale in questo caso poteva concederla agli utilizzatori a deter-
minate condizioni.
Si trattava, come si diceva tecnicamente, di separare lo ius edificandi
dal diritto di propriet e di stabilire che il primo appartiene alla colletti-
vit. Bastava che il parlamento lo volesse e lo stabilisse: cos si sarebbe
costituita una condizione di parit di diritti tra i proprietari penalizzati
e quelli premiati dalle scelte del piano.

39 E. Capocelatro, Intervista con il presidente della Corte costituzionale, Lastrolabio


(27 lug. 1968), ora in Urbanistica, 53, p. 101-102.

55
capitolo quarto

Naturalmente da quellaffermazione si sarebbero dovute trarre tut-


te le conseguenze. Per rendere equivalenti le condizioni dei proprietari
si sarebbe dovuto sottrarre a quelli non espropriati il maggior valore
derivante dallurbanizzazione: si sarebbe dovuto, in altri termini, ac-
quisire al pubblico laumento della rendita immobiliare derivato dagli
investimenti e dalle decisioni della collettivit.
Ma il parlamento non scelse la strada suggerita dalla Corte. Tent
di farlo qualche anno dopo, nel 1977, ma in modo del tutto insuffi-
ciente, con la legge del ministro Pietro Bucalossi. Nellimmediato, si
stabil che le previsioni dei piani di tipo espropriativo valevano solo
per un determinato numero di anni. A tuttoggi, il nodo non ancora
sciolto, anche se una importante distinzione tra i diversi tipi di vinco-
lo intervenne successivamente, dopo la legge che estese la protezione
del paesaggio (legge Galasso). Ne parleremo pi avanti.
La mia tesi provoc qualche interesse. Ricordo che Giuseppe
Samon, uno dei pi autorevoli urbanisti e accademici del tempo,
invi un suo assistente a chiamarmi perch sedessi con loro al ri-
storante: pensava, come mi disse poi, che io fossi un giurista. Il mio
intervento, poi trasformato in un articolo, fu pubblicato nella rivista
Citt e societ40.

6. Amministrare lurbanistica

Nellottobre 1971 era stata approvata la legge per la casa41, risultato


delle lotte degli anni 68-69, delle quali racconter nel prossimo capi-
tolo. Essa riformava in modo soddisfacente lintervento pubblico nel
settore. Avevo curato un istant book che illustrava la legge, per facilitar-
ne limpiego da parte di Regioni e Comuni: a una mia ampia prefazio-
ne in cui illustravo la legge nella sua formazione e nei suoi numerosi
aspetti, facevano seguito unappendice legislativa e alcuni commenti ai
singoli articoli, che rendevano il testo ancora pi operativo.
Mi avevano chiesto di scriverlo rapidamente i compagni della Lega
per le autonomie e i poteri locali, una organizzazione costituita dai

40 E. Salzano, Intervento allassemblea dellInu del 10 luglio, Citt e societ, 6 (nov.-dic. 1968),
p. 61.
41 Legge 22 ott. 1971, n. 865, Programmi e coordinamento delledilizia pubblica; norme
sulla espropriazione per pubblica utilit, modifiche e integrazioni alle leggi 17 ago. 1942 n.
1150, 18 apr. 1962 n. 167, 29 set. 1964 n. 847; e autorizzazione di spesa per interventi straor-
dinari nel settore delledilizia residenziale, agevolata e convenzionata.

56
nel centro dellurbanistica italiana

partiti di sinistra, che cominciava a svolgere unattivit editoriale di


servizio ai propri iscritti.
Per comporre quel libro impiegai i giorni di vacanza che, con alcuni
amici e le rispettive famiglie, trascorsi in Abruzzo, sui monti della Laga,
nei giorni del ponte di inizio novembre42.
Sulla base di quellesperienza, Stelvio Minelli, responsabile editoriale
della Lega, mi chiese di avviare una collana di testi di urbanistica per
spiegare la pianificazione agli amministratori.
Ne ragionai con Vezio, con il quale mi consultavo sistematicamente.
Avevamo letto da poco il libro di Giuseppe Campos Venuti, Amministra-
re lurbanistica43, dal quale avevamo imparato molte cose, in particolare
sulla rendita. Decidemmo di intitolare la collana come il libro.
Il primo volume fu proposto proprio da unallieva di Campos Ve-
nuti, Valeria Erba, con cui stabilimmo una solida e duratura amicizia.
Nella prefazione illustravo le ragioni della collana:
Sono certamente aumentati, rispetto a dieci o venti anni
fa, gli strumenti di cui dispone lamministratore democratico
per gestire le trasformazioni del territorio nellinteresse della
collettivit. questo certamente un risultato, e non dei minori,
del processo di crescita della democrazia e di rafforzamento del
potere delle classi popolari, che in atto nel nostro paese dalla
Resistenza a oggi e che prosegue, con la forza delle ondate di
fondo, al di l delle ricorrenti stagioni dellinvoluzione conserva-
trice o del tentativo reazionario44.

Ma quel processo, dopo il fallimento del tentativo di Sullo, era avve-


nuto in modo non lineare, non univoco, non compiutamente organico.
Bisognava quindi riconoscere che:
Grandi problemi restano ancora aperti anche sul terreno
dellurbanistica: da quello fondamentale del regime di propriet
delle aree e dei fabbricati, tuttora pesantemente condizionato
dallindividualismo proprietario e dal libero gioco della specula-
zione grande e piccola; a quello delle scelte generali sullassetto
del territorio, ancor oggi prodotte dal sovrapporsi delle deci-
sioni aziendali delle imprese private e pubbliche e delle aziende
di Stato, che nessun tentativo di programmazione riuscito a

42 Casa, urbanistica e poteri locali. Come gestire la nuova legge per la casa verso la riforma urbanistica.
Il testo coordinato delle leggi urbanistiche. La legge per la casa con note di Alberto Todros, a cura di E. Salzano,
Roma, Edizioni della Lega per le autonomie e i poteri locali, 1971.
43 G. Campos Venuti, Amministrare lurbanistica, Torino, Einaudi, 1967.
44 V. Erba, Lattuazione dei piani urbanistici, Roma, Edizioni delle autonomie, 1987V, p. 9.

57
capitolo quarto

imbrigliare; a quello, infine, della destinazione delle risorse na-


zionali, largamente indirizzate ad alimentare i parassitismi delle
posizioni di rendita e gli sprechi dei consumi individualistici, e
concesse invece con avarizia alla soddisfazione di quei bisogni
sociali (la casa, la scuola, i servizi collettivi, il verde pubblico)
che dovrebbero essere la materia stessa dei piani urbanistici e
della loro attuazione.

La cassetta degli attrezzi cui le amministrazioni potevano ricorrere


si era insomma molto ampliata, ma era anche molto confusa e priva di
solide basi di potere. Bisognava aiutare i Comuni a comprendere come
adoperare nel modo migliore quegli strumenti.
Lo facemmo con libri di carattere manualistico (come il primo, e
quelli successivi sugli standard urbanistici, sul fabbisogno abitativo, sul
controllo edilizio, sul piano urbanistico comunale, sul recupero del pa-
trimonio edilizio, sulle zone agricole e sulle aree industriali, sulla valuta-
zione dimpatto ambientale), con lillustrazione di esempi significativi o
di casi studio (come quelli dedicati a Roma, Milano, Venezia, al Parco di
Rimigliano, alla ricostruzione post terremoto in Campania), oppure, pi
raramente, con volumi dedicati alla discussione dargomenti dattualit
(come quello sul programma pluriennale dattuazione e sugli effetti del-
le sentenze costituzionali).
La collana ebbe un ampio successo, significativo per quella piccola
casa editrice. Andarono a ruba soprattutto i libri pi utili nellimmediato
per lamministrazione concreta dellurbanistica, come quelli di Valeria
Erba e quello di Luigi Falco sugli standard urbanistici.
I primi otto titoli vedevano, nella quarta di copertina, solo me come
direttore. Dal nono, la direzione fu allargata a Vezio De Lucia e Rober-
to Mostacci, fondatore e direttore dun istituto di ricerca sulledilizia.
Via via che aumentavano i miei impegni a Venezia, dove mi ero trasferi-
to nel 1975, la cura della collana pesava sempre di pi sulle spalle di Ve-
zio. Uscirono in tutto venticinque volumi, lultimo nel 1985, anno che
signific una svolta in molti campi.

7. La Rivista Trimestrale

Lesperienza della rivista il Dibattito politico era terminata nel 1957:


i giovani e i meno giovani provenienti dallesperienza democristiana si
erano iscritti al Pci e vi avevano acquistato ruoli di crescente rilievo.
Chi, come Mario Melloni e Ugo Baduel, nella stampa, chi nella direzio-
ne del Pci, come Lucio Magri e Giuseppe Chiarante. Ma lattenzione

58
nel centro dellurbanistica italiana

di Franco Rodano, di Claudio Napoleoni e dei loro pi stretti collabora-


tori si era spostata soprattutto su una riflessione pi profonda attorno
alle radici filosofiche, economiche e politiche delle trasformazioni in
atto nella societ. Il lavoro da fare per promuovere la fuoriuscita dal
sistema capitalistico-borghese comportava una riflessione che andasse
molto al di l della contingenza politica.
Rodano e Napoleoni fondarono un nuovo periodico, La Rivista
Trimestrale, edita dal torinese Paolo Boringhieri e sostenuta da un vec-
chio amico di Franco, Raffaele Mattioli. Cominciai con loro una nuova
avventura intellettuale. Dopo aver scritto sulla rivista su temi legati alla
politica agraria (con cui avevo acquisito una certa dimestichezza negli
anni del Dibattito politico), iniziammo una riflessione a tutto campo
sulla citt e sullurbanistica. Fu un lavoro molto faticoso, ma che mi apriva
orizzonti nuovi.
Si svolgeva cos. Andavo a casa di Franco: ragionavamo per un
intero pomeriggio, qualche volta trattenendomi a cena. A volte vi par-
tecipava anche Claudio, e spesso Marisa. Nei giorni successivi scrivevo;
poi tornavo da Franco, discutevamo quello che avevo scritto e andava-
mo avanti. Le cadenze degli incontri erano grosso modo quindicinali.
Battevo a macchina gli scalettoni e i testi via via prodotti, con una bella
Olivetti Lettera 22, in pi copie veline per poterle leggere insieme.
Questo lavoro produsse tre saggi, intitolati rispettivamente Castel-
lo, villaggio, borgo, citt; La citt del capitalismo; Ambiguit della citt opulenta,
pubblicati tra il 1964 e il 196545. Essi costituivano sostanzialmente un
tentativo di comprendere lessenza della citt al di l delle definizioni
meramente descrittive e quantitative, cogliendo la natura delle intera-
zioni tra le caratteristiche fisiche e funzionali, la struttura economica,
lassetto della societ e dei poteri.

8. Che cos la citt?

Ricordo che lavvio fu molto faticoso. Ci interessava individuare la dif-


ferenza tra la citt e le altre forme dellinsediamento umano che la storia
aveva conosciuto. La trovammo nella relazione che si era manifestata,
tra uomo e territorio, nei tre modelli di economia e societ che si erano
storicamente realizzati: quello dellautoconsumo, in cui la produzione

45 Uscirono rispettivamente sui numeri 10 (1964), 11-12 (1964) e 13-14 (1965) della Rivista
trimestrale.

59
capitolo quarto

finalizzata allesigenza primaria del mantenimento e alla riproduzione


del produttore (quindi alla sussistenza delluomo e della sua famiglia);
quello signorile, in cui si manifesta uneccedenza della produzione rispet-
to alle esigenze primarie delluomo, il cosidetto sovrappi, ma di questo
si impadronisce con la forza un uomo pi potente degli altri (il signore);
quello infine della borghesia, in cui il produttore difende il proprio so-
vrappi dal signore e lo reinveste nel processo produttivo.
Le tre forme presentano rilevanti differenze. Nelleconomia dellau-
toconsumo luomo libero e il suo lavoro finalizzato al proprio con-
sumo. Nelleconomia signorile il lavoratore servo, non ha alcun diritto
salvo quello della sussistenza e della riproduzione, e la finalit della sua
attivit produttiva (della formazione del sovrappi) il libero consumo
del signore. In quella capitalistica il lavoratore reso libero affinch
possa vendere la propria forza lavoro al capitalista, e la produzione non
finalizzata al consumo di un individuo, ma a un insieme di bisogni che
comprendono quello dei lavoratori (tendenzialmente ridotto dal sistema
economico ai bisogni primari della sussistenza e riproduzione, ma che
il contropotere del lavoratore nella lotta di classe tende ad accrescere),
quello dellallargamento del processo produttivo (obiettivo perseguito
da ciascun capitalista, il quale sopravvive solo grazie al potere che riesce
a conquistare nella giungla della concorrenza), e quella infine del soddi-
sfacimento di nuovi bisogni collettivi: quelli connessi alla difesa del so-
vrappi prodotto, alla gestione di funzioni sociali (la giustizia, il governo,
listruzione, la salute, la celebrazione dei valori comuni e cos via).
La chiave di volta della nostra interpretazione fu espressa in una
frase lungamente cesellata, nella quale la matrice della citt veniva in-
dividuata nella forma del consumo: ci si riallacciava in sostanza alla
questione trattata nellarticolo del 1958, di cui ho gi riferito, sullorga-
nizzazione del consumo46. Affermavamo che la citt il luogo in cui
lattivit produttiva si svolge obbedendo a una caratteristica determina-
ta: quella, cio, di non essere rapportata immediatamente, fisicamente,
ed esclusivamente, come al suo unico fine, al consumo individuale di un
consumatore determinato.
Nel percorso del modello insediativo alternativo a quello signorile
individuavamo diverse tappe. Quando il sovrappi rimane nelle mani
del produttore si passa, secondo la nostra analisi, dal villaggio al borgo,
alla citt. Il villaggio corrispondeva alla forma economica dellautocon-
sumo e del primo apparire del sovrappi. Il borgo nasceva quando

46 Salzano, Gestione domestica e organizzazione del consumo.

60
nel centro dellurbanistica italiana

laccrescersi del sovrappi ne rafforzava il ruolo, e lesigenza della sua


difesa (rispetto al signore) e dello scambio (con gli altri produttori).
La citt sostenevamo si formata dalla crisalide del borgo, quando
la formazione del sovrappi e le nuove esigenze sociali (tra cui la neces-
sit politica di opporsi al signore e al suo castello) sollecitarono a in-
vestire in una serie di luoghi significativi: i luoghi appunto finalizzati
al consumo comune, al soddisfacimento di bisogni legati a funzioni e
attivit che non erano riferite alle necessit di una singola famiglia, ma
alla societ nel suo complesso.
Da questa iniziale riflessione si dipanava lesame delle trasformazioni
della citt (come urbs, polis e civitas), del ruolo che sul suo destino (sulla
sua affermazione come forma tendenzialmente universale del rapporto
tra societ e ambiente, e sulla sua crisi) hanno influito laffermazione
e lo sviluppo del sistema capitalistico, nelle sue manifestazioni sette
ottocentesche dellindustrialesimo come in quelle in atto della societ
opulenta. Cercavamo infine di delineare le possibilit e le condizioni di
una sua uscita dalla crisi47.

9. Urbanistica e societ opulenta

I tre saggi suscitarono interesse nel mondo degli urbanisti. Aldo Rossi,
un intelligente architetto e urbanista milanese, dopo aver letto il primo
saggio, mi chiese di pubblicare, una volta conclusa la ricerca, lintero
lavoro in una nuova collana che stava preparando per leditore Marsilio,
che gi ospitava rilevanti collane di testi urbanistici. Accettai. Conclusi i
tre articoli, li riordinai in un unico testo, arricchendo e approfondendo
alcuni aspetti. Lo spedii ad Aldo Rossi.
Il primo libro della nuova collana usc con lannuncio della prossima
pubblicazione del mio. Ma il testo della presentazione, che non era stato
concordato con me, non mi piacque affatto: appiattiva il libro cos al-
meno mi parve allora con qualche frase a effetto. Protestai, litigammo,
il libro non usc.
Ne parlai allora con Italo Insolera: propose di segnalarlo alledi-
tore Einaudi, con cui era in buoni rapporti, aveva appena pubblicato
con lui il bellissimo suo libro sulla storia urbanistica di Roma capitale,

47 I temi di questo paragrafo sono stati sviluppati pi ampiamente in E. Salzano, Fondamen-


ti di urbanistica. La storia e la norma, Bari-Roma, Laterza, 20074, p. 25-34.

61
Roma moderna48. I redattori di Einaudi lo lessero, mi chiesero di andare
a Torino per discuterne. Presi il treno. Scesi allalbergo Roma (dove
Cesare Pavese si era suicidato pochi anni prima). Tutto ok mi dissero
le mandiamo il contratto, lei ce lo rispedir firmato e intanto partiamo.
Mesi di silenzio. Italo si inform. Seppe che, allultimo momento,
Giulio Einaudi aveva chiesto un parere al suo vecchio amico Bruno
Zevi. Sembra che lautorevole storico dellarchitettura avesse sentenzia-
to: Questo libro non deve essere pubblicato n ora n mai.
Continuando nei suoi tentativi, Italo lo fece avere alleditore Vito
Laterza, tramite il suo maestro Leonardo Benevolo. Laterza lo scorse,
gli sembr interessante e ben scritto. Se lo port in vacanza alle Tremiti,
lo lesse con attenzione, mi scrisse una lunga lettera nella quale mi muo-
veva precisissime osservazioni di merito e mi proponeva alcuni ragione-
voli cambiamenti, la maggior parte dei quali accettai.
Il libro usc nel 1969, con una bella copertina verde e blu, in una
collana nuova. Ebbe molto successo, soprattutto nel mondo dei giovani
architetti sessantottini.

48 I. Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Torino, Einaudi, 1971II.

62
Capitolo quinto
Esperienze di vita pubblica

1. Consigliere comunale a Roma

Come giovane urbanista avevo aiutato alcune sezioni del Pci romano in
qualche analisi della situazione locale. Era nota la mia adesione al grup-
po di Franco Rodano. Fu per queste ragioni che la federazione romana
del Pci decise di chiedermi di partecipare alle elezioni amministrative
del 1966 come indipendente, e di essere eletto per occuparmi della po-
litica urbanistica, affiancando gli altri autorevoli compagni che gi se ne
interessavano: Aldo Natoli, Piero Della Seta, Antonio Gigliotti49.
Il segretario della federazione, Renzo Trivelli, mi chiese un incon-
tro. Venne nello studio di via del Tempio. La sua richiesta mi era stata
anticipata dal mio antico compagno di studi Dado Morandi, attivo mi-
litante comunista nelle periferie romane. La mia candidatura era emersa
nelle riunioni del comitato federale, e aveva via via acquistato credibilit.
Dado era orgoglioso di comunicarmelo per primo. Accettai. Inizi una
storia che, con diverse forme e in diverse citt, sarebbe proseguita per
quasi trentanni.

49 A quei tempi le liste elettorali venivano formate, nellambito del Pci, con un attento do-
saggio di esponenti delle diverse realt sociali di cui si voleva guadagnare il consenso: le liste
dovevano essere rappresentative dellinsediamento sociale del partito. Allinterno delle liste si
sceglieva poi un certo numero di candidati su cui lorganizzazione del partito concentrava le
preferenze, per fare in modo che i gruppi eletti fossero da un lato rapprentativi delle pi forti
realt sociali, ma dallaltro fossero costituiti di esperti dei vari settori dazione dellamministra-
zione, locale o nazionale, su cui ci si doveva impegnare. La formazione delle liste e la decisione,
al loro interno, di quelli su cui dirigere i voti era quindi una discussione complessa, che coin-
volgeva le diverse istanze del partito, da quelle di base a quelle di direzione.

63
capitolo quinto

Poich ero sconosciuto ai compagni delle sezioni, che avrebbero


dovuto votare per me in obbedienza alle indicazioni del partito, mi fu
chiesto di preparare un volantino con una mia piccola biografia e una
dichiarazione. La propaganda individuale era consentita unicamente ai
candidati indipendenti: in quei tempi la personalizzazione della parte-
cipazione alla competizione elettorale, che oggi una causa del degra-
do della politica, era considerata colpa grave, per la quale si rischiava
lespulsione.
Per farmi conoscere, ed essere sicuri della mia elezione, non bast
il volantino. Mi fecero partecipare a comizi elettorali con membri auto-
revolissimi del Pci. Il primo fu nella popolare sezione di Torpignattara:
in una grande sala gremita, dopo un discorso di Giancarlo Pajetta, tra i
pi amati dirigenti nazionali del partito, pronunciai un breve intervento.
Ne segu uno allaperto, in piazza dei Navigatori, con Giorgio Amendo-
la, dirigente storico del Pci dagli anni del fascismo. Lo ricordo come un
comizio un po freddino. Pieno dentusiasmo e di pathos invece quello
successivo, nel popoloso quartiere di Centocelle, con Pietro Ingrao,
adorato dalla base romana del partito. A conclusione della manifesta-
zione, Ingrao fu strappato dal palco e portato in trionfo dai giovani
comunisti.
Dopo lultimo comizio andai a cena in un ristorante di Campo
defiori, con tutto il gruppo dirigente del partito. Uscendo di l e avvian-
doci verso la sede del Pci mi trovai accanto a Luigi Longo, segretario
nazionale del partito. Era un vecchio dirigente, formatosi attraverso
lesilio, la guerra di Spagna, la clandestinit della Resistenza e la guerra
partigiana in Italia. Molte cose che non appartenevano alla sua espe-
rienza gli sfuggivano. Non riesco a capire come mai a voi architetti
piacciano tanto queste case e questi quartieri degradati e vecchi; cos
pi bello dove abito io!. La sua abitazione era nel grande, moderno e
un po squallido palazzo di una cooperativa di deputati, lungo la via che
porta allEur.
Fui eletto. Cominci il duro lavoro di consigliere comunale di unop-
posizione che contava. Le riunioni della commissione urbanistica, della
quale facevo parte con Natoli e Della Seta, avvenivano due o tre volte
alla settimana, quelle del consiglio comunale una o due. E poi cerano le
riunioni del partito, quelle del gruppo consiliare, il lavoro con le sezioni.
In quegli anni cominciai anche a collaborare, come urbanista, al lavoro
del piccolo ufficio della direzione nazionale del Pci, in via delle Botte-
ghe Oscure, che di quegli argomenti si occupava. Mi iscrissi al Pci solo
nel 1971, al termine del mandato amministrativo: ero stato eletto come
indipendente e tale volevo restare, per rispetto dei miei elettori.

64
esperienze di vita pubblica

2. Il lavoro sullattuazione del piano regolatore generale di Roma del 1962

Il grosso del lavoro di consigliere comunale si svolgeva nella commis-


sione. Noi eravamo certamente i pi agguerriti e presenti. Il confronto
era tra Piero Della Seta e me da un lato, e lassessore allurbanistica de-
mocristiano, che per molti anni fu Maria Muu Cautela e il funzionario,
lingegnere Piero Samperi, abile strumento tecnico della politica demo-
cristiana, dallaltro.
Nel 1962 era stato adottato un nuovo prg, dopo un lunghissimo
dibattito e diversi progetti e atti amministrativi50. Cerano, nel piano,
alcune idee positive. La scelta fondamentale, che caratterizzava la sua
struttura, cos come era stato concepito dai cinque consulenti incarica-
ti51, era quella di combattere lo sviluppo della citt in tutte le direzioni
(a macchia dolio), determinato dal gioco esclusivo della rendita fon-
diaria, causa principale della congestione dellarea centrale e in particola-
re dei quartieri pi antichi. Lintenzione era di privilegiare lo sviluppo a
est, verso i Castelli romani, promuovendolo con un deciso spostamento
dal centro di tutte le attivit direzionali, sia pubbliche sia private. La pre-
visione pi forte fu quindi il nuovo Sistema direzionale orientale (Sdo):
una struttura costituita da tre grandi nuclei di uffici, attivit commerciali
e residenze, collegati tra loro e al resto della viabilit urbana e metropo-
litana da un asse attrezzato: un grande asse infrastrutturale costituito
da arterie stradali e vettori su rotaia.
Altro elemento positivo del piano era la tutela delle aree verdi del-
la citt, in particolare dei grandi parchi esistenti (villa Ada, villa Chigi,
villa Doria Pamphili, Castel Fusano, Castel Porziano) e il comprensorio
dellAppia Antica52.
Ma il piano si segnalava anche per due contributi importanti di caratte-
re generale, lintroduzione di due criteri che solo successivamente furono
resi norma generale nella legislazione nazionale (per essere prima o poi
disattesi): gli standard urbanistici, che furono resi obbligatori per tutti i
Comuni, come abbiamo visto, con la legge ponte del 1967 e il decreto
del 1968; e lattuazione programmata nel tempo del piano, introdotta
come norma generale con la legge Bucalossi del 1977, che prescrisse
la formazione del programma pluriennale dattuazione. Con questo

50 Insolera, Roma moderna, p. 251-282.


51 Erano Luigi Piccinato, Michele Valori, Lucio Passarelli, Mario Fiorentino, Piero Maria Lugli.
52 Questo fu introdotto dufficio con il decreto dapprovazione del piano dal ministro
Giacomo Mancini, in considerazione dei preminenti interessi dello Stato che ne chiedevano
la tutela.

65
capitolo quinto

strumento si stabiliva che le diverse previsioni del prg, in particolare la


realizzazione di nuove zone despansione, di nuove infrastrutture, di
nuove attrezzature pubbliche, non avvenissero casualmente nel tempo,
rispettando cio il solo disegno spaziale del piano, ma secondo un preciso
programma, valido non a tempo indeterminato come le previsioni del prg,
ma per un periodo breve (3-4 anni), e stabilendo quali erano gli interventi
da attuarsi nel prossimo periodo, talch la realizzazione di infrastrutture,
servizi ed edilizia avvenisse contemporaneamente.
Gli elementi negativi del piano erano soprattutto tre. Innanzitutto
leccessiva dimensione delle previsioni edilizie, dovuta in particolare
allinserimento di numerosissime zone despansione: grandissime aree,
ciascuna destinata ad accogliere edilizia per migliaia, e a volte decine
di migliaia di abitanti. In secondo luogo, linsufficienza regolativa delle
norme previste per la parte gi costruita della citt, dove erano consen-
titi pesanti interventi di sostituzione che avrebbero accresciuto ulterior-
mente la congestione delle zone centrali. Infine, lassoluta mancanza
di volont politica di rendere davvero concreti gli elementi positivi del
piano, a partire dalla sua attuazione programmata nel tempo e dalla rea-
lizzazione dello Sdo.
Una prima fase del lavoro che svolgemmo in commissione consi-
liare consistette nellesame delle numerosissime osservazioni al prg e
alla stesura delle relative controdeduzioni, con le modifiche conseguenti
a quelle accolte. Prima di prendere in considerazione le osservazioni
discutemmo i criteri sulla base dei quali le avremmo esaminate e avrem-
mo deciso, e preparammo una serie di formule per le varie tipologie di
accettazione o di rigetto delle proposte presentate. Senza grande fatica
riuscimmo a ottenere linserimento di una formula che ci permetteva di
escludere sistematicamente molte delle osservazioni palesemente volte
solo a privilegiare interessi privati. La formula era, grosso modo, la se-
guente: Losservazione appare volta alla tutela dun interesse privato in
contrasto con gli indirizzi del piano.
Mentre scrivo, devo osservare che in questi anni la prassi, che si vuole
rafforzare con leggi di riforma, esattamente quella opposta: si tende a
privilegiare gli interessi immobiliari privati sugli interessi pubblici53.

53 Il disegno di legge dellonorevole Lupi, presentato nella xiv legislatura e ripresentato


nella successiva, prevede esplicitamente che la pianificazione avvenga mediante ladozione di
atti negoziali in luogo di atti autoritativi: in parole povere, mediante la contrattazione con gli
interessi immobiliari anzich mediante autonome scelte del potere pubblico. E gli interessi dei
proprietari sono privilegiati, nelle proposte legislative e nella prassi di quasi tutte le istituzioni,
nei confronti di quelli dei cittadini. Vedi capitolo 14, paragrafo 2 e seg.

66
esperienze di vita pubblica

Conclusa questa parte del lavoro e approvato definitivamente il


piano, si pass alla fase dellattuazione. Per un primo periodo il nostro
gruppo si oppose recisamente a prendere in esame lattuazione dei
grandi comprensori despansione privati: sembravano invece essere
lunica previsione alla quale la giunta democristiana tenesse. Dal punto
di vista dei concreti interessi, erano la polpa del piano, e la parte pi
facile da attuare. Il nostro peso politico era notevole: bench fossimo
allopposizione, riuscivamo a incidere sulle scelte. O, almeno, a far s
che non passassero quelle a cui eravamo pi nettamente contrari, eserci-
tando forme di ostruzionismo e appellandoci allopinione pubblica.
Poi, a un certo punto, lopposizione del Pci si ammorbid. Non ne
compresi subito il perch. Allora seguivo poco le vicende politiche
della federazione romana e della direzione nazionale: del resto, non ero
iscritto al partito ed ero eletto come indipendente. Il leader del gruppo
consiliare non era pi Aldo Natoli, che era su posizioni molto rigorose.
Erano gli anni nei quali maturava la formazione del gruppo del manife-
sto, che condusse poi alla radiazione dei suoi promotori dal Pci; a quel
gruppo Natoli era molto vicino. Ma era linsieme dellatteggiamento del
Pci che stava cambiando. Lurbanistica, almeno a Roma, non era pi ar-
gomento centrale: le sue scelte potevano essere adoperate come merce
di scambio per ottenere altri vantaggi, vantaggi politici devo aggiungere
e sottolineare, non di mero potere o, peggio, di gratificazione personale,
come avviene adesso.
Cos, in cambio dun atteggiamento della Dc pi vicino alle posizio-
ni della sinistra sui grandi temi simbolici (come lapprovazione unani-
me da parte del consiglio di un ordine del giorno contro la guerra del
Vietnam), assumemmo un atteggiamento pi disponibile sulla politica
urbanistica. Fino ad allora avevamo impedito che i piani di lottizzazio-
ne convenzionata delle grandi zone despansione fossero presentati in
commissione per lesame: adesso accettammo di entrare nel merito in
commissione, e poi in consiglio per la decisione. Avremmo espresso la
nostra posizione, argomentatamente, per ciascuno dei piani, poi si sa-
rebbe passati ai voti.

3. La battaglia per Capocotta

Allinizio degli anni Settanta, gran parte della nostra attivit in Campido-
glio fu dunque dedicata allesame dei vari progetti attuativi del prg. Vo-
tammo a favore pochissime volte, contro quasi sempre, ma il risultato
fu scarso: la giunta aveva la forza dei numeri. Compresi l la differenza

67
capitolo quinto

tra le varie forme di fare opposizione. Anche se si in minoranza si


possono bloccare le scelte della maggioranza. Poche cose dividono
quegli anni da quelli presenti, ma sono fondamentali. In primo luogo, i
consigli (cio gli organismi larghi delle istituzioni elettive, quelli rappre-
sentativi di tutte le posizioni politiche) contavano molto pi di oggi. Poi
cera in tutti il rispetto per la legalit: cerano tra noi alcuni bravissimi
consiglieri che studiavano, prima delle riunioni, tutte le deliberazioni su
cui avremmo votato, e scoprivano ogni imperfezione che le rendesse su-
scettibili di critica sotto laspetto giuridico e amministrativo. Infine cera
una maggiore attenzione, da parte di tutti, al merito delle cose; e cos si
riusciva a convincere anche lavversario politico.
La democrazia rappresentativa funzionava molto meglio di adesso.
Allora i consigli dei diversi livelli di governo, come il parlamento nazio-
nale, erano davvero lo specchio del paese: in essi avevano rappresen-
tanza e voce, e partecipavano alle decisioni almeno con lespressione
forte della loro argomentata opinione, i rappresentanti di tutte le posi-
zioni politiche e culturali che avevano sufficiente seguito. Le grandi de-
cisioni nellambito del Comune, come degli altri livelli di governo le
assumeva il consiglio, non la giunta o il sindaco. I diritti dinformazione,
di argomentazione, di proposta erano riconosciuti a tutti. A partire dagli
anni Novanta, le cose sono radicalmente cambiate. Prima con il passag-
gio dal voto proporzionale a quello uninominale, che ha ridotto la rap-
presentativit; poi con il trasferimento di poteri dai consigli alle giunte
(espressione della maggioranza) e da queste al sindaco. Oggi i consigli
non decidono pi nulla: si limitano a ratificare le decisioni gi prese. La
scelta compiuta dalle forze politiche maggiori, in modo completamente
bipartisan, stata quella di privilegiare la governabilit sulla democrazia, il
decisionismo sulla partecipazione.
Il Consiglio contava ancora, e in esso i comunisti, quando la giunta
ci present per lesame una lottizzazione minore, denominata Marina
reale: si trattava di una zona despansione sul litorale, che avrebbe reso
possibile la costruzione di cinquemila ville. Nessuno di noi conosceva
larea, ma la cosa ci insospett. Della Seta e io chiedemmo di fare un
sopralluogo. Una richiesta abbastanza inconsueta per quei tempi; in
genere, lorganizzazione capillare del partito ci consentiva di avere, at-
traverso le sezioni, informazioni precise delle varie realt, ma per quella
zona non avevamo raccolto nessuna informazione.
Un pullmino ci port sul posto; cerano anche lassessore e altri
membri della commissione. Arrivammo, dalla campagna romana, in
una grandissima pineta: alti pini marittimi ombreggiavano un verde
prato. Camminando in direzione del mare, ci addentrammo in una

68
esperienze di vita pubblica

selva pi intricata: si trattava di uno splendido bosco mediterraneo, il


terreno disseminato di ciclamini e grandissime ghiande cascate dalle
querce. Una foresta meravigliosa, che terminava sul mare con una serie
di dune intatte. Tornando in citt, decidemmo con Piero che quella
lottizzazione non si sarebbe fatta. Buttai gi frettolosamente un breve
comunicato. Lo spedii a qualche decina di indirizzi, principalmente alla
stampa. La cosa colp. Il giorno dopo il Messaggero pubblic un am-
pio servizio. Lopinione pubblica si mosse. Il ministro dei Lavori pub-
blici, Giacomo Mancini, intervenne. Loperazione fu bloccata, il bosco
di Capocotta fu salvo.
Eppure, gli interessi della propriet erano potenti. Vi erano tre grup-
pi di proprietari: gli eredi della famiglia Savoia (s, proprio la ex famiglia
reale), un gruppo di costruttori romani e il potente sindacato dei lavo-
ratori israeliani, lHistadrut. Una giovane, bella ed elegante emissaria
di questultimo (rappresentato da uno studio svizzero) mi chiese un
appuntamento; la incontrai, mi fece balenare proposte maliziose che,
ovviamente, lasciai cadere. Fu la prima e unica volta, in tutta la mia car-
riera di amministratore, che subii un tentativo di corruzione.

4. Le borgate abusive

Non solo di piani si nutriva il lavoro del consigliere comunale comuni-


sta in Campidoglio. Si trattava anche di aiutare i compagni delle sezioni
a comprendere e a intervenire sulle situazioni delle realt locali in cui
operavano e di cui rappresentavano gli interessi. Ebbi loccasione di co-
noscere moltissimi compagni di grande valore; il disinteresse personale,
la disponibilit a farsi carico degli altri, la volont di comprendere e di
far comprendere, di imparare e di insegnare: queste erano le caratteristi-
che comuni a tanti giovani architetti o studenti, o semplici militanti di
base, che conobbi allora.
Con Piercamillo Beccaria mi interessai della situazione del quartiere
di Primavalle, sottoposto a un progetto di trasformazione che noi vole-
vamo riqualificare nellinteresse dei cittadini. In seguito, Beccaria vinse
un concorso e and a lavorare come urbanista nel Comune di Mo-
dena, dove divenne consigliere comunale, assessore, e poi bravissimo
sindaco54. Con Vittorio Caporioni e un gruppo di giovani studenti di

54 Piero Beccaria diede anche un altissimo insegnamento di vita. Colpito dal cancro, scrisse
una lettera ai cittadini nella quale li informava della sua malattia e annunciava che avrebbe

69
capitolo quinto

architettura lavorammo per spiegare ai cittadini del popoloso quartiere


di San Lorenzo i misteri dellurbanistica. Con Giuliano Prasca indi-
rizzammo verso la conquista di spazi pubblici le numerose compagini e
associazioni di sportivi che lui, dirigente dellUisp (Unione italiana spor
popolare), allenava per la ricreazione e mobilitava per la civilt (mi fece
un complimento tra i pi belli che abbia mai ricevuto: Salzano mi ha
insegnato a dare del tu al territorio).
Un problema che si ripresentava spesso, e nel quale il Pci era forte-
mente impegnato, era quello delle borgate abusive. Erano insediamenti
spontanei, nati nellagro romano: ammassi di casupole in foratini, la-
miere e materiali raccogliticci, e tuguri ricavati sotto gli archi delle ro-
vine degli acquedotti romani. Prima della guerra ospitavano una parte
degli abitanti cacciati dal centro storico dalle demolizioni del periodo
fascista55; nel dopoguerra, le famiglie povere che la crisi dellagricoltura
aveva cacciato dai paeselli dorigine e il gigantesco boom delledilizia
aveva richiamato nella capitale, ancor prima che il parlamento, nel
1960, abrogasse le leggi fasciste contro lurbanesimo, che avevano reso
praticamente impossibile spostarsi dalla campagna alla citt in cerca di
un lavoro.
Via via le borgate si erano trasformate. Negli anni Cinquanta e Ses-
santa erano sorte su lottizzazioni abusive di terreni: un proprietario fon-
diario faceva disegnare una mappa che suddivideva il suo terreno in lot-
ti di poche centinaia di mq; tramite abili intermediari vendeva i lotti agli
immigrati; questi, in prevalenza muratori o manovali, con la solidariet
degli amici mettevano su in fretta e furia una casetta. Si costituivano
cos insediamenti di qualche consistenza, ma lontani dalla citt, privi di
acqua, elettricit, fognature e, naturalmente, servizi collettivi. Una mas-
sa di piccoli slums accerchiava la capitale, che intanto si estendeva con i
palazzoni nei quartieri legali.
Il prg del 1962 aveva del tutto trascurato le periferie. Scrive Insolera:
Non si parla invero delle borgate: se le cerchiamo sui gra-
fici del piano constatiamo che per la maggior parte di esse
prescritta la conservazione dei volumi attuali, n sono previste
intorno ad esse sufficienti aree per linsediamento di quei servizi
di cui le borgate sono notoriamente prive. Non dato vedere
nel progetto di piano una politica della periferia, intesa come
rottura della tradizionale indifferenza dei piani regolatori romani

continuato a fare il sindaco finch ne avesse avuto la forza. Rendeva pubblica la sua condizione
per testimoniare che la malattia non una vergogna da tenere nascosta.
55 A. Cederna, Mussolini urbanista, Venezia, Corte del Fontego, 2006.

70
esperienze di vita pubblica

verso quelle zone della citt dove, nelle baracche, nelle borgate,
negli alveari di cemento armato, si accumulano da cento anni
energie umiliate e frustrate, vane speranze di uomini a cui non
stato dato di partecipare allevoluzione di quella civile comunit
di persone che dovrebbe essere una citt56.

Il popolo delle borgate protestava. Il lottizzatore abusivo era scom-


parso, restavano ormai le famiglie dei disperati costruttori della citt
illegale. Il Pci raccoglieva ed esprimeva la protesta, la trasformava in
richiesta di condizioni civili di cittadinanza. Mano a mano si riusc a
ottenere che venissero realizzate le fogne e lacquedotto, che fossero
servite da un autobus, che le pi popolose venissero dotate di qualche
essenziale attrezzatura pubblica.
Ma questo percorso di doveroso riconoscimento di diritti di cittadi-
nanza finiva per consolidare labusivismo. Nuovi insediamenti abusivi
nascevano, quelli esistenti mutavano le loro caratteristiche: da tuguri a
casette, da casette a ville e villette, addirittura piccoli condomini. Negli
anni in cui ero consigliere comunale il fenomeno era in una fase avan-
zata di transizione. Ne eravamo consapevoli, cercavamo senza riuscirci
di risolvere la contraddizione tra riconoscimento di diritti elementari e
corretta gestione del territorio.

5. Il Sessantotto

Quando scoppi quel grande evento che fu il Sessantotto non ero del
tutto impreparato. Attraverso il gruppo del Dibattito politico avevo
conosciuto e condiviso la critica alla societ opulenta di J. K. Galbraith57.
Ricordo un articolo che scrissi nel 1959, una sorta di recensione al libro.
Il titolo era Linutile opulenza58.
Nellarticolo concordavo con lanalisi di Gailbraith, ma ritenevo,
daccordo col gruppo, che la soluzione non potesse essere quella da lui
proposta, di estendere il campo dazione dello Stato nelleconomia, al
fine di riequilibrare la bilancia sociale e di dare pi largo respiro alla pro-
duzione di merci utili: scuole, ospedali, servizi pubblici in genere e cos
via. Noi sostenevamo che allinterno di una concezione delleconomia
che a s stessa subordina ogni altro valore, ogni altra attivit, ogni altra

56 Insolera, Roma moderna, p. 268.


57 J. K. Galbraith, La societ opulenta, Milano, Edizioni di Comunit, 1965.
58 E. Salzano, Linutile opulenza, il Dibattito politico, 133-34 (10 mag. 1959), p. 25.

71
capitolo quinto

dimensione dellumano operare, si dovesse porre il problema sul pia-


no del superamento di una civilt, di una cultura, di un sistema sociale
basati sul secco prevalere della dimensione economica, e quindi sulla
priorit assoluta dei valori quantitativi e materiali.
Vivevamo ormai nel pieno della societ opulenta, i cui connotati
La Rivista trimestrale aveva ampiamente indagato; io stesso avevo gi
pubblicato il saggio Ambiguit della citt opulenta59. E consideravamo i
grandi moti degli studenti come lespressione del malcontento dei figli
dellopulenza, che non trovando sbocchi politici distruggevano tutti i
costrutti dei loro genitori.
Mentre io militavo diligentemente nel Pci e in consiglio comu-
nale, alcuni miei amici e conoscenti occupavano facolt universitarie e
si prendevano a botte con la polizia. Non eravamo in due mondi del
tutto diversi, ma certo facevamo fatica a capirci. A me irritava partico-
larmente latteggiamento aggressivo nei confronti del partito nel quale
militavo e dei suoi aderenti, il rifiuto del confronto pacato. Ricordo che
una volta gli studenti che occupavano la facolt di architettura di Roma
chiesero al Pci di mandare un suo esponente a illustrare la politica
della casa del Pci. Andammo in due, Bruno Roscani e io: ci fu molto
difficile parlare di cose concrete, venivamo continuamente interrotti e
insultati come riformisti, servi dei padroni e cos via60. Gli studenti
di architettura erano dotati, in quella fase, di grande energia creativa.
Avevano affrescato con fiori, alberi e uccelli i locali della facolt, alcuni
si erano incatenati in cima a un campanile (a SantIvo alla Sapienza) per
protestare pubblicamente, altri chiedevano colloqui col professore: nel
suo studio, poi, restavano seduti silenziosi a guardarlo, gettando a terra,
uno per uno, i fogli bianchi di una risma di carta, per significare che la
cultura non aveva niente da dire.
I rapporti tra la sinistra ufficiale e gli studenti del Sessantotto non
furono mai facili, sebbene migliorarono nettamente quando il segretario
nazionale del Pci, Luigi Longo, apr con loro un dialogo e, sulle riviste
del partito, cominci una riflessione sul significato di quel movimento.
Anche nel nostro gruppo non ricordo entusiasmi nei confronti del mo-
vimento sessantottino. Secondo molti, il Sessantotto ha rappresentato
anche un forte spostamento dellattenzione sociale dal pubblico al pri-
vato, dal common allindividual. Comunque, a quel movimento mi sentivo

59 Vedi p. 59.
60 Solo molto pi tardi seppi che il leader degli studenti che affollavano quellincontro era
Antonello Sotgia, che oggi collabora con eddyburg con articoli sulle iniziative romane sulla
questione delle abitazioni.

72
esperienze di vita pubblica

estraneo, sebbene probabilmente il clima generale che il Sessantotto


aveva provocato nei rapporti personali contribu a modifiche sostanziali
nella mia vita privata.
Riflettendoci a posteriori mi sembra che di quel generale sommovi-
mento occorra valutare due aspetti, che David Harvey pone chiaramen-
te in luce. Lo studioso statunitense sottolinea come gli sconvolgimenti
politici avvenuti in tutto il mondo nel 1968 fossero fortemente segnati
dal desiderio di maggiori libert personali; ci era certamente vero per
gli studenti:
Chiedevano libert dalle costrizioni esercitate dalle famiglie,
dalle strutture educative, aziendali, burocratiche e dallo Stato.
Ma il movimento del 68 aveva anche come obiettivo politico
primario la giustizia sociale. I valori della libert individuale e
della giustizia sociale non sono, per, necessariamente compa-
tibili. Il perseguimento della giustizia sociale presuppone solida-
riet sociali e una propensione a sublimare le esigenze, i bisogni
e i desideri individuali nellambito di una lotta pi generale, per
esempio per luguaglianza sociale o la giustizia ambientale. Nel
movimento del 68 gli obiettivi che riguardavano la giustizia
sociale e quelli relativi alla libert individuale si fondevano con
qualche difficolt. Lattrito divenne pi che mai evidente nella
tensione che caratterizz i rapporti tra la sinistra tradizionale
(organizzazioni dei lavoratori e partiti politici) a favore delle so-
lidariet sociali e il movimento studentesco desideroso di libert
individuali61.

In effetti, il movimento del 68, mentre da un lato, infrangendo i ta-


b dellautoritarismo e del controllo sociale, liberava le energie derivanti
dalla piena esplicazione dei diritti individuali, dava spazio allaffermazio-
ne delle differenze (a cominciare da quelle di genere) e promuoveva la
piena espressione delle pulsioni personali, dallaltro vedeva smarrire
il senso della dimensione sociale, essenziale per lequilibrio stesso della
persona. In Italia, probabilmente, questo ripiegamento sullindividua-
lismo neoreomantico62 incise meno che altrove, anche perch incontr
rapidamente un altro movimento, rappresentato dal mondo del lavoro e
dalle sue organizzazioni economiche e politiche.

61 D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Milano, Il Saggiatore, 2007, p. 53.


62 La storia dellindividualismo, a partire dal 1968, evidenzia questa tendenza; o, per dirla
con Luc Boltanski, il capitalismo moderno ha integrato con successo la critica creativa del
movimento del 68, trasformando il suo idealismo in un individualismo neoromantico espres-
so principalmente attraverso il mondo delle merci, in P. Ginsborg, Il tempo di cambiare. Politica
e potere della vita quotidiana, Torino, Einaudi, 2004, p. 83.

73
capitolo quinto

In Italia, quegli anni ebbero un carattere abbastanza diverso dal


Sessantotto nelle altre regioni del mondo. Come scrive quarantanni pi
tardi Alberto Asor Rosa, solo in Italia solo in Italia, in tutto il mondo
movimento studentesco e movimento operaio crebbero solidalmente,
tendendosi la mano. E prosegue:
Dovaltro mai, e quando mai, accaduta una cosa del gene-
re? Il deprezzamento del 1968-69 fa parte integrante del clima
degradato di questi nostri giorni, si dimentica che questo stato
un punto alto della storia dItalia, un momento europeo e in-
ternazionale, come in Italia ne capitano pochi. Cambi il modo
di considerare la politica. Si fece politica di massa anche fuori
dei partiti. Le donne conquistarono un posto che prima non
avevano. Partiti e sindacati furono costretti a prenderne atto, a
registrare i loro obiettivi e le loro metodologie organizzative.
Insomma, lItalia divent pi libera rispetto al proprio passato.
E gli intellettuali, piccoli e grandi (che altro sono gli studenti se
non intellettuali in formazione?), vi recitarono una parte non
certo minore, e sicuramente positiva63.

6. Verso lautunno caldo

In Italia il movimento degli studenti incontr, e contribu a preparare


e a sostenere, laltro grande evento di quegli anni. Tra la primavera del
1968 e lautunno del 1969 si apr infatti in Italia una grande vertenza
sindacale. Due filoni di problemi la animarono. Da una parte le riven-
dicazioni in qualche modo tradizionali, legate al rinnovo dei contratti e
alle condizioni di lavoro nelle fabbriche. Il primo episodio rilevante fu
lo sciopero degli operai del lanificio Marzotto a Valdagno, nel Vicentino.
Una vertenza molto aspra che, a partire dallaprile 1968, vide loccu-
pazione della fabbrica, labbattimento della statua del suo fondatore
(che campeggiava nella piazza principale del paese, quasi a simboleggia-
re il ruolo servile della citt rispetto al padrone della fabbrica), la repres-
sione, in quel caso incruenta, della polizia, il coinvolgimento solidale di
tutta la cittadina, compreso il Comune a prevalenza democristiana64.
Dallaltra parte, la protesta sindacale era nutrita da altri temi: quelli
legati alle condizioni di vita nella citt e nel territorio. Per la prima volta

63 A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di S. Fiori, Roma-Bari,
Laterza, 2009, p. 63.
64 La statua nella polvere: 1968. Le lotte alla Marzotto, a cura di O. Mancini, Roma, Ediesse,
2008.

74
esperienze di vita pubblica

le rivendicazioni dei lavoratori e della loro organizzazione non riguar-


davano solo le questioni dei salari e dei contratti nelle fabbriche o le
condizioni di lavoro nelle campagne, ma affrontavano i temi della citt:
il problema dei trasporti, della casa, dei servizi sociali furono al centro
di una vertenza che sfoci in un grande sciopero generale nazionale.
Ed era una rivendicazione unitaria, nel senso che vedeva la partecipazio-
ne convinta delle tre grandi centrali nelle quali il movimento sindacale si
era scisso negli anni della guerra fredda: la Cgil, orientata a sinistra, la
Cisl, vicina al partito cattolico, la Uil, di ispirazione laica.
La storia era cominciata a Torino, nella primavera del 1969.
Vi avevo dedicato un ampio articolo su una piccola rivista di cui Vezio,
alcuni amici napoletani e io avevamo avviato, molto artigianalmente, la
pubblicazione. La rivista si chiamava Polis; ne uscirono due numeri65.
La vicenda che raccontavo era la seguente.
Nel marzo 1969 la Fiat aveva pubblicato un bando per assumere
negli stabilimenti di Torino quindicimila nuovi addetti, reclutandoli nel
Mezzogiorno: il loro trasferimento assieme alle famiglie avrebbe signifi-
cato almeno sessantamila nuovi immigrati a Torino. Le organizzazioni
sindacali rilevarono subito che i programmi di espansione degli impianti
e delloccupazione della Fiat avrebbero ulteriormente aggravato lemar-
ginazione delle regioni meridionali e gli squilibri territoriali.
Sia la stampa locale e nazionale sia i parlamentari della sinistra cri-
ticarono liniziativa della Fiat, sottolineando linsufficienza grave della
programmazione economica. Noi condividevamo queste critiche, ma
alzavamo il tiro e ci riferivamo al modello di sviluppo: se non si critica
e supera questo modello di sviluppo, chi potr mai ragionevolmente
impedire alla Fiat di ampliare i suoi impianti a Torino, finch la Fiat
produrr per la motorizzazione privata? Che senso avrebbe produrre
a Cosenza o a Trapani o a Nuoro automobili, se il mercato essenzial-
mente nel triangolo industriale e nei poli maggiori?66.
Nellarea torinese si manifestava una decisa opposizione alliniziativa
della Fiat, soprattutto nei confronti di ogni indiscriminato aumento
della popolazione che avrebbe fatto saltare le gi precarie strutture
residenziali, e quel po di attrezzature sociali funzionanti nei comuni
della cintura. La protesta sfociava nello sciopero generale provinciale
del 3 luglio 1969 contro il carocasa e per un massiccio e tempestivo

65 La redazione di Polis: Giuseppe Basile, Alessandro Dal Piaz, Edoardo Delgado, Vezio
De Lucia, Raffaele Molino, Antonio Oliva, Edoardo Salzano (responsabile), Lucio Scandizzo.
Grafico: Gianni Gennaro.
66 E. Salzano, I quindicimila della Fiat: un episodio della programmazione, Polis, 1 (ago. 1969).

75
capitolo quinto

intervento dello Stato nelledilizia. I fatti di Torino, gli altri scioperi


generali in numerose province nei mesi successivi, le proteste degli abi-
tanti delle baracche e negli altri insediamenti impropri, il ripetersi delle
occupazioni di alloggi (e, dallaltra parte, lesistenza di numerosi alloggi
con canoni daffitto bloccati ai valori di prima della guerra) ponevano in
primo piano la necessit di una nuova politica della casa.

7. Lo sciopero generale del 1969

Lautunno del 1969 fu probabilmente il momento pi alto dello scontro


sui problemi del territorio e della sua organizzazione: si trattava di affer-
mare il diritto alla citt come elemento essenziale di una societ riformata.
Quei temi non erano agitati solo da lite intellettuali e dalle componenti
pi radicali della sinistra (allora espresse dallala della sinistra del Psi che
faceva capo a Riccardo Lombardi). Era linsieme dei sindacati dei lavo-
ratori che scendeva in campo, con lappoggio del maggior partito della
sinistra, il Pci, che si avviava a essere quello col pi ampio consenso
elettorale.
Ricordo, poche settimane prima dello sciopero nazionale, un con-
vegno del Pci dedicato proprio a questi temi. Il titolo era Il diritto
alla casa e a una citt per gli uomini. La relazione introduttiva fu di
Alarico Carrassi, responsabile del settore presso la direzione del partito;
comunicazioni furono svolte dai parlamentari Alberto Todros, Franco
Busetto, dallassessore bolognese Armando Sarti, dal giurista Salvatore
DAlbergo, dallurbanista milanese Alessandro Tutino, dal sindacalista
Bruno Roscani, da me e da molti altri. Il titolo del mio intervento era
Dalla rivendicazione per la casa alla lotta per un nuovo assetto della re-
sidenza; mi proponevo di intrecciare attorno al tema principale, la casa,
quello degli spazi pubblici e delle attrezzature, e gli altri elementi della
complessiva questione urbana. Non mi rendevo conto pienamente che
era proprio nellintreccio tra questi due elementi, la casa e gli spazi pubbli-
ci, che si stava delineando uno dei percorsi di quello che Henri Lefebvre
aveva gi definito diritto alla citt67.
Le conclusioni del convegno furono tratte da Pietro Ingrao.
La discussione fu pienamente di merito, sulle questioni in s, senza ac-
cademismi n politicismi. Ricordo Ingrao che, attentissimo, prendeva

67 H. Lefebvre, Il diritto alla citt, Padova, Marsilio, 1970I (ed. orig.: Le droit la ville, Paris,
Edition Anthropos, 1968).

76
esperienze di vita pubblica

diligentemente appunti su un grande quaderno formato protocollo e


poi, nelle conclusioni che diventavano la linea politica del Pci inseri-
va in un quadro organico ciascuna delle valutazioni e proposte che era-
no emerse. Oltre alla sostanza, ammirai il metodo di lavoro, che a quei
tempi era comune ai dirigenti politici, almeno nella sinistra68.
Da quel momento cominci uno scontro politico di inusitata asprez-
za e, contemporaneamente, un percorso di innovazioni legislative che,
sebbene non raggiunse gli obiettivi di una vera riforma dellurbanistica
a partire dalla questione dei suoli urbani, defin un quadro di strumenti
di grande positivit.
Come ha scritto Paul Ginsborg, in quegli anni le forze che preme-
vano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana
erano ben pi forti che allepoca di Sullo e dellinizio del centrosinistra.
La principale differenza consisteva nella presenza attiva del movimento
operaio69.
Molti anni dopo, nel concludere la mia relazione a un convegno or-
ganizzato assieme alle Camere del lavoro della Cgil, sostenevo di nutri-
re un sogno, che il movimento dei lavoratori riprendesse nelle sue mani
la vertenza per una citt pi giusta e perci pi bella, per un territorio
tutelato nelle sue qualit e sottratto ai rischi, che incontrasse le altre com-
ponenti della societ che si battono per gli stessi obiettivi70.

68 Il convegno si tenne a Roma, al Teatro centrale, e si svolse il 30 e il 31 ott. 1969. Esistono


gli atti, ciclostilati; ne far presto la scansione per metterli a disposizione in eddyburg.
69 Ginsborg, Storia dItalia dal dopoguerra a oggi, p. 445
70 E. Salzano, La citt come bene comune, in E. Salzano, Citt e lavoro, Roma, Ediesse,
2009, p. 30.

77
Capitolo sesto
Organizzazione della cultura

1. Nascita e crisi dellInu

Il movimento studentesco del 68 aveva travolto lInu, il prestigioso


Istituto di alta cultura urbanistica, promotore dellintroduzione in Italia
dei principi e delle pratiche della buona urbanistica europea. Il ruolo
dellInu era stato rilevante gi nellItalia degli anni fascisti (listituto era
nato nel 1930, come me), poi nellItalia democratica, attivo soprattut-
to dalla fine degli anni Cinquanta alla fine dei Sessanta, quando si era
avviata con il centro-sinistra di Aldo Moro, Ugo La Malfa e Pietro
Nenni la fase riformatrice della societ italiana. Delle grandi riforme
di struttura (nazionalizzazione dellenergia elettrica, riforma agraria,
riforma della scuola media, istituzione delle Regioni, programmazio-
ne economica) faceva parte organicamente la riforma dellurbanistica.
E lInu lavorava alacremente, sia per diffondere la buona urbanistica nei
Comuni e nelle universit, sia per mutare il quadro legislativo.
Con il declino dello spirito riformatore del centro-sinistra e, soprat-
tutto, sotto la spinta contestatrice del movimento studentesco, la carica
innovativa e critica dellInu si era stemperata. Ci apparve evidente al
rituale congresso, che si tenne a Napoli, nel 1969, nel grande teatro del-
la Mostra dOltremare. Sul palco, accanto ai dirigenti dellInu sedevano
sindaco, prefetto, vescovo: tutta lautorit costituita, in una citt che non
era certamente allavanguardia della politica progressista.
Con un ingresso teatrale di grande efficacia, gli studenti della facol-
t di architettura interruppero il congresso. Cominciarono dal fondo
della sala ad affiggere alle pareti manifesti irridenti e provocatori; poi
si avvicinarono e mano a mano li appesero ai tendaggi dietro il pal-
co e allo stesso tavolo della presidenza. Mentre i volponi del potere

79
capitolo sesto

sgusciavano via dietro le quinte, gli studenti conclusero la performance


con un grande lancio di rotoli di carta igienica, sciorinati a mo di car-
nevalizie stelle filanti.
Qualcuno aveva chiamato la polizia. La Celere, con gli scudi e le vi-
siere dei caschi abbassate, irruppe dal fondo della sala. Uno dei dirigenti
dellInu, lirruento Giuseppe Campos Venuti, salt sul palco, afferr il
microfono dalle mani di Bruno Zevi, segretario generale dellInu e url,
rivolto ai poliziotti, Questi sono i nostri figli, non intervenite, non li
toccate!. La polizia si allontan, le acque si placarono, la sala si svuot.
Ma lInu era in rotta.

2. La ricostruzione

Gorio mi aveva portato a Napoli per il congresso. Con lui, dopo il col-
po di scena degli studenti, andai nella hall dellHotel Excelsior, dove i
membri del gruppo dirigente dellInu si erano riuniti. Cerano Edoardo
Detti, Bruno Zevi, Giuseppe Samon, Giuseppe Campos Venuti, Luigi
Piccinato, Cesare Valle, Mario Fiorentino. Cera anche un simpatico
giornalista dellUnit, un giovane alto e riccioluto, giunto per fare
diligentemente la cronaca del congresso degli urbanisti (allora si usava
cos): era Diego Novelli, che poi divent amatissimo sindaco di Torino.
Latmosfera era di disperazione. Sembrava che lInu fosse finito. In re-
alt era morto il vecchio Inu, ormai legato al potere, e si erano gettate
le basi di un nuovo Inu.
Lattivit riprese in sordina. Nel 1969 ad Arezzo, nel 1970 a Bologna
e lanno successivo a Roma si riunirono i soci dellistituto. A Bologna
lassemblea elesse presidente Edoardo Detti, urbanista fiorentino, as-
sessore nella giunta di Giorgio La Pira. Attorno a lui si strinse un grup-
petto di soci che avvi la ricostruzione dellInu: tra i vecchi leader, solo
Luigi Piccinato, Vincenzo Cabianca e Alessandro Tutino affiancarono il
nuovo presidente. Nei convegni di Bologna e Roma, ricorda Franco Gi-
rardi, tema comune era la politica della casa e del territorio: Confluiva-
no in questo tema le due grosse questioni, che si andavano dibattendo
nella sfera politica: il diritto alla casa, postulato dalla sinistra, e la riforma
del regime immobiliare, imposta dalla sentenza della Corte costituzionale.
Sulla seconda questione, una relazione di Alessandro Tutino chiariva
quali ne erano i termini e illuminava sui concreti interessi economici
che stavano dietro: Questi interessi, di antica data, incrostati sulla co-
siddetta rendita parassitaria, andavano preparando la rivincita dopo gli
anni delle riforme di centro-sinistra e delle sottili [sic] distinzioni tra

80
organizzazione della cultura

rendita e profitto. Con questa materia dura avrebbe dovuto confrontarsi


lazione dellInu negli anni seguenti71.
Dopo anni caratterizzati da un impegno prevalentemente nella cul-
tura tecnica e nella collaborazione con le istituzioni, listituto decide di
privilegiare ci che avviene nella societ. Gli interlocutori principali non
sono pi le autorit accademiche o governative. Essi vengono scelti nel-
le forze di base e nei poteri locali, i comitati di quartiere, i Comuni, le
neonate Regioni, i sindacati dei lavoratori e le associazioni pi combatti-
ve che lottano per la casa, i servizi, il verde. Se le ragioni dellurbanistica
vogliono affermarsi, esse devono diventare patrimonio delle parti pi
attive e combattive della societ: soltanto cos si potranno compiere
progressi anche sul terreno delle istituzioni.
Parallelamente, lInu aument lo sforzo culturale per comprendere
meglio le regole che di fatto determinano i processi di trasformazione ur-
bana e territoriale. La critica alla speculazione fondiaria ed edilizia divent
pi ferma, ma soprattutto pi precisa. Si pose attenzione particolare agli
esiti sociali delle operazioni e delle politiche urbanistiche. Si scoprirono e
si indagarono le leggi dello sfruttamento capitalistico del territorio.
Nellassemblea dei soci del 1970, a Bologna, in rappresentanza del
Ministero dei lavori pubblici (ente associato) partecip anche Vezio
De Lucia. Vezio era del tutto sconosciuto, giovane comera ed estraneo
(come rimasto) agli ambienti accademici, dai quali proveniva la grande
maggioranza dei membri. Fece un intervento che piacque molto, las-
semblea dei soci lo elesse nel nuovo Consiglio direttivo nazionale.

3. Da che parte sta lInu?

Con Vezio dividevamo la stanza al Ministero. Un giorno, reduce da una


riunione del direttivo dellInu, mi raccont un fatto. La sezione campa-
na dellistituto aveva rinnovato lincarico di presidente a un signore, tale
avvocato DAngelo, il quale aveva difeso, in una causa civile, un gruppo
di immobiliaristi napoletani contro il Comune! Questo signore era noto
per la sua compiacenza nei confronti degli interessi della speculazione:
che un dirigente dellInu, impegnato in un profondo rinnovamento cul-
turale e morale, difendesse lala estrema della speculazione urbanistica
sembrava davvero intollerabile.

71 F. Girardi, Storia dellInu. Settantanni di urbanistica italiana. 1930-2000, Roma, Ediesse,


2008, p. 71.

81
capitolo sesto

Tu che hai credito allUnit mi disse Vezio perch non fai un


articolo che denunci lo scandalo e la contraddizione?. Telefonai al
giornale, con il quale collaboravo abbastanza spesso; scrissi un breve e
tagliente articolo, dal titolo Da che parte sta lInu? Fu tempestivamente
pubblicato, al piede della terza pagina72.
Larticolo ebbe due effetti: nella sezione di Napoli si apr una crisi, al
termine della quale la presidenza della sezione fu cambiata. Il secondo:
nella successiva riunione del direttivo dellInu il presidente Detti chiese
se qualcuno conoscesse questo Salzano. Vezio disse che ero suo amico,
che lavoravo con lui al Ministero. Perch non gli chiedi se ci aiuta oc-
cupandosi del servizio stampa?. Vezio me lo raccont. Accettai. Feci
una chiacchierata con il direttivo. Cominciai un lavoro divertente, che
divent parte importante della mia giornata e della mia vita.
LInu aveva gi una rivista, Urbanistica, che aveva portato lurba-
nistica del mondo in Italia. Diretta con grande sapienza da Giovanni
Astengo, per molti anni era stata finanziata da Adriano Olivetti. Ma in
quegli anni la rivista era in crisi. Olivetti non cera pi, Astengo conti-
nuava a fare bellissimi numeri che uscivano a grande distanza di tempo,
indebitandosi personalmente fino al collo. Al nuovo Inu serviva uno
strumento di comunicazione pi diretto. Decidemmo di tentare unini-
ziativa con le forze di base.
Ripresi i contatti con le strutture con cui avevo organizzato, quasi
dieci anni prima, lintervento al convegno InArch-Gescal, e con le
quali avevo avuto rapporti grazie al mio lavoro di consigliere comunale
e di esperto della direzione del Pci. Preparai e discussi documenti e
promemoria. Lunico che mi segu con costanza e intelligenza fu Bruno
Roscani, del Centro studi della Cgil. Proposi al direttivo dellInu di
muoverci da soli, di fare una rivistina fatta in casa, modesta, per rac-
cogliere informazioni e informare a nostra volta. Linformazione doveva
essere la missione dellagile strumento, per il quale infatti proposi la
testata Urbanistica informazioni. Il mio piccolo progetto editoriale fu
approvato. Partimmo.

4. Urbanistica informazioni

Nelleditoriale del primo numero (gennaio 1972) sintetizzavo in quattro


punti il carattere del nuovo Inu, di cui la rivista voleva essere strumento:

72 E. Salzano, Da che parte sta lInu?, lUnit, 17 mar. 1971.

82
organizzazione della cultura

In primo luogo, il rifiuto di un collegamento con le forze


dirigenti del Paese che si riduca alla ricerca di accordi ai vertici
governativi e ministeriali, e limpegno invece a porsi come stru-
mento di stimolo e di servizio nei confronti delle classi lavoratri-
ci, delle forze popolari, delle organizzazioni che le esprimono e
le rappresentano, delle istanze sociali di base. In secondo luogo,
il rifiuto di ogni collegamento che non sia quello della critica
e dello scontro aperto con le forze, i gruppi e le persone che
tendono a utilizzare il territorio come luogo sul quale operare,
in forme vecchie o nuove, per lo sfruttamento sulluomo, per
lappropriazione individualistica o aziendalistica, o per la dila-
pidazione, delle risorse della collettivit. In terzo luogo, il supe-
ramento della tradizionale concezione liberal-professionistica
del ruolo dellurbanista, e quindi la sollecitazione e il sostegno
al formarsi di strutture tecniche pubbliche e democraticamente
controllate per la gestione del territorio, a livello dei comuni, dei
comprensori, delle regioni e degli organi centrali dello Stato. In
quarto luogo, infine, limpegno allapprofondimento dellanalisi
scientifica dei fenomeni che si manifestano sul territorio, delle
forze che li determinano, delle alternative proponibili73.

Inizialmente la rivista (il bollettino, continuava a chiamarlo Detti)


era stampata a Torino, nella stessa tipografia dove si stampava Urbani-
stica. Lartigianalit era massima. Io stesso feci il progetto grafico, ispi-
randomi al sobrio Economist. Con Vezio preparavo limpaginazione
incollando le bozze dei pezzi, che in grandissima parte scrivevamo noi
stessi. Giulio Tamburini, Valeria Erba, Sandro Dal Piaz, Laura Falconi
Ferrari, Felicia Bottino, Giusa Marcialis, Luigi Falco, Antonino Trupia-
no erano, nella fase iniziale, i collaboratori pi assidui. Gli articoli non
erano firmati se non dalle iniziali dellautore: minuscole e tra parentesi.
Volevamo evitare ogni personalizzazione; contava la testata, non i sin-
goli collaboratori. Non vera personale retribuito. Le spese (poche) era-
no direttamente a carico dellistituto, i cui soci erano duecento: la rivista
serviva anche per far conoscere lInu, accrescerne la base associativa.
La rivista era semplice, povera, severa; ma tentava di non essere, n
apparire, sciatta. Tutto era affidato alla ricchezza informativa, al con-
tenuto, alla scrittura (tagliavamo e correggevamo senza piet, a volte
riscrivendo da capo).
Non ricordo la tiratura, che era comunque tra le due e le tremila
copie, n il costo. La contabilit dellInu, e conseguentemente quella
della rivista, era tenuta alla buona. Neppure cerano archivi organizzati.

73 In Urbanistica informazioni, 1 (gen. 1972).

83
A quei tempi, e per molti anni ancora, erano lussi che non ci potevamo
permettere: ci rimettevamo del nostro, a volte non solo il tempo.
Se penso a quel periodo, mi sembra che la rivista mi occupasse a
tempo pieno. Ricordo giornate intere trascorse in redazione, nella se-
de dellInu di piazza Santa Caterina da Siena. (Al piano di sopra abitava
un giornalista vero, Eugenio Scalfari). In realt continuavo a lavorare al
Ministero, a svolgere il mio ruolo di consigliere comunale, a dare il mio
apporto al lavoro della direzione del Pci nel settore. Nella mia vita
sempre stato cos: cera unattivit che assorbiva il cento per cento dei
miei interessi (o almeno cos mi sembra a distanza di tempo), sebbene
in realt il tempo fosse condiviso con altri impegni.
Un ruolo sempre pi decentrato occupava la mia famiglia. I miei
genitori erano morti, entrambi dello stesso male, a un anno di distanza
luno dallaltro. Cos le mie due sorelle. Con Barbara le cose andavano
male, verso la rottura. Nel frattempo maturavano eventi che mi sospin-
gevano verso altri orizzonti.
Gi da un paio danni, lattivit universitaria (Giovanni Astengo mi
aveva dato un incarico dinsegnamento nel nuovo corso di laurea in ur-
banistica dellIstituto universitario di architettura) mi portava a Venezia
ogni due settimane. Mi venne proposto, nel quadro del nuovo clima po-
litico, un rilevante impegno amministrativo in quella citt, che accettai.
Si concluse cos, bruscamente, il mio periodo romano, e si manife-
st unaltra svolta traumatica. Abbandonai famiglia, ministero, consiglio
comunale e mi trasferii nella citt lagunare. Cominci unaltra storia, un
altro amore, un altro impegno civile. Unico elemento di continuit, ol-
tre laffetto per le persone che avevo lasciato a Roma, il lavoro per lInu
e la sua rivista.
Il nuovo impegno politico e amministrativo ebbe un peso rilevantis-
simo nella mia vita. necessario inquadrarlo nei mutamenti che avven-
nero nellItalia di quegli anni.

84
Capitolo settimo
La fase gloriosa della sinistra

1. Il compromesso storico

Allinizio degli anni Settanta, lalleanza di centro-sinistra dava pesanti se-


gni di crisi, data la limitatezza dei risultati raggiunti e le ricorrenti tensio-
ni verso soluzioni conservatrici da parte della Dc. Dopo il 1969, in soli
due anni si succedevano cinque governi, sostenuti dai partiti centristi e
dal Psi, oppure dalla sola Dc. Nel 1972 una sterzata a destra: nel gover-
no Andreotti cerano i liberali, non cerano i socialisti.
Proseguivano intanto a destra le attivit delittuose ed eversive ini-
ziate con le bombe esplose alla fine del 1969; si coni lespressione
strategia della tensione, per indicare unazione sistematicamente volta
a impedire che la spinta progressista, democratica e antifascista, avviata
negli anni Sessanta, facesse passi ulteriori.
Parallelamente, non si placava nel Paese leffervescenza sociale
prodotta dal Sessantotto operaio e da quello studentesco. Da quel
movimento era nata la spinta (e la speranza) di una trasformazione
integrale e immediata della societ: la critica, a volte un po infantile, al
capitalismo sembrava potersi tradurre subito nellazione rivoluzionaria.
La proposta dei partiti di sinistra non sembrava credibile. Spuntavano
numerose formazioni politiche fuori dellarena parlamentare. Nasceva il
terrorismo rosso: nel 1970 si costituivano le Brigate Rosse. In questo
quadro esplosero i fatti cileni.
Il libro di David Harvey, Breve storia del neoliberismo, che ho gi chia-
mato in causa, racconta la storia e i misfatti del neoliberalismo mondia-
le. La copertina illustrata con i ritratti di quattro personaggi: oltre a
Reagan, Deng Xiaoping e Margaret Thatcher, campeggia quella di
Augusto Pinochet, il generale che aveva preso il potere in Cile con la

85
capitolo settimo

violenza. Dietro la distruzione della democrazia e del progresso sociale


del Cile cerano palesemente gli interessi economici, politici e istituzio-
nali degli Usa. Il colpo di stato che abbatt (e uccise) il premier sociali-
sta Salvator Allende, e interruppe lesperienza di governo da lui guidata,
fu il primo episodio che fece comprendere il carattere violentemente
antidemocratico del percorso avviato dai poteri globali.
Gli avvenimenti cileni fornirono loccasione a Enrico Berlinguer,
leader del Pci, per rilanciare una riflessione e una proposta che poneva-
no prospettive del tutto nuove alla politica italiana. Egli sosteneva che
lespandersi della democrazia e laffermarsi delle forze progressiste pro-
vocavano reazioni via via pi feroci. Le riforme serie, le riforme che in-
cidono sulla struttura economico-sociale dei paesi minacciano interessi
cospicui. Per batterli non basta la maggioranza assoluta dei voti: occor-
re uno schieramento molto pi vasto che, per la sua stessa dimensione,
possa resistere alle reazioni dei poteri forti. Dove trovare in Italia le
basi per un simile schieramento?
Scriveva Berlinguer: se lobiettivo una trasformazione progressiva
che in Italia si pu realizzare nellambito della Costituzione antifascista
dellintera struttura economica e sociale, dei valori e delle idee guida
della nazione, del sistema di potere e del blocco di forze sociali in cui
esso si esprime questo possibile solo con lalleanza strategica della
prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze
popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di
ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento
democratico74.
Come costruire questa alleanza? Due percorsi erano possibili, anzi,
due modi dintendere e di praticare quella proposta: puntare, priorita-
riamente, su quei movimenti che, allinterno del mondo cattolico, espri-
mevano una domanda di un pi sostanziale rinnovamento, domanda
che era frutto sia della svolta conciliare sia della nuova stagione sociale
e culturale aperta col 68 e che investiva anche la base cattolica, oppure
dare alla ricerca di un nuovo rapporto col mondo cattolico un signifi-
cato meramente politicistico75. questultima la scelta che il gruppo
dirigente del Pci fece. Lobiettivo rivoluzionario, teso alla costruzione
di una societ nuova e di una nuova economia, basata sul superamento

74 Berlinguer comment il colpo di stato del generale Pinochet in un saggio, pubblicato sulla
rivista settimanale del Pci, Rinascita, il 28 set., il 5 e il 12 ott. 1973. pubblicato anche in
eddyburg, nella cartella Enrico Berlinguer.
75 G. Chiarante, Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico
(1958-1975), Roma, Carocci, 2007, p. 184.

86
la fase gloriosa della sinistra

dellalienazione del lavoro, venne abbandonato a favore di una pratica


riformistica, nella quale le riforme cessavano di essere passi graduali
verso lobiettivo finendo per essere fine a se stesse, e soprattutto cor-
rezioni parziali dei danni provocati dal sistema capitalistico-borghese,
finalizzate quindi alla sua sopravvivenza.

2. Le elezioni del 1975-76

Da molti anni, spostamenti infinitesimali di voti da un partito allaltro


caratterizzavano le elezioni italiane. Le elezioni amministrative del 15
giugno 1975 (cui fece seguito, lanno successivo, una nuova tornata elet-
torale) mutarono drasticamente il quadro. Un vento di rinnovamento e
di speranza era scaturito dalle vicende degli anni precedenti. In quelle
elezioni (le prime nelle quali votarono anche i diciottenni) laffluenza
elettorale fu la pi alta: raggiunse il 92,8%, mentre linsieme delle schede
bianche, nulle e delle astensioni tocc il minimo storico, il 10,9 %.
Sul risultato elettorale influ certamente un evento che commosse
strati vastissimi della popolazione: la sconfitta Usa a Saigon. La potenza
militare pi grande del mondo dovette arrendersi ai nord vietnamiti;
la feroce guerra contro il regime socialista nel Vietnam, ingaggiata nel
1965 dagli Usa (successori della Francia, antica potenza colonialista),
aveva visto il gigante industriale sconfitto da un popolo di contadini,
sostenuto dallUrss e da una vasta solidariet internazionale.
Un movimento contro la guerra in Vietnam si era via via costituito
in tutto il mondo, a partire proprio dagli Usa: nellottobre 1965 lorga-
nizzazione studentesca statunitense Comitato di coordinamento nazio-
nale per la fine della guerra in Vietnam inscen la prima manifestazio-
ne pubblica negli Usa. Il movimento divamp poi nei campus univer-
sitari e nelle citt. La protesta contro la guerra in Vietnam fu la miccia
che innesc quel Sessantotto che sarebbe esploso in tutto il mondo.
In Italia migliaia di manifestazioni chiedevano nei loro slogan la fine
della guerra in Vietnam. Documenti contro la guerra in Vietnam veni-
vano approvati in tutti i consigli comunali e provinciali dove le sinistre
erano maggioranza, oppure trovavano il consenso della Dc. Accordi
con gli avversari politici nei consigli comunali per ottenere lapprovazio-
ne allunanimit di documenti per la pace in Vietnam erano stati a volte
il prezzo che il Pci aveva pagato per cedere su qualche altro terreno.
Il dato elettorale pi significativo delle elezioni amministrative fu la
crescita del Pci, che pass dal 27,9 % delle precedenti elezioni regionali
al 33,4 %, guadagnando 5,5 punti in percentuale, mentre anche il Psi

87
capitolo settimo

cresceva dell1,6 % e la Dc perdeva il 2,5 %. Giunte regionali di sinistra


si formarono, oltre che in Emilia Romagna, Liguria e Umbria, tradizio-
nalmente rosse, anche in Piemonte e nel Lazio. Giunte comunali di
sinistra si costituirono in tutte le maggiori citt (Milano, Torino, Geno-
va, Venezia, Napoli, Perugia, Cagliari, Ancona, lanno successivo Roma),
e in moltissime altre citt. Le sinistre conquistarono il 45 % delle pro-
vince. Inoltre, il clima tra Pci e Dc era mutato, e in molti consigli i due
partiti assumevano un atteggiamento benevolo nei confronti di maggio-
ranze cui non partecipavano.
La vittoria della sinistra in Italia ebbe grande risonanza anche
allestero. Anchio ne fui coinvolto: ero appena stato eletto assessore
allurbanistica a Venezia, quando la segreteria nazionale del partito mi
invi a Londra su invito del partito comunista dellUk, per illustrare la
nuova situazione in Italia. A me fu chiesto di raccontare agli studenti
della Communist University of London che cosa era successo in Italia nelle
amministrazioni locali. Partecipai al rito della fotografia con i massimi
dirigenti del partito nella loro sede; fui portato a pranzo in un ristorante,
naturalmente italiano; tenni lintervento nella sede del potente sindacato
degli studenti. Ogni anno gli studenti di sinistra vi organizzavano una
sorta di scuola estiva. Erano molto simpatici e svegli: pi vicini ai no-
stri comunisti di sinistra che ai loro compagni dellestablishment, vecchi
operai stalinisti. Cenammo in un simpatico ristorante cinese a Soho;
la mattina dopo, prima della partenza, mi condussero alla tomba di Karl
Marx, allHighgate Cemetery.

3. Venezia rossa

Tra le citt conquistate cera Venezia. La citt lagunare era stata spesso
anticipatrice di processi politici e amministrativi di carattere pi genera-
le. Era stata la prima in Italia a introdurre il decentramento amministra-
tivo e la formazione dei consigli di quartiere (1964); pi tardi, era stata
la prima a costituire una maggioranza di centro-sinistra (1970).
La conquista, nel 1975, della maggioranza degli elettori da parte di
una coalizione di sinistra era stata preceduta da un avvenimento nel cui
ambito era maturata la formazione della nuova alleanza. In qualche mo-
do vi fui coinvolto. Nel 1974, la maggioranza nel consiglio comunale era
formata da Dc, Psi e Pri. I socialisti, seguendo la tendenza che si stava
manifestando in tutta Italia, avevano deciso di cambiare schieramento,
e si erano alleati con il Pci. Per costruire un accordo di sinistra essi
posero la condizione che il nuovo alleato condividesse uno strumento

88
la fase gloriosa della sinistra

urbanistico al quale assegnavano grande importanza, e i diversi aspetti


dellapplicazione della legge speciale per Venezia.
Il nodo era costituito da un complicato intreccio tra la legge specia-
le76, emanata nel 1973 per sanare i danni della citt e del suo territorio
emersi clamorosamente dopo lalluvione del 1966, e gli strumenti di
pianificazione in via di predisposizione. La legge subordinava leroga-
zione delle provvidenze e dei meccanismi da essa previsti allesistenza,
nella citt, di piani particolareggiati77, naturalmente estesi allintera citt
storica. Il Comune aveva in avanzata fase di completamento una serie
di piani che si chiamavano formalmente particolareggiati, ma che tali
non erano. Ci era possibile grazie alla sopravvivenza, a Venezia, delle
norme di una vecchia legge, emanata per accelerare la ricostruzione
dopo la guerra, che consentiva che fosse chiamato piano particola-
reggiato uno strumento urbanistico avente un contenuto molto meno
dettagliato di quello previsto dal piano particolareggiato ordinario.
Cera quindi una contraddizione tra lesigenza di garantire lim-
mediata entrata in vigore della legge speciale, che avrebbe consentito
di interrompere il degrado fisico e sociale della citt e del territorio
lagunare, e quella di assicurare che gli interventi non fossero distruttivi
delle caratteristiche architettoniche e urbanistiche della citt storica. La
prima esigenza era prevalente nelle valutazioni degli amministratori
locali (con leccezione di quelli del Pri, che a Venezia hanno sempre
assunto un atteggiamento di rigorosa difesa delle qualit storiche e am-
bientali), mentre la seconda prevaleva nei rappresentanti delle istituzioni
statali, che esercitavano su Venezia unattenta vigilanza.

76 Legge 16 apr. 1973, n. 171, Interventi per la salvaguardia di Venezia. La legge prevedeva
sia finanziamenti (per ledilizia monumentale e per quella minore, per le residenze temporanee
per le famiglie la cui unit edilizia era in corso di restauro, per il riequilibrio della Laguna e
la riduzione delle acque alte, per le attivit produttive), sia un sistema di regole (indirizzi) e
strumenti innovativi; tra gli altri, la formazione di un piano comprensoriale di tutto il terri-
torio nel quale ricadevano il bacino lagunare e i centri urbani aventi gravitazioni quotidiane con
Venezia, una speciale struttura tecnico imprenditoriale per le attivit di restauro (Edilvenezia),
una commissione di salvaguardia per vigilare sulla qualit degli interventi e la loro coerenza
con gli indirizzi stabiliti dal parlamento. Tutte queste strutture erano governate da complessi
sistemi di equilibrio tra i diversi poteri istituzionali concorrenti: lo Stato, la Regione, la Pro-
vincia, il Comune di Venezia e i comuni minori. Tra gli interventi, la legge prescriveva la
cessazione degli emungimenti di acqua dal sottosuolo (che era uno dei fenomeni che avevano
provocato leccezionale acqua alta del 1966) e quella dei traffici petroliferi (causa dellau-
mento della sezione dei canali di accesso alla Laguna e fonte di potenziali gravissimi rischi.
Lemungimento di acqua fu bloccato, il traffico petrolifero continua ancora oggi.
77 Dal 1968 era prescritto che gli interventi nei centri storici fossero subordinati alla for-
mazione di strumenti di pianificazione aventi un dettaglio sufficiente a evitare manomissioni
dellimpianto urbano e delledilizia storici.

89
capitolo settimo

Da qualche tempo frequentavo Venezia, poich Giovanni Astengo,


fondatore del corso di laurea in urbanistica, mi aveva assegnato un inca-
rico dinsegnamento universitario. Conobbi colleghi, iscritti al Pci, che
mi coinvolsero nelle discussioni e nella ricerca di una soluzione sod-
disfacente. La trovammo: introducemmo un ulteriore livello di pianifi-
cazione, a sua volta attuativo di quegli anomali piani particolareggiati
che stavamo per adottare, emendando le norme. Li definimmo piani di
coordinamento: essi avevano con gli anomali piani particolareggiati
veneziani lo stesso rapporto che i normali piani particolareggiati aveva-
no con il normale piano regolatore generale. Essi avrebbero fornito le
garanzie tecniche adeguate a un intervento su tessuti urbani cos delicati
e ricchi di qualit.
I partiti della vecchia e della nuova alleanza (Dc, Psi e Pci) condivi-
sero quella soluzione e concordarono altre modifiche ai piani che i co-
munisti richiedevano, come la destinazione di tutti gli edifici inutilizzati
alla costituzione di case parcheggio per gli abitanti che avrebbero do-
vuto abbandonare le loro case nel corso delle operazioni di risanamento
degli edifici degradati. I piani particolareggiati furono adottati dal consi-
glio comunale alla vigilia delle elezioni.

4. Venezia e il degrado

Prima di questi eventi, nellestate del 1973 si era svolto a Venezia un


avvenimento memorabile, che mi fece innamorare della citt: il festival
nazionale dellUnit. La scelta di Venezia era stata motivata dallesigen-
za di affrontare il problema sociale, culturale e politico della condizione
dei centri storici in Italia: nella citt lagunare il contrasto tra qualit del
centro storico e degrado urbano era particolarmente accentuato.
Venezia era da tempo una citt in pessime condizioni dal punto di
vista sociale e del patrimonio edilizio. Non era un problema recente.
Gi alla fine dellOttocento, nei periodi in cui la citt era stata governata
da forze laiche e progressiste, era stata studiata la condizione dellha-
bitat e si erano discussi, e in parte attuati, provvedimenti amministra-
tivi. Agli inizi del Novecento unindagine sanitaria aveva rivelato una
situazione drammatica, percentuali ingenti della popolazione abitano,
pagando alti fitti, in alloggi inabitabili, antigienici, in condizioni di
sovraffollamento78. Il problema era stato affrontato con la costruzione

78 Negli anni 1908-09 il dottor Raffaele Vivante, ufficiale sanitario del Comune, svolse

90
la fase gloriosa della sinistra

di numerosi alloggi di edilizia pubblica e la costituzione dellIstituto del-


le case popolari. Non fu sufficiente a risolverlo. Nel 1931, una successi-
va indagine cens la presenza di 131.000 abitanti veneziani in poco pi
di 28.000 alloggi, di cui il 12% era al piano terra spesso invaso dallacqua
alta; 50.000 persone vivevano in condizioni di sovraffollamento.
Nel dopoguerra risiedevano a Venezia: 178.000 abitanti nella citt
storica, 38.000 nelle altre isole della Laguna, 83.000 in Terraferma. Laf-
follamento e le condizioni igieniche erano peggiorate rispetto ai primi
anni del secolo. Si osservi che la potenzialit abitativa della citt storica,
a un livello accettabile di standard residenziale (e trascurando le dinami-
che modificative di tali valutazioni), vicina alla cifra di circa 100.000
unit79. Nel 1955 risiedono nella citt storica 167.000 abitanti, 11.000
meno del decennio precedente. Dieci anni dopo sono ridotti di ulteriori
43.000. Nel 1975 gli abitanti sono 104.000: 74.000 meno dellimmediato
dopoguerra.
Se peraltro i fattori oggettivi della fuoriuscita di abitanti
dalla citt storica vanno individuati nelle condizioni di sovraf-
follamento e di coabitazione e nel livello accentuato e diffuso
di degrado del patrimonio edilizio presenti anche se in misure
decrescenti per tutto larco degli anni 50 e 60, i modi concreti
in cui tale fuoriuscita si realizzata sono stati condizionati dalle
pressioni del mercato immobiliare e dalle politiche poste in esse-
re dalle forze dominanti a livello centrale e locale.

Lesodo aveva interessato soprattutto i nuclei familiari di et e reddi-


to medi, in grado di accedere allofferta di abitazioni, prevalentemente
nuove e in affitto, in Terraferma, ma non di acquistare e riqualificare
abitazioni della citt storica. I flussi in uscita sono stati maggiori da
quanto appaia dal semplice saldo: si calcola infatti che, dal 1952 al 1972,
sono usciti 130.000 abitanti e ne sono entrati 70.000. Allesodo aveva
quindi corrisposto un sensibile mutamento della composizione della
popolazione.
Lalluvione del 1966 aveva messo allo scoperto i problemi della citt.
Quelli della Laguna in primo luogo. Era esplosa la denuncia delle con-
dizioni di degrado, inquinamento, abbandono dellaccorta gestione delle
regole della natura e dellidraulica sistematicamente applicate dalla Re-
pubblica Serenissima, e del tutto abbandonate e contraddette dallanno

unIndagine sul problema delle abitazioni a Venezia. Vedi L. Scano, Venezia: terra e acqua, Venezia,
Corte del Fontego, 2009, p. 43.
79 Questa e la citazione seguente in Scano, Venezia: terra e acqua, p. 64.

91
capitolo settimo

della sua caduta (1797), e soprattutto negli anni della costituzione dello
Stato unitario e dello sviluppo del sistema capitalistico-borghese80. Ma
nellottica delle forze di sinistra, compreso il Pci, la Laguna e, in genera-
le, lambiente, non occupavano un posto di rilevo. I problemi pi sentiti
erano quelli immediati delle condizioni di vita degli abitanti, del lavoro
e delloccupazione, della condizione operaia. Soprattutto in vista di que-
sti temi fu promosso il festival. Affrontarli nellambito di uniniziativa
fortemente caratterizzata da attivit culturali significava dare maggiore
evidenza alle proposte del Pci sulla questione dei centri storici, e in par-
ticolare su Venezia.

5. Il festival nazionale dellUnit

Su richiesta della federazione di Venezia la direzione del Pci decise di


realizzare a Venezia il festival nazionale dellUnit. Normalmente questa
manifestazione si svolgeva in un luogo aperto della periferia di una citt
(un parco o uno stadio o un piazzale) che veniva trasformato e invaso
dalle mille strutture destinate a ospitare incontri, conferenze, dibattiti,
ristoranti dogni tipo. Tutto realizzato con il lavoro volontario dei co-
munisti e delle loro famiglie e delle organizzazioni del partito. Decine di
migliaia di persone accorrevano, partecipavano ai dibattiti, mangiavano
e bevevano, imparavano e si divertivano. Il giornale dei comunisti inte-
grava cos il suo bilancio.
Gli organizzatori della festa a Venezia fecero una scommessa. Rom-
pendo radicalmente con la tradizione, decisero di utilizzare gli spazi
aperti del centro storico, i campi, e di coinvolgere tutta la citt nelleven-
to. I compagni veneziani, con laiuto della direzione nazionale e di alcu-
ne federazioni di altre citt, organizzarono un evento irripetibile.
Ognuna delle sezioni della citt aveva la responsabilit di una delle
sei parti in cui era stata articolata la citt per loccasione. In ciascuna si
individuarono alcuni campi dove sistemare i diversi spazi per i dibattiti,
le rappresentazioni teatrali, i concerti e le danze, i ristoranti, i servizi
igienici e gli altri servizi. Un gruppo di architetti veneziani si occup
dellorganizzazione e della logistica e progett un modello di padi-
glione modulare, smontabile in brevissimo tempo. Altri progettarono

80 Anche per questo aspetto si veda il citato libro di Scano, nonch, per gli eventi pi recenti,
il volume di F. Mancuso, Venezia una citt. Come stata costruita e come vive, Venezia, Corte del
Fontego, 2009.

92
la fase gloriosa della sinistra

le cucine, ingegnosamente realizzando lattrezzatura con elementi pove-


ri facilmente reperibili. Il rosso, lazzurro e il giallo furono i colori che
caratterizzarono i padiglioni, montati in una ventina di campi in poche
ore. Venezia era completamente trasformata.
Il clou culturale della festa fu una serie di rappresentazioni del Berli-
ner Ensemble, la prestigiosa compagnia teatrale fondata da Bertold Brecht,
che per tre giorni replic in campo dellAngelo Raffaele, tra gli applausi
di migliaia di partecipanti. Il massimo della partecipazione fu raggiunto
lultimo giorno, per il comizio di Enrico Berlinguer cui affluirono, se-
condo lUnit del giorno dopo, 200.000 persone. Un popolo quantita-
tivamente paragonabile a quello richiamato dai Pink Floyd in Piazza San
Marco nel 1989, che devast la citt. La differenza fu nellaver scelto,
per il comizio, il pi vasto spazio aperto veneziano, il parco di SantEle-
na, alla periferia orientale della citt, e nellaver organizzato, per tutta la
durata della festa, e in particolare durante lultimo giorno, unefficiente
servizio di trasporti, motonavi, vaporetti e altre imbarcazioni.

6. Dieci anni nel bunker

Gianni Pellicani era lintelligente e abile dirigente del Pci veneziano.


Consigliere comunale, aveva seguito liter della legge speciale, aveva
tessuto con maestria lintesa con Dc e Psi per i piani particolareggiati
ed era destinato a diventare il leader della nuova giunta se nelle elezioni
del 1975 le sinistre avessero ottenuto la maggioranza. Il mio contributo
alla soluzione dellintricata vicenda dei piani particolareggiati lo indusse
a chiedere di presentarmi alle elezioni con la prospettiva di diventare
assessore allurbanistica. Accettai. Nella mia decisione gioc anche una
punta di vigliaccheria: temevo di dover diventare assessore a Roma se
le sinistre avessero anche l vinto le elezioni (che si sarebbero tenute
lanno successivo), e mi sentivo inadeguato a gestire una situazione cos
complessa come quella della capitale. Mi trasferii a Venezia, dove mi
illudevo di trovare una situazione pi semplice. A posteriori devo dire
che conoscevo poco quella realt.
Vincemmo le elezioni. Entrai in giunta. Pellicani non divenne sinda-
co, poich lattribuzione delle varie citt conquistate alluno o allaltro
dei due partiti alleati si gioc a Roma, tra le direzioni. Sindaco di Vene-
zia fu designato il socialista Mario Rigo, Gianni Pellicani fu vicesindaco.
Nei fatti, grazie alle sue capacit, alla squadra di collaboratori che aveva
formato, e anche alla buona collaborazione con Mario Rigo, il governo
reale della giunta lo esercit lui. Pi che col sindaco, lintesa doveva

93
capitolo settimo

essere raggiunta con il leader indiscusso e potentissimo dei socialisti


veneziani, Gianni De Michelis. Lesperienza di quella maggioranza dur
per due legislature: dal 1975 al 1985. Dieci anni nei quali rimasi chiuso
nel bunker dellassessorato, con qualche fuga, anche consistente, nella
politica urbanistica della direzione del Pci e nelle attivit dellInu.
Parlo di bunker perch vivevo di fatto tutto il giorno dentro las-
sessorato, dove mi ero attrezzato anche per fare la siesta dopo pranzo,
e perch avevo pochissimi rapporti con lesterno, prevalentemente me-
diati da Gianni Pellicani, sia con il partito, sia con gli alleati. Non uscii
neppure per raggiungere Cristina in ospedale quando nacque Giulia, la
mia sesta figlia.
Era una condizione in gran parte obbligata. A quei tempi gli asses-
sori erano, di fatto, anche dirigenti dellufficio loro affidato. Il mio era
molto grande e composito, formatosi in seguito a varie stratificazioni. Il
personale era eterogeneo, diverso per formazione culturale, capacit di
lavoro, motivazioni. La dirigenza non era allaltezza delle nostre aspetta-
tive. Queste, peraltro, erano abbastanza confuse. Il programma di legi-
slatura che mi ero impegnato a seguire fedelmente (cos si usava allora)
si rivel molto difficilmente praticabile. Il suo centro era lattuazione
dei piani particolareggiati atipici adottati allinizio del 1975. Si trattava,
in primo luogo, di compiere il percorso dalladozione allapprovazione,
quindi di esaminare le centinaia di osservazioni presentate e controde-
durre a ciascuna (decidere cio in che modo se ne sarebbe tenuto conto,
modificando o meno i piani adottati).
Nel compiere questa prima parte del lavoro un ruolo importante lo
svolse la commissione consiliare, che si riuniva un paio di volte alla set-
timana e con cui esaminavamo attentamente le osservazioni, cercando,
attraverso di esse, di introdurre nel piano le correzioni possibili. Molto
efficace fu la collaborazione di Gigi Scano e del presidente della com-
missione, il democristiano Gianni Rivi. Con entrambi si raggiungevano
(in quelle e in molte altre occasioni) ragionevoli soluzioni concordate.
Solo che poi, alla resa dei conti, cio al momento del voto in consiglio
comunale, Gigi generalmente votava a favore delle soluzioni cui erava-
mo approdati, mentre Rivi votava contro, facendomi canzonare da Pel-
licani, al quale avevo preannunciato il voto favorevole dellopposizione.
La tappa successiva fu la formazione dei piani di coordinamento,
cio i veri piani di dettaglio. Si trattava, come ho accennato, di piani non
previsti dalla legislazione vigente, che furono introdotti dalle norme dei
piani particolareggiati adottati. Parallelamente, si doveva completare
la pianificazione delle aree non coperte da quei piani (gli insediamenti
lagunari di Murano, Burano, Lido, Pellestrina, SantErasmo). Infine, bi-

94
la fase gloriosa della sinistra

sognava attuare i piani predisposti per la terraferma mestrina, in attesa


che il piano comprensoriale dellintera area gravitante sulla Laguna, pre-
scritto dalla legge speciale del 1971, venisse formato.
Ha descritto gli eventi di quella fase, con unimpostazione giusta-
mente critica, Gigi Scano, nel suo prezioso Venezia: terra e acqua. Luigi
Scano, per gli amici Gigi, segu sempre con grandissima attenzione e
partecipazione tutte le vicende dellurbanistica veneziana, dallalluvione
del 1966 fino al 2007, anno della sua morte prematura. La sua amicizia
certamente uno dei beni pi preziosi che ho ricevuto nel periodo ve-
neziano della mia vita.
Senza il contributo di Gigi e di Edgarda Feletti (uno degli architetti
dellassessorato, eccezionale per intelligenza, cultura, determinazione,
nel tempo divenuta dirigente del settore centro storico) centrare la
strategia per affrontare le questioni urbanistiche veneziane avrebbe
comportato tempi ben pi lunghi di quelli occorsi.
Solo verso la fine del primo mandato amministrativo cominciai a
comprendere limpraticabilit del farraginoso meccanismo della pia-
nificazione veneziana. Lo raccontai in un lungo articolo sulla rivista
Casabella con il titolo significativo Produzione di piani a mezzo di piani81.
Nel secondo mandato imboccammo la strada giusta e avviammo la
pianificazione della citt storica in modo culturalmente soddisfacente,
anche sulla base di alcune esperienze fatte nel primo quinquennio. Ma
politicamente il secondo fu un disastro: a partire dal 1980 si avvi quel-
la svolta radicale della politica italiana, che vide prima in Bettino Craxi,
poi in Silvio Berlusconi i suoi protagonisti.

7. Verso un nuovo piano regolatore

Imparai che cos lanalisi tipologica delledilizia storica. Molto mi insegn


Edgarda, che mi indusse a leggere testi di studiosi che avevo snobbato,
come Saverio Muratori, Paolo Maretto, e soprattutto Gianfranco Canig-
gia. Scoprii che Gigi, pur essendosi nutrito di studi giuridici e politolo-
gici, li conosceva bene e scoprii che molti applicavano il loro metodo in
modo superficiale.
Lanalisi tipologica parte dal presupposto che ledilizia, prima dellir-
ruzione del cemento armato e della rottura con le tradizioni costruttive
del passato, non era costituita da edifici (unit edilizie) progettati e costruiti

81 E. Salzano, Produzione di piani a mezzo di piani, Casabella, 436 (1978).

95
capitolo settimo

a capriccio. Esistevano in ogni area geografica e culturale un numero li-


mitato di modelli (tipi edilizi), le cui caratteristiche erano la combinazione
delle esigenze umane (abitare, lavorare, conservare, celebrare ecc.) con le
tipologie e le tecnologie dei materiali adoperati e delle loro caratteristiche,
con i modi dellapprovvigionamento, con la natura e stabilit dei terreni,
con le regole (fossero o meno disegnate su mappe o scritte in codici, o
semplicemente tramandate dalluso) che definivano il rapporto delle co-
struzioni con il contesto (gli spazi liberi, le strade, i lotti vicini, ecc.).
Ogni tipo edilizio era definito da specifici elementi urbanistici (il rap-
porto con il lotto e gli altri spazi, le modalit di aggregazione delle unit
edilizie ecc.), strutturali (le murature portanti, i solai, i collegamenti verti-
cali, le coperture, le modalit di accrescimento ecc.), funzionali (gli usi cui
erano originariamente adibiti i diversi spazi e le loro relazioni).
Lobiettivo culturale che si voleva raggiungere con il risanamento
della citt storica (e in generale con lintervento sulledilizia storica) era
quello di conservare le caratteristiche urbanistiche e strutturali origi-
narie, e assicurare che le nuove funzioni assegnate a ciascun tipo, pur
necessariamente diverse da quelle originarie, avessero con esse coerenza
e non fossero tali da richiedere modifiche della sua struttura. Poich le
utilizzazioni compatibili con ogni tipo edilizio assegnate dal piano non
erano univocamente determinate, ma offrivano una gamma di alternati-
ve, restava unampia possibilit di calibrare le destinazioni duso in rela-
zione alle scelte politiche e sociali82.
Edgarda inizi a sperimentare lanalisi tipologica delledilizia storica
veneziana, e soprattutto a guidare in questo senso piccoli gruppi di tecnici
dellassessorato: comprendemmo che redigere i numerosi piani di coordi-
namento in tempi accettabili sarebbe stata unimpresa impossibile. Deci-
demmo allora di cambiare orientamento ai nostri programmi e di affron-
tare la possibilit di un piano regolatore della citt storica del tutto nuovo,
basato su unanalisi tipologica a tappeto. Era ci che, fin dallinizio i
repubblicani di Gigi Scano avrebbero voluto. Ma nel quinquennio 75-80
questo era impedito dagli accordi politici che non si potevano rinnegare.
Il primo quinquennio, comunque, non era stato inutile. Era servito, in
negativo, a verificare limpossibilit di attuare quei piani particolareggiati

82 Per esempio, una struttura conventuale caratterizzata dallassociazione di alcuni grandi


spazi edificati e coperti (la chiesa, le cappelle, la mensa ecc.) e da piccoli elementi seriali tra loro
aggregati (le celle), spesso disposti attorno a spazi aperti (i chiostri). Una struttura del genere
pu essere utilmente impiegata oggi per una ricettivit collettiva (alberghi, foresterie ecc.), o
per un ospedale, o un museo, o per unaggregazione di piccole strutture artigianali ecc. Nel
passato sono state spesso utilizzate come caserme o come carceri.

96
la fase gloriosa della sinistra

e i meccanismi da essi previsti. Era servito anche ad avviare una serie


di iniziative di risanamento e di riqualificazione urbana, con molti in-
terventi di recupero e alcuni qualificati interventi di completamento
urbano. Ed era servito soprattutto a sperimentare un nuovo metodo di
pianificazione.
Cogliemmo le diverse occasioni di pianificazione estese agli ambiti
limitati che i programmi comunali indicavano (specialmente i primi
sette piani di coordinamento e il piano particolareggiato di Burano) per
elaborare via via nuovi criteri. E utilizzammo i progetti edilizi che lam-
ministrazione redigeva o seguiva o controllava per verificare limpatto
delle norme nel concreto degli interventi. Fu un lavoro molto faticoso e,
nel breve periodo, poco gratificante, ma molto utile, perch ci permise
di comprendere che cosa precisamente andava analizzato e come, per
poter costruire regole che consentissero agli operatori di intervenire in
modo diffuso sullo stock edilizio.

8. Il piano comprensoriale

La mia attenzione era rivolta soprattutto alla citt storica: era qui
che volevamo sperimentare nuovi metodi di pianificazione, per poi
estenderli allintero territorio comunale. Del resto, per la Terraferma
cera una strumentazione urbanistica abbastanza aggiornata e decente
(lultimo atto era stata una variante del prg che aveva aumentato le aree
destinate al verde e ai servizi, adeguandole al decreto sugli standard, e
risolto alcuni problemi di viabilit) e comunque, prima di aggiornare il
prg, si aspettava linquadramento che il piano comprensoriale avrebbe do-
vuto fornire.
Questultimo era un istituto decisivo previsto dalla legge speciale
del 1973. Le esigenze che erano alla base della politica locale, nazio-
nale e internazionale per Venezia erano orientate, come ho accennato,
al raggiungimento di due obiettivi. Il primo era la salvaguardia fisica
dellimmenso patrimonio costituito dagli insediamenti storici (prin-
cipale ma non unico la citt di Venezia) e dalla Laguna (un ambiente
assolutamente unico al mondo, garantito nel suo equilibrio da unazio-
ne millenaria di saggia collaborazione tra uomo e natura83). Il secon-
do obiettivo era la vitalit economica e sociale della citt e del suo

83 Sulla Laguna di Venezia, oltre ai testi di Scano e Mancuso, vedi anche il ricco materiale
contenuto in eddyburg, nella cartella Venezia e la laguna.

97
capitolo settimo

territorio, che ruotava attorno a tre grandi questioni: la zona industria-


le di Porto Marghera, il pi grande polo chimico italiano, che aveva
attirato gran parte delloccupazione dallagricoltura dei paesi del Vene-
to centrale e provocato gravi fenomeni di inquinamento e di degrado
idraulico nella Laguna; la portualit, che era stata lelemento di vitalit
e di grandezza della Repubblica ed era tra le ragioni e le risorse princi-
pali della citt; il turismo, che cominciava ad apparire come rischioso
per la sua invasivit e per il contributo che forniva allespulsione delle
residenze e delle attivit quotidiane.
Dei due obiettivi il primo, quello della salvaguardia, stava pi a cuore
a livello internazionale e nazionale, il secondo a quello locale. Al piano
comprensoriale era affidato il compito di trovare un adeguato equili-
brio tra salvaguardia e vitalit. Entrambi infatti richiedevano, per essere
raggiunti, che la pianificazione si estendesse a un ambito territoriale pi
ampio del solo comune capoluogo. Parte della Laguna ricade infatti nei
confini amministrativi di altri comuni; inoltre, anche le gravitazioni quo-
tidiane degli spostamenti casa/lavoro e casa/servizi formano un bacino
che comprende un numero elevato di comuni. Larea alla quale il piano
comprensoriale si estendeva ne comprendeva in definitiva sedici.
Gianni Pellicani chiese a Vezio De Lucia, che tra laltro aveva col-
laborato alla redazione della legge speciale e al documento Indirizzi
governativi84 cui il piano comprensoriale doveva adeguarsi, di guidare
la redazione del piano assumendo la carica di segretario generale. Vezio
accett e cos, ottenuto il consenso degli altri poteri locali coinvolti (so-
prattutto dei repubblicani e dei socialisti, che costituivano la maggioran-
za del consiglio di comprensorio) inizi la sua avventura veneziana.
In tempi molto rapidi Vezio costitu un autorevole comitato scien-
tifico, commission una serie di ricerche sugli aspetti nodali della que-
stione, port il piano al suo completamento. Il contenuto essenziale del
piano ampiamente descritto nel libro di Gigi Scano, collaboratore fon-
damentale anche di De Lucia, sia nella stesura dellapparato normativo
sia nella gestione del difficile percorso politico85.
Dal punto di vista dei contenuti, il piano affrontava efficacemente i
temi: la salvaguardia su gran parte della Laguna, secondo regimi di tute-
la differenziati; una soluzione del problema della mobilit e degli accessi
a Venezia, una ragionevole localizzazione delle nuove residenze.

84 La legge 171 del 1973 prevedeva che il piano comprensoriale fosse formato sulla base di
un documento di indirizzi redatto da una apposita commissione di rappresentanti dei ministeri
e degli enti locali. La regia era del Ministero dei lavori pubblici.
85 Scano, Venezia; terra e acqua, p. 296-319.

98
la fase gloriosa della sinistra

Il piano, iniziato alla fine del 1977 e tecnicamente completato nel


1980, non fu mai approvato. La ragione sostanziale, oltre il disaccor-
do tra le forze politiche sui contenuti, sta nella struttura istituzionale
dellautorit che doveva redigerlo. Il consiglio di comprensorio era
formato infatti dai rappresentanti dei Comuni coinvolti, della Provincia
e della Regione: una composizione ibrida, in cui ciascun membro espri-
meva gli interessi dellamministrazione che rappresentava. Per di pi,
alla Regione, che pur era uno dei membri istituzionali del consiglio, era
assegnato il compito di approvare il piano alla fine del suo iter.
Il piano fu adottato dal consiglio di comprensorio nel 1980. Fu pub-
blicato e vennero formulate osservazioni da parte degli enti pubblici: di
particolare peso quelle provenienti dal Comune di Venezia, basate su
approfondimenti soprattutto sulla questione della Laguna86. Apportate
le correzioni e integrazioni conseguenti alle osservazioni accolte, il pia-
no era allordine del giorno per lapprovazione definitiva al consiglio di
comprensorio nel 1983. Ma nel frattempo erano decaduti i rappresen-
tanti della Regione. Questa, a maggioranza democristiana, non provvide
a rinominarli e cos, nel generale disinteresse, il piano fu definitivamente
insabbiato.

9. Cambiano le alleanze

I primi anni Ottanta sono quelli dellascesa al potere, nel Psi, di Bettino
Craxi. Le persone che, nella Storia, determinano i grandi mutamenti ne-
gli assetti del potere esprimono pi efficacemente il mutato spirito dei
tempi, cos come questo viene formato dallideologia prevalente. Craxi
fu uno di questi. Espresse la fase di una modernizzazione che faceva
strame dei princpi, dei metodi, delle priorit del passato. Scrive Paul
Ginsborg:
Negli anni 50 e 60, attratti dalle luci splendenti del con-
sumismo e dalla possibilit di avanzamento individuale, i ceti
medi erano diventati gli stabili fautori di un moderato e demo-
cratico status quo. possibile suggerire che negli anni 80 questo

86 Un contributo rilevante allapprofondimento delle scelte del piano comprensoriale fu co-


stituito da uno studio del Comune di Venezia, Ripristino, conservazione e uso dellecosistema
lagunare veneziano, che la base delle successive valutazioni critiche al progetto MoSE e alla
gestione delle trasformazioni nella Laguna operate dal Consorzio Venezia Nuova (associazio-
ne di imprese cui il governo ha affidato gli studi, le sperimentazioni, i progetti e lesecuzione
delle opere necessarie alla salvaguardia della Laguna).

99
capitolo settimo

consenso, insediatosi dapprima tra i ceti medi, si sia generaliz-


zato alla societ intera. In altre parole, i valori tradizionali della
famiglia si sono sposati a quelli della democrazia parlamentare e
del consumismo capitalista. Questi valori, con poche eccezioni,
sono divenuti dominanti in ogni settore della societ. La grande
trasformazione dellItalia, allora, stata quella di adattarsi al
modello di modernit che era emerso per la prima volta allepo-
ca del miracolo economico; un modello dalle forti influenze
americane, intensamente contestato tra il 1968 e il 1973, ma che
sembra aver trovato negli anni 80 la sua et delloro. In una re-
cente intervista il vicepresidente del Consiglio, il socialista Gian-
ni De Michelis, ha parlato del 1968 come del crepuscolo degli
dei, dellultimo grande momento collettivo della storia italiana,
della fine di ogni sogno di nuova era87.

In quegli anni la politica della solidariet nazionale (che potrem-


mo definire come la fase della riduzione a tattica della strategia88 del
compromesso storico), basata sullalleanza tra Dc, Psi e Pci si stava
concludendo, insieme allemergenza del terrorismo che, almeno in parte,
laveva motivata. Lassassinio di Aldo Moro, il mutamento degli equilibri
interni nella Dc, la grinta con la quale Craxi proponeva il suo disegno,
tutto ci concorreva a trasformare completamente il quadro politico
italiano. Un Pci che non rinnegava le sue matrici culturali e che, con
Enrico Berlinguer, rifiutava quella modernizzazione, era un ingombro
del progetto politico Dc-Psi.
Il leader del Pci era molto lontano dallideologia di cui il socialista era
portatore. Basta rileggere le parole di Berlinguer sul tema dellausterit:
Una trasformazione rivoluzionaria pu essere avviata nelle
condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti
allOccidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mon-
do. E ci, secondo noi comunisti, comporta per lOccidente, e
soprattutto per il nostro Paese, due conseguenze fondamentali:
aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e
di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di
cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare lillusione che

87 Ginsborg, Storia dItalia dal dopoguerra a oggi, p. 575.


88 Il termine strategia spesso adoperato in modo fortemente improprio. un termine
che nasce dal linguaggio militare, opposto a tattica: la strategia finalizzata al lungo periodo,
allintera condotta della guerra, la sua missione raggiungere il fine ultimo; la tattica limitata
al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che una parte, un segmento di
quellevento pi vasto che il campo della strategia. La strategia ha allora a che fare in primo
luogo con il concetto di lunga durata, di prospettiva, di ampio respiro, di futuro, ha a che fare
con la storia, non con la cronaca.

100
la fase gloriosa della sinistra

sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella


artificiosa espansione dei consumi individuali che fonte di
sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse,
di dissesto finanziario89.

Il nesso tra le politiche globali e la critica del modello di sviluppo


del capitalismo nella sua fase attuale era chiarissimo: altrettanto chiara
era la necessit di respingerlo da parte di chi, come Craxi, voleva invece
galoppare in sella al capitalismo esistente e vedeva il Sud del mondo
come un insieme di potenziali mercati cui imporre le proprie mercanzie
materiali e ideologiche.
Lampiezza della distanza tra i due personaggi si comprese piena-
mente nellintervista sulla questione morale che Berlinguer rilasci a
Eugenio Scalfari:
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a
partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di
previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali,
gli ospedali, le universit, la Rai tv, alcuni grandi giornali. ()
E il risultato drammatico. Tutte le operazioni che le diverse
istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere ven-
gono viste prevalentemente in funzione dellinteresse del partito
o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito ban-
cario viene concesso se utile a questo fine, se procura vantaggi
e rapporti di clientela; unautorizzazione amministrativa viene
data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata,
unattrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari
fanno atto di fedelt al partito che procura quei vantaggi, anche
quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti90.

Craxi vinse. Consolid la sua alleanza con la Dc e tolse credibilit


alle ipotesi di governi di sinistra. Il Pci oscill tra proposte politiche
contraddittorie, e, al suo interno, si indebol la linea di Berlinguer; la
sua rivendicazione di moralit nella politica condusse molti, nel suo
stesso partito, ad accusarlo di moralismo. Tutto questo avvenne in Italia,
nel corso degli anni Ottanta. A Venezia ne avevamo visto i segni fin
dallinizio dellalleanza con il Psi. Il merito (se tale vogliamo chiamarlo)
fu di Gianni De Michelis, divenuto, da giovane esponente della sinistra
arrabbiata del Psi, uno dei pi attivi luogotenenti di Bettino Craxi.

89 Dal discorso di Enrico Berlinguer al Teatro Eliseo di Roma, 1977, in eddyburg, cartella
Lausterit come leva di sviluppo.
90 E. Scalfari, I partiti sono diventati macchine di potere, intervista a Enrico Berlinguer,
la Repubblica, 28 lug. 1981. Anche in eddyburg.

101
capitolo settimo

Uomo di grande intelligenza e di grande prepotenza, vero padre pa-


drone della sua compagine veneziana, velocissimo lettore di qualunque
tipo di testo, conoscitore profondo della situazione economica, sociale,
culturale, politica e urbanistica della sua citt, De Michelis esercitava
una larga egemonia che andava al di l del suo stesso partito. Alcune
delle intuizioni pi felici sullassetto del territorio veneziano hanno la
sua firma, come il sistema di accesso alla citt storica via acqua a partire
dai terminal in Terraferma (1971), e gran parte dellimpostazione della
politica di risanamento della citt storica, che avevo trovato, giungendo
a Venezia, nel 1975. Ma anche alcune delle pratiche pi devastanti, co-
me la preferenza per le grandi opere rispetto alla ordinaria ammini-
strazione, la tendenza alla mercificazione della citt, la promozione del
sistema tangentizio, di cui giustificava lesistenza in nome dellautono-
mia della politica e del ruolo dinteresse generale che essa (e soprattutto
quella del suo partito) esercitava.
Non ebbi mai prove o testimonianze sulle tangenti percepite da
esponenti socialisti, tali da poterle portare alla magistratura, ma certo
che a Venezia luso di quella prassi era voce corrente in tutti gli ambienti.
Pellicani, suo alleato e antagonista, raccontava spesso un suo colloquio
con De Michelis. Questultimo si lamentava, - Ma possibile che tutti
se la prendano con noi, e voi, nessuno vi accusa di prendere i soldi?
- vero, rispose Pellicani, ma vedi, se a Venezia qualcuno racconta ho
visto De Michelis che prendeva un assegno da un americano cui aveva
venduto Palazzo ducale, la gente dice A che punto sono arrivati que-
sti socialisti!. Se invece qualcuno giura di aver visto Titta Gianquinto
(ex sindaco comunista di Venezia, amatissimo dai veneziani) uscire dal
Casin con una mazzetta di bigliettoni in bocca la gente dice Ma guar-
da il povero Titta, hanno tentato di soffocarlo!.
Tangenti o non tangenti, la pressione dei socialisti nella gestione
dellurbanistica era volta a realizzare al pi presto grandi opere e inter-
venti cui tenevano molto. In ognuna delle frequentissime riunioni di ve-
rifica (convocate nel tardo pomeriggio, iniziavano la sera e proseguivano
spesso fino al mattino) sapevamo che ci avrebbero chiesto ragione di un
elenco cos formulato: Area Saffa, Area Trevisan, Stucky, Tronchetto; si
trattava degli interventi pi rilevanti, ristrutturazioni urbanistiche o nuo-
ve edificazioni. La nostra preoccupazione era realizzare gli interventi
previsti nel modo pi corretto possibile, da ogni punto di vista, correg-
gendo ci che non ci sembrava coerente con la strategia che avevamo
definito; la cosa ci riusciva particolarmente difficile quando dovevamo
contrattare lattuazione con la propriet, come nel caso dello Stucky e
dellisola di Tronchetto. In particolare, poi, la mia preoccupazione era

102
la fase gloriosa della sinistra

di costituire un quadro di conoscenze e di decisioni che garantisse che


ogni singola scelta fosse il tassello di un mosaico finalizzato ad assicu-
rare i risultati culturali e sociali che ci eravamo proposti. Riuscimmo ad
anticipare lapplicazione dei princpi della pianificazione della citt stori-
ca che avevamo cominciato a costruire, ma il nuovo piano fu approvato
solo anni dopo.

10. La politica della casa

Allinizio degli anni Sessanta, la questione della residenza era gravissima.


Degrado, esodo, assenza di case offerte in affitto a prezzi ragionevoli,
pressione del turismo. Centinaia di famiglie abitavano nei piani terra
sistematicamente allagati dalle acque alte. Il sovraffollamento dei de-
cenni precedenti aveva indotto ad abitare locali originariamente adibiti a
magazzini. I pozzi artesiani scavati per alimentare le industrie di Porto
Marghera avevano ridotto notevolmente la falda acquifera sottostante
agli strati di argilla compressa (il caranto) su cui poggia la citt, determi-
nando un abbassamento del suolo.
Il problema della casa era diventato drammatico. Me ne accorsi
pienamente quando, nel 1979, si manifest unacqua alta eccezionale:
raggiunse laltezza di 166 cm sul medio mare, di poco inferiore ai 194
cm raggiunti nellanno terribile 196691. A partire da quellevento, la sala
del consiglio comunale fu continuamente assediata da molte decine di
persone che protestavano per le loro condizioni. Per un breve periodo
(mi sembr lunghissimo, ma furono solo sei mesi) fui lassessore incari-
cato del problema. Grazie soprattutto allabilit e allimpegno di Gianni
Pellicani, in pochissimi anni riuscimmo a risolvere il problema, e a siste-
mare in alloggi al riparo dallacqua alta tutte le famiglie che ne avevano
bisogno. Impresa che divenne tanto pi difficile quando si aggiunse la
necessit di trovare alloggio alle famiglie colpite dagli sfratti.
Seguimmo tutte le strade possibili, cominciando dalle case sfitte
e da quelle destinate a case parcheggio dal piano. Intervenimmo con
lesproprio, ma prevalentemente con lacquisizione bonaria, assumendo
lindennit desproprio come valore di riferimento. Naturalmente ricor-
remmo anche (ma la cosa richiese complesse trattative) alla disponibilit

91 utile ricordare che laltezza delle acque alte riferita al livello medio del mare. Il punto
pi basso di Venezia, Piazza San Marco, di circa +60 cm. Il livello di riferimento per le pavi-
mentazioni stradali che assumemmo nel nuovo piano del centro storico, e nelle anticipazioni,
fu di +130 cm.

103
capitolo settimo

del patrimonio dello Iacp e degli istituti di assistenza pubblici, che a


Venezia avevano beni consistenti. E avviammo anche programmi di edi-
ficazione di case nuove, nelle aree a ci destinate dai piani vigenti.
Erano gli anni in cui, in tutta Italia, la cultura urbanistica aveva matu-
rato la convinzione che la fortissima produzione edilizia che aveva con-
trassegnato i decenni precedenti dovesse finire. La fase dellespansione
delle citt era terminata, e si doveva affrontare con energia il tema del
recupero del patrimonio edilizio esistente. Del resto, la giustificazione
sociale della necessit della costruzione di nuove abitazioni era diventata
un alibi: pi case si costruiscono, pi ne sono necessarie, dimostravano
tutte le statistiche disponibili. Si era costituito un enorme patrimonio
abitativo che non era disponibile n nei luoghi in cui serviva n per i
ceti che ne avevano bisogno, mentre esisteva un gigantesco patrimonio
sottoutilizzato e degradato.
Ci era vero soprattutto nei centri storici e nei quartieri pi antichi
delle citt. Era l che si doveva intervenire prioritariamente. Questa tesi,
assunta a livello nazionale dai partiti di sinistra, era particolarmente sen-
tita a Venezia dallintero schieramento politico. Oltretutto, si temeva che
investire nella nuova edificazione avrebbe distratto risorse e impegno al
risanamento delledilizia storica, che era assolutamente prioritario.
La necessit di una forte regia pubblica nella politica della casa era
stata provocata da un particolare episodio. Una grande societ immo-
biliare romana, la Beni Stabili, aveva realizzato un cospicuo intervento
edilizio alla Giudecca. Ne era nato un quartiere di lusso, completamente
recintato, contro il quale si era levato il fiero malcontento dei giudecchi-
ni e dei veneziani in generale. Da allora si era deciso, con un accordo
unanime, dai comunisti fino ai liberali di destra, che ogni nuova co-
struzione residenziale sarebbe stata destinata ai cittadini veneziani con
rigorosi vincoli di permanenza. Questo accordo rimase attivo fino alla
fine del secolo scorso, e fu violato nella pratica dalle giunte successive, a
partire dalla prima giunta Cacciari.
Tra la fine degli anni Settanta e il quinquennio successivo, con i
finanziamenti della legge speciale del 1973 e con quelli forniti da alcu-
ne leggi nazionali, si progettarono e realizzarono nuovi complessi di
edilizia residenziale, i principali nellarea degli ex cantieri Trevisan alla
Giudecca e nellarea abbandonata da una fabbrica di fiammiferi (la Saf-
fa) a Cannaregio. Questi programmi si affiancavano ad alcuni rilevanti
interventi di riconversione funzionale e utilizzazione per la residenza
di alcuni complessi edilizi industriali (come la ex birreria Dreher e gli
ex magazzini della Repubblica alla Giudecca) e a un vasto programma
di risanamento e restauro delledilizia residenziale storica. Linsieme di

104
la fase gloriosa della sinistra

questi interventi permise di risolvere nel giro di pochi anni due emer-
genze, determinate dagli sfratti per finita locazione e dal fatto che molti
veneziani vivevano ancora nei piani terra, soggetti ad allagamento.
Due grandi questioni rimasero aperte: lavvio di una iniziativa per of-
frire edilizia a canoni ragionevoli alle famiglie che non disponevano dei
requisiti necessari per concorrere allassegnazione di edilizia pubblica, e
lutilizzazione del grande complesso degli ex Mulini Stucky.
Per lo Stucky le destinazioni previste dai piani rendevano necessaria
uniniziativa concordata con la propriet. Si prevedeva tenendo conto
anche delle caratteristiche strutturali degli edifici la realizzazione di
un centro congressi, di un albergo, di un luogo ove sistemare i nume-
rosi archivi comunali, ancora oggi collocati in spazi meglio utilizzabili
per altre funzioni urbane (a questo scopo si prevedeva di utilizzare
i giganteschi silos di cereali), e infine di edilizia residenziale. Ci che
si chiedeva alla propriet era la cessione gratuita dei silos, a titolo di
oneri di urbanizzazione e costruzione, e il rigoroso convenzionamento
delledilizia residenziale per i veneziani. La propriet non accett queste
condizioni e il complesso rimase abbandonato finch lamministrazione,
allinizio di questo secolo, accett le pretese della propriet. Adesso lo
Stucky una esclusiva enclave di lusso. I silos, le cui facciate erano del
tutto prive di aperture, sono stati distrutti da un incendio che ha lascia-
to miracolosamente indenni gli edifici adiacenti92. Dopo lincendio,
improvvisamente saltano fuori i disegni originali di Ernest Wullekopf
che prevedevano le finestre sulle facciate: su questa base anche quella
parte del complesso stata trasformata in albergo. Lucrosamente: per
la propriet, sintende.

92 stato un incendio doloso per il pm di Venezia, Michele Maturi, quello che ha semidistrut-
to il mulino Stucky sullisola della Giudecca nella citt lagunare. Il pubblico ministero ha infatti
parlato di una mano umana e ipotizzato il gesto di un folle o limprudenza di un barbone
o, pi probabilmente, liniziativa dolosa di qualcuno. Al momento non ci sono gli elementi per
confermare questa pista, ma la strada sembra essere quella giusta. Il mulino Stucky, importante
esempio di architettura industriale ottocentesca, era in fase di restauro e pronto a essere trasfor-
mato in un grande albergo e centro congressi (da Edilportale, 18 apr. 2003).

105
106
Capitolo ottavo
Venezia forma urbis

1. Le basi per il nuovo piano della citt storica

Le elezioni del 1980 videro, a Venezia, vincere di nuovo le liste di sini-


stra. Questa volta cera anche il Pri. Con Gigi Scano avevo concordato
un percorso che ci avrebbe consentito di sostituire quegli anomali e ina-
deguati piani particolareggiati, adottati nel 1975, con una pianificazio-
ne del tutto nuova, che Edgarda Feletti e lufficio avevano cominciato
ad approntare, con la costante e discreta consulenza di Gigi e il mio pie-
no impegno. Allinizio del 1981 avevo presentato in giunta un corposo
documento dindirizzi, Programma di lavoro 1981-198593.
La giunta non approv mai formalmente il mio programma di lavo-
ro. Non credo che fosse un documento troppo complesso: in quegli an-
ni il personale politico era capace di entrare nel merito delle questioni di
governo. Influ certamente il fatto che in quel periodo la pianificazione
urbanistica e la logica della programmazione non godevano pi di mol-
to credito, in Italia e anche a Venezia. Si preferiva rincorrere lemergen-
za, praticare la deroga, godere dei vantaggi della discrezionalit.
Nel programma, sottolineavo la necessit di lavorare secondo due
contemporanee direttrici: avviare la formazione di un sistema di piani-
ficazione completamente nuovo, basato su quello che definivo bilancio
sociale tra offerta di spazi e domanda di spazi, fondato su un comples-
so di conoscenze rigorosamente raccolte e sistematicamente aggiornate,
e contemporaneamente affrontare, con specifici atti di pianificazione,
una serie di esigenze relative a diversi aspetti e luoghi del complesso

93 I punti principali sono ampiamente raccontati nel xv capitolo del libro di Luigi Scano,
Venezia: terra e acqua, p. 324-328.

107
capitolo ottavo

territorio comunale94. Per il nuovo piano ci proponevamo di costruire


la base materiale di conoscenze e, naturalmente, il modello di pianifica-
zione, che nel successivo mandato amministrativo (85-90) si sarebbe
completato. Gli strumenti fondamentali erano tre:
- il montaggio critico dei mappini catastali di tutte le unit immobiliari
della citt storica, per ricostruire i piani tipo delle diverse unit edilizie
e avere cos una base su cui, integrando con altri elementi di cono-
scenza e lesame de visu, individuare la categoria tipologica dapparte-
nenza di ciascuna unit;
- la costruzione di un sistema informativo territorializzato, capace
di costituire linsieme delle basi conoscitive per la costruzione e la
gestione del piano, e in primo luogo per la formazione di una nuova
cartografia;
- linserimento nel sistema informativo dei dati disaggregati del cen-
simento del 1981, per accompagnare i dati fisici con le necessarie
informazioni disaggregate dei dati sociali ed economici.
Con grandi sforzi per convincere le persone interessate, con linven-
zione di passaggi amministrativi bizzarri, con molta pazienza e deter-
minazione riuscimmo a stabilire un accordo con il catasto, che permise
allufficio di eseguire la fotocopiatura di tutte le piccole mappe, in scala
1:50 o 1:100, delle 40.000 unit immobiliari, e di ridisegnarle unifican-
dole per costruire (integrandole con le mappe di edifici pubblici o re-
staurati di recente che contemporaneamente si acquisirono) una mappa
in scala 1:200, poi ridotta a 1:500, dellintera citt storica. Naturalmente
veniva continuamente consultata la cartografia storica, soprattutto la
mappa del De Barbari, i catasti napoleonico e austro-italiano, il Com-
batti95. Quando arriv latteso fotopiano a colori della citt storica, in
scala 1:500, che nel frattempo avevamo commissionato, potemmo met-
tere a punto la classificazione tipologica.

94 Lambito amministrativo del Comune di Venezia costituito da differenti tipi di elementi


territoriali: la citt storica di Venezia, a sua volta formata da 118 isole congiunte da oltre 400
ponti, e dalla Giudecca; gli insediamenti storici minori delle isole di Murano, quasi un quar-
tiere di Venezia, e Burano, un paesone nella parte pi interna della Laguna; le isole del Lido
e di Pellestrina, e gli insediamenti nella penisola del Cavallino, che formano il cordone che
separa la Laguna dallAdriatico; le isole minori, ove nei secoli passati furono ubicati lazzaretti
e conventi, poi fortificazioni e ospedali; la Terraferma, in origine costituita dal centro urbano
di Mestre, cui negli anni Venti del Novecento furono aggregati amministrativamente una serie
di altri piccoli centri.
95 Venezia, Biblioteca Museo Correr, Jacopo de Barbari, Pianta prospettica di Venezia, 1500;
Venezia, Archivio di Stato, Censo stabile, Catasto napoleonico, Catasto austriaco, Catasto austro-italiano,
1807-1852; Bernardo e Gaetano Combatti, Nuova planimetria della citt di Venezia divisa in
venti tavole ecc., Venezia, 1847-1855.

108
venezia forma urbis

2. La nuova cartografia e il fotopiano della citt storica

La nuova cartografia, come base per il sistema informativo territo-


rializzato, fu il secondo grande tassello per la costruzione del nuovo
piano. Fu un lavoro nel quale ci impegnammo molto. Il nostro pro-
gramma prevedeva la realizzazione di un fotopiano a colori degli in-
sediamenti storici del comune e di una cartografia geometrica. Feletti
trov, non senza fatica, lesperto cui chiedere di studiare la soluzione
tecnica migliore. La scelta cadde sulleccellente Mario Fondelli, pro-
fessore di fotogrammetria a Firenze, che aveva maturato numerose
esperienze con lIstituto geografico militare (Igm) e altre strutture.
Fondelli ci guid magistralmente nella gara dappalto e in tutte le suc-
cessive vicende.
Indicemmo due gare dappalto: una per il fotopiano a colori, laltra
per la cartografia geometrica. Dopo varie vicissitudini, per questul-
tima scegliemmo la soluzione informatica (si era allora ai primi passi
nel settore), pi coerente con il nostro progetto di sistema informa-
tivo territorializzato. Ci fu qualche contrasto, nella commissione giu-
dicatrice che ci seguiva anche tecnicamente, con i fautori della carto-
grafia tradizionale, manuale: la resa era certamente pi bella, ma a noi
interessava il sistema e la sua adattabilit. Fummo fortunati anche nel-
la selezione delle ditte. Le due migliori (una per ciascuna cartografia)
avevano gi lavorato in collaborazione tra loro: esperienza che torn
molto utile. Grande fu la passione che Licinio Ferretti, il proprietario
della societ prescelta per il fotopiano, la Compagnia generale Ripre-
seaeree (Cgr), infuse nel lavoro. Collaborare a una eccezionale espe-
rienza quale fu la realizzazione del fotopiano di Venezia (esperienza
pioniera, trattandosi del primo realizzato in Italia per unarea di quelle
dimensioni) fu per lui unoccasione di grande soddisfazione. Un gior-
no avevamo gi aggiudicato la gara, ma ancora non cera n delibe-
razione n impegno di spesa mi telefon: Assessore, sono giorna-
te troppo belle per non approfittarne, non c unombra di nebbia .
Era il 20 maggio. Il giorno dopo vol, a suo rischio.
Non era stato facile ottenere le autorizzazioni necessarie per effet-
tuare le riprese aeree. Lo avevo compreso partecipando alla seconda
conferenza nazionale di cartografia e aerofotogrammetria, indetta
dal Centro interregionale di coordinamento e documentazione per i
problemi inerenti alle informazioni territoriali. Fondelli mi chiese di
preparare una delle relazioni di base, sullimpiego della cartografia a
grande scala. L compresi come larcaismo militare ostacolasse Comu-
ni, Province e Regioni che volessero restituire lesatta natura dei loro

109
capitolo ottavo

territori. Per sbloccare la stampa del nostro fotopiano dovetti chiedere


al parlamentarista Andrea Manzella, che avevo conosciuto in un lavoro
di collaudo per il Comune di Napoli, di intervenire presso il ministro
della Difesa Spadolini, di cui era stato capo di gabinetto affinch a
sua volta intervenisse sullIgm. Dovemmo poi organizzare una visita
in pompa magna al comandante dellIgm a Firenze: persona squisita e
intelligente, comprese che non si potevano oscurare, spacciandoli per
presunti bersagli militari, luoghi come lArsenale e lospedale Santi Gio-
vanni e Paolo, deturpando un gioiello quale era il fotopiano della citt
storica di Venezia.

3. Forma urbis

Unaltra iniziativa a proposito del fotopiano dovemmo avviarla, e fati-


cosamente condurla a termine, quando ci rendemmo conto della sua
bellezza. Per contratto, ne dovevamo ricevere tre copie: una per lavoro,
una per il pubblico e una per larchivio. Ma quando vedemmo le tavo-
le, comprendemmo che non potevano rimanere nascoste. Scrissi una
lunga lettera, che inviammo a una ventina di editori proponendo loro
lutilizzazione commerciale del fotopiano alla condizione che, come
primo prodotto, stampassero e mettessero in commercio unedizione
perfettamente uguale alloriginale; la grandezza delle tavole (ogni foglio
era di 50 x 50 cm) e la perfezione del segno e dei colori rendeva il lavo-
ro particolarmente delicato. Avevamo allegato dei campioni, ma lunico
editore che si present fu Marsilio. Emanuela Bassetti, amministratore
delegato, venne a vedere le tavole. Ne rimase impressionata. Cominci
da parte sua un lungo lavoro di ricerca degli sponsor che consentissero
di assorbire una parte delle spese e, parallelamente, il lavoro di assicura-
re una resa grafica identica alloriginale. Anche in questa impresa fu di
grande aiuto Mario Fondelli.
La tenace ricerca di Edgarda e degli altri della perfezione era moti-
vata anche dalla consapevolezza della grande tradizione cartografica ve-
neziana. Uno dei tanti segni della grandezza e lungimiranza dei reggitori
della Serenissima Repubblica riconoscibile in questo testo:
Quando si deve decidere qualcosa circa le citt e i castelli e
le province che, per grazia di Dio, sono sottoposti al nostro go-
verno, non c nessuno nella nostra amministrazione che sappia
dare informazioni precise sui siti nei quali essi si trovano, sulla
loro latitudine e longitudine, sui confini e sui domini limitrofi e
cos via; e se a qualcuno si chiedono informazioni queste sono

110
venezia forma urbis

spesso diverse a seconda dellinterlocutore, perch ciascuno ri-


sponde come crede. Si provveda perci perch nella nostra can-
celleria e nella sede del nostro Consiglio dei dieci vi sia, veridica-
mente disegnata, limmagine di tutte le nostre citt, terre, castelli,
province e luoghi, talch chiunque voglia decidere e provvedere
in merito ad essi ne abbia davanti agli occhi reale e precisa co-
gnizione, e non debba affidarsi allopinione di chicchessia.

il testo di una deliberazione del 27 febbraio 1460, presa da Pietro


Mocenigo, Bernardo Giustinian e Marco Donato, i tre capi del Consiglio
di dieci96. Non ci sono parole pi efficaci per esprimere quanto la carto-
grafia sia un essenziale strumento di conoscenza, quindi di governo.
Il montaggio di tutte le tavole del fotopiano componeva un grande
pannello di 7 x 10 m. Lo esponemmo per qualche mese sulla parete
dello scalone dellAla napoleonica del Museo Correr. Il regista della Rai
Giulio Macchi, cui il governo aveva dato lincarico di progettare il con-
tenuto del padiglione italiano allesposizione internazionale di Tsukuba,
in Giappone, nel 1985, scelse due oggetti per sintetizzare il meglio della
produzione nazionale: la Ferrari testarossa, e il fotopiano di Venezia.
Dopo ledizione integrale e fedelissima (confezionata in una grande cu-
stodia rigida cui demmo il titolo Venezia Forma Urbis), il fotopiano e la
cartografia numerica furono loggetto di un volume, in cui le tavole era-
no ridotte alla scala 1:1000, un quarto delloriginale. Il titolo in italiano
era Atlante di Venezia, e fu poi tradotto e pubblicato in Gran Bretagna,
negli Usa e in Francia.
Non potemmo ottenere nei tempi necessari i dati del censimento
del 1981, che costituivano la terza componente del nostro programma.
Li sostituimmo con un lavoro empirico e un ampio ricorso alle analisi
dirette da parte dellufficio. Portammo a termine il lavoro programma-
to, con molta fatica. Pi dellabbandono da parte di Gianni Pellicani
(fu chiamato a lavorare alla direzione nazionale del Pci), ci danneggi
lincertezza politica. Lalleanza Pci-Psi era ormai logora, i socialisti si
preparavano a mutare di spalla al loro fucile, e a riprendere laccordo
con la Dc senza gli ingombranti comunisti. Comunque, come ci era-
vamo proposti, avevamo costruito le basi del piano: quelle materiali e
quelle concettuali. Dopo una sospensione potemmo continuare e con-
cludere il lavoro.

96 G. B. Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1868.

111
capitolo ottavo

4. Interruzioni, ripresa e prima conclusione

Lesito politico delle elezioni del 1985 fu cattivo. Il Psi costitu una giun-
ta con la Dc: sindaco il socialista Nereo Laroni. Poi crisi della maggio-
ranza, ricostituzione, nuovo sindaco il democristiano Costante Degan.
Il lavoro di costruzione del piano fu ufficialmente interrotto; continu
sottotraccia il completamento delle sue basi materiali. Nel 1987 si co-
stitu una giunta in cui era sindaco il repubblicano Antonio Casellati e
assessore allurbanistica il verde Stefano Boato. Con loro il lavoro del
piano prosegu e giunse alla conclusione. Gigi partecipava al lavoro co-
me consulente, io in modo informale: con Casellati e Boato eravamo in
ottimi rapporti e in piena condivisione culturale. Concludemmo la reda-
zione del piano e lassessore lo trasmise alla giunta.
Nellaprile 1990, con Edgarda e Gigi presentai il nuovo piano allo
Iuav. Dopo aver ricordato lanomalia degli strumenti di pianificazione
che avevamo gestito nel quinquennio 75-80, illustrai sinteticamente il
piano riferendomi a due aspetti: il rapporto tra piano e spazio, e il rap-
porto tra piano e tempo.
Per la parte del territorio in cui si prescrive la conservazione del di-
segno urbano preesistente, il piano classifica tutte le unit elementari di
spazio in funzione operativa. In particolare, le unit edilizie (e cio gli
edifici caratterizzati da unit di volume e di prospetto) sono classificate
in una quarantina di classi sulla base di unanalisi delle tipologie strut-
turali97. Per ogni classe, sono definite sia le regole delle trasformazioni
fisiche consentite o prescritte (quali elementi strutturali e funzionali
devono essere conservati o ripristinati, e come; quali possono essere
modificati, e come, o eliminati), sia la gamma delle utilizzazioni com-
patibili. Per questa parte, il piano interamente attuabile mediante sem-
plice concessione o autorizzazione edilizia, sulla base di singoli progetti
edilizi. Il che, per un piano regolatore generale di un centro storico che
comprende 13.000 unit edilizie, non davvero poco.
Fanno eccezione allintervento diretto solo quelle parti del centro
storico (si tratta di 50 ambiti) nelle quali sono ritenute necessarie, e
quindi sono prescritte o ammesse, trasformazioni consistenti o dellas-
setto fisico, o dellassetto funzionale, o delluno e dellaltro insieme. Per
questi ambiti il piano prevedeva la formazione di piani particolareggiati
e prescriveva per ciascuno di essi quantit, utilizzazioni e direttive per
lorganizzazione fisica e morfologica.

97 Per il metodo dellanalisi tipologica delledilizia storica, vedi capitolo 7, paragrafo 7.

112
venezia forma urbis

Per quanto riguarda il rapporto tra il piano e il tempo, il piano era


organizzato come la somma di due parti: una parte fissa, e quindi valida
a tempo indeterminato, e una parte invece valida per un arco temporale
breve (per esempio, cinque anni, corrispondenti alla durata del mandato
amministrativo).
In realt, nella pianificazione una serie di indicazione e prescrizioni
sono fisse, valgono sempre, costituiscono delle invarianti rispetto a tut-
te le modifiche della realt immaginabili, altre invece hanno una validit
legata a previsioni, a esigenze, a impostazioni politiche, a programmi
che hanno una limitata validit nel tempo. Questa differenza vale in par-
ticolare, e soprattutto, per le cosiddette destinazioni duso, cio per le
funzioni, gli usi cui possono essere adibite le diverse unit di spazio.
Per tutta la parte della citt storica dove non avevamo ritenuto ne-
cessaria una trasformazione urbanistica (quindi con lesclusione dei 50
ambiti di cui sopra), ma per la quale lobiettivo era la conservazione,
avevamo distinto due aspetti. Innanzitutto, in una prima serie di elaborati,
il piano definisce le regole valide a tempo indeterminato, che specifica-
no, per ciascuna categoria di unit edilizie, le trasformazioni fisiche
ammissibili e le utilizzazioni compatibili con lesigenza di conservare
le particolari caratteristiche di quel tipo. Questa parte del piano stabili-
sce insomma quali sono le regole da rispettare per non stravolgere, ma
anzi utilizzare al meglio le unit edilizie appartenenti a ciascuna catego-
ria. Per quanto riguarda le utilizzazioni si tratta normalmente di una ro-
sa ampia, che nella normativa abbiamo dettagliato per evitare genericit
e discrezionalit. Questo ventaglio di utilizzazioni compatibili valido,
come ho detto, a tempo indeterminato, e apre molte possibilit.
Con una seconda serie di elaborati, il piano stabilisce non una volta
per tutte ma per un quinquennio quali sono le utilizzazioni (le desti-
nazioni duso) che sono obbligatoriamente prescritte.
Ogni quinquennio insomma, tenendo conto delle condizioni sociali,
delle possibilit economiche, degli indirizzi politici, delle disponibilit
degli operatori, il consiglio comunale (mentre verifica e aggiorna la par-
te fissa del piano), rielabora integralmente la parte programmatica
del piano: stabilisce di nuovo quali sono, nellambito della gamma am-
pia di utilizzazioni compatibili con i vari tipi edilizi, le destinazioni duso
che devono, o possono, essere attivate nel periodo successivo. E stabi-
lisce anche quali sono gli ambiti per i quali si proceder alla formazione
dei piani particolareggiati, e approva quelli nel frattempo redatti.
Il piano era pronto per ladozione. Ma subentrarono le elezioni
amministrative. Si form una maggioranza centrista, questa volta il sin-
daco era il democristiano Ugo Bergamo e lassessore allurbanistica il

113
socialista Vittorio Salvagno. Questultimo apprezz e condivise il lavoro
fatto, consent che venisse aggiornato e port il piano alladozione, che
avvenne nel 1992. Poi cominci unaltra storia.

5. La proposta dellarticolazione dei piani in due componenti

Se la mia base era a Venezia, anche negli anni in cui ero assessore non
avevo abbandonato le mie attivit a livello nazionale. Continuavo a essere
consultato dalla direzione nazionale del Pci sulle questioni urbanistiche,
ed ero impegnato nellInu, sia come direttore della rivista Urbanistica
informazioni sia, a partire dal 1983, come presidente nazionale. Inoltre,
concluso il mio impegno di assessore avevo ripreso a collaborare con Re-
gioni, Province e Comuni alla formazione di piani o di testi normativi.
Sia allInu che nella pratica professionale, sempre in stretta collabora-
zione con Gigi Scano, avevo proseguito la riflessione e la sperimentazione
dellarticolazione della pianificazione in due componenti. Una prima
componente, che definivamo strutturale e strategica, conteneva essenzial-
mente tutte le indicazioni, prescrittive o direttive, concernenti le tutele
dellintegrit fisica e dellidentit culturale del territorio, e quelle che deli-
neavano le grandi scelte strategiche. Laltra componente, che definivamo
programmatica e operativa, definiva tutte le decisioni che concernevano scelte
di breve o di medio periodo, comunque conformi a quelle definite nella
componente strutturale.
Nella nostra proposta la componente strutturale della pianificazione,
coinvolgendo interessi di diversi livelli di governo, doveva prevedere una
procedura di formazione pi complessa e pi rigida. La seconda, esau-
rendo essenzialmente la propria portata nellambito di decisioni che non
incidevano su interessi ampi, poteva essere di esclusiva competenza dei
Comuni.
Precisammo questo modello di pianificazione in molte occasioni: nei
prg di Carpi, Imola, Duino Aurisina; nei progetti di legge urbanistica cui
Gigi e io collaborammo per lEmilia Romagna e per il Lazio; in una pro-
posta di legge urbanistica nazionale che Gigi elabor in sede Inu e in un
pi maturo progetto che presentammo a un convegno che organizzammo
a Venezia nel sessantesimo anniversario della legge urbanistica del 194298.

98 L. Scano, Le ragioni e i contenuti di una proposta di legge, in Cinquantanni dopo la legge urbanistica
italiana. 1942-1992, a cura di E. Salzano, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. 137-153. E. Salzano,
Sullarticolazione dei piani urbanistici in due componenti, Notiziario dellArchivio Osvaldo Piacenti-
ni, 11-12 (apr. 2008), II.

114
Capitolo nono
Verso il buio: Tangentopoli e Mani pulite

1. Gli anni della svolta

Nel 1992 scoppia lo scandalo che viene battezzato Tangentopoli: si


scopre una citt (polis) che vive sulle tangenti raccolte dal personale po-
litico di governo sugli affari derivanti da decisioni pubbliche99. I fatti
che sono alla base dello scandalo, e della successiva benemerita azione
della magistratura (la campagna di pulizia giudiziaria che fu chiamata
Mani pulite) erano gi da tempo allattenzione di molti di noi. Cos,
con Piero Della Seta decisi di scrivere in poche settimane un libro a
quattro mani su Tangentopoli. Tentammo di ricostruire il cambiamento
profondo, nella societ e nella politica, che aveva prodotto quel terribile
fenomeno. Nella nostra analisi Tangentopoli non era semplicemente
un moltiplicarsi di normali episodi di corruzione, ma la corruzione
divenuta sistema ordinario di governo: la sua liceit veniva teorizzata e
riconosciuta dai suoi promotori, e aveva permeato lintero sistema delle
decisioni pubbliche in cui fossero coinvolti come protagonisti i membri
di quel mondo.
Individuammo nella met degli anni Ottanta il momento principale
della svolta. In effetti, erano stati gli anni di un cambiamento profondo
in Italia, perfettamente correlato alla pi ampia trasformazione a livello
internazionale. Nel 1983 era nato il governo Craxi, il quale mantenne

99 Da allora, con un processo di corruzione del linguaggio tipico dellignoranza dei mass
media, si attribuito il suffisso poli a ciascuno dei numerosi altri scandali esplosi: calciopoli, ospe-
dalopoli, sanitopoli, parentopoli, affittopoli, ecc.

115
capitolo nono

il suo ruolo fino allaprile del 1987. Negli stessi anni i poteri di Ronald
Reagan e Margaret Thatcher erano stati pienamente confermati nei ri-
spettivi paesi. In Italia, un decreto del governo Craxi (14 febbraio 1984)
aveva aperto lattacco alla scala mobile: a quel meccanismo cio, con-
quistato nel 1975 a favore di tutti i lavoratori, che legava le variazioni del
salario a quelle del potere dacquisto. Il Pci promosse, nel 1985, un refe-
rendum per difenderlo, ma raggiunse solo il 46% dei consensi100. Nello
stesso anno si svolsero in Italia le elezioni amministrative: caddero quasi
tutte le maggioranze di sinistra che erano al governo nelle grandi citt.
Sono gli anni del trionfo della visione craxiana della societ: nuovi
valori divengono vincenti nel pensiero comune.
Tutto viene declamato in termini di efficienza, di conquista
della modernit, di celebrazione del made in Italy, di enfatiz-
zazione della grande rincorsa dello sviluppo che appare ormai
inarrestabile e che fa sentire proiettati verso i vertici massimi
della scala mondiale. A Tokio, il 4 maggio 1986, Craxi riesce a
ottenere lammissione dellItalia in quello che era allora il Club
dei Cinque, organismo di concertazione della politica economi-
ca formato dalle maggiori potenze industriali del pianeta101.

Benessere e crescita economica erano traguardi raggiunti. Eppure,


osserva Paul Ginsborg:
crescita economica e sviluppo umano non sono affatto la
stessa cosa, e con lavvicinarsi della fine del secolo la prima giun-
se a costituire sempre pi una minaccia per il secondo. Gli italia-
ni tacevano parte di quel quarto della popolazione mondiale che
consumava ogni anno i tre quarti delle risorse e che produceva
la maggior parte dellinquinamento e dei rifiuti102.

La ricchezza aumenta, ma le diseguaglianze aumentano al pari dei pri-


vilegi. I principi morali si affievoliscono, il successo individuale lobiet-
tivo primario al quale tutto il resto pu essere sacrificato. Tangentopoli
non avrebbe potuto dilagare, e non sarebbe stato cos difficile combat-
terla, se non avesse trovato nel clima sociale lhumus in cui svilupparsi.

100 A favore dellabrogazione del decreto Craxi il Pci, il Psiup e i Verdi; contro labrogazione
il Psi, la Dc, il Pri, il Psdi e i liberali. Si scoprir pi tardi che la campagna referendaria era
stata pagata da Craxi con i soldi delle tangenti. Pochi anni dopo, la scala mobile verr del tutto
abrogata.
101 P. Della Seta, E. Salzano, LItalia a sacco. Come, negli incredibili anni 80, nacque e si diffuse
Tangentopoli, Roma, Editori riuniti, 1993I, p. 26.
102 P. Ginsborg, LItalia del tempo presente. Famiglia, societ civile, Stato. 1980-1996, Torino,
Einaudi, 2007II, p. 57.

116
verso il buio: tangentopoli e mani pulite

Vissi questo clima nelle esperienze di quegli anni. Non solo al Comune
di Venezia, ma anche nella mia collaborazione alla direzione nazionale
del Pci e al mio lavoro nellInu.

2. Si affaccia lurbanistica contrattata

Il nuovo tema che si affacciava nei dibattiti sullurbanistica era quello


dellurbanistica contrattata. Il primo episodio rilevante fu una polemi-
ca sullUnit, nellestate del 1982, tra due assessori, entrambi comu-
nisti, entrambi eletti in due grandi citt: Maurizio Mottini, a Milano e
Raffaele Radicioni, a Torino.
Mottini partiva dalla considerazione che era emersa negli anni
pi recenti una critica diffusa, talvolta una insofferenza, nei confronti
del concetto stesso di piano come strumento del potere pubblico per
affrontare e risolvere problemi di interesse generale; osservava cor-
rettamente come questo atteggiamento critico fosse un sintomo della
pi generale tendenza al riflusso nel privato, alla riscoperta dei valori
e dei problemi dellindividuo, e come fosse collegato al fatto che sul
versante politico e ideologico si assisteva al rilancio di un neoliberismo,
che non di rado si tingeva dei colori di una volont di rivincita dei valori
della conservazione o meglio della restaurazione103.
Indubbiamente, le prime avvisaglie dei tentativi di liberare le de-
cisioni sul territorio dai vincoli di regole dettate dallinteresse comune
avevano radici nel pi vasto processo di riflusso verso lindividualismo
e il privatismo, nelle nuove ideologie che si affermavano e nella ripresa
di potere degli interessi economici di nuovo dominanti. Mottini indivi-
duava per anche a sinistra segnali che andavano nella stessa direzione:
significativo, afferma, che nellambito stesso della cultura di sinistra il
tema delle libert individuali, come presupposto di una societ dinami-
ca, venga additato come via duscita ai fenomeni di sclerosi delle forme
realizzate partendo da una lettura consolidata e ortodossa della lezione
marxista.
Da queste premesse, Mottini partiva per esprimere una critica
allurbanistica: Il piano urbanistico, come normativa che regola il
comportamento dei soggetti che decidono, ha prodotto troppo spesso
disegni mai realizzati o realizzati in piccola parte; ci che in crisi
aggiungeva non il concetto di piano urbanistico, ma il concetto di

103 M. Mottini, Urbanista, cambia piano, lUnit, 18 ago. 1982.

117
capitolo nono

gestione pubblica del piano urbanistico. La ricetta che proponeva era


di sostituire la gestione pubblica col governo pubblico, dove governare signi-
fica utilizzare i meccanismi di mercato, indirizzandoli con una serie di
incentivi e disincentivi alla soluzione dei problemi di interesse generale.
Alla politica del vincolo occorre sostituire la politica delluso pubblico
dellinteresse privato104.
Pianificazione territoriale e programmazione concertata tra pubblico
e privato divengono momenti di un solo discorso, non pi un prius de-
finito e immobile cui seguir una sia pur complessa gestione di attuazio-
ne. In altre parole, il piano non autonomo rispetto agli interessi eco-
nomici, non delinea a priori le scelte necessarie per risolvere i problemi
dal punto di vista dellinteresse collettivo, ma un insieme di scelte che
si concertano (contrattano) con gli interessi economici.
Stupisce nel ragionamento di Mottini il fatto che trascuri completa-
mente di domandarsi quali siano gli interessi economici con i quali il
pubblico dovrebbe contrattare il destino della citt. Sembra ignorare
che questi interessi non sono quelli legati al salario e al profitto, al lavo-
ro e allimpresa, allattivit economica volta alla produzione di ricchezza
da immettere sul mercato, ma semplicemente quelli, parassitari da ogni
punto di vista, della rendita immobiliare.
Il contrasto allappropriazione privata della rendita immobiliare
invece al centro dellintervento critico dellaltro assessore allurbanistica,
Raffaele Radicioni105. Dopo unampia illustrazione dei difetti costitu-
zionali rilevati nella legislazione urbanistica e dei tentativi fallimentari
dei parlamenti di sanarli compiutamente (dalle sentenze costituzionali
del 1968 alla proposta governativa di riconoscere pienamente la rendita
immobiliare a valori di mercato106), afferma che riconoscere, in caso
desproprio o di vincolo, il valore di mercato dei suoli significherebbe
optare definitivamente a favore del potere di edificare congiunto in-
scindibilmente con il diritto di propriet e per questa via [riconsegna-
re] alla propriet privata, attraverso una leva economica irrefrenabile
(il valore dei suoli), il potere e il diritto di decidere come, quanto, in
che modo, trasformare la citt. Ma ci che pi preoccupa prose-
gue lassessore torinese constatare la distrazione con la quale negli
ultimi anni questa vicenda viene seguita dalle forze riformatrici, fra cui
determinante il ruolo esercitato dal nostro partito. Largomento non

104 Ibidem.
105 R. Radicioni, Anche per lurbanista il 68 lontano, lUnit, 3 set. 1982.
106 Proposta del ministro Franco Nicolazzi del mag. 1962.

118
verso il buio: tangentopoli e mani pulite

stato oggetto di agitazione, e scarsi sforzi sono stati compiuti per


suscitare sia il confronto politico che lapprofondimento culturale, asso-
lutamente necessari nel momento in cui leggi troppo sommarie o affret-
tate rivelano di non reggere al vaglio della Corte costituzionale.
Per altro non passa occasione che nel nostro partito autore-
voli e valenti compagni ci ricordino giustamente come ritardi e
sconfitte, registrati dal movimento riformatore sui temi della ca-
sa, del governo della citt sarebbero imputabili in ampia misura
ad una frattura manifestatasi in alcuni periodi fra idee di riforme
illuministe, patrimonio di intellettuali, ed esigenze, aspirazioni,
di larghe masse popolari. Bene, io mi domando se dalla vicenda
che ho richiamato si debba concludere che il tema del controllo
sulla acquisizione della rendita (che penso costituisca uno degli
strumenti principali del governo della citt, se non il principale)
sia da considerare ideologico o comunque fuori dalle possibilit
di unit fra esigenze popolari per la casa, per la citt, per lequili-
brio del territorio e gli orientamenti, le denunce, le esperienze di
intellettuali ed amministratori107.

C una sola strada per uscire dalla crisi della citt, conclude Radi-
cioni, rilanciare nel Paese, fra le masse popolari, nei luoghi di cultura,
negli enti locali e ovviamente in parlamento una convinta battaglia con
al centro il nodo della acquisizione alla collettivit della rendita, come
strumento fondamentale per il governo delle citt. Ma le orecchie del
Pci erano aperte ad altre musiche. Lo comprendemmo molto presto.

3. Intanto, sullabusivismo

Allinizio del 1984 il parlamento inizia la discussione della conversione


in legge di un decreto del governo che, nel dichiarato intento di raggra-
nellare un po di entrate, condona a pagamento labusivismo edilizio. Si
apre un lungo dibattito, in cui emerge con chiarezza che il Pci (la cui
politica del territorio guidata dal nuovo responsabile del settore in-
frastrutture, casa e trasporti, Lucio Libertini) favorevole al condono,
motivando il fenomeno del mancato rispetto delle regole urbanistiche
con la loro rigidezza, astrattezza, incuranza delle esigenze della gente.
Le vicende parlamentari sono attentamente seguite dallInu e dalla
sua rivista. Gli organi dellistituto esprimono sistematicamente le loro

107 Radicioni, Anche per lurbanista il 68 lontano.

119
capitolo nono

critiche. Un articolo di Luigi Scano su Urbanistica informazioni108


critica in particolare un emendamento, proposto da Franco Bassanini e
altri deputati indipendenti di sinistra e pienamente appoggiato dal Pci,
che prende pretesto dal condono per liberalizzare, rispetto alle previsio-
ni dei piani urbanistici, i cambiamenti di destinazioni duso e allargare il
campo del silenzio assenso.
La tesi del gruppo dirigente dellInu era che, se le regole dellazione
pubblica non vanno bene, allora si cambiano con altre regole, non si
cancellano. Lo ribadivo nelleditoriale del numero 75 di Urbanistica
informazioni:
Il problema non quello della deregulation, ma quello delle
nuove regole da costruire. Il problema non quello di sman-
tellare gli strumenti attraverso i quali oggi si attua il governo
pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali, ma quello
di rinnovarli, di adeguarli alle nuove esigenze, ai nuovi problemi,
alle nuove possibilit tecniche.

Iniziai un carteggio (ero allora presidente nazionale dellInu) con


Lucio Libertini e altri esponenti della direzione del Pci, che prosegu
per qualche anno. La critica principale che gli urbanisti, pienamente
rappresentati allora dallInu, facevano alla legge e allatteggiamento del
Pci era di avere completamente invertito il processo logico che si sareb-
be dovuto seguire. Secondo noi si sarebbe prima dovuto rafforzare le
norme capaci di arrestare labusivismo, poi provvedere a redigere piani
urbanistici volti a recuperare gli insediamenti abusivi conferendo loro
la necessaria dignit umana, e solo pi tardi provvedere al condono delle
diverse situazioni soggettive, senza per accrescere liniquit tra chi ave-
va costruito abusivamente e chi, pur avendo la stessa necessit, aveva ri-
spettato la legge. La legge, secondo il percorso tollerato dal Pci, partiva
invece dalla coda: ci che interessava era il condono, per ragioni di cassa
(il governo) o per ragioni di demagogia (Libertini).
Lo scontro raggiunse livelli acuti, sia dentro sia fuori il Pci. Libertini
scriveva che si manifestata nellopinione pubblica, anche di sinistra, una
reazione di rigetto verso la pianificazione urbanistica, identificata in forme
perverse di oppressione burocratica109; noi rivendicammo la necessit di
fondare in Italia una nuova cultura della pianificazione e di affrontare
con coerenza linsieme delle questioni del governo del territorio.

108 L. Scano, Lemendamento Bassanini. Deregulation ovvero sregolatezza, Urbanistica informa-


zioni, 73-74 (1984).
109 L. Libertini, Nicolazzi non passer, Urbanistica informazioni, 75 (1984).

120
verso il buio: tangentopoli e mani pulite

Le elezioni amministrative segnano un notevole arretramento del


Pci. In una lettera al segretario generale del partito, Alessandro Natta, e
ai capigruppo della Camera (Giorgio Napolitano) e del Senato (Gerardo
Chiaromonte) quaranta urbanisti esprimono le loro critiche110:
Dobbiamo dire innanzitutto che come urbanisti fin dalle
prime battute dello scontro elettorale ci ha preoccupati la de-
bolezza delle posizioni, e della propaganda, del Partito sui temi
della qualit urbana e dellambiente. E i risultati hanno non solo
confermato, ma accentuato le nostre preoccupazioni. Infatti,
sebbene nella propaganda elettorale abbiano giocato un peso
rilevante i temi della politica nazionale, ci sembra indubbio che
un ruolo non marginale abbiano svolto i temi dellassetto terri-
toriale e urbano. E allora non si pu non sottolineare che siamo
stati sconfitti anche per i colpi (severi, nel giudizio delleletto-
rato) di una determinata propaganda delle forze politiche av-
versarie e concorrenti: a destra, dove la Dc ha impostato la sua
campagna elettorale, sia pure con toni da crociata, sul tema della
inefficienza delle giunte rosse; e a sinistra, dove i Verdi hanno
esplicitamente dichiarato che il voto per le loro liste sarebbe sta-
to lespressione di una critica allinsufficienza, allambiguit e ai
ritardi dei partiti di sinistra (ma in primo luogo del Pci) sui temi
dellambiente.

Chiedevamo una riflessione profonda, e un dibattito aperto e im-


pietoso poich eravamo stati colpiti proprio sul punto su cui avrem-
mo potuto essere pi forti: sui temi che ci hanno storicamente visto
come protagonisti, e per i quali Regioni e Comuni amministrati da noi
sono stati proposti e riconosciuti come modelli, allItalia e allestero.
A nostro parere, avevamo perso perch non vi era stata
unadeguata direzione nazionale, o quanto meno un efficace
coordinamento, del partito sulle questioni urbanistiche e terri-
toriali. Di queste ci si occupati a pezzi, a spezzoni, a settori,
dimenticando, o ignorando, che ci che essenziale una visio-
ne unitaria dei problemi del territorio, che un governo pubblico

110 La lettera fu firmata da Luigi Airaldi, Carlo Alberto Barbieri, Massimo Bil, Piero Becca-
ria, Giuseppe Boatti, Felicia Bottino, Vittoria Calzolari Ghio, Giuseppe Campos Venuti, Mas-
simo Carmassi, Pier Luigi Cervellati, Elena Camerlingo, Filippo Ciccone, Alessandro Dal Piaz,
Maria Franca De Forgellinis, Sandro Del Fattore, Piero Della Seta, Vezio De Lucia, Giorgio
De Rosa, Valeria Erba, Stefano Garano, Mario Ghio, Ugo Girardi, Tommaso Giuralongo,
Francesco Malfatti, Laura Mancuso, Giorgio Morpurgo, Carlo Melograni, Roberto Matulli,
Federico Oliva, Stefano Pompei, Giuseppe Pulli, Raffaele Radicioni, Anna Renzini, Amerigo
Restucci, Ezio Righi, Edoardo Salzano, Stefano Stanghellini, Giancarlo Storto, Lino Tirelli,
Alberto Todros.

121
capitolo nono

delle trasformazioni urbane e territoriali ha il suo metodo e stru-


mento irrinunciabile nella pianificazione urbanistica e territoriale,
e che infine consolidare nel Paese una cultura e una prassi della
pianificazione esige uno sforzo determinato, tenace, continuo,
di lunga durata.

Alla lettera non ricevemmo risposta da parte dei destinatari; ci ri-


spose invece, su loro mandato, Libertini, dichiarando che il Pci voleva
superare il giacobinismo illuminista, colpevole del distacco tra movi-
mento riformatore e masse popolari. La risposta ai quaranta urbanisti
era stata preceduta da una lettera dello stesso Libertini a tutti i segretari
regionali e provinciali e alla Commissione casa e infrastrutture del Pci,
in cui, difendendo il comportamento del partito sullabusivismo, respin-
geva le critiche delle associazioni che difendono lambiente e il territo-
rio attribuendole ai legami intensi che tutte queste associazioni hanno
con i partiti di governo.111

4. Il Pci alla testa del movimento degli abusivisti

Un ulteriore picco del dissenso si ebbe quando, il 17 febbraio 1987, il


Pci appoggi platealmente una manifestazione di piccoli costruttori
abusivi accompagnati da numerosi sindaci: 40.000 persone erano venu-
te a Roma, in larghissima prevalenza dal Mezzogiorno, guidate da Paolo
Monello, sindaco comunista del comune di Vittoria (Ragusa), per chie-
dere unampia estensione dellabusivismo e labolizione della tassa per il
condono.
Case abusive, tasse esose. Rabbia e protesta dal Sud, era il titolo sparato in
apertura della prima pagina dellUnit su cinque colonne. Nelle pagi-
ne interne altri articoli commentavano la manifestazione e raccontavano
del fruttuoso incontro dei sindaci leader del movimento con unauto-
revole delegazione di senatori comunisti. Il giorno dopo continuano le
cronache del movimento degli abusivisti, e un corsivo di Emanuele Ma-
caluso giustifica gli abusi commessi: Si vuole che chi doveva finalmente
costruire una casa () avrebbe dovuto farlo con i bolli. E dove erano i
bolli? E chi li metteva questi bolli? E in quali aree fabbricabili si sarebbe
potuto costruire?112.

111 Lettera del 24 giu. 1985, firmata Lucio Libertini (Archivio Edoardo Salzano).
112 E. Macaluso, Dove stanno i veri eroi dello scempio edilizio, lUnit, 19 feb. 1986.

122
verso il buio: tangentopoli e mani pulite

Naturalmente la polemica divamp. Su Urbanistica informazioni


raccogliemmo gli articoli fortemente critici di Antonio Cederna (la
Repubblica, 19 febbraio), Giovanni Russo e Cesare De Seta (Corriere
della sera, 19 febbraio), Filippo Ciccone ed Enrico Testa (il mani-
festo, 20 febbraio), Fabrizio Giovenale (Paese sera, 22 febbraio),
Vezio De Lucia (lUnit, 23 febbraio), Giulio Di Donato (Avanti!,
6 marzo), Edoardo Salzano (Rinascita, 24 febbraio), Pierluigi Cervel-
lati (La Nazione, 28 febbraio), Carlo Melograni (lUnit, 6 marzo).
Le posizioni del Pci erano difese da Emanuele Macaluso (lUnit, 20
febbraio) e Lucio Libertini (la Repubblica, 21 febbraio), mentre Gui-
do Alborghetti, parlamentare del Pci, aveva preso le distanze dal mo-
vimento degli abusivi pur tentando di mediare tra le opposte posizioni
(Rinascita, 24 febbraio).
Nei mesi successivi, ulteriori tentativi furono compiuti dagli urba-
nisti vicini allInu per convincere i dirigenti del Pci a mutare registro.
La risposta del partito venne sempre da Libertini, e non cambi di tono.
Finalmente, il 22 ottobre 1988 diedi le dimissioni dalla Commissione
casa, infrastrutture e trasporti. La mia battaglia proseguiva allinterno
dellInu, dove le cose non andavano bene. La svolta era arrivata anche l.

5. La legge Galasso

Gli anni Ottanta hanno, nel loro complesso, un segno negativo. Sono
gli anni nei quali maturato, e ha cominciato a realizzarsi, il disastro
nel quale viviamo. Ma in quel decennio ci sono state anche azioni di
segno opposto; e il positivo non va mai dimenticato perch a esso che
bisogna riallacciarsi pi tardi, quando si pu riprendere il cammino. Nel
mio ricordo, al positivo di quegli anni appartiene soprattutto il risultato
di uniniziativa legislativa di un vecchio amico di mio padre, Giuseppe
Galasso113. Lo storico napoletano era diventato sottosegretario al Mi-
nistero dei beni culturali. Aveva avviato, con un decreto, poi giudicato
illegittimo dal tribunale amministrativo, il procedimento parlamentare
per la formazione di una legge per la tutela del paesaggio che superava
decisamente la vecchia impostazione delle leggi di tutela del 1939.
La legge fu approvata nel 1985. Gli elementi essenziali, particolar-
mente positivi, erano tre.

113 Vedi Salzano, Fondamenti di urbanistica, p. 220 e seg.

123
capitolo nono

Erano riconosciuti come beni paesaggistici dinteresse nazionale, da


tutelare ope legis, intere e ampie categorie di beni, che costituiscono la
grande orditura del paesaggio italiano: i monti e le coste, i corsi dacqua
e i vulcani, i boschi e i ghiacciai. ecc. In tal modo si rispettava il criterio
stabilito dalla Corte costituzionale, in relazione ai vincoli sul territorio.
La Corte, infatti, con una sentenza del 1968, contemporanea a quella
che aveva invalidato i vincoli urbanistici, aveva stabilito un principio
molto importante114: in linea generale, non si possono vincolare con un
atto amministrativo determinate propriet senza che vi sia un indenniz-
zo sicuro nel tempo e definito in relazione al valore del bene che viene
riconosciuto al proprietario secondo la legislazione vigente; ma il legi-
slatore pu dichiarare che tutti i beni appartenenti a determinate cate-
gorie a confine certo possono, per ragioni dinteresse generale, essere
soggetti a particolari limitazioni alla propriet, senza che in questo caso
sia necessario indennizzare il proprietario; la successiva individuazione
sul territorio dei beni appartenenti a quelle categorie non un atto
discrezionale, ma semplicemente la traduzione di quel criterio a una
specifica fattispecie.
La seconda novit rilevante era costituita da una soluzione soddisfa-
cente della questione della tutela: lo definimmo come il passaggio dal
vincolo alla pianificazione. Fino ad allora la tutela si esercitava mediante
lapposizione di un vincolo su un determinato bene: un vincolo diretto,
che cio impediva di modificarlo, o un vincolo procedimentale, che sot-
toponeva ogni progetto di trasformazione di quel bene a una procedura
di esame da parte delle soprintendenze.
Da allora, secondo la legge e le successive interpretazioni della giu-
risprudenza, la tutela doveva manifestarsi attraverso un atto di pianifi-
cazione. Ci significava che in ogni piano territoriale o urbanistico, a
partire da quelli di livello regionale (e poi in quelli di livello provinciale
o comunale) si dovevano individuare i beni appartenenti alle categorie
definite dalla legislazione nazionale che erano individuabili a quella sca-
la, attribuendo a ciascun bene non un vincolo generico, ma le regole da
rispettare in ogni progetto di conservazione o trasformazione. In modo
del tutto analogo a quanto avevamo elaborato per il nostro piano della
citt storica di Venezia.
La legge consentiva infine (terzo elemento positivo di novit) di ri-
solvere correttamente il rapporto tra pianificazione specialistica, cio ri-
ferita a uno solo degli aspetti del territorio, e la pianificazione territoriale

114 Vedi capitolo 4, paragrafo 5.

124
verso il buio: tangentopoli e mani pulite

e urbanistica, che dovrebbe regolarne tutti gli aspetti. Si trattava del


superamento di un lascito della legislazione prebellica, nella quale non
si era riusciti a comporre in un unico disegno la questione della tutela
del paesaggio, obiettivo della legge Bottai del 1939115, e della pianifica-
zione urbanistica, regolata dalla legge urbanistica del 1942116. La legge
Galasso dava mandato alle Regioni, che oramai erano state costituite
e avevano competenza propria in materia di legislazione urbanistica e
competenza delegata dallo Stato in materia di beni culturali e paesaggio,
di proseguire nella tutela avviata con lindividuazione per legge delle
categorie di beni, adoperando a propria scelta due possibili strumenti:
un piano esclusivamente dedicato alla tutela del paesaggio, oppure uno
strumento, o una serie di strumenti a diverse scale, della pianificazione
ordinaria cui attribuire contenuti e validit di tutela paesaggistica117.
Lapplicazione regionale della legge fu molto deludente. Dopo una
prima strettissima serie di piani redatti in attuazione e conformit della
legge (dallEmilia Romagna e dalla Liguria), e alcuni altri piani per molti
aspetti discutibili, lattuazione della legge praticamente si ferm, n il
Ministero dei beni culturali aveva le forze, o la volont di ricorrere al
potere sostitutivo previsto dalla legge. Seguivo, allepoca, la formazione
del piano paesistico dellEmilia Romagna, gestito dallassessore Felicia
Bottino. In quella sede si fece una scelta secondo me molto feconda.
Ragioni di tempo spingevano a redigere un piano limitato agli aspetti
paesaggistici. Si formul per la scelta di considerare il piano paesag-
gistico come la prima tappa di un percorso che sarebbe proseguito con
il piano territoriale regionale. Questa scelta ci condusse a teorizzare
una precisa scelta culturale: considerare lindividuazione delle qualit,
naturali e storiche, del territorio e la definizione delle regole per la loro
conservazione o ricostituzione come la fase preliminare e prioritaria
dogni processo di pianificazione, sia nellambito dello stesso piano sia
nella successione di piani. Era sostanzialmente lo stesso metodo che
avevamo elaborato e sperimentato a Venezia, con Gigi Scano ed Edgar-
da Feletti, per la pianificazione della citt storica.

115 Legge 29 giu. 1939, n. 1497, Protezione delle bellezze naturali.


116 Legge 17 ago. 1942, n. 1150, Legge urbanistica.
117 Legge 8 ago. 1985, n. 431, Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare
interesse ambientale. Sullargomento vedi Salzano, Fondamenti di urbanistica, capitolo ix.

125
capitolo nono

6. LInu: la fase del consolidamento

Nel 1984 ero stato eletto presidente nazionale dellInu. Listituto era
stato ricostituito e si era formato un gruppo dirigente abbastanza af-
fiatato e coeso, ma percorso da tensioni. Ero stato eletto anche perch
si pensava che fossi capace di mediare. Proseguimmo nello sforzo di
consolidare lInu e ampliarne le basi. In realt, la platea potenziale era
molto larga. Lo sforzo fatto soprattutto da Astengo di far diventare
lurbanistica una disciplina importante per la societ e le istituzioni
aveva avuto negli anni Settanta il successo meritato. Erano ormai molti
gli urbanisti che lavoravano nei Comuni, nelle Province, nelle neonate
Regioni.
Anche lInu e le sue riviste avevano svolto egregiamente il loro ruolo.
Le nostre sezioni erano presenti dappertutto; ricordo i numerosi viaggi
fatti con la bravissima segretaria Daniela Betti, per ricostituire sezioni
scomparse e formarne di nuove. La nostra presenza critica nei confron-
ti delle istituzioni era continua: a livello nazionale soprattutto nei con-
fronti del parlamento e dei partiti, e a livello locale, mano a mano che le
sezioni si consolidavano, con le istituzioni regionali e comunali.
Se Urbanistica, la rivista tradizionale dellInu, versava sempre in
gravissime difficolt economiche (che, nei momenti pi difficili, ri-
chiesero limpegno straordinario del nostro tesoriere Marco Romano),
Urbanistica informazioni, la testata che dirigevo, diventava sempre pi
diffusa e ricca. Dopo Vezio De Lucia, uno dei rifondatori dellInu, atti-
vo segretario generale e diuturno collaboratore della rivista, la responsa-
bilit di Urbanistica informazioni ricadde sempre pi largamente sulle
spalle di Filippo Ciccone. A rivedere oggi le annate della rivista, essa si
rivela come un poderoso archivio di tutto ci che, attinente al governo
delle citt e del territorio, accadde in quegli anni.

7. Complicit oggettive

Ci eravamo accorti abbastanza presto del cambiamento del clima cul-


turale, prima che politico. Franco Nicolazzi, ministro dei Lavori pub-
blici dal 1979 al 1987, era stato liniziatore e il costante tessitore della
deregulation urbanistica; le forme pi perverse del condono edilizio erano
partite, come abbiamo visto, da sue iniziative. Ma noi addebitavamo
una responsabilit non trascurabile anche ad alcuni vizi della cultura
urbanistica. Scrissi un editoriale che provoc discussioni e polemi-
che. Sostenevo che se Nicolazzi aveva potuto trovare credito non era

126
verso il buio: tangentopoli e mani pulite

dovuto solo alle manovre dellavversario o al qualunquismo imperan-


te ma derivava anche dallesistenza di complicit oggettive nel campo
di quanti sono legati, professionalmente, culturalmente o politicamente,
al tema della riforma urbanistica.
Esistono, insomma, assenze, silenzi, cedimenti immotiva-
ti, fuorvianti fughe in avanti, comportamenti di riflusso nel
professional-privato, di ripiegamento sul quotidiano, di perdita
di rigore, che da tempo hanno frantumato, e quasi dissolto, il
fronte di quanti potevano e potrebbero battersi, ciascuno con i
propri specifici strumenti, per un avanzamento del processo di
riforma urbanistica. Oggi, nel 1982, alcuni sorridono degli sfor-
zi di sistemazione tecnico-disciplinare dellInu anni 50, dei me-
todi ingegneristici di un Astengo o delle empiriche capacit di
interpretazione e ridisegno di organismi urbani di un Piccinato,
delle battaglie di un Detti per la salvaguardia delle colline fioren-
tine o di un Insolera per disvelare le malefatte dei reggitori della
Roma di Cioccetti e Petrucci, delle aspre denunce di un Cederna
e delle tenaci elaborazioni di un Ghio per dare verde alla citt e
servizi ai cittadini o di un Cervellati per restituire alla civilt un
centro storico. E altri, ugualmente, sorridono delle generose in-
temperanze e approssimazioni dellInu post sessantottesco, del
tumultuoso ingresso del problema della casa nei contenuti della
gestione urbanistica, della scoperta dellinsufficienza di una poli-
tica solo quantitativa per la fuoriuscita dalla crisi abitativa, del
defatigante impegno nellelaborazione e nella critica propositiva
delle piattaforme legislative. Sono motivati quei sorrisi? Quanto
meno, non sono sufficienti e proprio per ci, stimolano a capir
meglio118.

Non mi arroccavo nella difesa del modo tradizionale di fare urbani-


stica. Proseguivo infatti affermando che il patrimonio di elaborazioni e
iniziative dellurbanistica italiana doveva essere assunto criticamente: in
ogni momento, come ogni analogo patrimonio ideale e politico, preten-
de dessere superato.
Superato, per, non liquidato. Da pi dun segno, ci sembra
invece di sentir aria di liquidazione. un caso se limpegno
degli urbanisti, di molti urbanisti, abbandona la ricerca e la
sperimentazione delle regole e dei metodi generali per il con-
trollo e il governo delle trasformazioni urbane e territoriali, ed

118 E. Salzano, Complicit oggettive, Urbanistica informazioni, 60 (1981). Ppa: programma


pluriennale di attuazione; peep: piano per ledilizia economica e popolare; pip: piano per gli
insediamenti produttivi.

127
capitolo nono

enfatizza invece il momento del progetto, dellintervento sin-


golare, dellopera unica e conclusa? se lurbanistica tende a
rientrare nel ventre di una delle sue matrici, lArchitettura? ()
un caso se uno strumento decisivo per il governo del terri-
torio, preconizzato e proposto dagli urbanisti old style dal 1959,
tentato a Roma agli albori del centrosinistra e in Lombardia
nella fase nascente del regionalismo (parliamo del ppa), viene
lasciato cadere come un ingombrante ferrovecchio appena pu
cominciarne una generalizzata sperimentazione? se la stessa
problematica dei peep e dei pip viene considerata obsoleta, o
meramente strumentale rispetto alle nuove frontiere della gran-
de progettazione post modernista?

Come si vede, sono questioni che ancora oggi hanno validit. Segno
del fatto che allora era cominciato un processo molto lungo, che si ag-
gravato negli anni e che oggi sta raggiungendo approdi nefasti.

8. Il tentativo del confronto aperto

LInu si rafforzava, il suo credito nella societ restava alto, ma le tensio-


ni interne non si scioglievano. Maturai una convinzione. Avevamo la-
vorato fino ad allora nellipotesi che lInu formasse nel suo insieme un
gruppo compatto di persone, legato da una forte comunanza dinteressi
e di motivazioni. Questo forse era vero quando gli urbanisti erano po-
chi ed esprimevano unomogeneit culturale e politica. Ma non era pi
cos: lInu non era pi un partito, era diventato un parlamento, un
luogo nel quale molte posizioni convivevano. Lo sforzo che bisognava
fare (e che mi accinsi a fare) era quello di far emergere i diversi punti di
vista nella loro autenticit, in modo che fosse possibile confrontarsi sul-
la base di una sufficiente chiarezza.
Proposi di organizzare la nostra prossima assise sociale nella forma
di un congresso a tesi. Avremmo dovuto individuare una serie di temi
in relazione ai quali far emergere le diverse posizioni.
Tra i tre gruppi di temi che proposi, assunse unimportanza notevole
quello del rapporto pubblico-privato. Nel documento che presentai lo
enunciai cos:
Da un lato, si dovranno affrontare le questioni in qualche
modo tradizionali, ma sempre rinnovate nel modo di porsi:
a partire da quella del regime degli immobili (), a quelle
dellurbanistica contrattata, degli interventi in concessione, dei
canali finanziari ordinari e straordinari. Da un altro lato, c
da affrontare un complesso di questioni che ruotano attorno

128
verso il buio: tangentopoli e mani pulite

al rapporto tra etica, politica e cultura. Non si tratta di affron-


tare tanto n solo la pratica della lottizzazione partitica, ma di
impegnarsi in una riflessione collettiva (e nellaffermazione di
alcuni principi) relativa al pi nobile e complessivo problema del
rapporto tra momento politico-istituzionale e momento tecnico-
culturale nella formazione degli atti della pianificazione119.

Il consiglio direttivo (costituito da due rappresentanti per ogni sezione


regionale pi alcuni membri eletti direttamente dal congresso) concord.
Cominci un lungo lavoro di seminari, spesso allargati ad altri membri
dellistituto. Alcuni proposero mediazioni, senza comprendere che il
tentativo era invece mettere in luce le differenze, talch i soci potessero,
in occasione dellassemblea, scegliere tra posizioni chiaramente espresse.
Ci fu certamente un ostacolo al raggiungimento del mio obiettivo.
Ma in una delle riunioni allargate del consiglio direttivo (si svolgeva
a Venezia, nella sala della Fondazione Levi) emerse il punto reale del
conflitto. Si discuteva una mia tesi in cui sostenevo che, mentre sul
principio della titolarit pubblica della pianificazione territoriale e urba-
na tutti, in teoria, si dichiarano daccordo, esso di fatto pesantemente
contraddetto nella prassi corrente, a opera sia dei maggiori gruppi del
potere economico, sia di parti e spezzoni dello stesso potere pubblico.
Affermavo che
si contraddice il principio della titolarit pubblica della pianifi-
cazione quando si delega, o si propone di delegare, ad aggrega-
zioni di interessi economici privati la formulazione di scelte che
incidono sullorganizzazione territoriale e urbana, riducendo il
ruolo dellente pubblico elettivo alla mera copertura formale
mediante atti di pianificazione redatti e adottati ex post di scelte
compiute da altri poteri.

Oltre alle affermazioni generali, la proposta di tesi enunciava casi


concreti, che erano ormai a conoscenza di tutti: il caso di Firenze, dove
il piano per lurbanizzazione della piana a nord ovest della citt stato
redatto in funzione degli interessi delle societ gi proprietarie (Fiat) o
divenute proprietarie (Fondiaria) delle aree coinvolte; quello di Napoli,
dove grandi interessi economici raggruppati sotto la sigla del Regno
del possibile propongono al Comune di delegare a una societ per
azioni privata, appositamente costituita, la progettazione e la gestione
del recupero di quasi 70.000 alloggi nel centro storico; quello di Roma,

119 E. Salzano, Consiglio direttivo nazionale dellInu. Proposte per la formazione delle tesi per il xix
congresso, 1989, dattiloscritto (Archivio Edoardo Salzano).

129
capitolo nono

dove lItalstat, sulla base del possesso di una parte consistente delle
aree su cui dovrebbe sorgere il nuovo Sistema direzionale orientale, si
proposta come capofila di un pool di imprese che vorrebbe pianificare,
progettare e realizzare un sistema strategico per la trasformazione della
citt; quello di Milano, dove la subordinazione agli interessi dei pro-
prietari di aree divenuta, a partire dagli inizi degli anni 80, prassi cor-
rente, attraverso un intenso processo di sostituzione funzionale di cui si
rinuncia programmaticamente a verificare gli effetti sul contesto urbano
e metropolitano; quelli, infine in numerose altre citt italiane, dove la
prassi della cosiddetta urbanistica contrattata nasconde la sostanziale
abdicazione del potere pubblico elettivo di fronte a nuovi intrecci di in-
teressi economici, dove sono presenti, insieme, il capitale privato, pub-
blico e cooperativo, interessi industriali, finanziari, assicurativi e fondiari,
complessi multinazionali e aziende locali120.
Il consiglio direttivo, a larga maggioranza, respinse la mia tesi, so-
stenendo che su quegli argomenti bisognava studiare e approfondire.
Meno di due anni dopo esplose lo scandalo di Tangentopoli: lindagine
dei giudici milanesi, Mani pulite, squadern la perversione dellintreccio
tra poteri pubblici e poteri privati che era dietro lo scandalo e svel i re-
ali obiettivi dellurbanistica contrattata. Tra i casi incriminati apparvero
proprio quelli che il nostro gruppo, ormai diventato minoranza, voleva
che lInu denunciasse.

9. La sconfitta: usciamo dallInu

Nel 1990, si svolse a Milano il xix congresso dellInu. Proposi in quella


occasione di attribuire a un valoroso urbanista, Giuseppe Campos Ve-
nuti, maestro di molti di noi, un riconoscimento, la carica di presidente
onorario dellistituto. La proposta fu accolta per acclamazione. Campos
Venuti assunse anche la presidenza del congresso.
Non riuscimmo a ottenere un confronto aperto sulle tesi. Una cro-
naca onesta del congresso, della successiva assemblea dei soci e dellesi-
to lha scritta Franco Girardi, per molti anni partecipe delle vicende
dellInu come proboviro:
La chiarezza che manc al congresso, sui temi di fondo della
dottrina urbanistica, e sugli indirizzi culturali e politici dellIstituto,

120 [E. Salzano], Istituto nazionale di urbanistica, 19 Congresso. Proposta di tesi sul rapporto
pubblico-privato, giu. 1990, dattiloscritto (Archivio Edoardo Salzano).

130
verso il buio: tangentopoli e mani pulite

si ritrov invece nellassemblea, tenuta nelle ultime due gior-


nate; ma, ahim, su questioni di ben pi basso tono. Liquidata
gi in sede congressuale la discussione sulle tesi, lattenzione e
il lavoro dellassemblea furono consumati nella composizione
del nuovo Cdn [Consiglio direttivo nazionale], che si sarebbe
formato sulla base dei candidati proposti da quello uscente ed
eletti dallassemblea, in aggiunta a quelli designati dalle sezioni
regionali. La questione elettorale diventava, purtroppo, quella
centrale. () Questioni di schieramenti e di potere, come si
visto, non erano mancate prima di allora allinterno dellIstitu-
to. E avevano accompagnato, e inquinato, il dibattito sui temi
e sui problemi culturali e politici. Ora, per, queste questioni
si manifestavano in assenza, quasi assoluta, di temi di pi alta
consistenza, sui quali il congresso non era riuscito, o non ave-
va voluto esprimersi, contrariamente a quanto ci si poteva e
doveva attendere. Si chiudeva, cos, in tono minore, e forse si
dovrebbe dire ambiguo, un lungo periodo della vicenda Inu, di
oltre ventanni, pieno di difficolt interne ed esterne, ma co-
munque ricco di impegno alto, e di spunti critici, aperti su nuo-
ve e pi avanzate prospettive. Il calo di tonalit, che in tal modo
si veniva determinando, avrebbe condizionato pesantemente le
vicende successive dellIstituto121.

Praticamente tutto il gruppo cui appartenevo fu spazzato via dal


nuovo consiglio direttivo. Questo stent a trovare un accordo sulla
gestione dellistituto e si trascin da una crisi allaltra finch, nel 1992,
Campos Venuti divenne anche presidente ordinario. Tra i primi atti, con
un blitz che ancora mi turba, sciolse la redazione di Urbanistica infor-
mazioni. Per conto mio, avevo rimesso il mandato accompagnandolo
con una proposta, lungamente meditata, sullassetto da dare alle attivit
di comunicazione dellInu. N le mie dimissioni n le proposte furono
messe in discussione e fui, semplicemente, licenziato.
Con un lungo editoriale in Urbanistica informazioni esposi un
bilancio dellattivit ventennale della rivista che avevo fondato e diretto
ed espressi quelle che, a mio parere, erano le ragioni del mutamento di
prospettive. Informavo i lettori che la rottura era stata precipitosa:
Senza che gli organi dellInu potessero discutere il progetto
editoriale e dargli corpo, il consiglio direttivo ha deciso, a mag-
gioranza, di annullare tutti gli incarichi di direzione e redazio-
nali, centrali e regionali. Perch questo avvenuto? Credo che
la ragione sia, in qualche misura, legata alla stessa storia della

121 Girardi, Storia dellInu, p. 114-115.

131
capitolo nono

rivista. Alla storia della rivista, e alla storia dellInu. Pi precisa-


mente, al fatto che nellInu ha prevalso una posizione culturale
che, per semplicit, definir di destra. Una posizione che non
sopportava il fatto che su questa rivista ci si fosse sempre net-
tamente, recisamente schierati contro alcune cose, e a favore di
altre. Contro lurbanistica contrattata, contro il riconoscimento
e il consolidamento dellappartenenza privata delledificabilit,
contro la decadenza degli istituti del potere pubblico e la sostitu-
zione a essi di tecnostrutture private, piccole o grandi. E a favo-
re di un regime degli immobili basato sul primato degli interessi
collettivi, a favore duna visione dellurbanista come figura che
esplica una funzione dinteresse pubblico, a favore duna piani-
ficazione che affermi la priorit della coerenza sulla flessibilit,
del piano sul progetto, del duraturo sulleffimero122.

Campos Venuti replic al mio editoriale con una nota, che compare
sullo stesso numero della rivista, nella quale acclamava i meriti della rivi-
sta e miei, ma respingeva con fermezza laccusa di aver fatto una scelta
di destra nellassumere la presidenza dellInu. Per la verit, la scelta
non era del nuovo presidente, ma delle cose; lInu si limitava a seguire il
mainstream, iniziando un nuovo percorso che lo avrebbe portato alla fine
a trovare coincidenze con le proposte urbanistiche della compagine di
Silvio Berlusconi.
Passarono pochi anni, e lInu giunse al punto di esprimere una valu-
tazione positiva sulla pi nefanda delle proposte legislative per la rifor-
ma dellurbanistica che lItalia abbia conosciuto: la cosidetta legge Lu-
pi, dal nome del suo presentatore, lonorevole Maurizio Lupi di Forza
Italia. Nelleditoriale n. 65 del mio sito123, del 12 febbraio 2005, in una
lettera aperta ai soci dellistituto denunciavo latteggiamento sostan-
zialmente favorevole dellInu nei confronti dellimpostazione di fondo
della legge per il governo del territorio, approdata il 7 febbraio allaula
di Montecitorio, atteggiamento che era stato determinante nellosta-
colare la minoranza nella sua opposizione. E proseguivo:
Cos mi stato testimoniato da autorevoli parlamentari dei
Ds, ed era del resto evidente dalla lettura degli atti sia di fonte
parlamentare che di fonte Inu. LIstituto nazionale di urbanisti-
ca, di cui mi onoravo di essere stato presidente per dieci anni, si
macchiato in tal modo di una colpa a mio parere molto gra-
ve. Ha avallato una legge che cancella oltre 60 anni di faticosa

122 E. Salzano, Ventanni di Urbanistica informazioni. Commiato, Urbanistica informazioni,


125-126 (1992).
123 Di eddyburg, sito web che curo quotidianamente dal 2003, parler diffusamente oltre.

132
verso il buio: tangentopoli e mani pulite

affermazione di unurbanistica moderna ed europea, quindi


basata sul ruolo delle amministrazioni pubbliche, sulla preva-
lenza degli interessi generali, e via via sulla stretta connessione
tra pianificazione del territorio e tutela del paesaggio, sul ri-
conoscimento dei diritti ai servizi e al verde di tutti i cittadini
della Repubblica. Princpi che lInu ha per decenni promosso,
proponendo strumenti adeguati a renderli concreti e ottenendo
consistenti successi.

10. Lassociazione Polis

Dopo lestromissione del nostro gruppo dagli organi dirigenti dellInu


cercammo un altro strumento per essere presenti nel dibattito sulla
politica urbanistica. Decidemmo di fondare unassociazione culturale,
che battezzammo Polis. La costituimmo formalmente124 nel marzo
1992. Segretario e factotum fu Gigi Scano, che promosse lorganizza-
zione di molte iniziative. Svolgemmo numerosi seminari interni, nei
quali discutemmo e mettemmo a punto un disegno di legge urbanisti-
ca nazionale, molto ampio e completo, dovuto prevalentemente alla
competenza di Gigi. Lo illustrammo, nellottobre dello stesso anno, in
un convegno organizzato a Venezia, in collaborazione con la Fonda-
zione EuroNordEst, costituita dal parlamentare europeo (e veneziano)
Cesare De Piccoli; con la sezione ambiente della direzione del parti-
to dei Democratici di sinistra; e con il gruppo parlamentare di sinistra
di Strasburgo. La prima giornata fu dedicata a una riflessione sulla
legge urbanistica del 1942, di cui celebravamo il sessantesimo anniver-
sario; il centro della seconda fu sostanzialmente costituito dalla presen-
tazione della proposta di legge di Polis125.
Nel 1993, pi o meno con gli stessi partner, organizzammo un con-
vegno dal titolo Alternative alla crisi urbana, articolato in due giornate
dedicate luna a otto citt di cui si esaminava lo stato delle cose e dei pia-
ni, gli interessi e le forze in campo, le tendenze, le proposte alternative;

124 Membri fondatori furono Roberto Badas, Silvano Bassetti, Paolo Berdini, Felicia Bottino,
Teresa Cannarozzo, Antonio Casellati, Antonio Cederna, Filippo Ciccone, Vezio De Lucia,
Antonio Iannello, Edoardo Salzano, Luigi Scano, Walter Tocci, Mariarosa Vittadini.
125 Il convegno 1942-1992. Cinquantanni dopo la legge urbanistica italiana si svolse a
Venezia nei giorni 8 e 9 ott. 1992. Nella prima giornata le relazioni furono svolte da Vezio
De Lucia, Giulio Ernesti, Nicola Tranfaglia, Gianni Lanzinger, Giuseppe Campos Venuti,
Maurizio Marcelloni, Marco Venturi; nella seconda da Edoardo Salzano, Fulvia Bandoli, Luigi
Scano, Franco Bassanini, Chicco Testa, Roberto Barzanti. Era previsto lintervento conclusivo
di Achille Occhetto, che non pot raggiungerci e invi un messaggio.

133
capitolo nono

laltra alle tendenze ed esperienze delle politiche urbane in Germania,


Francia e Spagna126.
Un altro convegno lo organizzammo a Follonica, nel febbraio 2000,
dal titolo Il clamore del silenzio. Il riconoscimento dellidentit del
territorio nella pianificazione per lo sviluppo autocentrato e sostenibile.
E unaltro ancora a Eboli, nellottobre dello stesso anno, dal titolo Crisi
della pianificazione o crisi dei pubblici poteri?, con una magistrale rela-
zione di Gigi, Il governo pubblico del territorio e la qualit sociale127,
che esprimeva il pensiero comune a molti di noi.
Grazie a Polis e al lavoro di Gigi riuscimmo in molte occasioni a
intervenire nei dibattiti sulla politica urbanistica, esponendo un punto
di vista che era sempre pi diverso dal coro, sia nel lavoro di critica e
di proposta sulle leggi nazionali e regionali, sia nella formulazione di
osservazioni agli strumenti urbanistici, sia infine nelle polemiche sulla
stampa quotidiana.

11. La citt sostenibile

Prima ancora di costituire Polis, il nostro gruppo aveva organizzato (nel


1991) con la stessa Fondazione EuroNordEst un altro convegno. Loc-
casione era stata costituita dallapprovazione, da parte del parlamento
europeo, del Libro verde per lambiente urbano, proposto dal commissario
per lambiente della Commissione economica europea (la struttura che
successivamente divenne lUnione europea), allepoca Carlo Ripa di
Meana. Titolo del convegno fu Ambiente urbano delle citt dEuropa.
Io vi svolsi la relazione introduttiva, dal titolo La citt sostenibile128.

126 Il convegno si svolse nei giorni 29 e 30 ott. 1993. Le relazioni furono svolte da Luigi Sca-
no (Venezia), Raffaele Radicioni (Torino), Mariarosa Vittadini (Milano), Lino Tirelli (Genova),
Simone Siliani (Firenze), Walter Tocci (Roma), Alessandro Dal Piaz (Napoli); nella seconda
giornata da Cesare De Piccoli, Marco Venturi, Maurizio Marcelloni, Thomas Kraemer Badioni,
Guy Henry, Jesus Gago Davila. Si concluse con una tavola rotonda cui parteciparono, oltre a
me, Vittorio Emiliani, Giuseppe Arnone, Fulvia Bandoli, Franco Bassanini, Sauro Turroni.
127 L. Scano, Relazione al convegno Crisi della pianificazione o crisi dei pubblici poteri?, Eboli 14
ott. 2000, in eddyburg.
128 Il convegno si svolse nei giorni 4 e 5 ott. 1991, a Venezia, alla Scuola di San Giovanni
evangelista. Oltre al saluto di De Piccoli e alla mia relazione, intervennero Luigi Scano (Mer-
cato, pianificazione urbanistica e progetto politico), Franco Girardi, Gastone Ave, Fortunato Pagano,
Felicia Bottino, Stefano Storchi, Donatella Venti, Claudio Malacrino, Roberto Gambino, Tom-
maso Giuralongo, Marta Cecchini, Filippo Ciccone, Silvano Bassetti, Luisa De Biasio Calimani,
Francesco Indovina (Il consumo della qualit urbana), Giandomenico Romanelli, Gianni Beltrame
(Una critica al Libro verde), Fabrizio Giovenale (Riflessioni ambientaliste), Andrea Ruffolo, Maria
Rosa Vittadini (Muoversi in citt), Guglielmo Zambrini (Lalta velocit e i problemi dellambiente),

134
verso il buio: tangentopoli e mani pulite

Affermavo che
la centralit del ruolo delle citt () non solo un retaggio del-
la storia, su cui si possa vivere di rendita: una scommessa per
il futuro. Sconfiggere i rischi (e la realt) del degrado ambienta-
le, e con essi quelli del regresso economico sociale, non una
certezza. una possibilit: anzi, una speranza. Il realizzarsi di
questa speranza legato alla possibilit di raggiungere, mediante
gli strumenti di una pianificazione urbanistica rinnovata, livelli
sufficienti di qualit urbana. Ma questo significa, con ogni evi-
denza, saper guardare al futuro: sapersi contentare di creare
oggi le premesse per uno sviluppo i cui frutti si vedranno solo
nel tempo. Significa insomma preferire la gallina domani alluo-
vo oggi. Significa tutelare le qualit esistenti, e quindi applicare
una rigorosa politica di salvaguardia come primo passo (e prima
garanzia) per una politica di sviluppo. Significa selezionare, sce-
gliere: anteporre ci che va nella direzione di quel determinato
sviluppo che si scelto, a ci che pu apparire pi utile nellim-
mediato ma che contraddittorio con lobiettivo.129

Ma davvero fondata quella speranza, mi domandavo:


capace la nostra societ, nei ceti dirigenti che essa esprime
e che comunque la rappresentano, di pensare e progettare in
modo siffatto? Oppure inevitabile, oppure ormai un dato
permanente cui tutti volenti o nolenti siamo condannati, lattua-
le prassi del giorno per giorno, dellaffannosa rincorsa dellemer-
genza (o addirittura della creazione di false emergenze)? E noi
urbanisti, che cos spesso protestiamo per le sordit, la medio-
crit, laffarismo della politica, in quanta misura esercitiamo la
nostra responsabilit, siamo davvero allaltezza del nostro com-
pito? Una volta gli urbanisti erano accusati non senza ragioni
di voler essere dei demiurghi: di voler foggiare la societ, attra-
verso i piani, secondo un loro modello. Credo che oggi la critica
che dobbiamo farci sia di segno opposto: dobbiamo domandarci
se davvero sappiamo riconoscere i limiti della nostra competen-
za. E dobbiamo poi domandarci se entro questi limiti sappiamo
considerare non negoziabili le nostre certezze tecniche quando
queste sono fondate. Se sappiamo resistere, forti del diritto del
nostro mestiere, quando per ragioni non condivisibili, o non

Franco De Grandis, Alessandro Dal Piaz, Teresa Cannarozzo, Piergiorgio Bellagamba, Rober-
to Badas, Vittorio Parola, Margherita Pia, Manlio Marchetta, Paola Somma, Giorgio De Rosa,
Giorgio Morpurgo, Carlo Alberto Barbieri, Piero Salvagni, Luigi Colaianni, Vezio De Lucia,
Walter Tocci, Fulvia Bandoli, Sandro Giulianelli, Carlo Ripa di Meana.
129 E. Salzano, La citt sostenibile, in La citt sostenibile, atti del convegno, a cura di E. Salzano,
Roma, Edizioni delle Autonomie, 1992, p. 20.

135
accettabili, qualcuno ci induce a mettere un depuratore dov
sbagliato, o a far correre una strada dove non serve, o a rivestire
dun retino tecnico una sanatoria che non va concessa.

Concludevo con unultima domanda, che ancora oggi resta senza


risposta:
davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui,
con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai
gruppi sociali esistenti, oppure essa capace di farsi carico an-
che degli interessi dei soggetti che non pesano ancora, n eletto-
ralmente n socialmente, perch ancora non esistono? capace
insomma la democrazia, o pu divenir capace, di farsi carico de-
gli interessi delle generazioni che verranno? Dobbiamo sperarlo,
ma soprattutto dobbiamo lavorare perch sia cos.

Il convegno ebbe una risonanza molto ampia. Sia perch era la pri-
ma volta che in Italia si rendeva pubblico il Libro verde europeo, sia per la
presenza di moltissimi esponenti autorevoli dei mondi della cultura e
della politica. Ma anche perch riuscimmo a pubblicarne tempestiva-
mente gli atti.

136
Capitolo decimo
Attese, tentativi, speranze, delusioni

1. Dodici parchi per il Veneto

Nel 1987 divenni consigliere regionale del Veneto: ero il primo dei
non eletti nelle elezioni del 1985, e subentrai a Gianni Pellicani che si
era dimesso perch chiamato a Roma nella direzione nazionale del Pci.
Il lavoro per la minoranza, in una regione a grande prevalenza democri-
stiana, non era facile. Ci impegnavamo molto nel lavoro di commissione
consiliare, e utilizzavamo le risorse cui potevamo attingere per organiz-
zare iniziative che dessero respiro al mondo delle associazioni e della
cultura che manifestava aspirazioni che condividevamo. Mi impegnai
soprattutto in due iniziative: per listituzione di parchi regionali nel Ve-
neto, e per contrastare la proposta di realizzare a Venezia lEsposizione
universale del 2000.
Vi erano nel Veneto una dozzina di luoghi nei quali, per iniziativa
di associazioni e gruppi ambientalisti, o per consolidate convinzioni, si
riteneva opportuna quella particolare tutela costituita dallistituzione di
un parco naturale: unarea protetta sia da uno specifico piano, finalizza-
to allindividuazione delle regole necessarie per garantire la conservazio-
ne di quel determinato ecosistema, sia da una gestione delle attivit
necessarie per la custodia, la manutenzione naturalistica, la ricerca e la
controllata fruizione di quei beni. Era in discussione una legge naziona-
le, ma nel frattempo molte Regioni, tra cui il Veneto, avevano approvato
degli specifici provvedimenti legislativi.
Individuammo dodici aree, in ciascuna delle quali promuovemmo
la costituzione di un gruppo di lavoro, formato prevalentemente da

137
capitolo decimo

ambientalisti e altri esperti locali130. Definimmo unimpostazione uni-


taria (nella cui formulazione mi aiut molto Gigi Scano) e giungemmo
alla redazione di dodici testi legislativi. Le proposte furono illustrate
e discusse in un convegno: alle relazioni dei diversi gruppi di lavoro
si affiancarono una serie di interventi sulle problematiche dinteresse
nazionale131. In poche settimane riuscimmo a dare alle stampe gli atti
completi del convegno132.
Non ricordo quanto le elaborazioni di merito cui eravamo approdati
abbiano poi influito sulle leggi che la maggioranza del consiglio regiona-
le approv, spesso col nostro voto favorevole. Certo che listituzione
di parchi regionali avvenne nel Veneto solo dopo quella nostra iniziativa.
Dei dodici che avevamo proposto ne furono istituiti negli anni succes-
sivi solo cinque: Colli Euganei (1989), Monti Lessini (1990), Sile (1991),
Dolomiti bellunesi (1993) e Delta del Po (1997). Per questultimo noi
avremmo voluto listituzione di un parco interregionale, che ci dava
maggiori garanzie di seriet e che era del resto nei progetti nazionali.
Ma si oppose alla nostra volont (e a quella del Ministero dellambiente,
in quegli anni guidato da Giorgio Ruffolo) la decisione della maggio-
ranza democristiana del Veneto di favorire gli interessi dei cacciatori.
I restanti nel nostro elenco sono ancor oggi lobiettivo di vertenze dei
movimenti ambientalisti e di comitati di cittadini.

2. La minaccia dellExpo 2000 a Venezia

Il potentissimo ministro dei governi Craxi e protagonista della politica


veneziana, Gianni De Michelis, aveva lanciato con grande enfasi, in pre-
parazione delle elezioni amministrative del 1985, la proposta di presen-
tare la candidatura di Venezia per lesposizione mondiale del 2000. Mol-
ti si opposero subito. Da tempo sia nel Pci veneziano sia nel consiglio
comunale avevamo individuato nello sviluppo abnorme e sregolato
del turismo una delle ragioni principali del degrado sociale e fisico di
Venezia. Attirare a Venezia masse di visitatori ci sembrava assolutamente

130 Le aree sulle quali lavorammo erano: Colli Euganei, Sile, Laguna di Venezia e Chioggia,
Valli di Caorle e Bibione, Dolomiti Bellunesi, Altopiano dei Sette Comuni, Monte Pasubio,
Monte Baldo, Monti Lessini, Cansiglio, Piave, Delta del Po.
131 Tra queste ricordo le relazioni di Roberto Gambino, di Paolo Leon e di Alberto Lacava.
132 Dodici parchi nel Veneto per il 1987. Governo democratico e gestione efficiente del patrimonio ambien-
tale, a cura del Comitato Regionale Veneto Pci, Venezia 1986. Il convegno si svolse a Venezia,
nei giorni 26-27 set. 1986.

138
attese, tentativi, speranze, delusioni

da evitare. Non fummo i soli: parti consistenti del mondo della cultura
e della societ veneziana compresero lentit della minaccia.
Molto pesanti furono peraltro gli interessi che De Michelis riusc
a mobilitare. Avvi una poderosa e ben oliata macchina di conquista
del consenso. Costitu un consorzio per la promozione dellExpo di
cui facevano parte le maggiori firme dellindustria e della finanza133.
Si assicur lappoggio di prestigiosi esponenti della cultura: ricordo tra
gli altri Giuseppe De Rita, il creatore del Censis, e un nutrito gruppo
di architetti veneziani, passati dal Pci al partito di De Michelis. In una
prospettiva pi ampia di cambiamento delle alleanze (dieci anni dopo la
svolta del 1975 stava ricostituendo lalleanza con la Dc), costru una so-
lida piattaforma dintesa con i democristiani veneti, fingendo dallargare
limpatto dellExpo allintera regione. Con procedure discutibili, la can-
didatura per lExpo del 2000 approd al Bureau international des expositions
(Bie), che svolse listruttoria preliminare.
Grandi e meno grandi architetti gi progettavano alacremente visio-
ni capaci di suggestionare il pubblico. Scriveva Roberto Bianchin sulla
Repubblica del 12 febbraio 1989:
Tra i progetti pi discussi, quello del magnete che secondo
gli architetti Renzo Piano, Ugo Camerino e Giampaolo Mar,
dovrebbe essere il centro di attrazione dellExpo, in grado di
calamitare i milioni di persone che arriveranno a Venezia. Do-
vrebbe sorgere ai bordi della Laguna, vicino allaeroporto di
Tessera, intorno ad una collina artificiale e ad una finta laguna
ottenuta allagando 700 ettari di campagna. Sar capace di ospi-
tare 70 mila persone. Calamitati a Tessera, i visitatori verranno
poi portati in battello fino al grande complesso dellArsenale,
oggi abbandonato, che verr recuperato. Gli architetti Carlo
Aymonino e Giorgio Lombardi hanno previsto per loro laper-
tura di centri espositivi e di laboratori tecnologici. Per divertirsi
e passare il tempo invece, si gallegger sulle acque: gli architetti
Emilio Ambasz e Antonio Foscari hanno ipotizzato linstalla-
zione di alcune piattaforme galleggianti sulla Laguna, con sopra
cinema, teatri, musei e ristoranti.

Sembrava che i giochi fossero fatti. Mentre lavoravano i promotori


dellExpo, lavoravano per anche quanti erano convinti che la proposta

133 Del Consorzio Venezia Expo facevano parte, tra gli altri: Assicurazioni Generali, Banca
cattolica del Veneto, Banca nazionale del lavoro, Cassa di risparmio di Venezia, Benetton,
Bastogi, Ciga, Coca Cola, Consorzio Venezia Nuova, Eni, Fiat, Ferruzzi, Fidia, Fininvest,
Ibm Italia, Intermetro, Luxottica, Montedison, Olivetti, Sip, Zanussi, Semenzato, gli editori
Marsilio e Mondadori.

139
capitolo decimo

sarebbe stata una rovina per Venezia. Qui riuscimmo a svolgere un


ruolo rilevante utilizzando il consiglio regionale. Ottenemmo la co-
stituzione di una commissione speciale e di un ampio e attrezzato
gruppo di lavoro operativo, incaricati di approfondire largomento.
Ci demmo molto da fare. Promuovemmo e raccogliemmo studi, opi-
nioni, argomenti. Costituimmo un punto di riferimento per quanti,
come noi, erano contrari alla proposta. Ricordo il ruolo molto attivo
che svolsero Margherita Asso, rigorosa soprintendente ai beni culturali,
Maria Teresa Rubin de Cervin, responsabile dellufficio Unesco di Ve-
nezia (costituito dopo lalluvione del 1966), lex ambasciatore del Re-
gno Unito a Roma sir Henry Ashley Clarke, da tempo cittadino vene-
ziano e presidente del Venice in Peril Fund, e lo stesso Antonio Casellati,
allora sindaco di Venezia. Ricordo il lavoro positivo e utile che svolse
il docente di Ca Foscari Paolo Costa134 il quale, con Jan van der Borg,
esperto di economia turistica, present uno studio in cui dimostrava
per tabulas che la citt poteva ospitare contemporaneamente non pi di
ventimila visitatori, quando le stime dellExpo facevano prevedere un
afflusso stimato tra i 15 e i 28 milioni di persone, concentrate in poche
settimane.
Il movimento anti Expo divamp in tutta la citt e raggiunse lopi-
nione pubblica internazionale. Tra gli altri, simpegnarono moltissimo
lautorevole ministro e grande vecchio della finanza italiana, il repub-
blicano Bruno Visentini, e il parlamentare europeo del Pci Cesare De
Piccoli. Le iniziative fioccarono. Ne ricordo una avviata da 21 fotografi
professionisti veneziani, mobilitati da Graziano Arici: scrissi per loro le
didascalie per una grande mostra fotografica, con cui volevano divul-
gare nel mondo le ragioni della nostra opposizione.
Si accumularono studi e analisi che consentirono di comprendere
(e far comprendere) in che modo lExpo avrebbe influito sui problemi
di Venezia. Divenne chiarissimo che gli effetti sarebbero stati dirom-
penti: non solo sulle pietre della citt, ma anche sul delicato equili-
brio tra struttura fisica e struttura sociale, tra le preziose forme della
citt e la societ che le abita. Questo equilibrio era gi minacciato da
un turismo di massa non governato, che modifica giorno per giorno

134 Paolo Costa divenne poi rettore di Ca Foscari e, alternandosi solidalmente con Massimo
Cacciari, sindaco di Venezia. In questa veste contribu invece allaffermazione di devastanti
interventi a Venezia quali il MoSE, il progetto della metropolitana sublagunare, lo sviluppo
del marketing commerciale sulla citt, nonch, a Vicenza, dove stato nominato commissario
dal presidente del Consiglio Prodi e confermato da Berlusconi per vincere le resistenze alla
costruzione della base militare Usa Dal Molin.

140
attese, tentativi, speranze, delusioni

lassetto sociale ed economico della citt: influisce sul mercato immo-


biliare, sulla qualit del commercio, sui prezzi delle merci, sui servizi e
sui modi di fruizione.
Un poderoso aiuto alle nostre ragioni lo diede un evento cittadino:
il concerto dei Pink Floyd. Nellestate del 1989 il celebre gruppo orga-
nizz a Venezia un grande concerto: da una gigantesca isola galleggian-
te, che chiudeva la meravigliosa scenografia del bacino di San Marco
(Piazza San Marco, Palazzo ducale, la Zecca, Riva degli Schiavoni,
Punta della Dogana, lisola di San Giorgio), spararono le loro fragoro-
se musiche. Latteso concerto (si diceva che sarebbe stato lultimo del
prestigioso gruppo) attir a Venezia una folla sterminata: comunque
inferiore a quella che avrebbe attirato lExpo, secondo le stime ufficiali.
Leffetto sulla citt fu devastante. Il giorno dopo un cronista scriveva:
La Laguna ha vissuto dieci ore almeno nella pi totale confusione,
sommersa da un popolo troppo numeroso, da maledizioni nemmeno
tanto velate, da vere e proprie proteste. La cronaca della giornata
un susseguirsi di immagini apocalittiche, che culminano nella implora-
zione delle prime ore del pomeriggio: rinunciate, tornate indietro.
La colpa non nel comportamento degli invasori: Non fanno nulla di
male, i temuti barbari del rock, ma sono troppi per una citt-cartolina
che sembra soffocare sotto il loro peso. Sono troppi, la citt non sop-
porta queste dimensioni di affollamento. I veneziani lo sanno. I com-
mercianti, ad esempio, avevano proclamato la serrata. Non tutti hanno
chiuso il negozio, una parte ha preferito tener aperto e fare affari.
Ma, prosegue il cronista, chi ha chiuso non lo ha fatto in silenzio.
grazie giunta, si legge in un cartello; e pi avanti: questo redento-
re ce lo ricorderemo, e ancora: una volta per queste cose cade-
vano le teste. Rabbia e intolleranza, insomma, che si capiscono solo
se ci si immerge un attimo nella marea umana che naviga al rallentatore
verso Palazzo ducale135.
Per settimane le diverse autorit cittadine si rimpallarono le respon-
sabilit, per scoprire chi era il pi colpevole tra coloro che non avevano
impedito levento, rivelatosi drammatico. Per noi era solo una confer-
ma. Come dissi nel mio intervento in consiglio regionale,
non abbiamo avuto bisogno del sabato nero dei Pink Floyd
per esprimere la nostra contrariet allExpo. Ricordo che furo-
no alcuni di noi, alcuni comunisti, tra i primi a esprimersi pub-
blicamente contro la proposta dellExpo a Venezia, non appena

135 R. Giallo, Venezia occupata dal popolo rock, lUnit, 17 lug. 1989.

141
capitolo decimo

questa venne clamorosamente lanciata da Gianni De Michelis,


nellintervista al Gazzettino. Largomento sintetico e di fondo
che sollevammo allora era lo stesso che solleviamo adesso: una
Esposizione universale non compatibile con la struttura fisica
e sociale della citt storica di Venezia, n come essa adesso,
e neppure come noi vorremmo che fosse. Se mi consentito
citarmi, ricorder che il mio primo commento alla proposta di
De Michelis stato il richiamo alla metafora dellelefante nella
cristalleria. I risultati delle ricerche svolte da allora, e la stessa
sciagurata esperienza del sabato 15 luglio, confermano come
questa metafora fosse allora, e sia oggi, del tutto calzante. Cos,
lepisodio avvilente del concerto dei Pink Floyd ha costituito
per noi solo una pesante sottolineatura di ci che gi sapevamo,
una conferma di qualcosa che gi avevamo in pi occasioni
ribadito: Venezia corre il rischio di morire per eccesso, non per
carenza, di flussi di visitatori e dinteressi136.

Nel maggio 1990 gli eurodeputati veneziani Visentini e De Piccoli


ottennero ladesione della maggioranza del parlamento europeo a una
mozione contraria allExpo a Venezia. Nel frattempo a Roma si racco-
glievano firme di senatori e deputati in calce a due mozioni nelle quali
si chiedeva al governo (allora presieduto da Andreotti) di ritirare for-
malmente la candidatura dellItalia allExpo: sottoscrissero 168 senatori,
tra opposizione e maggioranza, e 347 deputati, pi della met. Il gover-
no non attese di essere messo in minoranza, e prima della discussione
della mozione al Senato dichiar che avrebbe ritirato la candidatura di
Venezia. Ci che avvenne.
LUnit mi chiese di dettare leditoriale in cui si commentava la
notizia. Lo conclusi cos:
Ci che si finalmente compreso che realizzare una Expo
nellarea di gravitazione di Venezia avrebbe comportato una po-
derosa accelerazione dei nefasti processi gi in atto. Questa ac-
celerazione stata scongiurata. Adesso, dopo aver perso cinque
anni a contrastare una proposta sbagliata, si pu ricominciare
a lavorare per risolvere i problemi, ma nella direzione opposta:
per governare il turismo, anzich per esaltarlo, per difendere le
attivit ordinarie della citt, per costruire le ragioni, e le occa-
sioni, di uno sviluppo economico e sociale non effimero137.

Nonostante la potenza degli avversari e la spregiudicatezza della

136 Intervento al consiglio regionale, dattiloscritto (Archivio Edoardo Salzano).


137 E. Salzano, Scongiurato il disastro, lUnit, 13 giu. 1990, editoriale.

142
attese, tentativi, speranze, delusioni

loro azione, in quegli anni anche dallopposizione si riusciva a vincere


buone battaglie. Naturalmente, pagando qualche prezzo. Gianni De
Michelis era passato dal Ministero delle partecipazioni statali (che gli
era stato utile per formare un fronte di promotori dellExpo) a quello
degli Affari esteri. Lufficio veneziano dellUnesco fu chiuso e Maria
Teresa Rubin de Cervin punita per laiuto, sia pure discretissimo, che
aveva dato agli oppositori dellExpo.

3. Il MoSE

Ci che ci era riuscito con lExpo non ci riusc con il MoSE (Modulo
sperimentale elettromeccanico), il sistema per la difesa di Venezia dalle
alte maree. Se avevamo potuto sconfiggere i poteri forti che, mobili-
tati da Gianni De Michelis, avevano promosso quella manifestazione,
non riuscimmo a fare lo stesso quando arriv in Laguna il possente
Consorzio Venezia Nuova, incaricato dal ministro socialdemocratico
Franco Nicolazzi, con una serie di atti dal 1981 al 1984 di provvedere
quale concessionario unico, e per conto dello Stato, agli studi, alle
ricerche, alle sperimentazioni, alla progettazione degli interventi, alla
realizzazione delle opere riguardanti il riequilibrio idrogeologico della
Laguna di Venezia, allarresto e allinversione dei processi di degrado
del bacino lagunare, alla difesa degli insediamenti urbani lagunari dalle
acque alte eccezionali.
Eravamo contrari a quella concessione (parlo in particolare del Pci
e del Pri, ma in quegli anni le critiche erano condivise dalla grande
maggioranza del consiglio comunale), per molte ragioni.
Due erano quelle principali. In primo luogo e questo fu il punto
che fin dallinizio contrastammo linammissibile sottrazione di poteri
alle istituzioni democratiche: ogni scelta di merito, relativamente allas-
setto fisico della Laguna, veniva affidato dallo Stato a un consorzio di
imprese private. In secondo luogo e questo tema divenne via via pi
chiaro nel tempo la scelta di privilegiare, tra tutti gli interventi neces-
sari per il riequilibrio idrogeologico del bacino lagunare, le opere hard
del progetto MoSE.
Raccontare in poche righe questioni cos complesse e singolari im-
presa impossibile. Mi limiter a indicare alcuni elementi del problema138.

138 La questione ampiamente trattata in eddyburg, cartella Venezia e la Laguna; ma vedi


anche E. Salzano, La Laguna di Venezia e gli interventi proposti, Areavasta, 6 (2003).

143
capitolo decimo

Nonostante ci che pensano molti una laguna non assimilabile a


un qualsiasi altro specchio dacqua. invece un ecosistema particolar-
mente complesso, dalle caratteristiche morfologiche, vegetazionali e
faunistiche del tutto singolari, in equilibrio instabile, sollecitato da due
forze alternative: i fiumi, che vi portano le acque dolci e i detriti solidi,
e il mare che, con la forza delle maree, irrompe con lacqua salata e
asporta la terra. Se vincono i fiumi la laguna si trasforma in una palude
e poi in terraferma, se vince il mare diventa una baia.
La Laguna di Venezia lunica rimasta tale per oltre un millennio,
grazie allopera accorta della Repubblica Serenissima. Avevamo impa-
rato molto, soprattutto approfondendo gli studi del piano comprenso-
riale139. La Laguna di Venezia poteva essere salvata solo se si ripristinava
lequilibrio idraulico, morfologico ed ecologico compromesso dagli
interventi otto-novecenteschi (lapprofondimento dei canali che im-
mettono lacqua di mare, il restringimento del bacino acqueo mediante
linterramento di sue vaste porzioni e larginatura di altre parti utiliz-
zate per litticultura, lemungimento dellacqua dalla falda sotterranea).
Occorreva provvedere con un insieme di opere ispirate alla regola aurea
della Repubblica Serenissima, per cui ogni intervento in Laguna doveva
essere caratterizzato da tre requisiti: gradualit, sperimentalit, reversibilit.
Ben altra cosa era (e malauguratamente ) il progetto MoSE. Con-
siste infatti sostanzialmente in tre grandi strutture sommerse di calce-
struzzo armato, dellaltezza corrispondente a un edificio di nove piani,
collocate ai varchi tra la Laguna e lAdriatico, nelle quali sono incer-
nierati 78 giganteschi portelloni dacciaio, altri tra venti e trenta metri,
lunghi circa venti, spessi tra 3,5 e 4,5 metri, che dovrebbero sollevarsi
contrastando le onde marine quando laltezza della marea superasse un
limite stabilito.
Laffidamento di poteri estesissimi a un consorzio di imprese, pre-
valentemente del settore delle costruzioni, e la concentrazione di tutti
gli sforzi non sullimpegno difficile del riequilibrio idraulico, morfolo-
gico ed ecologico, ma nelle grandi opere cementizie e acciaiose (per di
pi in contrasto con i tre requisiti citati, e in particolare con quello del-
la reversibilit): furono queste le maggiori ragioni di critica. Ma contro
il MoSE non si riusc a costruire un insieme di alleanze (a Venezia, in
Italia, nel mondo) analogo a quello che ci consent di sconfiggere lEx-
po. Cos il progetto MoSE ancora oggi materia di un conflitto nel
quale lopposizione al progetto rappresentata quasi esclusivamente

139 Vedi capitolo 7, paragrafo 8.

144
attese, tentativi, speranze, delusioni

dal mondo ambientalista (in prima linea, da decenni, la sezione vene-


ziana di Italia Nostra). Intanto, sempre pi forte diventato (grazie ai
cospicui finanziamenti statali) il potere del Consorzio Venezia Nuova,
sempre pi chiara linefficacia del MoSE rispetto agli stessi fini dichia-
rati, sempre pi devastanti gli interventi realizzati.

4. Rendiamo vivibili le citt imparando dai campi

A volte il sindaco, il socialista Mario Rigo, mi chiedeva di sostituirlo in


qualche occasione culturale che aveva a che fare col mio mestiere di
urbanista. Portai il saluto della citt a un convegno organizzato a Vene-
zia da unassociazione statunitense, lInternational Making Cities Livable
Conferences, creata e gestita da una coppia di cui divenni amico. Henry
Lennard, di origine mitteleuropea, era uno psichiatra che si era innamo-
rato dei problemi della condizione urbana; Suzanne Crawford Lennard,
la moglie, era un architetto inglese. Vivevano da tempo negli Stati uniti
e organizzavano due volte allanno degli incontri ai quali invitavano
esperti che, a vario titolo, si occupavano di problemi urbani: architetti e
planners, amministratori, filosofi, giornalisti, medici. In genere, una delle
conferences era negli Stati Uniti (e vi assisteva qualche centinaio di perso-
ne), e una, a partecipazione pi ridotta, in Europa, prevalentemente a
Venezia, citt che i Lennard amavano moltissimo.
Non mi limitai a una presenza formale e a un saluto ufficiale. Optai
invece per una chiacchierata sui problemi della citt, che li interess
molto. A mia volta partecipai per tutta la giornata alle loro discussioni.
Da allora mi invitarono sempre e spesso partecipai ai loro incontri.
Divenni membro del board, lorgano direttivo (meramente onorario,
visto che decidevano tutto da soli). Il loro lavoro consisteva nellorga-
nizzazione delle conferences, e nella pubblicazione di qualche interessante
libro, collegato ai temi affrontati negli incontri.
Fu grazie a loro che in quegli anni, bench assorbito dai ruoli che
ricoprivo, continuai a occuparmi degli spazi pubblici. Questi, e lat-
tenzione ai gruppi sociali pi deboli, costituivano il centro del loro
interesse. La loro attenzione alla citt era fortemente declinata sul ver-
sante sociale. Utilizzavano molto la fotografia per commentare e illu-
strare i temi delle loro relazioni ma si indignavano (soprattutto Henry)
se qualcuno presentava immagini in cui si vedevano solo architetture
senza persone.
Erano entusiasti di quella vera e propria meraviglia che sono i campi
veneziani. A Venezia tornavano spesso, ogni volta che avevano locca-

145
capitolo decimo

sione di venire in Europa. Henry sosteneva che trascorrere una giornata


in campo Santa Margherita equivaleva alla frequentazione di un intero
corso di urbanistica. E devo dire che ho imparato sugli spazi pubblici
veneziani pi da loro (dalle osservazioni di Henry e dalle splendide
lezioni di Suzanne) che da tutta lurbanistica studiata e praticata. Ricor-
davo il loro insegnamento quando, qualche anno dopo la morte di Hen-
ry140, inviai al Word Social Forum di Nairobi una relazione141 su La citt
come bene comune, nella quale decantavo i campi veneziani.
Raccontavo che ho la fortuna di abitare in una citt in cui gli spazi
pubblici si sono conservati intatti come secoli fa; si sono conservati nel-
le forme, nelle architetture, e si sono conservati nel rapporto che lega
spazi e persone. Mettevo in evidenza gli aspetti che mi sembravano pi
significativi: la variet e larmonia delle diverse dimensioni e forme degli
edifici che racchiudono larticolato spazio aperto; la dimensione degli
spazi, appropriata alla scala delluomo e alle opportunit di incontri tra
diversi gruppi di persone; lintegrazione tra funzioni private (le abita-
zioni che affacciano sul campo) e funzioni comuni (la chiesa, il palazzo
con la scuola o lufficio, la bottega e il laboratorio artigiano); lassenza
di barriere nei rapporti tra le persone (a Venezia non ci sono auto, gli
spostamenti pedonali favoriscono i contatti e le relazioni); la presenza
costante di piccole utilit, come lacqua che sgorga dalle numerosissime
fontanelle e le pietre presso cui sostare o riposarsi (gradini, muretti,
balaustre, sedili, vere da pozzo); lapertura, lungo i bordi dei campi, di
numerosi piccoli passaggi coperti (i sottoporteghi) attraverso i quali le
persone attraversano il campo, creando libere e innumerevoli direttrici,
non percorrendo vie obbligate e trafficate. E sottolineavo soprattutto
lanimazione sociale dei campi, costituita dalla compresenza di persone
appartenenti a ceti, mestieri, et, condizioni personali diversi.
Osservare la vita in un campo veneziano, diceva Henry, significa
comprendere come nello spazio pubblico si rifletta e viva la societ
nelle sue diversit e nei suoi incontri: il bambino con ladulto, il ricco
col povero, il residente con lo straniero; come si possa stare con gli altri
e contemporaneamente isolarsi leggendo un libro o nutrendo il neona-
to, come si possa osservare ed essere osservati. Per quanto il concetto
di spazio pubblico si sia molto ampliato nelle mie successive ricerche

140 Henry Lennard mor a Venezia il 23 giu. 2005, durante una conference. Volle che le sue
ceneri fossero disperse nella Laguna.
141 La mia relazione fu presentata al convegno, organizzato a Nairobi il 22 gen. 2007 dallas-
sociazione Zone onlus, sul tema La citt come bene comune. Quale futuro per i quartieri
informali?.

146
attese, tentativi, speranze, delusioni

ed esperienze, credo che il campo veneziano ne esprima le qualit e i


principi: appartenenza pubblica, permeabilit tra spazio privato e spazio
comune, libert di accesso e di soggiorno, apertura al rapporto di cono-
scenza e collaborazione con gli altri, simili o diversi che siano, sintesi di
utilit e piacevolezza.

5. Ritorno alluniversit

Il lungo periodo in consiglio comunale, poi in quello regionale, mi


avevano costretto a essere poco presente alluniversit; il corso che i
miei colleghi mi assegnavano teneva conto della priorit del mio lavo-
ro politico142. Giunti a termine nel 1990 i mandati elettivi, i colleghi
mi chiesero di impegnarmi in modo pi intenso, anche assumendomi
responsabilit di gestione direttiva. Ero docente nel corso di laurea in
pianificazione urbanistica, attivato nel 1971 nellambito dellIstituto uni-
versitario di architettura di Venezia (Iuav)143. I colleghi mi proposero il
ruolo di presidente del corso di laurea. Accettai.
Si trattava di un lavoro di gestione pi che di carattere scientifico.
Oltre alla routine amministrativa bisognava coordinare i numerosi do-
centi alla cui assemblea spettava decidere su tutto ci che riguardava la
didattica. A volte la tensione era alta tra le diverse componenti culturali.
Si erano costituiti due raggruppamenti, luno pi orientato verso la
progettazione dei piani di livello urbano e territoriale, laltro verso le
politiche urbane e territoriali. Facevano capo a due dipartimenti, quello
di urbanistica e quello di analisi economica e sociale del territorio (Da-
est). Bench formalmente io appartenessi al settore scientifico disci-
plinare della progettazione, ero considerato capace di mediare tra le
due posizioni. In realt, se parte della mia attivit era stata fino ad allora

142 Da quando, con la Repubblica post fascista e post liberale, lelettorato passivo venne
aperto a tutti i cittadini e non riservato ai ricchi possidenti, la legislazione consent a chi lavo-
rava di mantenere il posto di lavoro e i relativi diritti economici, pur assentandosi per svolgere
prioritariamente gli impegni di eletto. Era la traduzione in termini contemporanei della regola
dellAtene ai tempi di Pericle, quando si decise di retribuire con soldi pubblici lequivalente di
una giornata lavorativa a coloro che si recavano in citt per sedere in assemblea o nelle giurie
popolari, N. Urbinati, Lo scettro senza il Re. Partecipazione e rappresentanza nelle democrazie moderne,
Roma, Donzelli, 2009, p. 7.
143 Lo Iuav era un ateneo costituito, a differenza degli altri atenei italiani, da una sola
facolt, quella di architettura. Nellambito dello Iuav era stato istituito un corso di laurea in
urbanistica (poi pianificazione urbanistica e territoriale, poi pianificazione territoriale, urba-
nistica e ambientale). Nel 2001 lo Iuav si articol in pi facolt: architettura, pianificazione,
conservazione, design.

147
capitolo decimo

di tipo professionale, una parte abbastanza consistente era sulla rifles-


sione teorica e sulla pratica politica.
La mediazione non fu facile, sia per le caratteristiche e i caratteri
delle persone (che incidono molto fortemente nella comunit accade-
mica, forse pi che altrove), sia per il forte squilibrio tra la sostanziale
compattezza dei docenti afferenti al Daest e la fragilit dellaltro dipar-
timento. Il primo aveva una sua forte individualit e una storia ricca di
produzione scientifica collegiale di buon livello, mentre nel dipartimen-
to di urbanistica, cui facevano capo anche docenti del corso di laurea in
architettura, la figura prevalente era quella del professionista.

6. La riforma del tre+due

La discussione della riforma denominata nel linguaggio corrente (ma-


lauguratamente) tre+due mi impegn molto. Facemmo numerosissime e
utili riunioni collegiali, sia a Venezia, sia in altre sedi (a Genova, in Cala-
bria, a Roma) tra docenti di tutte le facolt di architettura. Prima ancora
che la riforma fosse formalizzata, discutemmo sulla base di un docu-
mento che ci parve molto interessante e il cui spirito sostanzialmente
condividevamo, redatto da una commissione coordinata dal sociologo
Guido Martinotti.
Della sua proposta mi piacevano molte cose. La concezione dellap-
prendimento come attivit che prosegue tutta la vita, alternandosi con
fasi di lavoro (il long life learning); lintroduzione dei crediti formativi
misurati sullimpegno complessivo degli studenti, anzich limitato al
solo tempo delle lezioni; la calibratura della durata degli studi sulla capa-
cit di apprendimento degli studenti, e non su un tempo misurato sugli
impegni didattici dei docenti. E ancora: la possibilit per gli studenti di
passare facilmente da una universit allaltra in relazione ai programmi
di studio; la formazione di strutture per lorientamento degli studenti in
tutto il ciclo formativo; il monitoraggio dellefficacia della didattica; la
disponibilit di un numero adeguato di tutores.
In realt ci rendevamo conto che organizzare secondo i nuovi prin-
cpi luniversit italiana significava introdurre molte novit: cambiare le
modalit di lavoro dei docenti, dare agli studenti la possibilit di lavora-
re comodamente alluniversit e di abitare nelle sue vicinanze, reclutare
un numero maggiore di personale didattico, formare coordinamenti
efficaci tra le diverse unit didattiche (tra le universit e tra le varie
componenti di una stessa universit), rendere trasparenti i risultati della
didattica. In un documento discusso nel nostro ateneo scrivevo:

148
attese, tentativi, speranze, delusioni

Il quadro delineato dal documento [di Martinotti] cos


distante dallattuale assetto (puntualmente, sinteticamente e
impietosamente descritto nel documento stesso) che lecito
dubitare sulleffettiva applicazione dei proposti indirizzi da
parte della generalit degli atenei italiani. Ci non dipende solo
dalla distanza tra modello proposto e realt attuale, ma anche
dal fatto che il documento si occupa solo dellordinamento
didattico e non affronta i temi al primo strettamente connessi,
quali quelli del finanziamento statale ai servizi per gli studenti,
dello stato giuridico della docenza, della struttura complessiva
delluniversit, della programmazione degli accessi144.

Ma parlamento e governo non provvidero a fornire gli strumenti


normativi e finanziari necessari per affrontare linsieme dei problemi
che la riforma poneva. Fu invece attuato unaltro aspetto della riforma
che a me, al momento, era sfuggita. Il nuovo ordinamento universita-
rio (come fu realizzato, ma forse gi come venne concepito) spingeva
verso una aziendalizzazione della formazione universitaria, operata
su due piani. Da una parte, si voleva organizzare luniversit secon-
do un modello aziendale, preoccupato soprattutto di massimizzare i
risultati quantitativi (la stessa scelta delle parole usate nei documenti
della riforma tradiva questa impostazione). Dallaltra parte, si voleva
spingere su una universit fortemente modellata sulle esigenze della
domanda di operatori avanzata dalle aziende. Su entrambi i piani si
tendeva insomma a tagliare lessenziale missione delluniversit: svi-
luppare la capacit critica, creativa, inventiva degli studenti (cio delle
fasce pi acculturate della popolazione, i futuri membri delle sue clas-
si dirigenti), renderli capaci di guardare oltre il presente, oltre i modi
in cui sono oggi organizzati leconomia, il territorio, i rapporti tra gli
uomini, i saperi.

7. Le parole

Per parte nostra, cercammo di applicare al meglio le nuove regole.


Programmammo la didattica secondo i due cicli: un ciclo triennale, fi-
nalizzato a fornire le conoscenze ed esperienze necessarie per collabo-
rare alla formazione di atti di pianificazione e, contemporaneamente,

144 E. Salzano, Valutazione sul Rapporto conclusivo del gruppo di lavoro del Murst coordinato da
G. Martinotti, dattiloscritto, 12 mar. 1998, Iuav, Corso di laurea in pianificazione territoriale,
urbanistica e ambientale (Archivio Edoardo Salzano).

149
capitolo decimo

a porre le basi teoriche per un successivo apprendimento; un secondo


ciclo, finalizzato a completare lapprendimento con quelle capacit e
conoscenze necessarie a svolgere, in piena autonomia, uno dei me-
stieri dellurbanista. Sollecitavamo gli studenti a svolgere una concreta
esperienza di lavoro (un tirocinio) tra il primo e il secondo ciclo, e co-
struimmo una rete di contatti con una serie di uffici, soprattutto pub-
blici, (Comuni, Province, Regioni e altri analoghi organismi) disposti a
ospitare i nostri studenti per attivit utili allapprendimento.
Modificai anche il mio apporto alla didattica. Prima svolgevo un
corso di Fondamenti di urbanistica che occupava una intera annua-
lit. Nel nuovo ordinamento introducemmo un corso, di durata pi
limitata, che chiamammo Glossario. Si trattava di trasmettere agli
studenti, in modo semplice ma rigoroso, il significato di parole che
avrebbero subito cominciato ad adoperare negli altri corsi e laboratori
del triennio, e che avrebbero sviluppato nel ciclo successivo.
Davo molta importanza alle parole, al loro carattere spesso ambi-
guo, alla pluralit di significati ad esse attribuita, alla loro origine ed
evoluzione, al loro impiego corrente nel nostro campo, agli strumenti
cui servivano o si riferivano.
Il contributo che chiedevo agli studenti era la costruzione, da
parte di ciascuno, di un glossario, nel quale inserire i vocaboli nuovi
incontrati nelle frequentazioni universitarie e nelle letture. Di alcune
parole chiave li stimolavo a cogliere le differenze tra le varie accezioni
e interpretazioni adoperate, per esempio, dai loro docenti. Suggerivo
a chi conosceva bene una lingua straniera di cercare e di annotare le
corrispondenze con le espressioni italiane. Mi sarebbe piaciuto che
adottassero il loro glossario come uno strumento permanente di la-
voro, un attrezzo da usare nel tempo. Anche per questo li invitavo a
costruire il glossario con strumenti semplici e facilmente aggiornabili:
per esempio una tabella word o un database excell, anzich un elegante
ma poco funzionale power point. Gi, perch nel frattempo svolgevo
anche un piccolo corso per aiutarli ad adoperare gli strumenti digitali
pi semplici.
La mia esperienza universitaria a Venezia si concluse con la tra-
sformazione del corso di laurea in facolt: costituimmo la prima, e
finora unica, facolt di pianificazione del territorio italiana. Un anno
dopo la sua formazione, raggiunsi i limiti det e andai en repos, come
dicono i francesi; in pensione, come si dice da noi.

150
attese, tentativi, speranze, delusioni

8. Il Pci nella bufera

Come tutti i simboli che cambiano la Storia, anche la caduta del Muro
di Berlino, il 9 novembre 1989, fu un episodio che riassunse il passaggio
da unepoca a unaltra: un passaggio che era gi cominciato, e che prose-
gu negli anni successivi.
Nel 1917 era iniziata una vicenda che voleva tracciare un percorso
nuovo allumanit: costruire un sistema economico sociale che supe-
rasse definitivamente quello capitalistico-borghese. Contraddicendo le
ipotesi che derivavano dallanalisi marxiana, quel processo non inizi
nel punto pi alto dello sviluppo, ma nel pi basso: la catena si spezz
l dove era pi debole. Ci non poteva non determinare le forme del
nuovo assetto e segnare limiti invalicabili al suo stesso sviluppo. Dopo
la prima affermazione di uno Stato non pi a egemonia borghese, il
percorso avrebbe dovuto proseguire in altre regioni, incrociarsi con
altre culture e altre storie, mirando a superare non solo il capitalismo
borghese, ma anche quello dello stato proletario.
Ci non era accaduto: il cammino della rivoluzione (cio della tra-
sformazione radicale dellassetto economico sociale) si era arrestato ai
confini segnati da quella cortina di ferro entro la quale essa era stata
racchiusa. Enrico Berlinguer espresse pubblicamente questo concetto
quando, nel 1981, commentando alla televisione il brusco cambiamento
di regime avvenuto in Polonia, disse che
la capacit propulsiva di rinnovamento delle societ, o almeno
di alcune societ, che si sono create nellest europeo, venuta
esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si manifestata
per lunghi periodi, che ha la sua data dinizio nella rivoluzione
socialista dottobre, il pi grande evento. Oggi siamo giunti a un
punto in cui quella fase si chiude, e per ottenere che anche il so-
cialismo che si realizzato nei paesi dellest possa conoscere una
nuova era di rinnovamento e di sviluppo democratico, sono ne-
cessarie due cose fondamentali: prima di tutto necessario che
prosegua il processo della distensione (); inoltre, necessario
che avanzi un nuovo socialismo nellovest dellEuropa, nellEu-
ropa occidentale, il quale sia inscindibilmente legato e fondato
sui valori e sui principi di libert e di democrazia145.

Prima della caduta del Muro, era iniziato nel Pci un ampio dibattito
sulla necessit di cambiamento. Era divenuto segretario generale Achille

145 La spinta propulsiva non c pi, in eddyburg.

151
capitolo decimo

Occhetto, il cui arrivo segn un vero e proprio ricambio generazionale


ai vertici del Pci146. Il partito era in piena crisi, lacerato dal contrasto
tra le spinte verso una modernizzazione vicina a quella in cui Craxi
era lalfiere e la resistenza in nome della tradizionale identit. La caduta
del Muro (9 novembre 1989) spinse Occhetto a rompere precipitosa-
mente gli indugi: nella cosidetta svolta della Bolognina (dal nome del-
la sezione del partito in cui la annunci) apr la strada a una trasforma-
zione profonda, che giunse alla sua conclusione nel congresso di Rimini
(febbraio 1991). Della fine del Pci parler in seguito. Qui mi limito ad
annotare che la discussione fu molto aspra, condusse allo scioglimento
del Pci e alla formazione di due nuovi partiti: il Pds (Partito democra-
tico della sinistra), in cui conflu la maggior parte degli iscritti, e il Prc
(Partito di rifondazione comunista).
Condivisi la scelta della maggioranza del Pci. Tra gli altri elementi di
novit mi piaceva il ruolo assegnato da Occhetto alla questione dellam-
biente. Il simbolo del nuovo partito lo esprimeva chiaramente: una
quercia dalla verdissima chioma aveva al suo piede licona tradizionale
del Pci, con la falce e il martello emblemi del lavoro operaio e conta-
dino. La frase che lo commentava, tratta dal documento maggioritario
della svolta, era la seguente:
Il nuovo simbolo vuole raffigurare, accanto agli antichi
strumenti del lavoro, che rappresentano la funzione storica del
movimento operaio, la dimensione che assume, nellimpegno
del nuovo partito, il rapporto con la natura e lobiettivo di
unumanit pacificata con s e con linsieme del mondo naturale.
Il verde che si unisce al rosso vuole trasmettere un messaggio di
vita, di speranza e di lotta per il futuro.

9. Nel Pds veneziano

Anche a Venezia, nel Pci, le spinte al cambiamento erano state forti.


Ero membro del comitato regionale, e fui chiamato in pi occasioni a
discutere le nuove scelte. A un certo punto mi fu chiesto di assumere
un ruolo dirigente. Nel giugno del 1992 il segretario della federazione
fu chiamato a Roma, dove era stato eletto deputato. Contemporanea-
mente accadde un avvenimento che mi lasci di stucco: due dirigenti
della federazione erano stati accusati di aver ricevuto un finanziamento

146 Ginsborg, LItalia del tempo presente, p. 298-299.

152
attese, tentativi, speranze, delusioni

personale da una societ della Fiat in cambio di favori. Lemozione fu


vivissima. Il gruppo dirigente decise di azzerare le cariche e di proporre
per quelle pi rilevanti persone di indiscutibile onest.
Il nuovo segretario fu Angelo Zennaro: docente al liceo artisti-
co, aveva lavorato molto nelle associazioni della societ civile147.
Un uomo, insomma, che veniva dal movimento e non dallapparato.
Per analoghe ragioni chiesero a me di divenire il presidente del comitato
federale148.
Non me ne rendevo conto compiutamente, ma le lotte tra le diverse
correnti erano violentissime: per finanziare le correnti in campagna elet-
torale (il cui esito avrebbe determinato il peso delle diverse posizioni)
non si aveva esitato a procurarsi risorse in modi illegittimi; lombra di
Tangentopoli si allung fino al partito veneziano, anche se non ci furo-
no mai prove che testimoniassero che, per i contributi ottenuti, si fosse-
ro forniti aiuti illegittimi. Ma certo come risulta dalle dichiarazioni di
uno degli imputati che i finanziamenti erano serviti per a campagna
elettorale interna della corrente che faceva capo a DAlema.
Angelo e io avviammo un buon lavoro. Il nostro obiettivo era favo-
rire al massimo la discussione nel partito, pi aspra che vivace, senza
assumere pregiudizialmente posizione per nessuna delle fazioni in
campo. Accanto a questo, ci impegnammo molto a riscrivere le regole
in alcuni settori chiave. Ma invece di discutere le nostre proposte con
il gruppetto di persone che contava (la cupola, diceva Angelo), come
forse ci si aspettava, le presentavamo subito agli organismi collegiali che
presiedevamo. Angelo scrisse un documento sulle norme finanziarie
relative alla ricerca di fondi e la loro spesa. Io stesi un regolamento del
funzionamento del comitato federale.
Introdussi tre innovazioni che, per quei tempi, erano piuttosto
audaci. Le riunioni del comitato dovevano essere aperte: il dibattito
doveva essere trasparente, aperto anche ai giornalisti. Tutti doveva-
no poter partecipare alle riunioni, anche le donne, anche i lavoratori
che si svegliavano presto il mattino: nelle lettere di convocazione era
indicato perci anche lorario di conclusione della seduta, e riuscivo
sempre a farlo rispettare. Infine, il nuovo statuto del partito proibiva
di fumare nelle riunioni, e io feci rigorosamente rispettare il divieto,

147 Si usava e si usa ancora questa espressione per esprimere il mondo che nasce dalla socie-
t distinguendosi dalle organizzazioni politiche o istituzionali standardizzate; sostanzialmente,
linsieme delle associazioni poco formalizzate.
148 Gli organi di direzione del partito, dal pi largo al pi ristretto, erano: il comitato federale,
la direzione, la segreteria, il segretario. Il primo era costituito da un centinaio di membri.

153
capitolo decimo

non solo ammonendo i fumatori renitenti ma anche alzandomi dalla


presidenza e accompagnandoli materialmente fuori dellaula.
Loperazione pi complessa in cui mi cimentai in quella fase fu
la costituzione di una nuova maggioranza nel consiglio comunale di
Venezia, per le elezioni del 1993. Nel 1985 si era dissolta quella che
aveva governato nel decennio precedente (Pci, Psi, Pri). Lalleanza
che i socialisti avevano costruito con la Dc non si era rivelata stabile:
le crisi si erano succedute, le maggioranze si erano alternate, scom-
poste e ricomposte. I sindaci erano cambiati pi volte. Mentre Mario
Rigo, sindaco della giunta rossa, era rimasto in carica dal 1975 al
1985, dal 1985 al 1990 si erano alternati Laroni (Psi, Dc, Psdi), Casel-
lati (che conferma gli assessori della giunta precedente), Degan (stessa
giunta), di nuovo Casellati (Pri, Pci, Psi, Psdi, Verdi). Nuove elezioni
nel 1990, sindaco Bergamo (Dc, Psi, Psdi), poi una serie di crisi e di
rimpasti finch, nel 1993, sindaco e giunta si dimisero e, dopo un pe-
riodo di commissariamento, si elesse un nuovo consiglio.
Nel frattempo, lindagine dei magistrati milanesi aveva scoperchia-
to il pentolone di Tangentopoli e i partiti pi direttamente coinvolti
erano entrati in crisi profonda, mentre il Pci, divenuto Pds, bench
travagliato dagli eventi internazionali e con ombre evidenti in alcune
situazioni locali (come a Venezia) aveva retto meglio.
In quella fase riuscimmo a compiere unoperazione che ci sembr
molto promettente. Partendo dalla definizione di un programma di
governo comune (alla cui stesura lavorammo soprattutto Gigi Scano
e io) riuscimmo a stabilire un accordo molto ampio, che coinvolgeva
tutti i gruppi politici in vario modo collocati su posizioni di centro e
di sinistra, nonch le aggregazioni che emergevano dalla societ civile.
Come presidente del comitato federale del Pds, quindi del partito
pi rilevante nelloperazione, mi spett il compito di presentare anche
la proposta dei nomi da indicare allalleanza come candidato sindaco:
proposi una terna composta da Gianni Pellicani, Cesare De Piccoli e
Massimo Cacciari. Questultimo aveva gi preso da qualche anno una
serie di iniziative per riflettere sulla citt e formulare proposte per il suo
governo, coinvolgendo soprattutto ambienti della cultura e della politica
(ma anche dellimprenditoria meno ottusa), che avevano accresciuto
il suo credito di uomo intelligente e aperto. Il suo nome come futuro
sindaco circolava ampiamente anche fuori dal partito. Alcuni di noi ave-
vano qualche perplessit, ma fummo indotti a superarle sia dallampio
consenso che sul suo nome si era formato nellambito dellalleanza, sia
dal fatto che le norme allora vigenti impegnavano fortemente sindaco
e giunta a rispettare il programma col quale si presentavano allelettora-

154
attese, tentativi, speranze, delusioni

to. Ritenevamo che il programma che avevamo stilato, e che lalleanza


approv allunanimit, fosse abbastanza dettagliato e chiaro, e tale da
vincolare alle scelte definite qualsiasi sindaco che lavesse sottoscritto.
Bastarono pochi mesi per convincerci che avevamo sbagliato.

10. Citt storica di Venezia: il piano distrutto

Il nuovo sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, era stato molto incerto


sulla persona da scegliere come responsabile politico dellurbanistica.
Chiese il mio parere su una rosa di nomi vasta e contraddittoria; ebbi
limpressione che non avesse le idee molto chiare sulle diverse posizioni
culturali. Scelse un architetto operante a Venezia, Roberto DAgostino,
molto legato a Leonardo Benevolo (con cui aveva redatto una proposta
urbanistica negli anni della discussione della legge speciale del 1973). Era
iscritto al Pds e apparteneva alla corrente di sinistra. Molto rapidamente,
inizi una violenta campagna di denigrazione della politica urbanistica
seguita fino ad allora e dei suoi documenti conclusivi. Appoggiato dal sin-
daco, tuonava contro i lacci e lacciuoli del piano per la citt storica, cri-
ticava la imbalsamazione della citt che la politica urbanistica degli anni
precedenti (tutti gli anni, compresi quelli delle giunte rosse) aveva provo-
cato. Troppe regole, troppa burocrazia, troppo poco mercato e scarsa at-
tenzione agli investitori. Erano gli slogan dellepoca, praticati anche dalla
sinistra, che la portarono via via nel baratro delle sconfitte di questi anni.
In effetti, il primo atto che la giunta Cacciari fece approvare al con-
siglio fu la revoca di una deliberazione della giunta Casellati, nella quale,
in applicazione di una legge nazionale, si ponevano alcuni vincoli alla
trasformazione di esercizi commerciali tradizionali a quelli in contrasto
con le caratteristiche della citt storica. Sulla base di quella deliberazione
si era riusciti a impedire linvasione di Venezia da parte dei fast food, che
subito esplosero dappertutto. Ma era stato solo il primo di una catena
di atti, tutti nella stessa direzione.
Il piano della citt storica era stato adottato nel 1992 ed era stato
pubblicato. Era stato presentato un numero modesto di osservazioni,
per ciascuna delle quali erano state formulate le controdeduzioni. Tutto
insomma era pronto per lapprovazione. Ma invece di completare liter
del piano, si avvi subito il suo smantellamento. Gigi Scano ne ha rac-
contato con precisione i vari passaggi in uno scritto del 1997149.

149 L. Scano, Quale piano per la citt storica di Venezia?, in Venezia: terra e acqua, p. 381-408.

155
capitolo decimo

I punti sostanziali delle modifiche apportate al piano dalla giunta


Cacciari-DAgostino consistono nella sostituzione a un complesso di
regole, certe ed uguali per tutti, stabilite secondo le procedure traspa-
renti della pianificazione urbanistica, di un procedimento discrezionale,
nel quale deciderebbero, caso per caso, un organo tecnico ed un organo
politico legittimati a decidere, di volta in volta, sui singoli casi concreti,
senza predefiniti criteri di valutazione. Lo spostamento dalle regole alla
decisione discrezionale vale sia per la tutela della struttura fisica degli edifici
(dove il promotore della liberazione dalle regole il proprietario inte-
ressato), sia per quella delle utilizzazioni. Il controllo della modifica del-
le utilizzazioni decisivo per contrastare la trasformazione della citt da
luogo della residenza dei suoi abitanti e delle connesse attivit, a luogo
di un turismo e di una speculazione forsennata era raggiunto, nel pia-
no del 1992, mediante una procedura trasparente, rigorosa ma flessibile:
era il consiglio comunale che, ogni quinquennio, decideva quali, delle
utilizzazioni teoricamente compatibili con le caratteristiche strutturali
degli edifici, potevano essere attivate o meno. E, naturalmente, nel pri-
mo quinquennio il piano tutelava la residenza ordinaria e alcune specifi-
che attivit economiche.

Tutto questo saltato. I documenti del piano sono stati rimaneggiati


e stravolti. La citt storica diventata un fecondo pascolo per tutte le
speculazioni in vario modo legate allappropriazione vorace di ogni ren-
dita consentita dalla storia della citt e dalla qualit che i saggi ammini-
stratori del passato avevano saputo creare. Ogni tanto dai governanti si
levano alti lamenti per i danni che il turismo provoca, ma nessuno ha il
coraggio di domandarsi per colpa di chi e di che cosa ci avvenuto.

156
10. Con Barbara e nonna Carmela Salzano, 1960.
11. Con Peppe Loy e Tommaso Boccardi, sulla spiaggia di Fregene, 1954.

157
12-15. Alcune delle riviste che mi hanno impegnato.
16. Franco Rodano con la figlia Giulia.

158
17. Con Henry Lennard, alla International Making Cities Livable Conference di Salisburgo,
settembre 2002.

159
18. I miei figli: Mauro, Francesco, Anna, Maria, Giulia e Giovanni, Venezia, 1980.
19. Visita a campo Ruga, nellarea interessata dal primo piano di coordinamento, 1977.

160
Capitolo undicesimo
Il mestiere dellurbanista

1. Un pensionato, libero di pensare

Nei primi anni del nuovo secolo continuai a insegnare e a lavorare allo
Iuav: ero il rappresentante dello Iuav in Urbandata, la struttura europea
che raggruppava in un unico progetto le strutture pubbliche di documen-
tazione urbanistica150; e per un breve periodo feci il delegato del rettore
per linformatica. Lavorai, come ho detto, alla trasformazione del corso
di laurea in facolt: costituimmo la prima, e ancora oggi unica in Italia,
facolt di pianificazione del territorio, di cui fui preside per un anno.
Mi avvicinavo al momento della pensione, che avvenne senza par-
ticolari cerimonie o traumi. Nel frattempo, avevo costruito, inconsape-
volmente, le basi di quello che sarebbe diventato il mio principale, se
non addirittura esclusivo, impegno degli anni successivi: il mio sito web,
eddyburg. Di questo parler diffusamente pi avanti. Esso fu lo sviluppo
dellesperienza che avevo avviato curando poche pagine del sito ufficiale
dello Iuav nel quale inserivo materiali didattici e di ricerca, nonch altri
documenti interessanti. Avevo cominciato a praticare un modo nuovo
di comunicare, di insegnare e imparare, di lavorare nella societ.
Con il pensionamento si complet la mia nuova condizione. Non
ero pi assessore, n avevo altri incarichi elettivi. Non avevo pi vincoli
o doveri di orario, di presenza, di rappresentanza. Non svolgevo pi
funzioni dirigenti in nessuna formazione politica. Non avevo obblighi

150 Lassociazione Urbandata un consorzio fra produttori di informazioni sullabitare


nella Comunit europea. Mira a favorire lo scambio internazionale e la diffusione delle infor-
mazioni in materia di urbanistica e pianificazione, architettura ed edilizia.

161
capitolo undicesimo

n remore, non esprimevo n rappresentavo pi nulla e nessuno, se


non me stesso. La mia stessa militanza politica si era dissolta. Quando il
Pci, dopo essersi trasformato nel Pds, aveva ulteriormente modificato
composizione e denominazione diventando Ds (1998), non rinnovai la
tessera.
Mi guardavo in giro. Urbandata mi aveva fatto conoscere ambienti
diversi: le riunioni si tenevano, di volta in volta, presso una delle strut-
ture associate: Londra, Parigi, Berlino, Madrid, Budapest. Mi avevano
invitato a Lione, per un mese di incontri e lezioni ospite di una singo-
lare struttura associativa, il Ple de competences en urbanisme151, poi come
membro del Comit dorientation dun importante ente statale di ricerca,
il Certu (Centre dtudes sur les reseaux, les transports, lurbanisme et les bti-
ments publics).
Avevo pi tempo per impegnarmi nel lavoro professionale, ci
che avvenne soprattutto a Foggia e in Sardegna. Continuavo a tenere
qualche corso universitario, prima alla facolt dingegneria a Trento e
poi di nuovo allo Iuav, dove fui professore a contratto per un modulo
di legislazione urbanistica e uno dal titolo Il mestiere dellurbani-
sta. Questultimo tema mi interessava molto. La libert dagli incarichi
istituzionali luscita dal bunker mi spingeva a riflettere sul mestiere
che avevo abbracciato e via via praticato nelle sue diverse applicazioni.
La tesi che condividevo con Vezio da molti anni era che il ruolo dellur-
banista ha uno spiccato carattere pubblico: secondo noi, la figura
dellurbanista simile a quella del diplomatico, nel senso che per nessu-
no dei due pensabile un lavoro a servizio del privato.

2. Micromega e laltra Italia possibile

Eravamo entrati in una fase difficile per lurbanistica. Era giunto a


piena maturazione quel mutamento iniziato con la svolta del craxismo
ventanni prima e, poco pi tardi, con labbandono da parte della si-
nistra dogni rigore sui temi del territorio. Mi colp molto un numero
monografico della rivista progressista Micromega del 2002, dal titolo
Unaltra Italia possibile. Una ventina di saggi delineavano un programma

151 Il Ple una interessante struttura che raggruppa tutti i soggetti, prevalentemente pub-
blici ma anche privati, che hanno competenze in relazione alla concezione e attuazione dei
programmi urbanistici di trasformazione, allo studio, alla ricerca e alla formazione nelle mate-
rie coinvolte; esso ha come fine lo sviluppo degli scambi, la conduzione di progetti in comune,
lofferta di una capacit di consulenza interdisciplinare.

162
il mestiere dellurbanista

alternativo a quello della destra, che da un anno dirigeva il paese col se-
condo governo Berlusconi. Lurbanistica, la pianificazione del territorio,
le politiche urbane erano del tutto assenti. Scrivemmo una lettera aperta
al direttore della rivista, Paolo Flores dArcais, nella quale raccogliem-
mo ladesione di 75 urbanisti152. Dichiaravamo di essere fortemente
preoccupati per unassenza che francamente ci sembra clamorosa. E
proseguivamo:
Se nei capitoli del programma di Micromega non mancano
(e giustamente) la sanit e la giustizia, limmigrazione e il lavoro,
luniversit e le carceri, lambiente e i beni culturali (e altri nu-
merosi temi), manca completamente il territorio. Questo, infatti,
non si riduce allambiente (nellaccezione che questo termine ha
assunto negli ultimi decenni, e che ben rappresentato nel testo
di Ermete Realacci) n ai beni culturali (nonostante laccezio-
ne giustamente ampia che Salvatore Settis attribuisce a questa
espressione). Ragionare e proporre un capitolo del programma
per unaltra Italia che riguardi il territorio e la citt significhe-
rebbe infatti farsi carico insieme delle ragioni dellecologia e di
quelle dellarmatura urbana del nostro territorio, della tutela
della natura e della dotazione delle infrastrutture, della difesa del
paesaggio e del miglioramento delle condizioni di vita nelle citt.

Concludevamo scrivendo: Ci sembra che lassenza del territorio e


della citt, dellurbanistica, della pianificazione tra i 24 capitoli del pro-
gramma proposto da Micromega sia unassenza grave. Sarebbe utile, sul-
la sua Rivista, aprire una discussione sulle ragioni di questa assenza. Che
non sono certamente n la distrazione n la fretta ma forse qualcosa
di pi profondo, su cui tutti dovremmo interrogarci. Non ricevemmo
alcuna risposta, nonostante le molte firme pesanti tra i firmatari.
Avevamo in mente anche questo episodio quando, alla fine del 2002,
discutendo con alcuni amici urbanisti impegnati nella pianificazione ter-
ritoriale e urbana, convenimmo sul fatto che, in Italia, il ruolo dellurba-
nista pubblico (dellurbanista che ha scelto come centro della sua attivit
il ruolo di funzionario nellamministrazione pubblica) non sufficiente-
mente considerato, a differenza di quanto avviene in altri paesi europei.
Ci sembrava che lurbanista pubblico avesse un ruolo particolarmente
rilevante in un momento quello attuale nel quale la funzione di stru-
mento dellinteresse collettivo che caratterizza lurbanistica viene negata,
o dimenticata, o considerata marginale. Decidemmo di costituire unas-

152 Dov il territorio. Lettera a Paolo Flores dArcais, in eddyburg.

163
capitolo undicesimo

sociazione che assumesse questo ruolo come fondativo, e si proponesse


di rappresentare ed esprimere gli interessi culturali e professionali degli
urbanisti impegnati sul fronte, oggi particolarmente difficile, dellammi-
nistrazione pubblica. Marco Guerzoni scrisse un nota, che pubblicai su
eddyburg153. Organizzammo una riunione a Bologna154, dove decidemmo
di avviare lassociazione. Purtroppo gli urbanisti pubblici sono molto
impegnati: nessuno ebbe il tempo di occuparsi seriamente della cosa e
liniziativa si impantan.

3. Chi lurbanista

Nel settembre 2005, lamico e collega Bibo Cecchini, che dallo Iuav era
passato alla nuova facolt di architettura di Sassari-Alghero, mi invit a
tenere una lezione sul mestiere dellurbanista155.
Nella mia interpretazione, il mestiere dellurbanista nato per ri-
spondere alla necessit di tutelare, nellorganizzazione della citt, alcuni
interessi collettivi di cui la logica del mercato era incapace di tenere conto.
Le contraddizioni, e i relativi problemi pratici, si sono spostati nel tem-
po dalla citt ad ambiti pi vasti: dalla citt al territorio. Agli interessi co-
muni della funzionalit e della bellezza altri se ne sono aggiunti: anche
la tutela dei valori dei beni storici e culturali, anche limpiego razionale
e parsimonioso delle risorse naturali e dellambiente si rivelarono via via
come beni e interessi non tutelabili dalle leggi delleconomia, e richiede-
vano quindi un intervento regolatore esterno. Di questo intervento regolatore
si fece carico sul piano sostanziale della decisione lautorit politica:
cio, nel sistema democratico, il sistema dei poteri rappresentativi eletti
direttamente dalla popolazione.

153 M. Guerzoni, Ragionando di utilit pubblica dellurbanistica, in eddyburg.


154 La riunione si svolse nellaprile 2004 a Bologna. Cerano gli urbanisti Piero Cavalcoli,
Mariangiola Gallingani, Marco Guerzoni, Elettra Malossi, Alessandro Delpiano (Provincia di
Bologna), Maurizio Sani (Regione Emilia Romagna), Elena Camerlingo (Comune di Napoli),
Stefano Fatarella (Regione Friuli-Venezia Giulia), Elisa Spilotros (Comune di Pontassieve).
E ricordo adesioni, oltre che di altri bolognesi e napoletani, da Eboli, Foggia, Lecce, Sesto
Fiorentino, Cesena, Lastra a Signa.
155 Intitolai la lezione Il mestiere dellurbanista in una societ di lupi (con questo titolo an-
che in eddyburg). Il riferimento esplicito era al disegno di legge urbanistica presentata dallono-
revole Lupi di Forza Italia, che distruggeva lurbanistica pubblica in Italia; quello implicito
era il ricordo del tema che, al suo primo anno duniversit, aveva svolto il mio allievo e amico
Ivan Blecic, anche lui docente ad Alghero: per descrivere lurbanistica, partiva dalla condizione
hobbesiana delluomo homini lupus nella societ.

164
il mestiere dellurbanista

Nacque, e via via si svilupp, la figura professionale destinata alla


formulazione tecnica degli strumenti per il governo delle trasformazioni
territoriali, lurbanista, depositario dei saperi e mestieri tecnici necessari
per fornire le basi alle decisioni dellautorit politica riguardanti il terri-
torio. Il metodo e gli strumenti che egli adopera sono quelli della piani-
ficazione urbanistica, che costituisce secondo la felice definizione di
Francesco Indovina il prodotto di una volont politica tecnicamente
assistita.
Poich i saperi e i mestieri dellurbanista sono un ventaglio molto
ampio, il terreno di lavoro essenzialmente interdisciplinare. Dai con-
tributi degli esperti nelle altre discipline (storici, giuristi, economisti, so-
ciologi, naturalisti, geologi, ecc.), lurbanista deve trarre ci che serve a
sorreggere le decisioni che spettano al politico. Egli perci in qualche
modo la cerniera tra le varie competenze e il governo. Non ha auto-
nomia rispetto alle decisioni, poich queste, in un regime democratico,
spettano a chi rappresenta la collettivit, alleletto (il politico).
Ma il politico pu guidarla, indirizzarla, orientarne i comportamen-
ti, oppure pu subirne le pulsioni, trasformarsi da timoniere a mosca
cocchiera. Pu succedere (ed quello che accade nei nostri anni) che
il politico assuma come valori da privilegiare non quelli dellinteresse
collettivo e dellequilibrio tra persona e societ, ma quelli dellindividua-
lismo liberato da ogni regola volta a garantire il perseguimento di inte-
ressi generali (come quello della giustizia sociale, della libert per tutti,
dellespressione di ogni pensiero).
In una simile situazione allurbanista si aprono due strade: rimanere
fedele ai princpi propri del suo ruolo sociale, e allora entra in conflitto
con quella politica che si piegata ai venti dominanti; oppure piegarsi
anche lui. quello che largamente accaduto in Italia. Lo testimonia
la svolta dellInu negli anni Novanta, che aveva visto la sconfitta delle
nostre posizioni, e che si consolidata e ampliata. I nostri maestri sono
diventati dei cattivi maestri. Il significato del ruolo pubblico dellurba-
nista si affievolito. Il rapporto tra pubblico e privato, decisivo per le
decisioni sulluso del suolo, ha visto prevalere nettamente il secondo;
ha modificato la stessa tecnica di pianificazione urbanistica, con lappli-
cazione di strumenti (come la perequazione urbanistica generalizzata)
che attribuiscono prioritaria considerazione non ai valori paesaggistici
e ambientali come noi predicavamo e tentavamo di praticare, ma a quel-
li immobiliari. Questa fu, grosso modo, la posizione che espressi nella
lezione ad Alghero.
Poco tempo dopo, i colleghi che dirigevano la facolt di pianifica-
zione del territorio e il corso di laurea triennale, Domenico Patassini

165
capitolo undicesimo

e Luciano Vettoretto, mi chiesero di aprire lanno accademico con una


lezione sullo stesso tema, di tenere un breve corso sullargomento e di
promuovere uniniziativa rivolta agli ex studenti. Feci la lezione, tenni il
corso per un paio danni, tentai di recuperare il contatto con i laureati
con una serie di iniziative che ebbero un certo successo. Poi anche que-
sto si spense: i giovani laureati erano troppo impegnati a cercare lavoro
e a mantenersi nella societ del terzo millennio156. Del resto, di fronte
alle mutazioni in corso nella societ e nella politica, luniversit rima-
neva assente. Il dibattito era debolissimo, rispecchiava pi gli interessi
delluniversit come azienda (il suo funzionamento interno, il ruolo dei
docenti e le loro carriere, le articolazioni organizzative dal punto di vista
dei poteri pi che dei contenuti), ed era molto debole il collegamento
con la societ, con le tensioni che la percorrevano, con il degrado che si
manifestava su vari fronti.

4. Lurbanistica neoliberista

Nellambito delle facolt di architettura ebbe un certo successo la tesi


espressa e argomentata da un giovane e intelligente studioso di urbani-
stica, Stefano Moroni. lautore di un libro157, che a mio parere espri-
me molto chiaramente lurbanistica dellideologia neoliberista. Avevo
criticato unintervista rilasciata da Moroni a un giornale dellarea berlu-
sconiana. Lavevo pubblicata su eddyburg con una presentazione in cui
affermavo che la destra berlusconiana sembra aver trovato il teorico di
riferimento per la sua urbanistica neoliberista: un tuffo verso il passato
pi lontano, quello antecedente alla rivoluzione liberale.
La lettura del libro ha pienamente confermato quel mio iniziale giu-
dizio: la perfetta coincidenza delle tesi espresse da Moroni con quelle
del neoliberalismo e del liberismo. Ho argomentato la mia critica in
un libro158. Sottolineavo che lelemento pi significativo della proposta
dellautore elevare a protagonista della sua costruzione lindividuo: la
tutela della libert dellindividuo deve essere il compito preminente, e
quasi esclusivo, delle istituzioni. Questo individuo non un qualsiasi

156 Anche il materiale su questa esperienza inserito in eddyburg, cartella Il mondo di


Ca Tron.
157 S. Moroni, La citt del liberalismo attivo. Diritto, piano, mercato, Milano, Citt Studi, 2007,
p. 200.
158 Discutendo intorno alla citt del liberalismo attivo. Con un saggio finale di Stefano Moroni, a cura di
G. De Luca, Firenze, Alinea, 2008, p. 95-99.

166
il mestiere dellurbanista

cittadino del mondo. Non neppure un qualsiasi cittadino della citt


occidentale, suo esclusivo ambito di riferimento: il proprietario immobi-
liare. Quando Moroni esemplifica la sua nozione di libert negativa af-
ferma che essa, interpretata soprattutto in termini di non impedimento
e non interferenza, [] ricomprende le libert di esprimersi, associarsi,
detenere propriet privata, intraprendere, contrattare, ecc.. Delle cin-
que azioni cui esemplificativamente riferisce la libert individuale do-
minano quelle connesse alle attivit immobiliari, detenere propriet privata,
intraprendere, contrattare, mentre sono del tutto assenti altre, forse pi
fondamentali, quali lavorare, apprendere, comunicare ecc.159
E quando si impegna a chiarire la distinzione tra il suo liberalismo e
il liberismo, precisa che il liberalismo non certo mero liberismo, ma
anche liberismo160. Del liberismo, delle libert cosiddette economiche,
gli interessano soprattutto quelle che hanno a che fare con gli interessi
immobiliari: la libert di acquisire, detenere e vendere propriet privata,
la libert di intrapresa e contratto, ecc.. Queste non sono altro, aggiun-
ge, che una delle specificazioni dellidea pi generale di libert negativa
come spazio protetto dazione; e, tuttavia, ne sono una componente
incancellabile, tanto che, eliminarle, comprometterebbe seriamente il
significato stesso della libert individuale.
Coerente con questa impostazione ovviamente lapologia del merca-
to. Moroni non intende questultimo come mero strumento adatto, pi
di altri, a misurare il costo delle merci e a determinare la configurazione
pi efficiente dellallocazione delle risorse riducibili a merci, ma come
ordine spontaneo dinamico, condizione indispensabile perch la li-
bert di ciascuno possa esplicarsi al massimo grado161. Individualismo
(proprietario) e mercato sono le due divinit cui tutto subordinato.
Al dominio di queste divinit sono ordinate le istituzioni: le regole e lo
Stato. Per la societ e per la citt bisogna stabilire poche regole, le pi
astratte e generali possibili, che stabiliscano soprattutto che cosa non si
deve fare, affinch non siano lesi i diritti di alcuno, mentre il resto deve
essere lasciato alla libera iniziativa dei cittadini e alla benefica, provvi-
denziale azione del mercato162.
Compito dello Stato esclusivamente quello di impedire che al-
cunch turbi il pieno dispiegamento del mercato. Questo compito

159 Moroni, La citt del liberalismo attivo, p. 15-16.


160 Questa e la citazione seguente in Moroni, La citt del liberalismo attivo, p. 26.
161 Moroni, La citt del liberalismo attivo, p. 9.
162 D. Carafoli, Liberiamo la citt dai piani regolatori, intervista a S. Moroni rilasciata al Gior-
nale, 24 apr. 2007.

167
capitolo undicesimo

comprende anche la possibilit che lo Stato si faccia carico, in qualche


modo, di esigenze nei limitati casi in cui il mercato non riesca a soddi-
sfarle. Moroni ammette che
debba essere garantita a tutti i cittadini non solo la libert ne-
gativa, ma, anche, la possibilit di condurre una vita almeno de-
cente. In altri termini sostiene a tutti i cittadini va garantita
una giusta condizione di base: questo pu avvenire fornendo a
essi buoni e risorse spendibili sul mercato per accedere a beni e
servizi primari (certi buoni potrebbero essere assicurati a tutti,
mentre determinate risorse monetarie aggiuntive solo a chi in
una situazione di deprivazione grave) e, nei limitati casi in cui il
mercato non in grado di operare, garantendo direttamente la
disponibilit per tutti di alcuni servizi e infrastrutture163.

A Moroni non viene in mente che certi prezzi possono, nella con-
cretezza delle realt economiche date, essere viziati da posizioni di mo-
nopolio o di oligopolio collusivo. Se c qualcuno che non in grado
di pagare laffitto di una casa perch la speculazione porta i prezzi al di
sopra della capacit di spesa degli individui allora intervenga lo Stato per
assicurare lutile allo speculatore.
In che modo si interviene, e chi interviene, per stabilire quale soste-
gno debbano avere i cittadini non proprietari per accedere al mercato?
Qui lideologia di Moroni rivela aspetti inquietanti. ovviamente lo
Stato che deve definire la soglia di decenza di ogni vita. Ma, precisa
lautore, lidea di garantire a tutti una vita decente deve avere di mira
unicamente la lotta alla povert assoluta, e non la riduzione della disu-
guaglianza materiale relativa; in altre parole lobiettivo di impedire che
ci siano individui che si trovano al di sotto di una determinata soglia
di decenza e non diminuire le differenze contingenti tra individui164.
Insomma, se si accetta che della soglia di decenza faccia parte il tetto
sotto cui ripararsi, ciascuno deve poter godere di un tetto, ma non pre-
tenda di averlo a cento metri o a cento chilometri da dove lavora e dove
stanno gli amici!
Lideologia che Moroni mostra di condividere dimentica che esiste
anche la libert del cittadino in quanto tale: in quanto fruitore (non neces-
sariamente proprietario) di un bene pubblico, quale la citt (il territorio
urbanizzato) indubbiamente . Dimentica che ci sono diritti comuni, e
non solo diritti individuali. Dimentica che tra questi diritti c anche

163 Moroni, La citt del liberalismo attivo, p. 17-18.


164 Ibidem.

168
il mestiere dellurbanista

quello di poter godere di una citt ordinata, funzionale, bella, resa tale
indipendentemente dagli interessi materiali di un gruppo di cittadini
(i proprietari immobiliari). Dimentica che questo diritto deve essere ri-
conosciuto a tutti, quale che sia il patrimonio di cui dispone (e quali che
siano il genere, loccupazione, il reddito, il colore della pelle, lorienta-
mento religioso o spirituale, la lingua, letnia, let, la condizione sociale).
Poich Moroni non si rivolge al cittadino ma, lo ripeto ancora una
volta, al proprietario immobiliare, ecco che la pianificazione della cit-
t e del territorio non gli interessa. Poco importa che essa sia lunico
strumento capace, ove correttamente impiegato da chi governa, di
raggiungere quegli obiettivi dinteresse comune di cui si detto. Per il
proprietario immobiliare essa un intralcio, uno dei lacci e lacciuoli
di cui occorre liberarsi. Come la pianificazione, cos dal ragionamento
dellapostolo dellurbanistica neoliberista sono assenti il potere e la
politica, sono assenti i diversi interessi che oppongono certi gruppi so-
ciali ad altri, certe figure e certi soggetti ad altri: i pi forti e i pi deboli,
quelli destinati a vincere, quelli destinati a perdere. Tutti sono uguali,
nellempireo luminoso disegnato da Moroni. Basta far finta che siano
tutti proprietari. Oppure, basta convincerli che gli altri non contano:
non hanno diritti, ma solo la legittima aspettativa a una soglia di decen-
za che un buon Leviatano gli accorder, forse, se vorr.

Una buona descrizione, mi sembra, dellurbanistica omogenea al


neoliberismo. Per combatterla e tener viva la possibilit di costruire di
nuovo unurbanistica per i cittadini, per continuare il mio lavoro, per
continuare a ragionare soprattutto con i giovani, dovevo impiegare i
nuovi strumenti di cui disponevo, che assorbirono quote crescenti del
mio tempo e delle mie risorse. Primo fra tutti, il web. Nacque cos il
sito eddyburg.

169
170
Capitolo dodicesimo
Il mondo di eddyburg

1. Come nasce eddyburg

Lo Iuav gestiva un sito web. Alcuni docenti ne utilizzavano delle pa-


gine per inserire avvisi agli studenti e materiali didattici. Sotto la guida
del responsabile dellinformatica dello Iuav, Ciro Palermo, organizzai
il mio spazio articolandolo in quattro sezioni, tre strettamente legate
allattivit didattica e di ricerca e una, chiamata Pagine personali, in
cui inserivo articoli e altri documenti che reputavo interessanti, per me
ma anche per gli studenti. Questa ultima sezione si ampli velocemente,
ed ebbe un certo successo. Divenne a tal punto prevalente sul resto che
Ciro mi sugger di costruire un sito autonomo per contenerla, gestito da
me: sarebbe stata la parte universitaria quella marginale. Ormai avevo
acquisito una certa abilit nel lavorare al sito, potevo proseguire da solo.
Ne parlai con Bibo Cecchini, prorettore per linformatica. Ne parlai con
Ivan Blecic, mio allievo, la cui intelligenza e cultura si accompagnano
a una grandissima capacit di adoperare tutte le potenzialit dellinfor-
matica. Ne parlai infine con Pierre Piccotti, che aveva costruito lecce-
zionale sistema bibliografico documentario dello Iuav e unificato tutti
i centri bibliografici dellarea veneziana, e mi aveva assistito nei primi
passi di utilizzazione del computer.
Partimmo nellautunno del 2002. Ivan mi aveva proposto un pro-
gramma di gestione pi semplice, in relazione alle mie necessit, di quello
che fino ad allora avevo adoperato. Alessandra Poggiani, che lavorava
a contratto per lo Iuav, si dedic con pazienza a costruire con me la
struttura e la grafica del sito. Restava da decidere il nome. Feci un piccolo
sondaggio tra amici e frequentatori. Salzanocity fu una delle prime pro-
poste. Un po pesante, per, e ovvia. Il mio nomignolo (Eddy) era abba-
stanza breve per diventare parte di un titolo non troppo lungo. Eddycity?

171
capitolo dodicesimo

Fabrizio Bottini propose la desinenza burg, che designa la citt nelle


lingue di antica matrice sassone, in alternativa a city. Si decise cos per
eddyburg, logo che soddisfa sia il carattere personale del sito sia il suo og-
getto di principale interesse: la citt, come scienza e tecnica della sua or-
ganizzazione funzionale e formale, come societ che in essa vive e di essa
padrona, come scienza e pratica del governo, e quindi come politica.
Non stato facile articolare il contenuto del sito, tra quello che gi
cera (e che raccoglievo dal lontano 2002), e quello che avrei potuto rac-
cogliere negli anni. Sette anni dopo devo dire che la struttura impostata
allinizio ha retto, e funziona ancora adesso che i documenti archiviati si
avvicinano ai 15.000. Oggi il sito , al tempo stesso, un quotidiano e un
archivio. La homepage, aggiornata quotidianamente, informa su ci che
di interessante succede e ha a che fare con le tre facce dellurbano (urbs,
civitas, polis); lorganizzazione in sezioni e vari livelli di cartelle consente
abbastanza facilmente il recupero dei documenti, non meno del piccolo
motore di ricerca interno.

2. Tanti cerchi

La gestione quotidiana del sito diventata il mio vero lavoro, al quale


dedico raramente meno di quattro o cinque ore al giorno, e spesso una
dozzina. Iniziato per un bisogno di condividere ci che mi sembrava
utile, bello o interessante, il sito diventato il centro di una serie di
cerchi via via pi larghi.
Il primo costituito dalle persone che hanno la capacit, il tempo
e il desiderio di svolgere tutte le mansioni necessarie alla sua gestione:
cercare il materiale da inserire, scaricarlo dalla rete, curarlo redazional-
mente, scrivere la breve presentazione, scegliere la cartella giusta in cui
inserirlo, aggiungere gli eventuali link ad altri documenti o redigere la
postilla di commento; inserirlo infine adoperando correttamente il pro-
gramma di gestione, e fare le opportune verifiche. Esse sono: Maria Pia
Guermandi, archeologa e organizzatrice culturale, diventata esperta di
urbanistica sul campo, e Fabrizio Bottini, eccezionale ricercatore uni-
versitario, che collabora a eddyburg fin dallinizio. Maria Pia ha passioni,
interessi, gusti cos vicini ai miei che mi sostituisce interamente nella
direzione quando io non sono disponibile. Fabrizio, cui il sito debito-
re di alcune cartelle tra le pi interessanti e complete165, affascinato dal-

165 Soprattutto le cartelle Testi per un glossario e Pagine di storia.

172
il mondo di eddyburg

le possibilit della rete e dalla realt di eddyburg (e dal suo programma di


gestione, eZpublisher), ha costruito un sito tutto suo (Mall) che pubblica
materiali sui problemi della distribuzione commerciale ma anche sulle
questioni della citt contemporanea e della cultura urbanistica viste in
un quadro internazionale. I contributi di Maria Pia e di Fabrizio, come
quelli degli altri collaboratori, sono firmati (con iniziali tra parentesi).
Solo la pigrizia tiene Vezio esterno al primo cerchio. Ma mi aiuta
considerevolmente, sia fornendomi indicazioni e suggerimenti, sia
confortandomi ogni volta che ho bisogno di una verifica di merito, che
riguardi la linea del sito oppure questioni di carattere pi disciplinare.
In qualche modo Vezio il primo dei numerosi appartenenti al secon-
do cerchio, costituito da persone, amici di vecchia data o diventati tali
grazie a eddyburg, che mi inviano materiali da pubblicare, oppure colla-
borano su mia richiesta a specifici argomenti166.
Un terzo cerchio costituito dai circa duemila frequentatori di
eddyburg che si sono iscritti per ricevere periodicamente la newsletter.
Un quarto cerchio, il pi largo di tutti, lo formano le persone che
frequentano il sito. Ogni giorno i visitatori sono ormai oltre duemila,
calando un po il sabato e la domenica. Suppongo che molti siano vi-
sitatori casuali, che arrivano a eddyburg perch cercano in un motore di
ricerca goulash oppure outlet, e sono certamente meno quelli che
utilizzano eddyburg come pagina preferita. Comunque direi che il sito
diventato, in Italia, il pi frequentato tra quelli che si occupano di urba-
nistica, citt, territorio.

3. La Scuola di eddyburg

Eddyburg non ha sponsor n ospita banner a pagamento: autofinanzia-


to. Questo pone qualche problema, perch molti sono i progetti (dalla
semplice manutenzione ordinaria alledizione internazionale) che
richiederebbero un po di soldi. Qualche anno fa uno degli amici pro-
pose: perch non organizziamo un piccolo corso estivo, impegnandoci

166 Tra questi voglio ricordare Dusana Valecic e Giorgia Boca, che sanno anche utilizzare
il programma di gestione del sito, Mauro Baioni, Paolo Berdini, Ilaria Boniburini, Giovanni
Caudo, Antonio di Gennaro, Stefano Fatarella, Georg Frisch, Maria Cristina Gibelli, Giuseppe
Palermo, Sandro Roggio, giancarlo Consonni e gli opinionisti Paolo Baldeschi, Lodo Mene-
ghetti, Carla Ravaioli e Giorgio Todde che assieme a Maria Pia e Vezio hanno il diritto di
inviare articoli con la massima autonomia, sicuri di vederli pubblicati e di restare sulla prima
pagina per un intero mese (gli altri scorrono, via via che la prima pagina si riempie, e slittano
in quelle successive e, naturalmente, nellarchivio ove tutto viene raccolto).

173
capitolo dodicesimo

volontariamente come docenti e destinando i proventi a eddyburg? Otti-


ma idea. Qualcun altro propose: perch non costituiamo unassociazio-
ne, per gestire la scuola e altre cose? Ottima idea anche questa. Orga-
nizzammo subito luno e laltra. La scuola funzion, lassociazione no.
Mauro Baioni, mio allievo e amico, si assunse il compito di organizzare
la scuola, e ne divenne il direttore. Nessuno si occup dellassociazione,
che poco dopo fall. Morale: le cose funzionano se c qualcuno che se
ne occupa con continuit e responsabilit.
La Scuola di eddyburg unesperienza che mi auguro andr avan-
ti per molti anni. Nata per finanziare il sito, come dicevo, ha invece
assunto, fin dalle prime edizioni, una finalit diversa: fornire ai parte-
cipanti chiavi di lettura critica delle trasformazioni territoriali e degli
strumenti di pianificazione. Le lezioni e le comunicazioni sono svolte
da docenti universitari e da altri esperti, che condividono le finalit di
eddyburg; molti di loro collaborano al sito; altri ne approfondiscono la
conoscenza partecipando alla Scuola. Aumenta cos il numero delle
persone che alimenta eddyburg con suggerimenti, scritti e diffusione
delle idee.
Ogni anno individuiamo un tema e un programma, li divulghiamo
tramite il sito e raccogliamo le adesioni167. Gli iscritti pagano le spese
vive e le quote per lospitalit dei docenti. Riuniamo ogni anno 30-40
studenti, in un luogo piacevole ma non distraente, in modo che si pos-
sa stare insieme nei quattro giorni del corso. Alterniamo le lezioni con
discussioni e lavori di gruppo. Gli studenti sono eterogenei, in preva-
lenza giovani laureati, dottorandi e funzionari pubblici, qualche libero
professionista e altre persone interessate alla materia. Alcuni studenti
hanno partecipato a pi sessioni della scuola. Con molti dei parteci-
panti restiamo in contatto; si arricchisce cos la rete di eddyburg, pre-
sente in tutte le regioni dItalia.
Eddyburg e la sua scuola hanno avuto un ruolo di qualche rilievo nel
dibattito generale sullurbanistica e il governo del territorio in Italia.
Parlare dei temi trattati in eddyburg e nella sua scuola significa perci
riprendere gli argomenti principali del dibattito sullurbanistica e sulla
politica dei nostri anni.

167 Nei primi cinque anni i temi affrontati sono stati: Il consumo di suolo (2005), La co-
struzione pubblica della citt (2006), Il paesaggio e i cittadini (2007), Che fare per rendere
la citt pi vivibile (2008), Spazi pubblici: declino, difesa, riconquista (2009).

174
il mondo di eddyburg

4. Sul terreno della societ

Eddyburg diventato un punto di riferimento. Non solo per gli urbanisti e


gli studiosi della citt ma anche per le persone e i gruppi che si impegna-
no a cambiare le cose che non funzionano nel modo di organizzare citt
e territorio. La domanda di aiuto, di collaborazione critica, di sostegno
alla formulazione di proposte alternative forte. Sono molto soddisfatto
di questa crescente richiesta di consigli, di solidariet, di presenza, seb-
bene mi sconforti non poterle soddisfare che in minima parte. Del resto,
avevo scritto un libro che si propone di spiegare con parole semplici
la citt e lurbanistica a chi non ne sa nulla, proprio per stimolare una
domanda in questo settore168. Sono convinto che ci sia molta ignoranza
da parte della stragrande maggioranza dei cittadini sulle ragioni che non
rendono soddisfacenti il loro habitat; una ignoranza che potr essere
superata solo quando la citt, le sue regole e gli strumenti a disposizione
per governarla saranno conosciuti fin dalla scuola di base. Il mio libro,
il sito e le attivit ad esso collegate lavorano in questa direzione.
Eddyburg stato coinvolto in varie circostanze e situazioni: con mol-
to interesse ha seguito la formazione della Rete toscana dei comitati
per la difesa del territorio, e ha partecipato ad alcune riunione per la
costituzione di unanaloga rete lombarda. Assieme allassociazione
Cantieri sociali-Carta Estnord, animata da Paolo Cacciari, e ad alcune
strutture della Cgil, rappresentate da Oscar Mancini, ha contribuito a
una iniziativa di critica al piano territoriale regionale di coordinamento
(ptrc) del Veneto, coinvolgendo numerose associazioni e comitati, e av-
viando la costituzione di unanaloga rete anche in Veneto169.
Lappello che su eddyburg Fabrizio Bottini e Maria Cristina Gibelli
avevano lanciato e gestito per la difesa del Parco Milano Sud, minaccia-
to dalle improvvide iniziative regionali, ha avuto un successo straordina-
rio. Grazie a questa esperienza, altre organizzazioni impegnate contro il
consumo di suolo ci avevano cercato perch sostenessimo una iniziativa
interessante, la costituzione di una rete di associazioni e gruppi di cit-
tadinanza attiva per combattere il consumo di territorio. nato cos un

168 Salzano, Ma dove vivi? La citt raccontata.


169 Liniziativa ha avuto come oggetto un piano della giunta di centrodestra del Veneto,
che abbiamo definito piano di cementificazione regionale, che prevedeva pesanti ulteriori
manomissioni del territorio, del paesaggio e dellambiente regionale. Nella critica, ampiamente
argomentata, siamo riusciti a coinvolgere migliaia di cittadini in decine di riunioni in moltissi-
me citt e paesi. Abbiamo raccolto pi di 14.000 osservazioni, firmate da altrettanti cittadini,
e coinvolto oltre un centinaio di associazioni, comitati e gruppi.

175
capitolo dodicesimo

movimento, che fa capo a un gruppo di bravissime persone dellAstigia-


no e a Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano. Fini-
guerra, con il suo comune, diventato famoso perch il primo, in Ita-
lia, che ha formato un piano urbanistico a crescita zero, cio che non
prevede nessuna espansione del paese. Significativo il fatto che il piano
sia stato preceduto da un lavoro con i cittadini sul bilancio comunale,
e che i cittadini abbiano accettato che le nuove attrezzature pubbliche
venissero finanziate sia con intelligenti risparmi dellamministrazione su
altri fronti, sia con un leggero aumento delle imposte comunali.
Col sostegno di eddyburg, Vezio De Lucia, Georg Frisch, Roberto De
Marco e altri hanno fatto uno splendido lavoro di analisi critica delle
devastazioni al territorio e alla democrazia promosse dal governo Berlu-
sconi e dal suo braccio armato, il commissario Bertolaso. Vezio e Paolo
Berdini sono il riferimento di moltissimi gruppi, comitati e associazioni
che lavorano, a Roma, per la difesa dellAgro romano e per la critica
agli effetti delle speculazioni immobiliari sulle condizioni di vita degli
abitanti. Antonio di Gennaro sempre in prima fila ogni volta che, in
Campania, bisogna sventare qualche minaccia di stravolgimento del ter-
ritorio e di devastazione dei patrimoni che esso contiene.
A Giulianova si era costituita, come ho gi raccontato, unottima
associazione, Il cittadino governante, promossa da un ex sindaco che
voleva difendere gli spazi e gli interessi pubblici a partire dalla difesa del
prg170: naturalmente siamo entrati in contatto con loro e li seguiamo,
come loro seguono eddyburg. Piero Bevilacqua e Paolo Berdini sono stati
tra i primi ospiti delle loro attivit culturali. Per conto mio, unaffollata
presentazione del mio Ma dove vivi?, e di un libro curato da Mauro Baio-
ni171, mi ha rivelato che le scelte urbanistiche dei vecchi piani cui avevo
collaborato negli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso erano diven-
tate le bandiere che il Cittadino governante difendeva, contro le pesanti
manomissioni (la svendita della citt al migliore offerente) dellattuale
giunta, ahim di centrosinistra.

Il nostro lavoro consiste sempre di pi nel mettere a disposizione


di chi si batte per una citt pi giusta, e vuole comprendere come farlo
in modo efficace, ci che i nostri studi e le nostre esperienze ci hanno
insegnato. Anche noi, portatori di saperi specialistici, impariamo dai
saperi diffusi sul territorio, con i quali collaboriamo.

170 Vedi capitolo 3, paragrafo 3.


171 La costruzione della citt pubblica, a cura di M. Baioni, Firenze, Alinea, 2008.

176
il mondo di eddyburg

5. Lideologia di eddyburg

Ideologia un termine screditato: uno dei tanti di questi anni carichi di


revisioni tese a cancellare la memoria del passato. Come ha scritto Al-
berto Asor Rosa,
se si intende per ideologia un credo cieco e catechistico sareb-
be stato bene lasciar estinguere quella parola. Ma se lideologia
un sistema di deali e di valori grazie ai quali la politica si mossa
per diversi decenni in vista di interessi generali e di obiettivi di
largo respiro, allora la sua estinzione non stata positiva. Quan-
do le grandi ideologie entrano in crisi, la politica si riduce a pura
amministrazione. E quando si riduce a pura amministrazione, la
gestione della macchina prevale sugli obiettivi che la stessa mac-
china dovrebbe proporsi. Insomma, lesercizio del potere per il
potere, senza alcuna motivazione ideale172.
Concordo con Asor Rosa, e intendo per ideologia quellinsieme di
credenze condivise da un gruppo e dai suoi membri che guidano linter-
pretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali173.
Penso che sia opportuno esporne i princpi, come sono enunciati in un
documento ufficiale del sito:
la consapevolezza del carattere eminentemente comune, collettivo,
pubblico della citt (e dellintero territorio urbanizzato) nel suo
insieme e nelle sue componenti pi significative, riassumibile
nellespressione citt come bene comune, e del diritto di tutti gli
abitanti presenti e futuri di goderne luso e di condividerne la
responsabilit, riassumibile nellespressione diritto alla citt.
Di conseguenza si sostiene
la prevalenza, nelle questioni attinenti il governo della citt e del
territorio, dellinteresse comune e generale su quello individuale,
in un equilibrato rapporto tra dimensione pubblica e dimensio-
ne privata della vita di ciascuno. Un ulteriore principio riguarda
lapplicazione della giustizia sociale al territorio: la ricerca
dellequit per tutti gli uomini (indipendentemente dalle condi-
zioni sociali, dal reddito, dal credo religioso, dallappartenenza
politica, dalletnia, lingua, cultura) nellaccesso ai beni comuni
territoriali e alla responsabilit del loro governo, con particolare
e prioritaria attenzione per i soggetti pi fragili.

172 A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di S. Fiori, Roma-Bari,
Laterza, 2009, p. 82.
173 T. A. van dijk, Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Roma, Carocci, 2004
(tit. orig. Ideology: A Multidisciplinary Approach, London, Sage, 1998).

177
Assieme alle affermazioni positive quelle critiche:
eddyburg promuove la critica allappiattimento di ogni dimen-
sione delluomo e della societ alle pratiche, agli interessi e ai
meccanismi di dominio delleconomia data, che caratterizza il
mainstream dellattuale processo di globalizzazione e di insoste-
nibile sfruttamento di tutte le risorse, e la rivendicazione della
necessit e possibilit di ricerca di alternative credibili e pratica-
bili e, ugualmente, la critica della concezione di uno sviluppo
basato sulla crescente e indefinita produzione di merci, indipen-
dentemente della loro effettiva utilit ai fini del miglioramento
del patrimonio individuale e sociale di cui sopra.

Eddyburg, infine, assume come proprio principio:


la condivisione dellimpegno a contribuire alla crescita della
capacit degli uomini di aumentare il proprio patrimonio, indi-
viduale e sociale, di responsabilit, consapevolezza, conoscenza,
sapienza, convivialit, capacit di comunicazione e interazione
con i propri simili.

178
Capitolo tredicesimo
Chi difende il paesaggio?

1. Lavventura della Sardegna

Nonostante il declino generale, ci sono anche in Italia amministrazioni


pubbliche che non hanno dimenticato le loro responsabilit n delegato
i poteri ai portatori di interessi economici, e fanno pulitamente il loro
mestiere. Essi applicano il metodo e gli strumenti della pianificazione
per governare il territorio nellinteresse generale. Con due amministra-
zioni di questo tipo mi capit di lavorare: la Regione autonoma Sarde-
gna e la Provincia di Foggia.
In Sardegna era stata approvata una serie di piani territoriali pro-
vinciali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali,
validi quindi agli effetti della legge Galasso del 1985. I piani erano stati
poi invalidati dal tribunale amministrativo regionale. Nel giugno 2004
vince le elezioni per il consiglio regionale Renato Soru, imprenditore e
creatore di Tiscali, con una lista che raggruppa le nove formazioni della
sinistra e del centro, fortemente caratterizzata dalla sua personalit e dal
suo programma. In novembre, il presidente Soru fa approvare dal con-
siglio regionale una legge che assoggetta temporaneamente allinedifica-
bilit tutte le coste sarde per una profondit di 2000 metri: un vincolo
di salvaguardia, in attesa di formare un piano paesaggistico ai sensi del
nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, entrato in vigore da
qualche mese174.

174 Decreto legislativo 22 gen. 2004, n. 42. Il Codice il testo legislativo che riassume e
sviluppa tutta la precedente legislazione in materia di beni culturali e di paesaggio. Per questul-
timo, il Codice riprende la normativa della legge Galasso.

179
capitolo tredicesimo

Immediatamente si alzano vivissime le proteste del mondo legato al-


le lottizzazioni turistiche gi approvate dai Comuni e ora bloccate dalla
legge: si tratta di decine di milioni di metri cubi, previsti in operazioni
in cui sono interessati potentati regionali, nazionali, internazionali, dai
patron della stampa locale a Berlusconi.
Soru non perde tempo. Elabora e fa approvare dalla giunta un do-
cumento, Linee guida per il piano paesaggistico regionale, che delinea
i contenuti e il percorso del piano paesaggistico. Costituisce un ufficio
per la redazione del piano, composto da alcune decine di tecnici trasferi-
ti da altri uffici della Regione e da un pugno di tecnici a contratto. Istitu-
isce un coordinamento tra gli uffici interessati e un comitato scientifico,
del quale mi invita a far parte175. Il comitato viene insediato nellaprile
2005. Soru illustra, in un breve intervento a braccio, la sue intenzioni.
A differenza di quanto faccio di solito, prendo appunti.
Ecco che cosa ci disse, dopo aver spiegato perch aveva scelto di
redigere il piano allinterno della Regione:
Che cosa vorremmo ottenere con il piano paesaggistico re-
gionale? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio
e le sue risorse, la Sardegna; la valorizzazione non ci interessa
affatto. Vorremmo partire dalle coste, perch sono le pi a ri-
schio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora
fra cento anni. Vorremmo che pezzi di territorio vergine ci so-
pravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversit, perch
un valore. Vorremmo che tutto quello che proprio della no-
stra isola, tutto quello che costituisce la sua identit sia conser-
vato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati
invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che
testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco,
i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi, tutto quello che rappresen-
ta il nostro paesaggio. Cos come siamo interessati a esaltare la
flora e la fauna della nostra isola. Siamo interessati a un turismo
che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo in-
teressati al turismo come elemento del mercato mondiale176.

Espresso in questi termini lo spirito che lo muoveva, il presidente


prosegu illustrando le altre ragioni, anche di ordine economico, che lo

175 Del comitato scientifico facevano parte alcuni urbanisti (Filippo Ciccone, Enrico Corti,
Roberto Gambino, Vanni Macciocco, Edoardo Salzano, Antonello Sanna), un antropologo
(Giulio Angioni), un archeologo (Raimondo Zucca), un botanico (Ignazio Camarda), un eco-
logo (Helmar Schenk), un giurista (Paolo Urbani), uno scrittore (Giorgio Todde). Lufficio era
diretto dallingegner Paola Cannas.
176 Lintervento in eddyburg, con il titolo LItalia che vorremmo.

180
chi difende il paesaggio?

spingevano alla tutela, e il tipo di turismo al quale era interessato:


Perch vogliamo questo? Intanto perch pensiamo che vada
fatto, ma anche perch pensiamo che sia giusto dal punto di
vista economico. La Sardegna non vuole competere con quel tu-
rismo che uguale in ogni parte del mondo (in Indonesia come
alle Maldive, ai Carabi come nelle isole del Pacifico), ma vede la
sua particolare specifica natura come una risorsa unica al mon-
do perch diversa da tutte la altre.

Dopo gli interventi dei membri della giunta regionale e di quelli del
comitato scientifico, Soru intervenne nuovamente:
Bisogna che siano chiari i princpi che sono alla base delle
linee guida. Il primo principio : non tocchiamo nulla di ci
che venuto bene. Poi ripuliamo e correggiamo quello che non
va bene. Rendiamoci conto degli effetti degli interventi sbagliati:
abbiamo costruito nuovi villaggi e abbiamo svuotato i paesi che
cerano: abbiamo costruito villaggi fantasmi, e abbiamo reso
fantasmi i villaggi che cerano. Dobbiamo sapere che facciamo
un investimento per il futuro. Dovremo calcolare gli effetti eco-
nomici della conservazione e della ripulitura. Oggi si costruisce
importando da fuori componenti ed elementi, il moltiplicatore
dellattivit edilizia si drasticamente abbassato. Lo aumente-
remo di nuovo se sapremo riutilizzare le tecniche tradizionali,
i materiali tradizionali, i saperi tradizionali per conservare e
ripulire. Dobbiamo essere capaci di far comprendere che tipo di
Sardegna abbiamo in mente.

Il comitato si riuniva un paio di volte al mese. Il personale delluffi-


cio era molto motivato e capace e, nel frattempo, aveva svolto un im-
portante lavoro di base, utilizzando anche il materiale prodotto dai piani
provinciali. Renato Soru era stato il creatore di Tiscali (il noto provider
informatico): era naturale poter contare su un alto livello di digitaliz-
zazione delle basi informative. Ciononostante, il lavoro non fu facile.
Difficolt si manifestarono su numerosi aspetti relativi allapplicazione
del Codice dei beni culturali e del paesaggio e alla necessit di rispet-
tare il termine di dodici mesi per il primo stralcio del piano, relativo
alle coste. Le questioni che ci occuparono di pi erano: la necessit di
concludere il primo stralcio del piano rinviando la pianificazione della
restante parte del territorio, ma prevedere al tempo stesso una struttu-
ra del piano che consentisse il suo facile completamento; lesigenza di
definire una normativa particolarmente stringente per il bene fascia
costiera, sovrapposta a quella delle categorie di beni e a quella degli
ambiti di paesaggio (comprendenti pi comuni limitrofi caratterizzati

181
capitolo tredicesimo

da unitariet di paesaggio); lintreccio tra i diversi criteri indicati dalla


legislazione, in particolare il rapporto tra la definizione di regole per le
diverse categorie di beni, analoghi in ogni parte del territorio, e quelle
relative ai diversi ambiti di paesaggio nei quali il territorio andava ar-
ticolato 177.

Sul rapporto tra categorie di beni e ambiti di paesaggio oppor-


tuno soffermarsi, poich si tratta di una questione sottesa al dibattito in
corso tra quanti si occupano di pianificazione del paesaggio.

2. La pianificazione del paesaggio tra top down e bottom up

Per tutelare il paesaggio con la pianificazione si tende solitamente a


seguire due criteri che, come spesso accade in Italia, vengono conside-
rati come alternativi anzich come punti di vista differenti che possono
convivere, integrandosi in un procedimento complesso, che la natura
stessa del territorio richiede. In altri termini potremmo dire che luno
prevede un andamento top down delle decisioni, partendo dal generale e
dal tipico, mentre laltro segue landamento opposto, dal locale e dallo
specifico. Il primo si concentra soprattutto nella individuazione di tipi di
elementi territoriali da sottoporre a tutela, laltro invece cerca di definire
la singolarit dei differenti paesaggi.
La prima tendenza, se cos vogliamo chiamarla, ha il suo riferimento
giuridico nelle sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968. Come il lettore
ricorder178, da quelle sentenze era emersa la legittimit costituzionale
di una procedura di vincolo che avesse quale suo punto di partenza
lindividuazione, da parte del legislatore, di determinate categorie di
beni a confine certo, ciascuna dotata di caratteristiche tali da giustifi-
care particolari limitazioni alle trasformazioni e utilizzazioni possibili.
Il compito successivo consisteva nella concreta individuazione sul ter-
ritorio dei beni appartenenti alle categorie, dei caratteri di ciascuna di
esse che dovevano essere conservati, di ci che eventualmente poteva
essere trasformato e delle regole della trasformazione. Questo era, ed ,
il compito della pianificazione paesaggistica.

177 Questi temi sono sviluppati e chiariti nei materiali sul piano paesaggistico regionale nel
sito della Regione, nonch nel mio documento La filosofia del piano, in eddyburg.
178 Vedi capitolo 4, paragrafo 5.

182
chi difende il paesaggio?

La legge 431 del 1985 (la legge Galasso) era intervenuta in armonia
con questo criterio, e aveva definito un elenco di categorie di beni da
tutelare nellinteresse nazionale, perch costitutivi della grande orditura
del paesaggio della Penisola: i monti, le coste, i corsi dacqua, i boschi,
i ghiacciai, i vulcani, le aree archeologiche ecc. La legge, oltre a elencare
le categorie di beni e porre un vincolo provvisorio su fasce di territorio
geometricamente definite179, stabiliva che la vera tutela intervenisse
mediante la pianificazione, alla quale veniva assegnato il compito di pre-
cisare lindividuazione e articolare la tutela in relazione alle caratteristiche
specifiche dogni categoria di beni.
La Corte costituzionale aveva riconosciuto la piena legittimit di
quel dispositivo. Non solo. In pi occasioni aveva dichiarato neces-
sario che lindividuazione dei beni e la definizione delle regole per la
loro tutela proseguisse sistematicamente: la legge, ha affermato la Corte,
introduce una tutela del paesaggio improntata a integralit e globalit,
vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dellintero territorio
nazionale180. Essa non si esaurisce nelle grandi componenti del paesag-
gio nazionale, ma deve prolungarsi nellazione assidua di tutte le istitu-
zioni della Repubblica: quindi anche le Regioni, le Province, i Comuni.
Nelle stesse occasioni la corte aveva riconosciuto come, in confor-
mit con larticolo 9 della Costituzione, le scelte relative alla tutela del
paesaggio avessero assoluta prevalenza rispetto a quelle concernenti
altri interessi, esigenze, motivazioni: esse sono un prius rispetto alle
decisioni di trasformazione. La pianificazione paesaggistica (o la com-
ponente paesaggistica della pianificazione territoriale e urbanistica) deve
precedere le componenti che attribuiscono al territorio capacit di svi-
luppo urbanistico, che prevedono cio la realizzazione di infrastrutture,
urbanizzazioni, edificazioni.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio aveva ripreso inte-
gralmente la disciplina della legge Galasso, introducendo un ulteriore
elemento: lindividuazione degli ambiti di paesaggio. Questi non sono
precisamente definiti dalla legge, e anzi il loro ruolo si ridotto nelle
successive versioni del Codice. Nella sostanza essi fanno tuttavia riferi-
mento a quellaltro criterio di analisi e trattamento del paesaggio cui ho

179 Il vincolo provvisorio, consistente nellobbligo di acquisire il parere delle soprintenden-


ze ai beni culturali per ogni progetto di trasformazione, era stabilito, ad esempio, per una fascia
di 300 metri per le coste marine e lacustri, 150 metri per i corsi dacqua, per le aree di monta-
gna superiori a una certa quota. Si trattava, come si disse allora, di sciabolate, di indicazioni
rozze, in attesa degli approfondimenti della pianificazione paesaggistica.
180 Sentenza costituzionale n. 151 del 1885. Si veda anche la sentenza 327 del 1990.

183
capitolo tredicesimo

sopra accennato: un criterio che pone laccento sulla specificit di ogni


contesto territoriale, e sullo stretto intreccio tra le varie componenti del
paesaggio e tra queste e la societ che li ha prodotti e che li utilizza.
Assumere questo criterio significa avere un atteggiamento pi pro-
gettuale, pi orientato alla definizione di regole che tengano conto delle
concrete esigenze della societ che usa i territori, alle declinazioni locali
degli elementi di territorio riconducibili alle diverse categorie tipizzate.
Non a caso, il Codice attribuisce al piano paesaggistico, proprio in rela-
zione degli ambiti di paesaggio, il compito di individuare le linee di
sviluppo urbanistico ed edilizio, in funzione della loro compatibilit con
i valori paesaggistici riconosciuti e tutelati (articolo 135).
Il criterio degli ambiti di paesaggio riconducibile a un altro tema,
che anima molte discussioni nel mondo dei cultori della pianificazio-
ne del paesaggio. il tema introdotto dalla Convenzione europea del
paesaggio181, la quale, nella definizione stessa di paesaggio, attribuisce
particolare rilevanza alla nozione di territorio come percepito dalle po-
polazioni. un tema delicato, sul quale torner tra poco. Per ora mi li-
miter ad affermare che in Sardegna eravamo terrorizzati al pensiero di
quale fosse la percezione del paesaggio nei comuni le cui amministra-
zioni, col consenso dei cittadini, avevano devastato le coste della Gal-
lura. Trovammo comunque un corretto equilibrio applicando entrambi
i criteri. Individuammo puntualmente gli elementi del paesaggio che
costituivano categorie di beni meritevoli dessere tutelati per le loro
caratteristiche tipiche, e per ciascuna di esse stabilimmo precise regole
di conservazione e trasformazione. E individuammo, con altrettanta at-
tenzione alle relazioni tra le diverse componenti del paesaggio e la loro
matrice storica, gli ambiti di paesaggio, cui attribuimmo un insieme di
prescrizioni, direttive e indirizzi che dovevano guidare le successive fasi
della pianificazione, alle quali procedere in collaborazione tra Regione e
Comuni, naturalmente rispettando le regole dettate dal primo criterio.
Il primo stralcio del piano, quello relativo agli ambiti costieri182, fu
adottato dalla giunta regionale nei tempi stabiliti. Seguirono le fasi della
pubblicazione, delle numerose riunioni con i Comuni per illustrare il
piano e chiarirne gli aspetti pi nuovi, e infine delle controdeduzioni.
Il piano fu approvato definitivamente il 6 settembre 2006. Tentativi
dellopposizione di destra di invalidarne i risultati non ebbero successo,

181 La Convenzione europea sul paesaggio, sottoscritta a Firenze nel 2000, stata ratificata
dallo Stato italiano con la legge 9 gen. 2006, n. 14.
182 Essi comprendevano circa 140 Comuni, raggruppati in 27 ambiti. Alcune delle norme
erano estese anche alle parti di territorio ricadenti negli ambiti interni.

184
chi difende il paesaggio?

poich la giustizia amministrativa, cui gli avversari serano appellati, die-


de ragione ai difensori del piano. Il Tar afferm, nella sua sentenza, che
nella regione non si era visto, fino ad allora, uno studio cos articolato,
vasto e dettagliato, capace di mettere insieme e correlare una molteplici-
t di discipline che concorrono alla conoscenza e gestione del territorio,
geografia, storia, archeologia, architettura, demo-antropologia, beni cul-
turali e ambientali etc.183.
Parallelamente alle ultime fasi delliter procedurale del primo stralcio
del piano (relativa agli ambiti costieri), proseguiva il lavoro di completa-
mento relativo agli ambiti interni. Ma alla fine, i reiterati tentativi da parte
di alcune componenti della maggioranza di ritardare lapprovazione del
secondo stralcio del piano indussero Soru a dare le dimissioni. Si giunse
allo scioglimento del consiglio e a nuove elezioni. Soru fu sconfitto.
La discussione sulle ragioni della vittoria della destra berlusconiana
ancora aperta. Una parte di errori li ha certamente fatti il presidente
uscente, il quale si preoccupato pi della sostanza delle decisioni che
del consenso; ma in misura determinante ha influito la pervasiva ideolo-
gia dominante nellet berlusconiana, che ha contaminato in Sardegna
come nel resto dItalia unestensione pi larga di quella elettorale.

3. Il paesaggio percepito

Al paesaggio dedicammo la terza edizione della Scuola di eddyburg


(nel 2007). Guardammo al tema secondo un approccio diverso, non
tanto sugli strumenti, quanto sugli attori. Ci domandammo: chi difende
il paesaggio, a chi spetta la sua difesa?
Il lavoro fu articolato in tre sessioni: la prima dedicata, come di con-
sueto, al Glossario (al significato e allutilizzo di parole chiave della
pianificazione paesaggistica, che nel corso di questi ultimi anni hanno
subto uno slittamento e talvolta uno svuotamento semantico; la secon-
da sessione allillustrazione delle iniziative promosse dalle amministra-
zioni regionali della Sardegna e della Puglia; la terza infine approfondiva
il tema delle relazioni tra istituzioni, cittadini, associazioni e movimenti
per la tutela del paesaggio.
Il punto sul quale il dibattito mi sembr particolarmente interessan-
te fu linterpretazione di quella definizione della Convenzione europea
cui ho accennato: la concezione del paesaggio come ci che viene percepito

183 Sentenza 11 giu. 2009, n. 979, Tar Regione Sardegna.

185
capitolo tredicesimo

dalle popolazioni locali. una definizione che, letta nel contesto italiano,
molto ambigua e tendenzialmente pericolosa. Per un verso, essa pone
laccento su due verit difficilmente controvertibili: la prima che il
paesaggio certamente il risultato della plurisecolare azione del lavo-
ro e della cultura delluomo (della societ) sulla natura, nel corso della
quale essa stata foggiata acquisendo le forme che ne determinano la
qualit; la seconda, che una tutela efficace del paesaggio si potr avere
solo quando le articolazioni della societ saranno capaci di far prevalere
lesigenza della conservazione dei propri paesaggi sulle trasformazioni
finalizzate al soddisfacimento di interessi individuali, prevalentemente
economici.
Ma a fronte di queste verit ve ne sono altrettante di segno opposto.
Nella civilt contemporanea il rapporto tra luomo e la natura si radi-
calmente modificato. Da qualche secolo, la societ adopera il territorio
e lambiente naturale non come qualcosa che ha valore in s, per le sue
qualit intrinseche, per il patrimonio che costituisce, ma solo per le
risorse che pu trarne, estraendo le ricchezze nascoste nelle sue profon-
dit fino al loro esaurimento, cancellando la naturalit con ledificazione
di manufatti utili allincremento della ricchezza del proprietario, trascu-
randone la cura e la manutenzione. La spinta della valorizzazione eco-
nomica, intesa come utilizzazione privatistica dellenorme differenziale
economico che esiste tra terreno rurale e terreno edificabile, orienta la
percezione delle popolazioni verso prospettive radicalmente diverse
da quelle che hanno caratterizzato le civilt che, in Italia e altrove, han-
no costruito e mantenuto nei secoli bei paesaggi.
Il mio punto di partenza era laffermazione dellinteresse generale al-
la tutela del paesaggio, che vedevo espressa limpidamente nellarticolo 9
della Costituzione. Mi spingeva in questo senso anche la mia esperienza
di amministratore, durante la quale avevo trovato nella Soprintendenza
ai beni culturali e nella Regione sponde cui ricorrere ogni volta che gli
interessi locali spingevano in direzione opposta a quella della tutela di
patrimoni comuni. Mi interessava quindi il punto di vista di chi aveva
un approccio diverso, come Paolo Baldeschi184.
Nel suo intervento, Baldeschi part dalla constatazione che le politi-
che sul paesaggio sono sempre pi rivolte ai cittadini come attori, come
testimoniano sia la Convenzione europea sul paesaggio, sia i comitati

184 Paolo Baldeschi opera presso luniversit di Firenze, nellambito del Laboratorio di pro-
gettazione ecologica degli insediamenti (Lapei) diretto da Alberto Magnaghi. A Magnaghi e al
Lapei fa capo la pi interessante esperienza italiana di progettazione del paesaggio bottom up,
che parte da una lettura diretta del territorio e partecipata con gli abitanti dellarea di studio.

186
chi difende il paesaggio?

che si mobilitano per difendere il loro paesaggio (Baldeschi attivo


anche nella Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio). Sotto-
line che la Convenzione europea
indubbiamente importante da un punto di vista politico per-
ch pone le popolazioni al centro della nozione di paesaggio,
ma apre problemi spinosi dal punto di vista della pianificazione.
In particolare occorre rispondere a tre domande: a) come arti-
colare il territorio in determinate parti?; b) cosa significa per-
cepire un territorio (o, se si preferisce, un territorio percepito)?;
c) quali popolazioni?185.

Non esiste pi un legame biunivoco e quasi esclusivo tra una popo-


lazione e una parte del territorio. Le articolazioni del territorio significa-
tive dal punto di vista dei caratteri paesaggistici e ambientali non han-
no alcuna relazione con specifiche societ locali, e del resto lo stesso
concetto di societ locale, intesa in senso comunitario, contraddetto
da stili di vita e comportamenti in cui il territorio viene vissuto come
una rete fatta di relazioni e di nodi, piuttosto che di aree compatte.
Il ragionamento avviato da Baldeschi rinviava a due questioni.
Da un lato, il fatto che linteresse per un determinato paesaggio (e in
primo luogo la sua percezione) non pu essere considerato appannag-
gio solo della popolazione che lo abita. Si apre qui il tema della interscala-
rit, del rapporto necessario cio tra le varie scale e livelli: come spesso
ripeto, ciascuno di noi appartiene a pi patrie, al suo paese o citt, alla
nazione, allEuropa, al pianeta. Dallaltro lato, troppo spesso si sono
completamente dissolti i legami tra la popolazione di oggi e quella che
ha costruito quel paesaggio; in particolare, la vita sociale e la cultura
dominante fanno oggi prevalere nettamente gli interessi dello sfrutta-
mento economico, generalmente distruttivi del paesaggio, su quelli della
bellezza e della conoscenza, e hanno fatto scomparire la virt della par-
simonia. Come ha scritto Vezio De Lucia, fra lo sviluppo e il paesaggio
in corso una guerra mondiale che non finisce mai, e che il paesaggio
continua a perdere. () Anche nella pi limpida delle circostanze, il pa-
esaggio quasi sempre costretto alla resa se sono in gioco nuovi posti
di lavoro, incremento del reddito, prospettive turistiche186. Lo hanno
testimoniato del resto, nelle stesse giornate della scuola, molti interven-
ti: Dario Predonzan descrisse le devastazioni in corso in una regione dal

185 Vedi in eddyburg il testo di Baldeschi, Territorio e paesaggio nella disciplina paesaggistica, nei
materiali sulledizione 2007 della Scuola.
186 V. De Lucia, A proposito di paesaggio, in eddyburg.

187
capitolo tredicesimo

passato virtuoso come il Friuli Venezia Giulia, Sandro Roggio descrisse


la Sardegna prima di Soru.
Aiuta a maneggiare quella controversa definizione linterpretazione
che ne d Alberto Magnaghi in uno scritto presentato alla Scuola187:
la Convenzione europea del paesaggio apre la strada allo svilup-
po della coscienza di luogo: dar voce alla percezione sociale del
paesaggio e dei suoi valori da parte delle popolazioni attraverso
processi partecipativi. (...) I processi partecipativi tuttavia devo-
no tener conto del fatto che:
- la designazione di paesaggio come determinata parte del ter-
ritorio cos come percepita dalle popolazioni (Convenzione
europea), un processo e non un dato, un processo di presa di co-
scienza che il paesaggio stato costruito dalle generazioni pas-
sate ed trasformato da quelle presenti anche per quelle future;
- non si d nei territori locali una identificazione stretta fra po-
polazioni e luoghi: si d una molteplicit socio-culturale dei luo-
ghi dellabitare; abitanti significa abitanti locali ma anche
nuovi, residenti stabili, ma anche temporanei, ospiti, city users,
presenze multietniche, giovani, anziani, ecc., con percezioni dif-
ferenziate e a volte conflittuali dei valori del paesaggio.

La pianificazione non pu quindi ridursi, prosegue Magnaghi,


alla semplice registrazione di una percezione data, ma un pro-
cesso euristico di decodificazione e ricostruzione di significati,
attraverso lapprendimento collettivo del paesaggio come bene
comune, facendo interagire saperi esperti e saperi contestuali per
il riconoscimento da parte dei diversi attori dei valori patrimo-
niali e per innescare patti per la cura e la valorizzazione del patri-
monio. Non si d infatti la gestione di un paesaggio come bene
comune se il risultato di una somma di azioni individuali detta-
te da interessi particolari. necessario un processo partecipativo
che avvii una trasformazione culturale di riconoscimento condiviso dei
beni comuni per agire le trasformazioni del paesaggio e la fruibi-
lit collettiva di beni in via di privatizzazione: il paesaggio agrario,
le coste, gli spazi pubblici delle citt, i fiumi, le foreste.

E se la percezione del paesaggio non il punto di partenza, ma


lobiettivo di un processo euristico, di un percorso aperto da costruire
per ipotesi e tentativi modificati e aggiustati, allora evidente che oc-
corre operare sui versanti sia della consapevolezza di chi vive il paesaggio

187 Il testo poi ripreso nella relazione generale dello Schema del piano paesaggistico terri-
toriale della Regione Puglia adottato dal consiglio regionale nellottobre 2009.

188
chi difende il paesaggio?

a distanza pi ravvicinata, sia della salvaguardia dallalto della perma-


nenza nel tempo delle componenti essenziali del patrimonio paesaggi-
stico. Del resto, anche le esperienze positive come il piano paesaggistico
regionale della Campania, illustrato da Stefano De Caro e Antonio di
Gennaro, e le iniziative in corso da parte della Regione Puglia, raccon-
tate da Angela Barbanente, confermavano in me la linea dazione che
stavamo praticando in Sardegna.

indispensabile procedere in entrambe le direzioni: dallalto, Stato e


Regioni, perch a essi spetta tutelare gli interessi delle comunit pi vaste
e perch costituiscono i poteri almeno in teoria meno sensibili agli
interessi pi miopi; contemporaneamente, dal basso occorre promuovere
la crescita della consapevolezza, che trasformi le popolazioni in attori re-
sponsabili della tutela del territorio, che loro quanto nostro.

4. La sorpresa di Foggia

Due ragioni ci avevano spinto a svolgere in Puglia ledizione 2007 della


Scuola. In quella regione si era costituita una giunta regionale che co-
me ho accennato aveva preso molto sul serio la pianificazione del ter-
ritorio e del paesaggio. Lassessore Barbanente era stata scelta dal presi-
dente della Regione, Nichi Vendola, proprio perch esperta di quel me-
stiere; a sua volta, Barbanente aveva costituito una buona squadra per la
pianificazione del paesaggio, coordinata da Alberto Magnaghi, e aveva
chiamato a dirigere lufficio del piano Piero Cavalcoli, organizzatore
dellefficientissimo ufficio bolognese che aveva condotto la migliore
operazione di pianificazione provinciale dItalia. In quella stessa regione,
per la Provincia di Foggia, stavo lavorando da qualche anno per una
pianificazione territoriale largamente orientata alla tutela del paesaggio.
Lesperienza fu interessante, per ragioni diverse da quella della Sar-
degna. Foggia suscitava echi lontani nella mia memoria. Limpresa della
mia famiglia aveva lavorato a lungo nelle bonifiche del Tavoliere e di
Manfredonia, a partire dai primi decenni del Novecento. Ricordo che
una volta avevo sei o sette anni mio padre mi port con s a pranzo
nel ristorante del famoso Albergo Cicolella. Pi tardi, ero stato a Foggia,
e nella vicina Cerignola, col mio amico Peppe Pavoncelli, della famiglia
di industriali agrari188. Quando il capo di gabinetto del presidente della

188 Vi ho accennato nel Prologo, paragrafo Villa Pavoncelli.

189
capitolo tredicesimo

Provincia (Franco Mercurio, allievo dello storico Piero Bevilacqua) mi


chiese di coordinare il lavoro per il piano, accettai: naturalmente alla
solita condizione, di poter cio costituire un forte e motivato ufficio
che fosse protagonista della progettazione e della gestione. La mia pro-
posta fu accolta, e cos lelenco di consulenti che avrebbero affiancato
lufficio189. Il dirigente dellufficio, larchitetto Stefano Biscotti, impieg
tutta la generosit, limpegno, la conoscenza degli uffici e la capacit di
rapportarsi con gli assessori per cercare di costituire un ufficio adegua-
to, e opportunamente attrezzato. Furono assunti con contratti precari
tre giovani laureati che si rivelarono una vera risorsa190. Ma dovettero
passare molti anni prima che Biscotti riuscisse a ottenere per loro una
stabilit di ruolo e un compenso non troppo incongruo rispetto alle
mansioni che avevano imparato a svolgere.
In poco tempo riuscimmo a costruire un sistema informativo terri-
toriale, nel quale furono sistematicamente versati i dati noti o apposita-
mente prodotti: un sistema ovviamente aperto anche ad altri potenziali
utilizzatori. Una buona e utile sinergia si realizz anche con lottimo
ufficio di pianificazione territoriale della Provincia di Bologna.
Consegnammo una bozza di piano nel luglio 2003. Passate le ele-
zioni, la maggioranza non cambi, la nuova giunta provinciale approv
la bozza (senza peraltro mai discuterla nel merito) e andammo avanti.
Concludemmo la redazione del piano (con un faticoso lavoro di adegua-
mento alla nuova legislazione nazionale e regionale che era intervenuta
nel frattempo) nel 2007. Ma il consiglio provinciale giunse alla scadenza
del suo mandato senza approvarlo. Evidentemente, al di l delladempi-
mento a un obbligo di legge esso non interessava a nessuno.
Nel 2008 ci furono le elezioni per il rinnovo del consiglio. Vinse
unalleanza di centrodestra: assessore allurbanistica un giovane ricerca-
tore universitario di economia, dellarea di Alleanza nazionale, Leonardo
di Gioia. Studi il piano, lo consider uno strumento utile per evitare di
rincorrere i progetti e i finanziamenti estemporanei derivanti dalle di-
verse iniziative amministrative settoriali, ne condivise gli orientamenti e
le scelte. Nel giro di pochi mesi liter del piano fu concluso e approvato

189 Collaboravano sistematicamente con me Luigi Scano, per gli aspetti normativi, e Mau-
ro Baioni, soprattutto come trainer dei collaboratori interni e collegamento con lufficio.
Gli esperti erano: Antonio di Gennaro, agronomo e appassionato cultore del paesaggio; Sa-
verio Russo, storico; Stefano Ciurnelli, esperto di infrastrutture e trasporti; Gianfranco Viesti,
economista; Luigi Pennetta, geologo. A questi si aggiungevano altri esperti locali per consu-
lenze pi specifiche. Pi tardi, dopo la scomparsa di Gigi Scano, subentrarono Luca De Lucia
e Maurizio Sani.
190 Erano Giovanna Carat, Cosma Lovascio, Mirella Vitale.

190
chi difende il paesaggio?

allunanimit dal consiglio provinciale. Ancora qualche mese e vedem-


mo il nostro piano provinciale perfettamente composto (e accolto) nel
piano regionale, e potemmo verificare che il piano strategico era costru-
ito come precisa attuazione delle scelte nel piano provinciale191.
Un successo, quindi, per quanti avevano lavorato, ma per chi aveva
alle spalle una storia come la mia, un successo amaro: era stata una
maggioranza di destra a completare con determinazione una vicenda
che la giunta di centrosinistra aveva considerato marginale e sostanzial-
mente inutile.
E un insegnamento. Le carte si sono rimescolate: quando la sinistra
e il centro abbandonano il buon governo del territorio non detto che
non ci sia qualcuno, sul fronte opposto, che si impadronisca del buon-
senso e dei suoi strumenti.

Foggia e la Sardegna sono state (per ora) le mie ultime esperienze


professionali impegnative. Gi da qualche tempo la maggior parte delle
mie energie era indirizzata allo strumento che mi consentiva di allar-
gare, contemporaneamente, la rete della mia attivit didattica e quella
delle persone che condividevano i miei interessi, le mie paure e le mie
speranze: il sito web eddyburg. attorno a eddyburg che si intrecciavano
sempre pi strettamente gli eventi della politica urbanistica italiana ed
con eddyburg che cercavamo di intervenire su di essa.

191 In Italia, molto spesso, i piani strategici non sono meramente tattici (non consistono cio
in un semplice elenco di opere), ma sono in contraddizione rispetto agli atti di vera e propria
pianificazione comunale, provinciale e regionale.

191
192
Capitolo quattordicesimo
Urbanizzazione a go go

1. La mistificazione dei diritti edificatori

Allinizio di questo secolo venne presentato il nuovo prg di Roma, in


gestazione da oltre un decennio. Il gruppo di amici romani, che fa capo
a Vezio De Lucia e a Paolo Berdini, aveva seguito da tempo la politica
urbanistica romana. Questa era stata caratterizzata, a partire dalla met
degli anni Novanta, dagli accordi definiti volta per volta con gli interessi
immobiliari, assumendo lo slogan del pianificar facendo: in sostanza,
adottando la prassi di definire le scelte sulluso del suolo con singoli atti
slegati da ogni coerenza complessiva. In questo modo, approfittando
delle smagliature introdotte nella legislazione urbanistica per consentire
deroghe alle regole garantiste della pianificazione, era stata autorizzata
ledificazione di 44 milioni di metri cubi, in aggiunta alle gigantesche
previsioni edificatorie del vecchio piano del 1962 e delle successive va-
rianti192.
I miei amici avevano dedicato unintera estate ad analizzare il nuovo
piano, adottato dalla giunta e in corso di pubblicazione. I dati emersi
erano impressionanti. In una citt nella quale la popolazione tende a de-
crescere, i volumi aggiuntivi realizzabili previsti dal piano ammontavano
a quasi 67 milioni di metri cubi, mentre i nuovi spazi urbanizzabili mi-
suravano quasi 15.000 ettari (una superficie superiore allintero comune

192 I difensori del nuovo prg sostengono che nel complesso i volumi edilizi del piano non
sono aumentati rispetto a quelli del 1962-65. Essi per computano, tra le cubature pregresse
cui fanno riferimento, anche le vastissime zone destinate dal vecchio piano a servizi pubblici
generali (le zone M1). Quindi ammettono almeno un poderoso trasferimento da edificabilit
pubblica a edificabilit privata.

193
capitolo quattordicesimo

di Napoli), con un incremento del 45%193: un immenso consumo di


suolo, la devastazione delle ampie porzioni residue del mitico Agro ro-
mano, celebrato dalla cultura mondiale. E un vistoso regalo agli interessi
immobiliari, che riprendevano saldamente nelle loro mani il bastone del
comando.
Ci che soprattutto indignava era la formulazione, che Campos Ve-
nuti aveva sviluppato e ampiamente propagandato, di una tesi del tutto
infondata: che una volta cio che un piano urbanistico avesse assegna-
to ledificabilit a unarea, questo attributo diventava un titolo che non
poteva esser tolto al proprietario senza indennizzo adeguato. Era stata
coniata lespressione diritti edificatori, mai adoperata prima nel diritto
italiano. Mi misi a studiare, con i suggerimenti e i testi che mi forniva
Gigi Scano, per comprendere come la giurisprudenza avesse trattato la
questione. Scoprii che le cose erano radicalmente diverse da quanto gli
autori del prg di Roma sostenevano. giurisprudenza costante che il
Comune possa, con un nuovo piano, modificare ampiamente le previ-
sioni di un piano precedente, non soltanto nel caso di un piano generale
(come il prg) ma anche di un piano di lottizzazione privata per il quale
sia gi stata stipulata con i proprietari una convenzione a norma di leg-
ge. In questultimo caso, ovviamente, necessario indennizzare il pro-
prietario per le spese che ha legittimamente sostenuto (e che in grado
di documentare), relative allattivazione del piano.
Esposi le mie conclusioni in una relazione, sulla quale concord,
esprimendo un parere pro veritate, il professor Vincenzo Cerulli Irelli,
esperto di diritto amministrativo. La illustrai in un convegno di Italia
Nostra. Naturalmente le nostre convinzioni furono comunicate al
sindaco Walter Veltroni il quale, dopo qualche cortese ringraziamento,
and avanti per la sua strada. I miei amici, con lappoggio delle associa-
zioni ambientaliste (soprattutto Italia Nostra), di decine e decine di co-
mitati cittadini sorti un po ovunque nelle periferie romane, e di eddyburg
riuscirono a far divampare unaccesa polemica e una forte reazione po-
polare. Ma la marcia trionfale del piano non era terminata. Sorgevano
ovunque palazzoni in aree prive di servizi, di spazi pubblici, di efficaci
collegamenti, mentre il problema della casa per chi non aveva reddito
sufficiente per accedere al mercato privato continuava a non essere

193 I dati sono tratti dalla relazione Troppo consumo di suolo nel nuovo prg di Vezio De
Lucia, Alessandro Abbaterusso, Georg J. Frisch e Andrea Giuralongo, presentata alla stampa il
16 set. 2002 e condivisa con lassociazione Polis, Italia Nostra, Comitato per la bellezza,Vas
e Wwf. In eddyburg.

194
urbanizzazione a go go

risolto. Tutto ci stato raccontato da Paolo Berdini194 e nellottimo


servizio realizzato da Paolo Mondini per il programma Report di Rai3
curato da Milena Gabanelli195.
La presunta impossibilit di cambiare le decisioni del passato aveva
fornito un ulteriore decisivo sostegno a un modo tutto nuovo di piani-
ficare, basato esclusivamente, o quasi, sulla contrattazione con la pro-
priet privata. In unoccasione pubblica, riferendomi alla molteplicit
di piani anomali, derogatori della classica pianificazione urbanistica,
elaborati e messi a punto negli anni di Tangentopoli e approvati a getto
continuo in quelli immediatamente successivi, osservavo che ci che
accomuna la quasi totalit di questi piani anomali che
enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebra-
no il contingente e sacrificano il permanente, assumono come
motore linteresse particolare e subordinano ad esso linteresse
generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e
disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le
metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di
pianificazione anomali quello di consentire a qualunque
intervento promosso da attori privati di derogare dalle regole
comuni della pianificazione ordinaria. Di derogare cio dalle
regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al
quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza
(ossia della pubblicit delle decisioni prima che divengano effica-
ci e della possibilit del contraddittorio con i cittadini)196.

Su questa linea si era proceduto. Il prg di Roma era un buon passo


avanti in direzione del passato pi oscuro.
Era stato preceduto da una iniziativa del Comune di Milano, tesa a
superare in modo ancora pi esplicito i principi e il metodo della pia-
nificazione pubblica, mediante laccordo preliminare con la propriet
immobiliare, teorizzandolo con chiarezza. Ecco cosa era successo.
Un colto e intelligente urbanista, Luigi Mazza, consulente del Comune

194 P. Berdini, Roma tra pianificazione e contrattazione, Contesti, 2 (2008), p. 79-88.


195 Il servizio si chiamava I re di Roma e fu trasmesso il 25 mag. 2008; visibile nel sito
di Report.
196 E. Salzano, Il paesaggio, la storia, luomo, relazione alla 1 Conferenza nazionale per il
paesaggio, Roma, 14-16 ott. 1999, in eddyburg. Mi riferivo ai Programmi integrati, ai Pro-
grammi di recupero urbano, ai Programmi di riqualificazione urbana (pru), ai Contratti di
quartiere, agli Accordi di programma quadro, ai Contratti di programma, ai Patti territo-
riali, ai Contratti darea, ai Programmi straordinari di edilizia residenziale e ai Programmi
di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio (prusst), le cui anticipazioni
erano avvenute negli anni del craxismo ma che erano diventati prevalenti sulla pianificazione
ordinaria a partire dal 1992.

195
capitolo quattordicesimo

di Milano, aveva proposto agli amministratori un modello alternativo


alla pianificazione tradizionale, consistente nel decidere le trasforma-
zioni urbane accogliendo le proposte dei promotori immobiliari, inqua-
drate in un documento strategico a maglie larghissime, poco pi di un
ideogramma. Il Comune aveva accolto il suggerimento e approvato un
documento, Costruire la grande Milano, sul quale si apr subito una
vivace polemica. Io svolsi una relazione sullargomento in un convegno
dellassociazione Polis tenuto a Salerno (2001); intervenni poi, in giugno
in un seminario presso la facolt di architettura di Roma Tre, nel corso
del quale Mazza illustr il suo documento. Lo criticai, sostenendo che
il nuovo modello di pianificazione si proponeva di rendere il regime
delle trasformazioni urbane certo per il privato, e flessibile per il pubblico,
a vantaggio degli interessi del privato e che ci avrebbe provocato una
giungla nella quale solo gli interessi forti sarebbero stati premiati a dan-
no dellinteresse generale. Precisai il mio punto di vista in un ampio ar-
ticolo sulla rivista Urbanistica, in contraddittorio con Mazza197. Pochi
intervennero criticamente: linnovazione milanese incontrava lo spirito
dei tempi, cui lurbanistica ufficiale era sensibile.

Il coronamento della linea di privatizzazione e mercificazione delle


scelte sulla citt e il territorio fu costituito dalla proposta di legge per il
governo del territorio dellonorevole Maurizio Lupi, di Forza Italia.

2. La legge Lupi e il consumo di suolo

Le antiche proposte e le animate battaglie per la riforma urbanistica era-


no ormai lontane. Non erano pi Fiorentino Sullo e Giacomo Mancini
i protagonisti, non erano pi il Pci e il Psi gli interlocutori delle nostre
proposte di legge urbanistica. Il terreno era molto diverso. Si discuteva
ormai sulle proposte di una destra che ventanni prima era inimmagina-
bile. Al centro dellattenzione, allinizio degli anni 2000, la legge Lupi.
Nomen omen.
La proposta di riforma del governo del territorio del centrodestra
fu presentata da Maurizio Lupi nel 2003. Lesponente di Forza Italia
veniva dalla Lombardia, dove era stato assessore allo sviluppo del
territorio a Milano. Era facile comprendere la legge conoscendo il
modello lombardo, elegantemente presentato da Luigi Mazza pochi

197 E. Salzano, Il modello flessibile a Milano, Urbanistica, 118 (2002), p. 140-148.

196
urbanizzazione a go go

anni prima. La criticammo subito, sottolineando i suoi aspetti peggiori:


lassunzione della contrattazione tra pubblico e interessi immobiliari
come motore della pianificazione, lintroduzione del concetto di di-
ritti edificatori nella formulazione che avevamo gi contestato, la
tendenziale privatizzazione degli spazi pubblici. Rilevammo pi tardi le
forti similitudini tra quella proposta e il progetto presentato dallono-
revole Mantini per il centrosinistra, e la sostanziale adesione dellInu a
quella linea culturale198.
Riuscimmo a sollevare una vasta campagna contro la proposta Lupi,
cui aderirono soprattutto Italia Nostra, il Wwf nel campo dellambien-
talismo (Legambiente ebbe una posizione pi defilata), parlamentari
nellarea della sinistra (non solo radicale) e dei Verdi. Nellambito di
questa campagna avevamo raccolto, prima su eddyburg e poi anche in un
libro, una serie di articoli di critica alla legge199. Alcuni amici del sito si
cimentarono nella stesura di un testo legislativo alternativo: una nostra
proposta di legge urbanistica, pi snella ed essenziale di quella che a suo
tempo avevamo predisposto nellambito dellInu e, pi tardi, dellasso-
ciazione Polis200. La proposta ebbe un notevole successo. Un gruppo
di parlamentari di sinistra la fece propria e la present alla Camera dei
deputati, altre forze politiche vi si ispirarono, pi o meno largamente,
al momento di formulare le proprie iniziative legislative. La legge Lupi
fu approvata alla Camera dei deputati, ma al Senato la nostra critica,
tradotta in pratiche parlamentari da Sauro Turroni, senatore dei Verdi,
riusc ad impedirne lapprovazione definitiva.
La polemica contro la legge Lupi si intrecci strettamente alla pre-
parazione della prima edizione della Scuola di eddyburg, che si svolse
nel 2005. Il programma era dedicato al consumo di suolo: un argo-
mento che ci sembrava assolutamente centrale nellItalia di quegli anni
(De Lucia ci tornava sopra sistematicamente nei suoi interventi pubblici,
Antonio di Gennaro ne aveva rivelato i pesanti risvolti sullassetto della

198 Vedi in eddyburg gli editoriali (i cosidetti eddytoriali) 15 (mag. 2003), 20 (lug. 2003) e
36 (gen. 2004).
199 La controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge Principi in materia di governo del territorio (ap-
provato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005), a cura di M. C. Gibelli, Firenze, Alinea, 2005.
200 Liniziativa e i contributi maggiori furono di Paolo Berdini, Giancarlo Storto e Giulio
Tamburini. Vi collaborarono Mauro Baioni, Vezio De Lucia, Luca De Lucia, Edoardo Salzano,
Luigi Scano. Il testo fu poi inviato ad alcuni autori di testi critici rispetto alla proposta Lupi,
che avevano espresso convinzioni analoghe alle nostre e di cui cercammo di inserire le propo-
ste di modifica o integrazione (Luisa Calimani, Roberto Camagni, Pierluigi Cervellati, Antonio
di Gennaro, Maria Cristina Gibelli, Francesco Indovina). Il testo pubblicato in appendice al
volume La controriforma urbanistica.

197
capitolo quattordicesimo

natura e dei paesaggi agrari, Maria Cristina Gibelli, con Roberto Cama-
gni e Paolo Rigamonti, ne aveva dimostrato i pesanti costi), ma era del
tutto trascurato sia dalla pubblicistica corrente sia cosa ben pi gra-
ve dallurbanistica ufficiale. Era da ventanni, dai tempi di un ricerca
campionaria diretta da Giovanni Astengo, che nessuno si occupava del
fenomeno. Raccogliemmo in volume le lezioni e i documenti prepara-
tori, da cui emergevano chiaramente sia lentit e i danni provocati dal
dissennato consumo di suolo, sia lattenzione che al problema e al suo
controllo si manifestava da tempo in altri paesi dellEuropa e financo
negli Usa (come ci raccontarono Maria Cristina Gibelli e Georg Frisch):
al confronto, larretratezza dellItalia appariva in tutta la sua dramma-
ticit, a partire dalla mancanza di dati nazionali e regionali attendibili
sullentit e sugli effetti del fenomeno.
Il punto di partenza per ogni ragionamento dovrebbe essere questo:
la terra, il territorio dominato dalla natura, il suolo non urbanizzato,
non coperto da cemento e asfalto, lasciato libero allo svolgimento del
ciclo naturale, una ricchezza collettiva, un patrimonio. La sua struttura
fisica una risorsa essenziale, ed essenziali sono le azioni che su di essa
compiono la fauna e la flora, anche nelle forme pi semplice. Le esi-
genze della societ possono richiedere che qualche ulteriore porzione di
terreno venga consumata dalla citt: ma occorre dimostrare inoppugna-
bilmente che quella esigenza non possa essere soddisfatta altrimenti; e
bisogna percepire comunque questa scelta come una perdita, che stato
necessario subire ma che si vuole risarcire, restituendo alla natura un
frammento del pianeta non pi necessario allurbanizzazione. Il consu-
mo di suolo non giustificato da un reale e dimostrato fabbisogno sociale
un danno per lumanit.
A differenza di quanto accadeva fino a pochi anni fa, oggi tutti, a
parole, considerano il consumo di suolo come qualcosa contro cui
combattere: una calamit da frenare, se non arrestare del tutto. La cosa
scandalosa che nessuno sa quanto realmente lo sprawl (lo sguaiato
espandersi di unurbanizzazione rada e disordinata sui terreni rurali)
incida in termini quantitativi sul nostro territorio. Vezio De Lucia enun-
cia spesso un dato, che grossolano ma esprime lentit del fenomeno
visto nella sua tendenza recente. Solo un decimo di tutte le aree oggi
urbanizzate lo erano prima della seconda guerra: il novanta per cento
di tutto ci che oggi sottratto alla natura, coperto da asfalto, cemento,
mattoni, stato prodotto negli ultimi settantanni. E il disastro prose-
gue, indisturbato e addirittura ignorato nella sua reale consistenza. Ma
i numeri non ci sono: vengono sparati a caso; c chi si basa sulle stati-
stiche agrarie dellIstat, chi invece spara numeri derivati dal satellite del

198
urbanizzazione a go go

programma Corine201. Gli esperti di eddyburg sostengono invece che tutte


le fonti disponibili sono inefficaci al fine di misurare davvero, con una
qualche attendibile certezza, le dimensioni e la dinamica del fenomeno.
Le statistiche dellIstat misurano la riduzione dei terreni agrari, la quale
per non dovuta solo allespansione urbana ma in larga misura anche
allabbandono colturale, alla progressiva sparizione delle aziende agri-
cole marginali. E il Corine non in grado di misurare aree urbanizzate
inferiori ai 25 ettari: trascura quindi grandissima parte degli insediamen-
ti pi sparpagliati (il vero e proprio sprawl), come i capannoni isolati, le
strade e le altre infrastrutture.
Eppure, il fenomeno ha una dinamica sempre pi preoccupante.
Gli ultimi tre rapporti dellAgenzia europea per lambiente, che riguar-
dano il land cover change (consumo di suolo), lo sprawl e levoluzione delle
aree costiere, sottolineano come la crescita dei sistemi urbani in Europa
stia avvenendo a un tasso non sostenibile, che comporterebbe il rad-
doppio delle citt nellarco di poco pi di un secolo.
solo dopo la prima edizione della Scuola di eddyburg che i temi del
consumo di suolo e dello sprawl sono venuti allattenzione dellurbani-
stica ufficiale e della politica, sebbene pi nella retorica delle parole che
nei fatti. Gli urbanisti pi sensibili al tema e qualche amministrazione
hanno provveduto a proprie rilevazioni; lInu e Legambiente hanno
dato vita a un osservatorio, e poco altro accaduto. Al momento, i dati
disponibili sono parziali, limitati a singole zone, oppure sono desunti
dalle solite fonti insufficienti, oppure ancora derivanti da stime appros-
simative.
Non c oggi proposta legislativa n atto di pianificazione regionale,
provinciale o comunale che non deprechi linvasione del cemento o lo
svillettamento del territorio, ma rarissimi sono quelli che realmente ne
dispongono la fine. Molto ampio invece nella societ il movimento
che spinge a contrastarli. Voglio citare il numero crescente di persone,
comitati, gruppi di cittadini che aderiscono alla rete Stop al consumo di
territorio, nata nel 2007 nellAstigiano, subito sostenuta da Luca Mer-
calli, popolare meteorologo, e critico della devastazione del territorio
dai canali televisivi; da Carlo Petrini, linventore di Slow Food e di una
sana alimentazione; da Domenico Finiguerra, il sindaco del comune di
Cassinetta di Lugagnano che ha fatto il primo prg a consumo zero di
territorio, e naturalmente da eddyburg.

201 Il Corine (Coordination of Information on Environment) un programma europeo di rilevazio-


ne satellitare del territorio.

199
capitolo quattordicesimo

3. Pubblico e privato nella costruzione della citt

Sprawl non significa solo devastazione del territorio e riduzione in-


giustificata della naturalit; significa anche disgregazione della citt.
Il consumo di suolo un aspetto di una tendenza pi generale, che vede
dissolversi i legami sociali che costituiscono la citt, anche perch que-
sta viene perdendo via via, sotto la forte pressione ideologica e politica
del neoliberismo straccione allitaliana, il suo carattere comune, colletti-
vo, pubblico. Fu quindi naturale, dopo unedizione della Scuola dedicata
al Consumo di suolo, organizzarne unaltra, nel 2006, intitolata alla
Costruzione della citt pubblica.
Piazze, edifici, strutture di servizio, e la struttura stessa dei centri
urbani sono stati ideati, nel corso della Storia, per favorire lincontro e
le relazioni sociali degli abitanti, ricordava Mauro Baioni nellintrodur-
re le lezioni ed enunciare i temi.
Se i beni collettivi non sono presenti oppure non vengono costan-
temente mantenuti, le citt degradano, accentuando le divaricazioni
sociali, favorendo ulteriormente la privatizzazione dei benefici a van-
taggio di pochi benestanti e la socializzazione dei costi per il resto della
collettivit, incoraggiando le persone a rinchiudersi nel proprio parti-
colare, individuale, familiare o gruppo. Nelle aree urbane destrutturate
chi svantaggiato resta indietro. I primi a subire le conseguenze sono i
pi deboli: non solo i poveri, gli immigrati o gli emarginati, ma anche le
donne, gli anziani e persino i bambini202.
Il nostro intento nelle edizioni della Scuola come nella redazione
del sito era quello di accompagnare lanalisi critica del trend generale,
volta prevalentemente alla denuncia, con lesposizione di strumenti ca-
paci di costruire alternative e applicazioni positive.
Facemmo riferimento ad alcune esperienze di pianificazione (Napoli,
Sesto Fiorentino, Val di Cornia), purtroppo isolate e in controtendenza,
ma soprattutto guardammo oltre i confini, aiutati dallo sguardo europeo
di Maria Cristina Gibelli. Quella edizione si svolse nellambiente incan-
tato del Parco archeo-minerario di San Silvestro in Toscana203, partico-
larmente propizio allo svolgimento di un lavoro di gruppo.

202 M. Baioni, Le ragioni della costruzione della citt pubblica, in La costruzione della citt pubblica,
a cura di M. Baioni, Firenze, Alinea, 2008, p. 12.
203 uno dei dodici parchi che fanno parte della societ Parchi Val di Cornia spa, a sud della
provincia di Livorno, a prevalente partecipazione dei Comuni; stata splendidamente gestita
dalla sua costituzione al 2007 da Massimo Zucconi. Allesperienza del Parco dedicato un
capitolo in La costruzione della citt pubblica.

200
urbanizzazione a go go

Porre nellItalia di oggi largomento della citt pubblica significa in pri-


mo luogo interrogarsi sul rapporto tra pubblico e privato, in particolare sul
terreno delleconomia. Leconomista urbano Roberto Camagni illustr
il caso virtuoso di Monaco di Baviera messo a confronto con Milano.
In Germania, il rapporto corretto tra amministrazione pubblica e pro-
motori immobiliari aveva consentito di trasferire dal privato al pubblico
una quota consistente dellincremento della rendita fondiaria: una situa-
zione ben diversa da quella italiana, dove gli strumenti dellurbanistica
contrattata e della perequazione urbanistica (espressione entrata da
poco nel lessico specialistico) avevano avallato la piena soggiacenza de-
gli interessi pubblici a quelli privati.

4. La perequazione urbanistica

Contro la perequazione urbanistica avevamo condotto su eddyburg


continue campagne di critica e informazione, nel tentativo, ahim non
riuscito, di contrastare una pratica pericolosissima. Si trattava di una
battaglia iniziata anni prima, quando, dopo la sconfitta del nostro grup-
po allinterno dellInu, listituto aveva posto la ricerca dellaccordo con
la propriet immobiliare come lo strumento per raggiungere, finalmente,
lefficacia della pianificazione. La perequazione era uno dei meccanismi
da adoperare. Di che si trattava?
Lesigenza di una equit nelle scelte della pianificazione del territorio
da tempo presente. Ma equit tra chi e per che cosa? Nella versione
nobile essa voleva significare indifferenza dei proprietari alle destina-
zioni dei piani, che fu la formula adoperata da Aldo Moro, leader della
Dc, negli accordi per la formazione del governo nel 1963204. Si approd
a una perequazione parziale dei valori immobiliari quando, nel 1968,
si decise che negli strumenti urbanistici attuativi, a partire dai piani di
lottizzazione, tutti i proprietari dovessero ripartire tra loro, equamente,
oneri e vantaggi dellurbanizzazione ed edificazione.
Gi allora, si trattava di una sola, particolare equit: quella tra i
diversi proprietari di suolo. Nellambito di questa, pur parziale, equit si
voleva comunque ridurre al massimo il peso della rendita sul costo della
casa e delle aree necessarie per gli spazi pubblici. Dovettero trascorrere
alcuni anni perch fosse posto un obiettivo di pi generale equit: quel-
la tra tutti i cittadini (anzi, tra tutti gli abitanti della citt) relativamente

204 De Lucia, Se questa una citt, p. 31.

201
capitolo quattordicesimo

a tutti i bisogni e a tutte le esigenze che la citt chiamata a soddisfare:


ottenere laccesso a unabitazione commisurata, per prezzo e localizza-
zione, alla capacit di spesa e alle convenienze degli abitanti; disporre
delle attrezzature e dei servizi necessari alla vita individuale e sociale;
fruire di una mobilit sul territorio con un impiego di tempo e di risor-
se ragionevole; godere della salubrit e bellezza dei luoghi. Era lequit
implicita nella rivendicazione del diritto alla citt, emersa nelle lotte
sociali e politiche degli anni 1968-69.
Poi, la svolta. Nel corso degli anni Ottanta alcuni nodi oggettivi fu-
rono accettati come insolubili. La disciplina del diritto sui suoli urbani
non era stata riformata come la Corte costituzionale avrebbe preteso, e
la situazione normativa era molto pasticciata. Le amministrazioni pub-
bliche, salvo eccezioni, non erano attrezzate per pianificare con la tem-
pestivit che la velocit delle trasformazioni richiedeva. Una corrente
di pensiero, che era diventata maggioranza nellInu, propose una nuo-
va prassi per raggiungere lindifferenza dei proprietari alle previsioni
dei piani e soprattutto per evitare di espropriare le aree necessarie per
gli spazi pubblici.
Ecco la proposta dellInu. Spalmiamo una cubatura (tot metri cubi
di edifici per ogni metro quadro di terreno) su tutta larea che vogliamo
urbanizzare: volumi teorici ugualmente assegnati alle aree sulle quali sor-
geranno quartieri e lottizzazioni, fabbriche, servizi e spazi pubblici urbani
e territoriali. Se ci serve unarea per fare un parco o una scuola consentia-
mo al proprietario di tenersi stretti i suoi volumi teorici (i suoi crediti vo-
lumetrici), spostandoli su un altro suolo, e ci facciamo dare gratis larea
che ci serve per gli usi pubblici. Naturalmente, pi estendiamo le aree
urbanizzabili, pi aree per servizi riusciamo a ottenere. Dimensioniamo
quindi il piano non sulla base dei fabbisogni effettivi, ma inseguendo le
spinte della propriet immobiliare: in quel mercato in cui (come gli eco-
nomisti liberali seri hanno dimostrato) la concorrenza non c205.
In una societ nella quale la contrattazione con i privati e la conside-
razione per gli interessi immobiliari sono al primo posto nellattenzione
degli amministratori, e dove la cultura urbanistica ufficiale propone il
riconoscimento di presunti diritti edificatori e la generalizzazione
della pratica della perequazione urbanistica, la ricerca di esperienze
positive non facile. Nelledizione 2007 della Scuola ne trovammo.

205 La questione strettamente legata a quella dei cosiddetti diritti edificatori, di cui ho
scritto sopra: la bizzarra teoria secondo la quale se un prg ha attribuito una capacit edificato-
ria a unarea, questo regalo non pu essere tolto al proprietario senza indennizzo adeguato.

202
urbanizzazione a go go

Giovanni Lanzuise espose limmane sforzo in corso a Napoli per


costruire una rete di trasporto pubblico su ferro impiegando tutti i
segmenti di ferrovie statali, locali, metropolitane, funicolari esistenti
(ciascuno dei quali gestito da un ente diverso con finalit e prezzi diffe-
renti), in stretto collegamento con la pianificazione urbanistica e i suoi
strumenti. Mauro Baioni illustr una proposta di riorganizzazione di
Sesto Fiorentino attorno a una rete di spazi e percorsi pubblici. Massi-
mo Zucconi raccont successi e difficolt nella gestione del sistema di
Parchi della Val di Cornia, esempio di quanto possa essere virtuosa la
gestione della cosa pubblica.
Il ricorso alla perequazione e agli strumenti anomali era avvenuto
in un periodo nel quale le spinte alla valorizzazione immobiliare aveva-
no ripreso vigore come non accadeva da anni e prodotto quella bolla
immobiliare da cui ha avuto origine lattuale crisi economica mondiale.
Una produzione di ricchezza finanziaria (le case di carta di cui ha par-
lato, alla Scuola, Giovanni Caudo) a cui non hanno corrisposto benefici
tangibili per le persone, n in termini di risposta ai bisogni (le case co-
stano sempre di pi), n in termini di vivibilit. Su questultimo tema
organizzammo la quarta edizione (2008) della Scuola di eddyburg.

5. La citt vivibile: per chi, e come?

Gi dalle parole con le quali Baioni aveva introdotto la seconda edizione


della Scuola si comprende come il nostro interesse fosse rivolto a vede-
re la citt non solo in termini di spazio e sua organizzazione, ma anche
come societ che in essa vive: in che modo la societ e le persone che la
compongono vivono la citt? Come raggiunto, o come raggiungibile,
lobiettivo della vivibilit?
Inquadrando la quarta edizione della Scuola, Mauro Baioni, Ilaria
Boniburini ed io scrivevamo che lobiettivo era
comprendere perch, nonostante i programmi e i piani concepiti
a partire dagli anni Novanta del secolo scorso abbiano fatto so-
vente ricorso a parole come riqualificazione e qualit urbana,
rigenerazione e vivibilit, gli effetti prodotti non sono corri-
spondenti agli obiettivi dichiarati.

Come nelle passate edizioni, per comprendere le ragioni che hanno


determinato questo scarto
ci siamo proposti di capire i presupposti e leggere criticamente
i fenomeni in atto, di ragionare su concetti e strumenti troppo

203
capitolo quattordicesimo

frettolosamente abbandonati, di sperimentare percorsi di rifles-


sione e di iniziative controcorrente206.

Il tema stesso ci indusse ad allargare ulteriormente i contributi per


la Scuola a esperti di altre discipline, e a urbanisti che avevano percorso
itinerari culturali diversi dai nostri. Nella prima giornata, coordinata
da Giovanni Caudo, intervennero Elisabetta Forni, sociologa; Fernan-
do Fava, antropologo; Paola Somma, urbanista attenta ai fenomeni di
segregazione ed emarginazione di gruppi sociali nella citt; e infine
Giancarlo Paba, esperto di progettazione partecipata. La sessione era
stata preparata e preceduta da un lavoro di Ilaria Boniburini di analisi
del discorso riferita a un certo numero di parole chiave sullargomento
vivibilit (sviluppando lesperienza dei Glossari delle precedenti edizio-
ni). I diversi contributi rilevavano tutti lesistenza di forti disuguaglianze,
segregazioni, iniquit che la condizione urbana sempre pi manifesta:
viviamo in una citt caratterizzata da recinti (parola su cui si effica-
cemente soffermata Paola Somma, e ripresa in numerosi interventi),
determinati dai differenti valori fondiari (dalla diversa incidenza della
rendita) che la pianificazione e le opere pubbliche attribuiscono alle
varie parti della citt e che sono rafforzati dalle diverse forme del condi-
zionamento sociale e dalle politiche della sicurezza.
E sempre pi emergeva la necessit di assumere, nella pianificazione
e nelle politiche urbane, lobiettivo di una equit reale sia tra le diverse
categorie di cittadini, sia tra questi ultimi e gli abitanti che, come i mi-
granti, non hanno ancora raggiunto il diritto di cittadinanza. Anche a
proposito della vivibilit, emergeva il carattere meramente retorico della
sua proclamazione come obiettivo delle politiche urbane: un obietti-
vo contraddetto dalle pratiche. Per affiancare, alla riflessione teorica,
la verifica degli effettivi risultati conseguiti, demmo ampio spazio al
resoconto critico delle vicende urbanistiche recenti di alcune impor-
tanti citt italiane, affidandolo a urbanisti che in quei contesti operano.
I quattro esempi illustrati, pur costituendo un campione assai limitato,
ci hanno consentito di sviluppare un ragionamento articolato: a Torino,
un piano regolatore sovradimensionato a condizionare negativamen-
te la riqualificazione urbana, innescando politiche di trasformazione
che fanno leva sullo sviluppo immobiliare; a Bologna, le ragioni del
mattone portano dapprima a deformare i contenuti del prg e poi a so-
stenere i cosiddetti programmi complessi, contribuendo al definitivo

206 No Sprawl, a cura di M. C. Gibelli e E. Salzano, Firenze, Alinea, 2006, p. 8.

204
urbanizzazione a go go

smantellamento del piano. A Cosenza, i programmi complessi alimenta-


no la costruzione della citt pubblica e svolgono unindispensabile fun-
zione complementare alla variante generale al prg, per poi esaurirsi non
appena cessano i finanziamenti comunitari. A Napoli, infine, un piano
regolatore, tradizionale nella forma, contiene un disegno strategico di
grande respiro e, alla prova dei fatti, si dimostra uno strumento partico-
larmente efficace nel governo delle trasformazioni della citt, a dispetto
di alcuni luoghi comuni del dibattito urbanistico di questi anni.
Alcuni dei casi illustrati (Torino, Bologna, Napoli) avevano suscitato
un particolare interesse tra gli studenti e il desiderio di averne una cono-
scenza pi ampia. Nellambito della Scuola, lillustrazione di casi specifi-
ci era solo funzionale per argomentare una determinata tesi; gli studenti
invece avrebbero voluto un approfondimento dei casi, una presentazio-
ne pi ampia degli esempi sviluppati nel loro contesto. Proponemmo
allora di organizzare una serie di iniziative sotto il titolo Una citt, un
piano, dedicata allanalisi ampia delle pratiche (buone o criticabili che
fossero), a condizione che qualcuno se ne assumesse di volta in volta
lorganizzazione. La prima volta (e unica, per ora) accett la sfida Ro-
berto Giann, dirigente del dipartimento urbanistica del Comune di
Napoli, che nelle giornate della Scuola aveva illustrato brillantemente
il piano regolatore di Napoli. Con laiuto di una volenterosa frequenta-
trice della scuola, Cinzia Langella, lincontro napoletano fu organizzato
pochi mesi dopo ed ebbe molto successo. Confermando la tesi che le
cose funzionano quando qualcuno se ne assume pienamente la respon-
sabilit e lesecuzione. Avemmo lopportunit di studiare una vicenda
eccezionale: Napoli si rivel come la citt che ha conosciuto negli ultimi
anni sia lavvio di una stagione di pianificazione di ampio respiro e di
straordinario successo, sia il pi desolante abbandono del governo del
territorio. In quella stessa citt che da tempo divenuta un paradigma
della disfatta di ogni prospettiva urbana, come ha scritto Francesco
Erbani, si sta attuando tra mille difficolt il piano regolatore impo-
stato da Vezio De Lucia e tenacemente proseguito dai suoi collaboratori
di allora207.

207 La storia del gruppo di persone che segu, con continuit e rigore, gli eventi migliori della
storia urbanistica di Napoli (dal piano dei servizi del 1975 a quello delle periferie del 1979,
e poi, sotto la guida di Vezio De Lucia, dalla ricostruzione dopo il terremoto del 1980 al prg
del 2004) una delle testimonianze pi felici delle risorse intellettuali e morali del Mezzogior-
no, circondate da cumuli di munnezza e tuttavia sempre vive. La storia raccontata nel libro di
G. Corona, I ragazzi del piano. Napoli e le ragioni dellambientalismo urbano, Roma, Donzelli, 2007.

205
capitolo quattordicesimo

Vezio ha raccontato pi volte la storia di quel piano, soprattutto la fase


iniziale dellimpostazione, i primi atti e i loro risultati208. A me colp
molto la testimonianza del fatto che la pianificazione urbanistica pu
incidere sulla rendita immobiliare non solo nel senso di incrementarla,
ma anche nel senso di deprimerla. Questo quanto successe, ad esem-
pio, a Bagnoli, nelle aree dellItalsider (Iri). Il piano per Bagnoli aveva
deciso di non consentire lattesa ristrutturazione dellarea, basata sulla
sua utilizzazione edilizia, ma di destinarla in grandissima prevalenza a
parco pubblico, con una limitatissima cubatura. Di conseguenza, lIri
aveva dovuto ridurre il valore dellarea nel proprio bilancio. Ed acca-
duto analogamente sulle pendici del Vomero, sotto San Martino, dove le
aree libere in attesa di edificazione sono state destinate a verde agricolo
e a standard urbanistici (come tutte le aree ancora libere nellamplissi-
mo centro storico): l sono ricomparse le vigne. estremamente raro,
in Italia, che un atto di pianificazione urbanistica vada nella direzione di
una riduzione del peso della rendita; eppure, possibile.
Dopo il primo mandato della giunta Bassolino, il quadro politico
locale mut decisamente. Non cambiarono n il sindaco n la compo-
sizione, ma lattenzione politica si diresse decisamente verso gli affari.
Linvoluzione della guida politica non ha impedito per al piano rego-
latore e al piano dei trasporti, tra loro integrati, di imprimere significa-
tivi orientamenti allo sviluppo della citt: larresto dellespansione e la
difesa del verde agricolo, il recupero del centro storico, il reperimento
pieno degli standard urbanistici, la rega pubblica delle operazioni di
riqualificazione urbana (a Bagnoli, cos come nelle periferie a occidente
e a oriente del centro storico), laccessibilit per mezzo del trasporto
pubblico a tutti gli spazi pubblici nel centro storico e nella periferia
vitali e liberati dal degrado. Una grande lezioni di urbanistica, ignorata e
anzi spesso dileggiata dalla cultura accademica.

6. La citt come bene comune

Da qualche tempo avevo ripreso la riflessione sul tema degli spazi pub-
blici e sul loro ruolo nella citt. Lavevo collegata ad altri argomenti,
emersi negli stessi anni in cui la questione degli spazi pubblici era divenu-
ta rilevante in Italia: il diritto alla citt e la casa come servizio sociale.

208 V. De Lucia, Napoli, cronache urbanistiche. 1994-1997, Milano, Baldini & Castoldi, 1998I;
ma anche, di De Lucia, le memorie, in corso di stampa (vedi nota 34).

206
urbanizzazione a go go

Sollecitato da pensieri di colleghi di diverso orientamento209 avevo co-


minciato a ragionare sul concetto di bene comune applicato alla citt.
Nella relazione preparata per il World social forum 2007 di Nairobi
avevo tentato di definire il significato dellespressione citt come bene
comune, ragionando sulle tre parole che la compongono. Nel definire
la citt, ponevo laccento sulla connessione tra lidea stessa di citt e gli
spazi comuni. Affermavo che nellesperienza europea, la citt non
semplicemente un aggregato di case. La citt, proseguivo,
un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e
alle attivit comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli
ospedali e i mercati, ecc.) e le altre sedi delle attivit lavorative
(le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e
servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che metto-
no in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di
acqua, energia, gas. La citt la casa di una comunit. Essenziale
perch un insediamento sia una citt che esso sia lespressio-
ne fisica e lorganizzazione spaziale di una societ, cio di un
insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identit,
reciproca solidariet, regole condivise210.

Nellaprile del 2007 si era tenuto a Ferrara il primo Festival della cit-
t e del territorio, organizzato da Giuseppe Laterza e Francesco Erbani:
vi feci una lezione sul tema degli spazi pubblici. Con Oscar Mancini,
sindacalista e allievo della Scuola di eddyburg fin dalla prima edizione, e
Ilaria decidemmo di organizzare uniniziativa allEuropean Social Forum,
che si sarebbe tenuto di l a poco a Malm, in Svezia. Preparammo un
convegno e un workshop, in collaborazione con associazioni e strutture
di altri paesi europei211: il tema, con quel tanto di retorica che viene

209 Mi riferisco in particolare alla definizione di Alberto Magnaghi, territorio come bene comune
(cfr. Il territorio come bene comune, intervento al convegno dellAnci Toscana Comuni, comu-
nit e usi civici per lo sviluppo dei territori rurali, Grosseto 15 set. 2006) e al breve testo di
Francesco Indovina Citt bella PERCH buona, pubblicato in eddyburg, nella cartella La citt:
quale futuro?.
210 La relazione stata pubblicata da Carta, 3 (27 gen. 2007).
211 Il gruppo italiano era costituito dalla Cgil di Vicenza, Venezia e Padova, da eddyburg, da
Lavoro in movimento (associazione internazionale che fa capo al sindacato dei lavoratori),
e da Zone onlus (associazione che si occupa di programmi di cooperazione allo sviluppo e
dei problemi dei paesi dei sud del mondo). Secondo il documento conclusivo del convegno,
diritto alla citt e citt come bene comune erano le due espressioni che sintetizzavano gli
obiettivi cui finalizzare il lavoro comune. Gli impegni di lotta pi immediati che i partecipanti
assunsero furono: eviction zero (zero sfratti) degli abitanti dalle case, dagli spazi pubblici, dai
quartieri e dalla citt; difesa del ruolo del lavoro e dei suoi diritti; contrasto alle iniziative di
privatizzazione degli spazi e dei beni pubblici.

207
capitolo quattordicesimo

impiegata in simili eventi, era Quale futuro scegliamo: la metropoli


neoliberista o una citt comune e solidale?. La mia relazione era appun-
to su La citt come bene comune212: sostenni che realizzare nel con-
creto limmaginario implicito nellespressione citt come bene comune
significava soddisfare il diritto alla citt. Quel diritto, evocato alla
fine degli anni Sessanta del secolo scorso da Henri Lefebvre, ripreso da
David Harvey e solo recentemente riapparso nelle parole dordine e nel
lavoro dei ricercatori, che spetta agli uomini e alle donne non in quan-
to singoli individui (anche se ciascuno ne beneficiario) ma in quanto
membri della societ: in quanto cittadini, o in quanto abitanti bench
ancora privi del diritto di cittadinanza213. Secondo Lefebvre, il diritto
alla citt si concreta in due aspetti principali: il diritto a fruire di tutto
ci che la citt pu dare; il diritto a partecipare al governo della citt,
a esprimere, orientare, verificare, correggere, momento per momento,
le azioni di chi preposto allamministrazione e i loro risultati. Harvey
aggiunge a questi il diritto di trasformare la citt, cio di esprimere il
proprio dissenso sullassetto attuale e lottare per uno diverso.
Sostenni che il tema della citt come bene comune deve essere
proposto come il centro di una concezione giusta e positiva di una
nuova urbanistica e di una nuova coesione sociale, e come obiettivo dei
conflitti urbani. Tentai di definirne il contenuto.
una citt che si fa carico delle esigenze e dei bisogni di tutti i
cittadini, a partire dai pi deboli, che assicura a tutti un alloggio a un
prezzo commisurato alla capacit di spesa di ciascuno, che garantisce a
tutti laccessibilit facile e piacevole ai luoghi di lavoro e ai servizi col-
lettivi. una citt nella quale i servizi necessari (lasilo nido, la scuola,
lambulatorio, la biblioteca, gli impianti per lo sport e il verde pubblico,
il mercato comunale e il luogo di culto) sono previsti in quantit e in
localizzazioni adeguate, aperti a tutti i cittadini indipendentemente dal
loro reddito, etnia, cultura, et, condizione sociale, religione, apparte-
nenza politica, e nella quale le piazze sono luogo dincontro aperto a
tutti i cittadini e ai forestieri, libere dal traffico e vive in tutte le ore del
giorno, sicure per i bambini, gli anziani, i malati, i deboli. Ed una citt
nella quale le scelte di governo sono condivise dai cittadini: essi parte-
cipano alla gestione del potere non solo in occasione dellelezione ma
in ogni momento significativo delle scelte. In essa perci devono essere

212 Il testo fu pubblicato in un libriccino di poche pagine dalleditore Ogni uomo tutti gli
uomini, Bologna 2009.
213 H. Lefebvre, Il diritto alla citt, Padova, Marsilio, 1970 (tit. orig. Le droit la ville, Paris,
Anthropos, 1968). D. Harvey, The Right to the City, New Left Review, 53 (2008).

208
urbanizzazione a go go

garantiti la trasparenza del processo delle decisioni che la riguardano,


e la possibilit dei cittadini di esprimersi e ottenere risposte. Tutto ci
richiede ai cittadini stessi di imparare a conoscere gli obiettivi, gli stru-
menti, le procedure, le risorse mediante cui si agisce nella citt: quelli
che sanno (i tecnici, i sapienti) devono impegnarsi a fornire le loro co-
noscenze liberamente.
Realizzare e far funzionare una simile citt lunico modo per ot-
tenere, in futuro e per tutti, il diritto alla citt, nei due aspetti dellappro-
priazione del suo uso (valore duso e non valore di scambio), e di parte-
cipazione piena al suo governo.

7. Lo spazio pubblico della citt

Quando si svolse la quarta edizione della Scuola eravamo da poco tor-


nati da Malm. Nel concludere la sessione, avevamo proposto, come di
consueto, largomento delledizione successiva. Ci era sembrato che il
tema degli spazi pubblici costituisse un campo dazione nel quale la pro-
fessionalit dellurbanista potesse dispiegarsi in pieno in rapporto con la
coscienza civile. Raccontai che al forum di Malm un ragazzo greco aveva
chiesto: ma come facciamo a riunirci, a discutere, a convincere gli altri
abitanti che cos non va, che quelle scelte sono sbagliate, che queste
esigenze non vengono soddisfatte, se non abbiamo spazi pubblici dove
riunirci? . Mi sembrava la testimonianza di un carenza che avvilisce la
stragrande maggioranza dei nostri insediamenti. Siamo pieni di parcheg-
gi, rotatorie e svincoli, ma mancano le piazze. Ci lamentiamo dei recin-
ti che segregano le citt dei ricchi, quelle dei benestanti, quelle delle
varie categorie dei poveri, vogliamo la mixit, ma non ci impegniamo a
sufficienza a progettare gli spazi pubblici (utilizzando magari quelli che
gli stessi abitanti hanno scelto come luoghi in cui stare insieme) come
nodi di una ricomposizione sociale della citt. Con questo spirito e
queste intenzioni definimmo il tema sul quale avremmo svolto la quinta
edizione della Scuola: Spazi pubblici, declino, difesa, riconquista.
Nella preparazione dellargomento (le bozze del programma che
facevamo girare, la raccolta dei materiali preliminari, gli articoli che
nel frattempo scrivevo) enunciavamo una visione ampia dello spazio
pubblico nella citt, ed esprimevamo una posizione preoccupata dei
rischi che esso corre. Nel presentare il programma su eddyburg, sot-
tolineavamo come la lotta per una quantit e qualit adeguata degli
spazi pubblici abbia avuto un momento significativo, in Italia, nella
faticosa conquista degli standard urbanistici: era necessario e possibile

209
capitolo quattordicesimo

estendere la rivendicazione ad altri obiettivi: gi nella lotta per gli


standard urbanistici, la vertenza per i servizi e gli spazi pubblici si era
saldata a suo tempo con quella per la casa come servizio sociale e a
quella per il diritto alla citt. Con eddyburg e la Scuola volevamo allar-
gare lattenzione: dalla conquista e dalla difesa delle attrezzature e dei
servizi di prossimit (asilo e scuola, verde di quartiere e parco urbano,
lambulatorio e la biblioteca ecc.) allintero ventaglio delle esigenze
delluomo: la ricreazione psicofisica nei grandi spazi naturali, i monti,
le colline, le coste, il godimento degli immensi patrimoni archeologici,
storici e culturali disseminati sul territorio, le attrezzature e i servizi
utilizzabili solo in una dimensione di area vasta (la scuola superiore e
luniversit, lospedale e lo sport spettacolo, i servizi di smaltimento dei
rifiuti e quelli per lapprovvigionamento idrico).
Eravamo consapevoli del declino degli spazi pubblici, sia come spazi
fisici sia come luoghi del dibattito, della partecipazione, della decisio-
ne. Sapevamo che il rischio che corre lo spazio pubblico della citt, e
il suo indebolimento nella vita della societ urbana, non nascono oggi.
Da decenni nelle periferie non si realizzano pi piazze. Sempre pi pe-
santemente si pretende di sostituire agli spazi pubblici i non luoghi,
come lantropologo Marc Aug214 definito i grandi complessi nati per
determinate esigenze e funzioni (gli aeroporti e le stazioni ferroviarie,
gli stadi e i grandi alberghi), e via via trasformati in sedi dedicate alla
vendita di merci. Questi si aggiungono alle grandi cattedrali del com-
mercio (i Mall, le Plaza, i Factory outlet, e le altre forme dei centri com-
merciali) e costituiscono tendenzialmente i cardini di unorganizzazione
del territorio finalizzata al consumismo.
I non luoghi, che vengono spacciati come nuove piazze, sono
caratterizzati dai requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una
piazza (lo spazio pubblico per antonomasia): sono recinzione mentre
la piazza apertura; sono sicurezza mentre la piazza avventura; sono
omologazione mentre la piazza differenza e identit; sono infine distanza
dalla vita quotidiana anzich la sua prossimit. Cambia la stessa natura
delle persone che li frequentano, clienti anzich cittadini.
I rischi che oggi gli spazi pubblici corrono hanno la loro matrice
ideologica in quel declino delluomo pubblico che molti pensatori de-
nunciano da tempo. Osserva Richard Sennett:

214 M. Aug, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernit, Milano, Eluthera,
1993.

210
urbanizzazione a go go

I traumi del capitalismo ottocentesco spinsero chi ne aveva i


mezzi a tutelarsi in qualche modo dagli sconvolgimenti di un si-
stema economico incomprensibile (). La volont di controlla-
re e modellare la sfera pubblica and progressivamente sceman-
do, e la gente bad sempre pi a difendersene. La famiglia di-
venne uno di questi scudi. Nel corso del xix secolo, la famiglia
fin per apparire sempre meno il centro di una sfera particolare,
privata, e sempre pi un rifugio idealizzato, un mondo a s, con
un valore etico superiore rispetto alla sfera pubblica215.

un declino che ha forse la sua radice in quellalienazione del la-


voro, ossia nella finalizzazione dellattivit primaria delluomo sociale
ad altro da s, che costituisce lessenza del sistema capitalistico. E ha
la sua matrice strutturale nel dominio del diritto alla propriet privata
e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei
sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove.
Aiutati dal clima generale determinato, nel mondo nord occidentale,
dal crollo delle Twin Towers e dalla reazione di George W. Bush, i go-
verni hanno cercato di mietere facili consensi e di distrarre dai conflitti
reali utilizzando strumentalmente il sentimento di paura per il diverso:
un sentimento che giace al fondo di ogni essere umano, e che in questi
ultimi anni stato fomentato con il potere pervasivo dei mass media e
delle politiche securitarie. Queste, giustificate dallaccresciuto sentimen-
to di paura, lo hanno a loro volta enfatizzato: sono diventate in questi
anni il nucleo centrale di pratiche largamente condivise. In vaste regioni
dItalia, soprattutto in quelle del Nord, considerate pi evolute e
moderne, il sospetto nei confronti del diverso, la paura per la presenza
del povero o dello straniero addirittura la caccia allextracomunitario!
sono diventati atteggiamenti cui tutti i benpensanti si sono assuefatti.
La chiusura di porzioni intere di citt con barriere fisse, le iniziative per
lulteriore emarginazione di Rom e Sinti, limpedimento alluso politico
degli spazi pubblici, addirittura la legittimazione del razzismo: tutto
ci caratterizza le politiche urbane quasi indipendentemente dal colore
politico dei governi e incide pesantemente sulla citt. Prime vittime:
gli spazi pubblici.

Nel riflettere sui temi affrontati nelle ultime edizioni della Scuola
sempre pi mi rendevo conto che per ottenere una vivibilit diffusa,
dalla quale i deboli non siano esclusi, per ottenere una citt che sia

215 R. Sennett, Il declino delluomo pubblico, Milano, Bruno Mondatori, 2006, p. 23.

211
a un tempo il luogo della libert (laria della citt rende liberi) e il luogo
dellequit (per tutti, non solo per i proprietari immobiliari), lo spazio
pubblico della citt deve essere anche il luogo del conflitto. Conflitto tra i
diversi interessi in contrasto tra loro, di chi vede e utilizza la citt come
strumento per arricchirsi e di chi vuole la citt come strumento per
abitare, lavorare, incontrarsi, partecipare al governo. Dallurbanistica,
insomma, occorre guardare alla politica.

212
Capitolo quindicesimo
Scomparsa la politica?

1. Dove siamo: il pensiero unico

Peggiorata e in via di ulteriore peggioramento era dunque la condizione


urbana, che gravava sulla popolazione, soprattutto sulle fasce pi deboli.
Il nodo stava, con ogni evidenza, allinterno di quella triade alla quale
continuavo a riferirmi: urbs, civitas, polis. Il guasto stava nella societ e
nella politica. Era sul rapporto tra urbanistica e societ, tra urbanistica e
politica che occorreva ragionare. Tornavo insomma alla riflessione che
avevo avviato negli anni della Rivista Trimestrale. Ma quanto erano
cambiate societ e politica da allora!
Fu Ilaria, la mia compagna, che mi aiut a comprendere. Di forma-
zione architetto, ma la passione per i problemi del Sud del mondo e
la volont di comprenderli lhanno spinta a coltivare letture che avevo
trascurato, immerso comero nelle mie attivit. Condividevo con lei
lanalisi che geografi, sociologi, antropologi avevano fatto sul mondo
di oggi (Harvey, Sennett, Baumann, Sassen, Latouche, Escobar, Sachs);
tornavo ad antiche letture di economisti e politologi che mi avevano
nutrito, ai tempi in cui collaboravo con la Rivista trimestrale (Gramsci
e Marx, Rodano e Napoleoni, Galbraith e Packard). Ci dava spessore
a quanto ogni giorno leggevo sui giornali per aggiornare eddyburg, e in-
tegrava quanto imparavo dai docenti che collaboravano con la Scuola di
eddyburg e con il sito.
La svolta italiana degli anni Ottanta, che avevo registrato e studiato
(e vissuto) negli avvenimenti dellurbanistica italiana e in quelli della po-
litica, era il riflesso di una svolta molto pi ampia, che aveva trasformato

213
capitolo quindicesimo

lintera societ nordatlantica216. Erano cambiate le cose, le gerarchie di


potere, le forme stesse del potere. La nazione e lo Stato non registra-
vano pi i conflitti tra le classi sociali e le posizioni di equilibrio via via
raggiunte. Erano sempre pi subordinate a un potere sovranazionale.
Questultimo non era lespressione di un accordo tra gli stati nazione
(come nellOttocento, con le conferenze internazionali, e nel Nove-
cento con la Societ delle Nazioni e lOnu), ma della consonanza tra i
grandi potentati economici.
I nuovi strumenti di comunicazione, messi a punto con le invenzioni
militari della seconda guerra mondiale, non erano finalizzati a migliora-
re la comprensione tra gli uomini e la loro crescita spirituale e morale,
ma a due funzioni pressoch esclusive: da un lato, consentire al mondo
della finanza di sfruttare tutte le occasioni di arricchimento; dallaltro,
trasformare luomo in consumatore di merci sempre pi distanti dal
bisogno reale, ma sempre pi necessarie alla produzione, trasformare
insomma il cittadino in cliente. Entrambe le funzioni erano necessarie
per la sopravvivenza di un sistema economico-sociale nato qualche se-
colo prima, e di cui ci si vergognava di pronunciare il nome: il sistema
capitalistico-borghese. Aveva mutato aspetto e regole ma era sempre
quel sistema, fondato sulla riduzione del bisogno delluomo a un set sto-
ricamente dato, sullalienazione del lavoro, sulla riduzione dogni valore
a quello di scambio e dogni bene a merce, e finalizzato alla massimizza-
zione del guadagno e del potere dei proprietari e, sempre pi decisiva-
mente, dei gestori del capitale.
Per raggiungere i suoi obiettivi, il sistema (la nuova forma del protei-
forme sistema, analizzato, in differenti contesti e con differenti obiettivi,
da Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx) aveva dovuto cambiare la
testa delle persone. Linduzione del consumo da parte della produzione
era stata analizzata gi negli anni Sessanta, cos come le caratteristiche
di un consumo divenuto ormai (nel mondo atlantico) opulento217.
Riemergevano gli argomenti, i problemi, le parole su cui avevo comin-
ciato a lavorare quasi mezzo secolo prima. Allora il cambiamento era al
suo inizio, adesso si manifestava in tutte le sue conseguenze.

216 Gigi Scano mi sugger di preferire questa dizione a quella di occidentale. Occidente un con-
cetto relativo, essendo a sua volta oriente rispetto a un altro luogo; poteva avere senso quando
lunico confine rilevante era quello della cortina di ferro. Il mondo cui mi riferisco quello
di cui fanno parte sostanzialmente lEuropa, gli Usa e il Canada.
217 Si vedano Galbraith, La societ opulenta; V. Packard, I persuasori occulti, Torino, Einaudi,
1967.

214
scomparsa la politica?

Profondamente mutata era lideologia prevalente. Dopo la caduta


del Muro di Berlino e la crisi dei grandi partiti di massa, la parola
ideologia era stata cancellata dallelenco delle parole neutrali, utilizzabili
senza conferire loro una valenza aprioristicamente positiva o negativa.
Era considerato un bene essersi liberati dellideologia. Non ci rendeva
conto che, in realt, lideologia alla quale ci si riferiva era quella della
sinistra; quella che, con differenti accentuazioni, copriva un arco che
andava dalle posizioni comuniste a quelle socialdemocratiche. Per
semplificare, lideologia che aveva come riferimento sociale primario
il mondo del lavoro, come assetto dello Stato quello del welfare, come
quadro geopolitico quello internazionale. Si divideva nelle sue due
componenti classiche: la riformista, che puntava a un capitalismo
emendato dai suoi vizi pi appariscenti, e la rivoluzionaria, che ri-
teneva necessaria una critica radicale del sistema economico-sociale
vigente e un suo totale superamento. Luna e laltra assumevano la
differenza di interessi della classe dei capitalisti e quella dei proletari
come un dato di fatto, che si esprimeva nel continuo confronto tra
luna e laltra classe, la cosiddetta lotta di classe.
Esistevano, in Italia come nel resto dellEuropa occidentale, altre
ideologie, variamente contrapposte a quella di sinistra. Ma tutte con-
dividevano, negli anni della Resistenza ai nazifascismi e nei successivi,
un insieme di princpi e di interessi comuni: la libert despressione
e dazione politica, la tensione verso luguaglianza, il primato della
democrazia parlamentare rispetto ad altre forme di governo, la distin-
zione tra interesse generale e interesse di singole parti della societ, la
laicit e autonomia dello Stato rispetto ad altri poteri, la garanzia per
tutti i cittadini della sicurezza del lavoro, di un dignitoso tenore di vita,
dellistruzione e dellassistenza sociale e sanitaria218.
Con la caduta delle ideologie tutto questo venuto meno. Dietro
a quella caduta c una ideologia dissimulata ma dominante: il neoliberi-
smo. Giorgio Ruffolo la descrive cos: La controffensiva capitalistica
cavalca la riscossa del pensiero neoliberista, monetarista () che
respinge nettamente linterferenza dello Stato nel mercato e ripor-
ta in auge un idolo che sembrava distrutto: la fede inconcussa nella

218 Questi diritti sono espressi nella Carta dei diritti delluomo, approvata nel 1948 dallOnu
e accolta come base delle legislazioni nel diritto di tutti i paesi democratici. Unanalisi anche
sommaria della traduzione in pratica di quei diritti consentirebbe di misurare lenorme distan-
za tra gli impegni assunti e la realt. Cos come misurare lentit di quella distanza nel tempo ci
aiuterebbe a comprendere quanto siamo caduti in basso.

215
capitolo quindicesimo

sua capacit di autoregolazione219. E David Harvey: Il neoliberismo


in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo
la quale il benessere delluomo pu essere perseguito al meglio libe-
rando le risorse e le capacit imprenditoriali dellindividuo allinterno
di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di propriet
privata, liberi mercati e libero scambio220.
Harvey vede nel neoliberismo (neoliberalism) non un nuovo liberali-
smo (liberalism), ma una teoria economica che ha sostituito lembedded libe-
ralism, cio quella forma di organizzazione economico-politica nella quale
esisteva, accanto al mercato, una trama di restrizioni sociali e politiche e
lutilizzo di politiche fiscali e monetarie keynesiane che limitavano e orien-
tavano la strategia economica e industriale, al fine di raggiungere la piena
occupazione, la crescita economica e il benessere dei cittadini. Per Harvey
il neoliberismo una teoria di pratiche di politica economica piuttosto
che una completa ideologia politica: pi precisamente, un progetto di
lotta di classe. La mancanza di una dottrina apertamente dichiarata, di
una ideologia (come erano anche il comunismo e il socialismo) lo rende
pi idoneo ad essere accettato e condiviso, perch apparentemente non
schierato, neutrale. Come si direbbe a Napoli, traseticcio 221.

2. La politica dei partiti non c pi

Il trionfo di quella ideologia, che ha distrutto tutte le altre per presen-


tarsi come il tendenziale pensiero unico, ha contribuito a determinare
lo svuotamento della politica quale lavevamo conosciuta: la politica dei
partiti. La politica conflitto, gara, competizione. Tale sempre stata e
sempre sar, finch gli interessi dei diversi gruppi sociali saranno alter-
nativi nelluso delle risorse. Ma quando io aderivo al partito lo scontro
politico era competizione tra progetti alternativi di societ, riferiti agli
interessi di determinate classi sociali, ciascuna delle quali per mirava

219 G. Ruffolo, Lo specchio del diavolo. La storia delleconomia dal paradiso terrestre allinferno della
finanza, Torino, Einaudi, 2006, p. 110.
220 Harvey, Breve storia del neoliberismo. In Europa i termini liberalismo e liberismo sono distinti
e collegati. Entrambi si riferiscono a una concezione sostanzialmente conservatrice (di cui il
primo esprime lideologia e la dottrina politica, il secondo la teoria e la pratica economiche),
mentre negli Usa una posizione liberal progressista. Come risulta invece dalla definizione di
Harvey, il neoliberalism esprime un pensiero conservatore: da ci probabilmente la traduzione
dellamericano neoliberalism nellitaliano neoliberismo.
221 Traseticcio: insinuante, che sa entrare nellanimo e nei fatti altrui senza farsene accorgere.

216
scomparsa la politica?

a soddisfare linteresse generale: pi precisamente, linteresse di quellin-


sieme di gruppi sociali che si riteneva rappresentassero meglio laspira-
zione a una societ libera e giusta per tutti.
A seconda di chi conquistava il potere, il compromesso che via via si
raggiungeva nellattivit di governo era pi vicino alluno o allaltro pro-
getto di societ. Lobiettivo che le formazioni politiche perseguivano
(e che era assunto dagli appartenenti alle diverse formazioni) era di
ampio respiro. Si realizzava con piccole azioni e piccole trasformazio-
ni, passaggi di una costruzione complessiva, che si sarebbe concretata
interamente solo in un futuro lontano. Si lavorava oggi per domani,
e magari per dopodomani.
E, poich per realizzare il proprio progetto di societ era necessario
il consenso, lazione politica si arricchiva di una forte componente di-
dattica: occorreva spiegarlo, illustrarne le ragioni, le possibilit, le con-
seguenze. Per conquistare i voti occorreva prima formare le coscienze,
partendo dagli interessi specifici delle diverse categorie di soggetti, ma
cercando di farli convergere verso un interesse pi ampio: tendenzial-
mente, verso un interesse generale.
Oggi lattenzione tutta schiacciata sul breve periodo, addirittura
sullimmediato, su ci che si pu raggiungere oggi, prima che inizi la pros-
sima campagna elettorale. E poich ci che conta conservare (o conqui-
stare) il potere, ecco che lo sforzo non rivolto a formare le coscienze e
a costruire il futuro, ma a guadagnare legemonia, con una doppia opera-
zione: calibrando, da una parte, la propria proposta politica sul consenso
che si pu guadagnare nellimmediato, sugli interessi gi presenti oggi e
in grado oggi di essere soddisfatti; dallaltra, impiegando tutte le tecniche
capaci di manipolare la coscienza di strati vasti di popolazione222.
C un nesso evidente tra questa mutazione della politica e quella
mutazione culturale cui mi sono diffusamente riferito. Dissolto lindi-
spensabile equilibrio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata
delluomo moderno, questo si completamente ripiegato sullintimi-
smo. Lindividualismo caratterizza sempre di pi i pensieri, le emozioni,
i comportamenti delluomo di oggi, la sua cultura, mentre si impove-
rita progressivamente la vita pubblica. La condivisione di obiettivi col-
lettivi, la ricerca comune della soluzione dei problemi di tutti non sono
pi di moda. La solidariet si ridotta a pratiche vicine allelemosina.

222 Quando la politica non pi lo strumento attraverso cui si dirige un paese in base a
unidea forte delle sue prospettive future, ma un navigare sulle sue debolezze, lusingandole e
cercando di volgerle a proprio vantaggio, rispecchiandole e accentuandole, un paese va incon-
tro al suo declino: F. Cassano, Homo civicus, Edizioni Dedalo, Roma 2004, p. 33-34

217
capitolo quindicesimo

I nuovi valori sono tutti riconducibili allaffermazione individuale.


Parole (e concetti) come Stato, pubblico, collettivo, comune sono diventati
sinonimi di peso, obbligazione, vincolo, impaccio. Il mercato, istitu-
zione inventata dalla storia dello sviluppo economico per determinare il
prezzo delle merci, diventato perno di una ideologia che appiattisce
ogni qualit, ogni differenza, ogni dimensione.

3. La fine del Pci

La scomparsa della politica dei partiti tende a identificarsi, nella mia


memoria e nella mia vita, con la scomparsa del Pci. Pi volte mi sono
domandato il perch di quella scomparsa, e perch sia stato cos rapido
e quasi naturale per tanti militanti e dirigenti di quel partito approdare a
posizioni radicalmente alternative rispetto a quelle fino ad allora difese.
Un tradimento morale, prima che politico, un cambiamento di costume,
prima che di convinzioni. Forse aderire al Pci (al pi forte e prestigio-
so partito dopposizione, concretamente candidato alla successione
dellegemonia democristiana e gi prevalente in importanti settori e re-
gioni) era una forma di promozione sociale. Molti, una volta crollato il
Pci, facilmente trasmigrarono dove la promozione sociale era pi facile.
Questa pu essere una ragione, ma certo vi furono cause pi profonde.
Condivido lanalisi di Giuseppe Chiarante, nel terzo dei suoi libri,
limpidi e maneggevoli, dedicati alla storia del Pci, vissuta dallinterno
con passione e con rigore.
Il capitolo cui mi riferisco ha il titolo significativo Loffensiva del
pensiero unico. E Chiarante individua infatti la matrice del crollo nel ce-
dimento, in settori rilevanti del Pci, alla grande offensiva ideale e politica
neoconservatrice che negli anni Ottanta favorita sia dal precipitare della
crisi del sistema comunista in tutto lEst europeo, sia dal logoramento
e dallesaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche
dellEuropa occidentale si svilupp con tanto impeto in Europa come
in America, nei paesi dellEst come in quelli dellOvest. La sconfitta della
sinistra che in tal modo matur stata culturale e ideale ancor prima che
politica. Chiarante sottolinea tre questioni che rivelano come in pochi
anni, anche in un paese come lItalia, questa offensiva abbia modificato in
modo radicale idee e convinzioni diffuse nellarea dellopinione democra-
tica, compresa buona parte della sinistra di opposizione223.

223 G. Chiarante, La fine del Pci. Dallalternativa democratica di Berlinguer allultimo Congresso

218
scomparsa la politica?

La prima riguarda la perdita di fiducia nella programmazione. Scrive


Chiarante:
Raccoglieva crescenti consensi, e trovava ascolto anche
in settori assai estesi della sinistra politica e sindacale, la tesi
che la crisi delle politiche di pianificazione o programmazione
(sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi co-
munisti dellEst europeo, sia nelle forme programmatorie delle
politiche keynesiane e delle esperienze dello Stato sociale) non
solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamen-
to, ma costituiva una prova quasi definitiva dellimpraticabilit
di serie alternative alle regole del liberismo, del privatismo, del
libero mercato.

Il fatto che questa tesi si sia estesa fino allabbandono delle prati-
che di programmazione delle trasformazioni della citt e del territorio
(la pianificazione urbanistica), introdotte dalla borghesia liberale prima
ancora dellaffacciarsi del pensiero marxista e delle pratiche dei socia-
lismi, mi sembra una significativa testimonianza della profondit della
crisi culturale e ideale della sinistra. E questa tesi ha comportato anche,
prosegue Chiarante, il risultato pratico di contribuire a indebolire la
tutela della classe operaia e di modificare a suo svantaggio i rapporti di
forza nella struttura produttiva e sociale.
Il secondo aspetto che si deve sottolineare, se si vuol comprendere
che cosa ha provocato la fine del Pci, e la crisi di tutta la sinistra, se-
condo Chiarante, il peso
che ebbe, nel modificare negli anni Ottanta gli orientamenti di
larga parte dellopinione pubblica, linsistente campagna sulla
crisi e anzi sulla morte delle ideologie. quasi inutile ricordare
quanto di ideologico vi fosse e vi sia alla base di una simile tesi.
Ma un fatto che essa fin con lessere largamente accettata,
anche a sinistra, non solo come critica dei partiti ideologici
(e partiti ideologici per eccellenza erano ovviamente considerati,
in Italia, la Democrazia cristiana e il partito comunista), ma an-
che e soprattutto come negazione dellidea stessa di una finaliz-
zazione ideale e morale dellazione politica.

Negazione dellidea stessa di una finalizzazione ideale e morale


dellazione politica: non questo il male che soffriamo e denunciamo

(1979-1991), Roma, Carocci, 2009, p. 101-102. Il libro fa seguito ai due volumi Tra De Gasperi e
Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta, (2006) e Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo
al compromesso storico, (2007), pubblicati con lo stesso editore.

219
capitolo quindicesimo

oggi? Questa la ragione per cui insisto nel parlare di ideologia, paro-
la quasi impronunciabile oggi, poich non si sa pi che essa significa,
come pi volte ho ricordato in questo stesso libro, quellinsieme di
credenze condivise da un gruppo e dai suoi membri che guidano lin-
terpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali.
Forse proprio dalla rinuncia allideologia, a un sistema di convinzioni
e di principi coerentemente praticati, che deriva il ridursi del lavoro
dellesperto (e in particolare dellurbanista) alla mera applicazione di
tecniche neutrali come strumenti di qualsiasi interesse costituito, dotato
del potere di presentarsi come committenza. Se non ho e non con-
divido con altri un insieme di convinzioni e di princpi, in base a che
cosa decido se privilegiare gli interessi dello speculatore o quelli degli
abitanti del quartiere in cui sono chiamato a operare?
Il terzo aspetto della crisi della sinistra , nellanalisi di Chiarante, il
fatto che
la critica alla degenerazione del sistema dei partiti abbia subito
nel corso di quel decennio, anche in settori via via pi estesi
del gruppo dirigente comunista, un cambiamento di segno:
sino a porre capo non pi a una domanda di rinnovamento
della politica cos come era stata formulata da Berlinguer
ma a una proposta di mutamento del solo sistema politi-
co (inteso in senso stretto), ossia come cambiamento delle
regole istituzionali o elettorali. Veniva in tal modo spalancata
la strada alla deriva decisionista. In particolare, allidea che ba-
stasse sbloccare il sistema politico per realizzare lalternanza
e mettere cos fine alla spartizione dello Stato, alla corruzione,
al malgoverno. E per sbloccare il sistema politico, chi doveva
compiere il primo passo era naturalmente il Pci, mettendo in
discussione se stesso, ponendo fine al partito diverso, omo-
geneizzandosi agli altri partiti. Erano dunque mature le condi-
zioni per portare a compimento la storia del partito comunista
italiano.

La deriva decisionista, la ricerca della governabilit attraverso la ri-


duzione della democrazia costituiscono di fatto una difficolt crescen-
te per chi persegua un governo del territorio del quale i cittadini in quanto
tali siano i responsabili e i primi beneficiari. La decadenza dei consigli
(delle componenti larghe e rappresentative della pluralit delle posizioni
nelle istituzioni della democrazia) e il maggior potere attribuito ai sin-
daci e ai governatori, la trasformazione in aziende di tipo privatistico
degli altri strumenti dellazione pubblica (come le universit e gli ospe-
dali), lintroduzione sempre pi larga del commissario dotato di pieni
poteri derogatori, rispetto alle regole comuni, per un numero crescente

220
scomparsa la politica?

di settori di decisioni: tutto ci caratterizza sempre di pi il governo


del territorio. Con un largo consenso in entrambi gli schieramenti. Una
prova dei successi delloffensiva del pensiero unico.

4. Qualcosa si muove sul territorio: i movimenti

Da dove partire per ricostruire una politica capace di avviare un cam-


biamento profondo della societ, di salvarla dal baratro di distruzione
di risorse e patrimoni dogni genere, e dal crescere di ingiustizie, disagi,
sofferenze che questo sistema non cessa di produrre?
Intanto occorre ricordare che la politica non solo quella dei partiti,
ma una dimensione essenziale delluomo. Non unattivit riservata
a pochi, ma significa partecipazione del cittadino al governo della pro-
pria polis. Deve essere quindi responsabilit di tutti. Afferma uno dei
ragazzi della Scuola di Barbiana: Ho imparato che il problema degli
altri uguale al mio. Uscirne insieme la politica. Uscirne da soli
lavarizia224.
Se cos, se la politica la dimensione necessaria dogni uomo che
non sia chiuso nel proprio individualismo, se sullhomo socialis che oc-
corre far leva, allora bisogna partire da quei punti della societ di oggi
dove si manifesta, con maggiore o con minore maturit e consapevolez-
za, lesigenza di farsi carico di interessi che non sono solo del singolo o
del gruppo ristretto, ma di comunit pi larghe: tendenzialmente dellin-
tera societ.
Si tratta di affidarsi oggi a una fiammella molto tenue. alimentata
da una miriade di episodi che nascono spontaneamente nella societ e
rivelano il trasformarsi di insofferenze individuali in tentativi di aggre-
gazioni, associazioni, iniziative comuni di protesta, e talvolta anche di
proposta. Movimenti che affiorano nella societ, e che aspirano a un
superamento delle condizioni date.
Gruppi di cittadini che si oppongono alla distruzione o privatizzazio-
ne di parti del territorio considerate essenziali, come il verde, lambiente,
il paesaggio, gli spazi pubblici, o che rivendicano luso di spazi inutiliz-
zati come luoghi da adibire a funzioni dinteresse comune, o che resisto-
no per difendere la propria abitazione dallo sfratto da edifici e quartieri
minacciati dalla speculazione, o che si mobilitano per la difesa di gruppi
sociali minacciati dalle pratiche di segregazione e demarginazione

224 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 14.

221
capitolo quindicesimo

e per la rivendicazione dei diritti delle minoranze (etniche, di genere, di


reddito). Si tratta di gruppi di cittadinanza attiva che si aggregano
a volte in comitati, a volte in coordinamenti pi ampi (come la Rete
toscana dei comitati per la difesa del territorio) o sullassunzione di un
determinato problema (come il movimento Stop al consumo del terri-
torio, o le numerose associazioni nazionali e internazionali per la difesa
dagli sfratti).
A questi gruppi di cittadinanza attiva fa riferimento il libro di un
uomo che ha attraversato molte esperienze, non solo nel campo che pi
gli proprio (la storia della letteratura), ma anche in quello della politica
e della cultura, Alberto Asor Rosa. Egli scrive:
Da qualche anno mi sono impegnato in un nuovo lavoro am-
bientalista, in difesa del territorio e del paesaggio. Questattivit
si fonda sulla spontanea associazione dei Comitati di base, che
stanno fuori dal meccanismo politico istituzionale. Dentro que-
ste nuove esperienze circola una gran quantit di energie nuove,
diverse, provviste di un pensiero forte. Lo stesso potrebbe dirsi
delle associazioni nel campo dei diritti civili. Naturalmente non
penso che si tratti di esperienze in s risolutive: penso per che
si tratti di esperienze che si muovono nella direzione giusta.
Il problema come farle emergere, le nuove forze, sottraendole
agli ingranaggi attualmente mortiferi della politica225.

I movimenti cui si riferisce Asor Rosa (che anche portavoce della


Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio) crescono di mese
in mese. Sono fragili, discontinui, spesso aggrappati al problema locale
da cui sono nati. Ma nonostante la loro attuale debolezza, essi testimo-
niano una volont di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose,
e sempre pi spesso riescono ad aggregarsi in reti pi ampie, a inventa-
re strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a compren-
dere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
E tentano a volte di accompagnare la loro critica con la formulazione di
proposte positive (come lassociazione dei Comuni virtuosi), seguendo
in questo le associazioni tradizionali (come Italia Nostra).
Un segnale molto positivo della forza e dellintelligenza critica, la-
tenti nella societ, che esprime principi di solidariet e di consapevo-
lezza del ruolo insostituibile della presenza pubblica, rappresentato
dallOnda che si sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutti i

225 A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di S. Fiori, Roma-Bari,
Laterza, 2009, p. 167.

222
scomparsa la politica?

suoi percorsi: dalle primarie alle universit, dagli studenti ai docenti al


personale ausiliario, ma soprattutto dal personale di elementari, medie
e superiori. Testimonianza del fatto che sostiene Asor Rosa nella
scuola c un bastione di resistenza allideologia montante.
Anche un insigne costituzionalista, ex presidente della Corte costitu-
zionale, sottolinea il ruolo dei movimenti che scaturiscono dalla societ
civile. Scrive Gustavo Zagrebelsky, a proposito della crisi della democra-
zia e della politica:
Noi non contrasteremo le deviazioni dallidea costituzionale
di democrazia soltanto denunciandone linsidia e i pericoli, cio
parlandone male. In carenza di una sostanza cio di istanze
politiche venienti da una societ civile non disposta a soggiacere
a un potere che cala dallalto perch mai si dovrebbero difen-
dere istituzioni svuotate di significato? Le istituzioni politiche
vitali sono quelle che corrispondono a bisogni sociali vivi. Se
no, risultano un peso e sono destinate a essere messe a margine.
Qui si innesta il compito della societ civile, nei numerosissimi
campi dazione che le sono propri, e delle sue tante organizza-
zioni che operano spesso ignorate e sconosciute, le une alle altre.
La formula di democrazia politica che la Costituzione disegna
per loro. La sua difesa nellinteresse comune. Non c differen-
za, in questo, tra le associazioni che operano per la promozione
della cultura politica e quelle che lavorano nei pi diversi campi
della vita sociale. C molto da fare per unire le forze. E c
molto da chiedere a partiti politici che vogliano ridefinire i loro
rapporti con la societ civile: innanzitutto che ne riconoscano
quellesistenza che troppo spesso stata negata con sufficienza,
e poi si pongano, nei suoi confronti, in quella posizione di servi-
zio politico che, secondo la Costituzione, la loro226.

Un altro bastione di resistenza, e quindi di possibile speranza per il


futuro, certamente presente nel mondo del lavoro dipendente. La clas-
se operaia (labbiamo visto nei precedenti capitoli) ha avuto un ruolo
decisivo nelle trasformazioni della citt e della societ negli ultimi due
secoli. in gran parte grazie alle lotte delle organizzazioni sociali e po-
litiche della classe operaia che nato il welfare urbano: quellinsieme di
politiche, servizi, attrezzature e spazi che determina la vivibilit diffusa
nelle citt dove il ruolo di quelle organizzazioni ha inciso di pi, arric-
chendo gli elementi di vita sociale prodotti dalla citt antica: alle piazze
e ai mercati, alla cattedrale e al palazzo del governo si sono aggiunti gli

226 G. Zagrebelsky, Democrazia in crisi, societ civile, La Repubblica, 7 nov. 2009, anche
in eddyburg.

223
capitolo quindicesimo

asili e le scuole, le biblioteche e le palestre, i parchi e ledilizia abitativa


pubblica. Il welfare urbano ha costituito, in qualche modo, il trasferi-
mento allinsieme della societ urbana della solidariet di fabbrica. Oggi
questa solidariet tende a scomparire: il lavoro , insieme allambiente,
vittima del neoliberalismo227. Ridotta la sua rilevanza sociale, indebolita
la sua consistenza economica (la sua mercede), frantumato nei suoi luo-
ghi e nei suoi tempi dalle pratiche sempre pi diffuse di esternalizzazio-
ne, di precarizzazione, di trasferimento della produzione in aree dove
i diritti del lavoro sono meno garantiti, il lavoro subisce un ulteriore
passaggio dopo quello dellalienazione: diventa irrilevante ai fini del va-
lore delluomo. Questo infatti interessa sempre meno come lavoratore,
come artefice della produzione, e sempre pi come mero consumatore.
anche per questo che accanto ai movimenti per la difesa del ter-
ritorio e per lambiente, a quelli per i diritti civili e il carattere pubblico
e libero della scuola, a quello per la liberazione della donna scendono
di nuovo in campo anche forze legate direttamente al mondo del lavo-
ro. il caso, in Italia, della rete delle camere del lavoro della Cgil che
hanno aperto vertenze per la contrattazione sociale territoriale. Non
pi solo nella fabbrica che avviene lo sfruttamento del lavoro. Esso si
manifesta sempre pi ampiamente nellorganizzazione della citt e del
territorio: nelle difficolt sempre maggiori di trovare unabitazione a
prezzi ragionevoli, un funzionamento decente della mobilit, una rete di
servizi sociali diffusa; e si manifesta nella sempre pi diffusa utilizzazio-
ne, da parte del capitale, di politiche urbanistiche che consentano di ar-
ricchirsi ulteriormente, lucrando sulla rendita e smantellando la fabbrica
per trasformarla in terreno edificabile228.
Ha scritto un dirigente sindacale, da tempo partecipe alle vertenze
per il territorio e lambiente, Oscar Mancini:
necessario un incontro tra il movimento sindacale e
i comitati, le associazioni, i gruppi, spesso nati spontaneamente

227 O. Mancini, Il lavoro e il territorio. Le due vittime del neoliberismo, in Citt e lavoro. La citt come
diritto e come bene comune, a cura di E. Salzano, O. Mancini, S. Chiloiro, Roma, Ediesse, 2009.
228 Esemplari due casi recenti. A Scandicci (Fi) la propriet del complesso industriale
Electrolux (ex Zanussi) voleva chiudere lattivit produttiva e ottenere una valorizzazione
edilizia dellarea; la resistenza operaia, appoggiata da unintelligente decisione urbanistica del
Comune, di non consentire alcuna modifica della destinazione duso dellarea e dal sostegno
della Regione, ha consentito di conservare la funzione produttiva, modificando la tipologia del
processo e del prodotto. A Milano, dove era in corso il tentativo di smantellare lantica fabbrica
Innse (ex Innocenti), la continuit dellattivit produttiva stata ottenuta grazie alle inedite
forme di lotta e al sostegno dellopinione pubblica. Vedi larticolo di M. Baioni, Riconversione
produttiva, valorizzazione immobiliare, in eddyburg.

224
scomparsa la politica?

attorno a un evento, una minaccia, un progetto. Una nuova


coscienza collettiva che nasca da questo incontro non pu che
essere fondata sulla consapevolezza dellimpossibilit del merca-
to di risolvere i problemi derivanti dal carattere intrinsecamente
sociale e collettivo della citt e del territorio, in contrasto con il
carattere individualista proprio dellideologia che sta alla base
del sistema capitalistico, ovvero dellattuale sistema economico
sociale229.

Incontro non certo facile: diverse sono infatti le origini delle rivendi-
cazioni dei movimenti ambientalisti e quelle del mondo del lavoro. Que-
ste ultime tendono spesso a vedere nella difesa delloccupazione in atto,
nelle sue forme determinate, il valore principale cui tutto subordinare.
Le componenti dellambientalismo tendono simmetricamente a restar
legati alla loro specifica e localistica vertenza, a vedere lalbero e non
la foresta di cui parte. Ci non sfugge a chi propone una prospettiva
rosso-verde. Mancini cita in proposito una frase di Asor Rosa:
La cosa, se si entra nel merito, tuttaltro che semplice: una
classe operaia ecologista ancora non s vista ma neanche s
visto un militante ecologista capace di pensare la questione
sociale contemporanea. E pure sempre pi avanza la consapevo-
lezza che il destino umano risulta dalla composizione, meditata
e razionale, delle due prospettive e cio, per parlarne in termini
politici, dalla sovrapposizione e dallintreccio del rosso e del
verde230.

5. Il sestante e le solide scarpe

Frammenti di resistenza e segmenti di un potenziale fronte alternativo a


quello espresso dal pensiero dominante e tradotto in concrete politiche.
Come metterli insieme per? Come ottenere dalla loro unione una forza
che sia pi della somma delle parti? Il cammino non facile, per molte
ragioni. Ogni segmento figlio di una vicenda che ha radici diverse da
quelle dogni altro, ha le sue ragioni (soggetti, obiettivo, controparti)
che sono simili forse a quelle di molti, ma non di tutti. Lautonomia
di ciascuno deve essere rispettata al massimo, ma questo non pu im-
pedire che un coordinamento esista, che una rete si costituisca. Ogni
segmento ha risorse scarse, la sua attivit basata sul volontariato e su

229 Mancini, Il lavoro il territorio, p. 48.


230 A. Asor Rosa, Pi del fascismo, il manifesto, 6 ago. 2008.

225
capitolo quindicesimo

contribuzioni limitate; eppure, se si vuole unattivit di coordinamento


e di servizio utilizzabili per tutti una rete occorre rinunciare a una
parte delle risorse di ciascuno. Ci vale anche per i poteri: se la rete ha
un potere (di rappresentanza, di comunicazione, di distribuzione delle
risorse tra obiettivi alternativi), in che modo i diversi segmenti concor-
rono alla sua formazione? E i rapporti con i partiti e con le istituzioni,
occorre cercare il confronto e praticare il conflitto, oppure accettare
anche la collaborazione? E a quali condizioni? Problemi aperti.
Il cammino da percorrere per trasformare in una nuova politica ci
che si muove oggi sul territorio certamente lungo, a meno di improv-
visi e imprevisti mutamenti del quadro della societ, quale oggi ci si
presenta: spesso la Storia improvvisa. Del resto i grandi cambiamenti
hanno sempre avuto un percorso lungo e un inizio, per cos dire, dal
basso. La grande forza che ha cambiato il capitalismo nel corso dei
due secoli che precedono il nostro, il movimento operaio, ha comin-
ciato a costruire i propri strumenti economici e politici a partire dalle
esperienze di lotta di piccoli gruppi di uomini, mossi dalle contraddizio-
ni che vivevano insieme. Certo, la classe operaia ha avuto due possenti
strumenti per diventare potere: la solidariet di fabbrica e lanalisi mar-
xiana della societ. Non so riconoscere strumenti analoghi nel mondo
di oggi. Per il momento.
Se cos stanno le cose, allora ci aspetta un lavoro di lunga lena. Dob-
biamo attrezzarci per un faticoso viaggio. Non basta avere un paio di
scarpe solide, che aiutino a non perdere il contatto con la terra, con la
societ di cui siamo parte e con ci che in essa si muove verso una societ
diversa. Ci serve anche un sestante per orientarci con le stelle. Le radici
del malessere che viviamo sono profonde. Ho tentato di spiegarne le ra-
gioni231, rifacendomi a ci che appresi negli anni della Rivista trimestrale.
Occorre liberare il lavoro dalla condizione di alienazione (di ordina-
mento ad altro da s) e ricondurlo alla sua funzione di strumento me-
diante il quale luomo conosce il mondo e pu contribuire a trasformar-
lo232. Ci comporta la formazione di una nuova economia, radicalmente
diversa da quella capitalistica, nelle sue varie incarnazioni tutte basate
sulla riduzione dogni cosa (a cominciare dal lavoro) a merce.

231 Vedi capitolo 2, paragrafo cinque.


232 Secondo Marx, la forza lavoro linsieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono
nella corporeit, ossia nella personalit vivente dun uomo, e che egli mette in movimento ogni
volta che produce valori duso di qualsiasi genere, K. Marx, Capitale, i, iii, Roma, Edizioni
Rinascita, 1985. Valori duso, scrive, non valori di scambio. Non solo merci quindi, ma anche beni,
quali la conoscenza, la comunicazione tra i soggetti, lespressione artistica, ecc.

226
scomparsa la politica?

Del resto, vanno nella stessa direzione le valutazioni critiche del


sistema capitalistico che nascono dal pensiero ambientalista. Le ha
espresse con grande chiarezza Piero Bevilacqua, tirando le conseguenze
del predominio delleconomia su ogni altra scienza, sapere, dimensione
della vita delluomo e della societ:
Lapparato di razionalit che ha guidato le societ post-
industriali non stato quello della fisica o della biologia o del
pensiero filosofico, ma quello delleconomia. E nella seconda
met del Novecento la scienza economica si messa al servi-
zio di una gigantesca opera di saccheggio delle risorse naturali.
E soprattutto ha finito collimporre una visione del mondo che
ha separato la realt sociale dalla biosfera, lopera delluomo
dal mondo vivente, la storia dalla natura. Il pensiero economi-
co contemporaneo, nel suo progetto di crescita illimitata della
produzione di ricchezza, si di fatto fondato sulla completa
rimozione del mondo fisico. E ha piegato a tale fine tutti gli altri
saperi. A questi ultimi anche quando essi erano portatori di
una visione sistemica e complessa della realt naturale ha la-
sciato un compito ancillare di mera riparazione delle distruzioni
che esso promuoveva e ispirava233.

La costruzione di un pensiero e di un meccanismo economico capa-


ci di sostituire, superandolo, il capitalismo non unoperazione sempli-
ce. Vaste programme, direbbe Charles De Gaulle. Non so, non sappiamo,
se il capitalismo ha i secoli e non gli anni o i decenni contati, come
recita laccattivante titolo del libro di Giorgio Ruffolo, che conclude
sostenendo
il problema non di sottrarsi alla tecnica, ma di sottrarre la
tecnica alle leggi del mercato ponendola al servizio della cono-
scenza. In questo senso lequilibrio ecologico, larresto della cre-
scita economica dellavere, sterile e autodistruttiva, la premessa
necessaria di un umanesimo trascendente inteso allo sviluppo
esistenziale della specie umana234.

Ci vorranno secoli, decenni? Nessuno pu dirlo, la Storia inventa.


La direzione di marcia comunque deve essere questa: pensare e costrui-
re una nuova societ e una nuova economia. Utopia? A chi gli imputava
dessere utopico Claudio Napoleoni rispondeva che posti a un livello

233 P. Bevilacqua, Lambiente e le scienze. Quel che spetta al Novecento, lectio tenuta al Festival del-
le scienze, Roma 15 gen. 2008, pubblicata in eddyburg col titolo Leconomia e il resto del pianeta.
234 G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Torino, Einaudi, 2008, p. 284.

227
capitolo quindicesimo

minore i problemi non hanno risposta235. Non bisogna abbandonare le


scarpe ma occorre anche afferrare il sestante, e mirare lontano. Fare, e
pensare. Lavorare nel concreto, e studiare.

6. Urbanista oggi

Cosa pu e deve fare oggi, in questo quadro, chi pratica il mestiere


dellurbanista e condivide le riflessioni svolte in questo libro? Questa
la domanda che mi pongo, congedandomi dal lettore. Non siamo
mestieranti, non siamo tecnici, ma intellettuali, nel senso pi alto
del termine. Siamo portatori dun sapere specialistico che dobbiamo
proiettare su uno sfondo pi vasto, ricavandone un senso di carattere
generale, poich lintellettuale quello specialista che traduce le pro-
prie competenze in un discorso di carattere generale, e usa questultimo
per cambiare le istituzioni, la politica, la societ, talvolta lantropologia
circostante236.
Come farlo per, oggi? Dobbiamo innanzitutto studiare. Non si
pu operare sensatamente nella citt se non la si conosce in tutti i suoi
aspetti (urbs, civitas, polis), e non se ne sanno seguire e comprendere le
trasformazioni. Dobbiamo perci avere lumilt e la curiosit di intrec-
ciare il nostro sapere con altri saperi, con le discipline che studiano la
condizione urbana in altri aspetti. La multidisciplinariet deve tornare
ad essere la nostra bandiera.
Naturalmente dobbiamo comprendere anche come adoperare gli
strumenti del nostro mestiere. Penso che da quanto ho scritto finora
emergano alcune indicazioni che delineano possibili percorsi. Provo a
riassumerle.
La nostra azione di urbanisti deve essere ispirata a principi dai quali
non possiamo deflettere. Ho indicato quelli che gli amici di eddyburg
condividono. Alcuni mi sembrano fondamentali: la titolarit pubblica
delle scelte sul territorio, il carattere sistemico di questultimo e quindi
della sua pianificazione, intesa come sistema di regole certe e valide erga
omnes e di procedure democratiche; la capacit di orientare le scelte al
lungo periodo, che lunico conforme alla durata delle trasformazioni
territoriali; la priorit degli interessi dei cittadini in quanto tali: cittadini

235 Cfr. C. Ravaioli, Napoleoni e la produzione di uomini, relazione svolta in un seminario sul
pensiero di Claudio Napoleoni organizzato dalla Fondazione della Camera dei deputati, Roma
27 ott. 2009, anche in eddyburg.
236 Asor Rosa, Il grande silenzio, p. 25.

228
scomparsa la politica?

di oggi e di domani) rispetto a quelli della propriet immobiliare; il


perseguimento dellequit nelluso della citt da parte dei diversi grup-
pi sociali, e quindi la ricerca della riduzione delle differenze e la difesa
delle fasce e dei ceti sociali pi deboli; la priorit, nella definizione delle
scelte, della tutela delle qualit del territorio e della sua integrit fisica, e
la consapevolezza che ogni sottrazione di terra alla natura deve essere
strettamente commisurata a fabbisogni sociali accertati e condivisi; il ca-
rattere pubblico, collettivo, comune dello spazio pubblico della citt, nel
senso ampio in cui lho definito.
Sulla base di questi princpi, credo che la pratica dellurbanista debba
oggi orientarsi verso specifiche direzioni. In primo luogo, salvaguardare
con la pianificazione lambiente, il paesaggio, la naturalit. Il consumo
di suolo determina oggi in Italia condizioni preoccupanti e procura
danni pi gravi che in ogni altro paese dEuropa, per almeno tre ragioni:
per la fragilit morfologica e idrogeologica del territorio, sul quale la
sregolata disseminazione di casette e infrastrutture provoca conseguen-
ze ben diverse che nelle ampie pianure della Francia e della Germania o
dei paesi dellEst; per la densit di testimonianze della Storia, presenti in
ogni frammento della Penisola; per lincuria dei governi che non hanno
fatto nulla per contrastarlo, e neppure per conoscerlo nei suoi dati reali.
In secondo luogo, accentuare, consolidare ed espandere la centralit
spaziale e funzionale degli spazi pubblici affinch possano svolgere ap-
pieno il loro ruolo sociale, politico ed economico: come luoghi del con-
sumo comune e del welfare urbano, come luoghi nei quali liberamente
ci si incontra come abitanti della citt (cittadini attuali e potenziali) e
non come clienti, come luoghi destinati al dibattito, allesposizione e al
confronto delle idee e delle proposte: in una parola, della politica.
In terzo luogo, compiere tutte le scelte che consentano di ridurre
le diseguaglianze nelluso della citt e delle sue componenti (abitazione,
servizi, luoghi del lavoro) mediante la buona organizzazione funzionale,
lefficacia della mobilit collettiva, la previsione di quote di edilizia in
affitto a basso prezzo in tutte le aree di trasformazione urbanistica.
Infine, utile ricordare che la pianificazione urbanistica agisce sulleco-
nomia della citt. Incide sulla rendita immobiliare: pu incrementarla, e
pu ridurla, come successo a Napoli, col prg di Vezio De Lucia e del
suo gruppo. E pu evitare che le fabbriche vengano chiuse per realizzare,
sulle loro aree, pi convenienti quartieri residenziali e centri commerciali,
come testimonia lesperienza della ex Electrolux a Scandicci.
Referenti naturali dellattivit professionale dellurbanista sono le
istituzioni. Bench siano oggi in gran parte deteriorate dalla pervasivi-
t dellideologia dominante e dalla crisi della politica, restano il luogo

229
capitolo quindicesimo

della democrazia. Vanno riformate, a partire dal rapporto dialettico


(dal conflitto) con la societ, ma comunque esistono, sono guidate da
uomini a volte sensibili alle buone ragioni dellurbanista competen-
te e consapevole del suo ruolo. Non sono per gli unici interlocutori.
Dobbiamo cercarne anche altri, in quelle realt controcorrente che ope-
rano nel territorio e che ho indicato, i movimenti ambientalisti, quelli
dei diritti civili, della scuola, del movimento femminile, del mondo del
lavoro, ecc. Certamente anche altri vanno individuati, in ambiti pi va-
sti, guardando a ci che sta succedendo nel mondo, in particolare nella
realt sociale dei paesi del Sud del mondo e nei luoghi della povert e
dellemarginazione nei paesi sviluppati, e negli ambiti culturali nei
quali lanalisi sociale e la ricerca di nuove strade per la civilt non si so-
no inaridite.

Dobbiamo ammettere, con Italo Calvino, che linferno dei viventi


non qualcosa che sar; se ce n uno, quello che gi qui, linferno
che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Da esso, la nostra societ pu uscire in due modi. Il primo riesce
facile a molti: accettare linferno e diventarne parte fino al punto di non
vederlo pi; questo modo noi lo rifiutiamo. Non possiamo allora che
scegliere il secondo, con la consapevolezza che rischioso ed esige
attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi
e che cosa, in mezzo allinferno, non inferno, e farlo durare, e dargli
spazio237.

237 I. Calvino, Le citt invisibili, Torino, Einaudi, 1972, p. 170.

230
20. La pagina di eddyburg con la cartella dedicata a Luigi Scano.
21. Pagina di eddyburg, con una delle cartelle dedicate a Venezia.

231
22. Studenti e docenti della iv edizione della Scuola di eddyburg, Asolo, settembre 2008.
23. Seminario alla Queen Ann University di Belfast, docente Todd Weir, novembre 2007.

232
24. Alla manifestazione contro la base Usa nellarea Dal Molin, con Anna Marson, Alberto
Magnaghi e, dietro, Walter Bonan, Vicenza, febbraio 2008.
25. Con Vezio De Lucia, settembre 2008.

233
234
Indice dei nomi di persona

Il Prologo non indicizzato

Abbaterusso Alessandro, 194n Basaldella Mirko, 7n


Agati Mario, 12n Basile Giuseppe, 75n
Airaldi Luigi, 121n Bassanini Franco, 120, 133n, 134n
Alborghetti Guido, 123 Bassetti Emanuela, 110
Allende Salvador, 86 Bassetti Silvano, 133n, 134n
Ambasz Emilio, 139 Battaglia Roberto, 6 e n
Amendola Giorgio, 19, 64 Baumann Zygmunt, 213
Andreotti Giulio, 142 Beccaria Piercamillo, 69 e n, 121n
Angioni Giulio, 180n Bellagamba Piergiorgio, 135n
Aprile Nello, 7n Beltrame Gianni, 134n
Arboretti Franco, 38 Benevolo Leonardo, 62, 155
Ardy Silvio, 41 Berdini Paolo, 133n, 173n, 176, 193, 195, 197n
Arici Graziano, 140 Bergamo Ugo, 113, 154
Arnone Giuseppe, 134n Berlinguer Enrico, 86 e n, 93, 100, 101 e n, 151,
Ashley Clarke Henry, 140 220
Asor Rosa Alberto, 74 e n, 177 e n, 222, 225 Berlusconi Silvio, 95, 132, 140n, 180
e n, 228n Bernoulli Hans, 25 e n
Asso Margherita, 140 Bertolaso Guido, 176
Astengo Giovanni, 9, 47, 51, 52 e n, 54n, 82, Betti Daniela, 126
84, 90, 126, 127, 198 Bevilacqua Piero, xiv, 176, 190, 227 e n
Aug Marc, 210 e n Bianchetto Giuseppe, 37, 38
Ave Gastone, 134n Bianchin Roberto, 139
Aymonino Carlo, 139 Bil Massimo, 121n
Biscotti Stefano, 190
Badas Roberto, 133n, 135n Blecic Ivan, 164n, 171
Baduel Ugo, 21, 24, 58 Boato Stefano, 112
Baioni Mauro, xiv, 173n, 174, 176 e n, 190n, Boatti Giuseppe, 121n
197n, 200 e n, 203, 224n Boca Giorgia, 173n
Baldeschi Paolo, 173n, 186 e n, 187 Boccardi Tommaso, 157f
Baldo Mariano, xiii Boltanski Luc, 73n
Bandoli Fulvia, 133n, 134n, 135n Bonan Walter, 233f
Barbanente Angela, 189 Boniburini Ilaria, xiv, 173n, 203, 204, 207, 213
Barbieri Carlo Alberto, 121n, 135n Boringhieri Paolo, 59
Barca Luciano, 54 Bottini Fabrizio, 41 e n, 172, 173, 175
Bartesaghi Ugo, 21, 22 Bottino Felicia, 83, 121n, 125, 133n, 134n
Barzanti Roberto, 133n Brecht Bertold, 93

235
indice dei nomi di persona

Bucalossi Pietro, 56 Colaianni Luigi, 135n


Busetto Franco, 76 Combatti Bernardo, 108n
Bush W. George, 211 Combatti Gaetano, 108n
Busiri Vici Andrea, 4 Compagna Francesco (Chinchino), xlviif
Busiri Vici Salzano Barbara, 4, 13, 14, 24, 84, Consonni Giancarlo, 173
157f Corona Gabriella, 205n
Corti Enrico, 180n
Cabianca Vincenzo, 80 Costa Paolo, 140 e n
Cacciari Massimo, 140n, 154, 155 Crawford Lennard Suzanne, 145, 146
Cacciari Paolo, 175 Craxi Bettino, 8, 95, 99-101, 152
Cacpardo Rocco (Chicco), 14n, 22-24 Croce Benedetto, 5
Calcaprina Cino, 7n Croce Elena, 22
Calimani De Biasio Luisa, 134n, 197n
Calza Bini Alberto, 41 DAgostino Roberto, 155
Calzolari Ghio Vittoria, 39 e n, 121n DAlbergo Salvatore, 76
Camagni Roberto, 197n, 198, 201 DAlema Massimo, 153
Camarda Ignazio, 180n DAlessandro Massimo, 36
Camerino Ugo, 139 DAngelo Guido, 81
Camerlingo Elena, 121n, 164n Dal Piaz Alessandro, 75n, 83, 121n, 134n,
Campos Venuti Giuseppe (Bubi), 57 e n, 80, 135n
121n, 130-133n, 194 De Caro Stefano, 189
Cancogni Manlio, 25 De Forgellinis Maria Franca, 121n
Caniggia Gianfranco, 95 De Gasperi Alcide, 29
Cannarozzo Teresa, 133n, 135n De Gaulle Charles, 227
Cannas Paola, 180n De Grandis Franco, 135n
Capocelatro Ennio, 55n De Luca Giuseppe, don, 19
Caporioni Vittorio, 69 De Lucia Luca, 190n, 197n
Carafoli Domizia, 167n De Lucia Vezio, xiv, 12n, 47, 48 e n, 49-51,
Carat Giovanna, 190n 53n, 57, 58, 75 e n, 81-83, 98, 121n, 123,
Cardelli Aldo, 7n 126, 133n, 135n, 162, 166n, 197n, 173 e n,
Carignani Luigi, 6 176, 187 e n, 193, 194n, 197, 198, 201, 205 e
Carmassi Massimo, 121n n, 206 e n, 229, 233f
Carrassi Alarico, 76 De Marco Roberto, 176
Casellati Antonio, 112, 133n, 140, 154 De Martino Umberto, 35n, 36
Cassano Franco, 217n De Michelis Gianni, 94, 100-102, 138, 139,
Caudo Giovanni, 173n, 203, 204 142, 143
Cavalcoli Piero, 164n, 189 De Piccoli Cesare, 133, 134n, 139, 140, 142,
Cecchini Arnaldo (Bibo), 164, 171 154
Cecchini Marta, 134n De Rosa Giorgio, 121n, 135n
Cederna Antonio, 25, 47, 53, 70n, 123, 127, 133n De Seta Cesare, 123
Cerulli Irelli Vincenzo, 194 De Sica Vittorio, 5
Cervellati Pier Luigi, 121n, 123, 197n De Barbari Iacopo, 108 e n
Chiarante Giuseppe, 21, 24, 58, 86n, 218-220 Degan Costante, 112, 154
Chiaromonte Gerardo, 121 Del Fattore Sandro, 121n
Chiesa Giobatta, 21 Del Vecchio Domenico (Mim), 10, 23
Chiloiro Sergio, 224n Delgado Edoardo, 75n
Chiodi Cesare, 41 Della Seta Piero, 63-65, 68, 69, 115, 116n,
Churchill Winston, 19 121n
Ciccone Filippo, 121n, 123, 126, 133n, 134n, Delpiano Alessandro, 164n
180n Deng Xiaoping, 85
Cioccetti Urbano, 127 Detti Edoardo, 54n, 80, 82, 83, 127
Ciucci Giorgio, 36 Di Donato Giulio, 123
Ciurnelli Stefano, 190n di Gennaro Antonio, 173n, 176, 189, 190n,
Cobianchi Cristina, 94 197 e n
Coccia Francesco, 7n di Gioia Leonardo, 190

236
indice dei nomi di persona

Di Gioia Vincenzo, 25, 49 Ginsborg Paul, 43 e n, 44n, 73n, 77 e n, 99,


Diaz Armando, xlvf 100, 116 e n, 152n
Diaz Marcello, xlvf Gioggi Giuliana, 22
Diaz Salzano Anna, xlviiif Giovanni xxiii, papa, 19, 43
Diaz Sara, xlvf Giovenale Fabrizio, 47, 123, 134n
Dolleans Edouard, 8 Girardi Franco, 80, 81n, 130, 131n, 134n
Donato Marco, 111 Girardi Ugo, 121n
Drummond Dereck, xiii Giulianelli Sandro, 135n
Durante Alberto, 8, 9, 22, 25 Giuralongo Andrea, 194n
Giuralongo Tommaso, 121n, 134n
Einaudi Giulio, 61, 62 Giustinian Bernardo, 111
Einaudi Luigi, 29 Gorio Federico, 10-13, 25, 35, 36, 39, 47, 80
Emiliani Vittorio, 134n Gramsci Antonio, 32, 213
Erba Valeria, 57 e n, 58, 83, 121n Grasso Carmelo, 47
Erbani Francesco, 205, 207 Guareschi Giovanni, 7
Ernesti Giulio, 133n Guermandi Maria Pia, xiv, 172, 173 e n
Escobar Arturo, 213 Guerzoni Marco, 164 e n

Falco Luigi, 58, 83 Harvey David, 73 e n, 85, 208 e n, 213, 216 e n


Falconi Ferrari Laura, 83 Henry Guy, 134n
Fatarella Stefano, 164n, 173n Hilter Adolf, 8, 19
Fava Fernando, 204
Feletti Edgarda, 95, 107, 109, 110, 112, 125 Iannello Antonio, 133n
Feltrinelli Giangiacomo, 50 Imbesi Pino, 35
Ferretti Licinio, 109 Indovina Francesco, 134n, 165, 197n, 207n
Fersuoch Lidia, xiv Ingrao Pietro, 64, 76
Finiguerra Domenico, 176, 199 Insolera Italo, 36, 37, 61, 62 e n, 65n, 70, 71n,
Fiorentino Fabio, 14n, 15 e n, 16-18 127
Fiorentino Mario, 7n, 65n, 80
Fiori Simonetta, 74n Jacobelli Paolo, 35
Flores DArcais Paolo, 163
Fondelli Mario, 109, 110 Kraemer Badioni Thomas, 134n
Forni Elisabetta, 204
Foscari Antonio, 139 La Malfa Ugo, 19, 79
Franchi Tonino, 37 La Pira Giorgio, 80
Frisch Georg, 173n, 176, 194n, 198 Lacava Alberto, 47, 138n
Langella Cinzia, 205
Gabanelli Milena, 195 Lanzinger Gianni, 133n
Gago Davila Jesus, 134n Lanzuise Giovanni, 203
Galasso Giuseppe, 123 Laroni Nereo, 112, 154
Galbraith J. K., 71 e n, 213, 214n Laterza Giuseppe, 207
Gallingani Mariangiola, 164n Laterza Vito, 62
Gambino Roberto, 134n, 138n, 180n Latouche Serge, 213
Garano Stefano, 121n Le Corbusier, 24
Garau Pietro, 38 Lefebvre Henri, 76 e n, 208 e n
Garcia Lorca Federico, 5 Lennard Henry, 145, 146 e n, 159f
Gennaro Gianni, 75n Leon Paolo, 138n
Gerratana Valentino, 15 e n Leopardi Giacomo, 5
Ghio Mario, 39 e n, 53, 121n, 127 Levi Carlo, 11
Giallo R., 141n Libera Adalberto, 39
Giann Roberto, 205 Libertini Lucio, 119, 120 e n, 122 e n, 123
Gianquinto Titta, 102 Lombardi Giorgio, 139
Gibelli Maria Cristina, 173n, 175, 197n, 198, Lombardi Riccardo, 47, 76
200, 204n Lonergan Bernard, 23
Gigliotti Antonio, 63 Longo Luigi, 64, 72

237
indice dei nomi di persona

Lorenzi Giambattista, 111 Moroni Piero, 47


Lovascio Cosma, 190n Moroni Stefano, 166 e n, 167 e n, 168 e n, 169
Loy Nanni, 4 Morpurgo Giorgio, 121n, 135n
Loy Peppe, 4, 10, 157f Mostacci Roberto, 58
Lugli Pietro Maria, 12n, 65n Mottini Maurizio, 117 e n, 118
Lupi Maurizio, 66n, 132, 164n, 196 Mounier Emmanuel, 14
Muratori Saverio, 95
Macaluso Emanuele, 122 e n, 123 Musil Robert, 5n
Macchi Giulio, 111 Muu Cautela Maria, 65
Macciocco Vanni, 180n
Machiavelli Nicol, 32 Napoleoni Claudio, 26, 27 e n, 28 e n, 59, 213,
Magnaghi Alberto, 186, 188, 189, 207n, 233f 228 e n
Magri Lucio, 21, 24, 58 Napolitano Giorgio, 121
Malacrino Claudio, 134n Natali Lorenzo, 50
Malfatti Francesco, 121n Natoli Aldo, 63, 64, 67
Malossi Elettra, 164n Natta Alessandro, 121
Malvezzi Piero, 6n Nenni Pietro, 79
Mancini Giacomo, 47, 65n, 69, 196 Nicolazzi Franco, 118, 126, 143
Mancini Oscar, 74n, 175, 207, 224 e n, 225 e n Nigro Gianluigi, 48
Mancuso Franco, 92n, 97n, 121n Novelli Diego, 80
Manieri Elia Mario, 36, 37
Mantini Pierluigi, 197 Occhetto Achille, 133n, 152
Manzella Andrea, 110 Odorisio Carlo, 54
Mar Giampaolo, 139 Oliva Antonio, 75n
Marcelloni Maurizio, 133n, 134n Oliva Federico, 121n
Marchetta Manlio, 135n Olivetti Adriano, 23, 82
Marcialis Giuseppina (Giusa), 36, 48, 83
Marco Romano, 126 Paba Giancarlo, 204
Maretto Paolo, 95 Packard Vance, 213, 214n
Maritan Jacques, 14 Pagano Fortunato, 134n
Marson Anna, 233f Pajetta Giancarlo, 64
Martinotti Guido, 148, 149 Palermo Ciro, 171
Martuscelli Michele, 47, 49, 51, 52 e n Palermo Giuseppe, 173n
Marx Karl, 8, 32, 88, 213, 214, 226n Parola Vittorio, 135n
Mattioli Raffaele, 19, 59 Parrelli Ennio, 21
Mattucci Emilio, 37 Pasolini Pier Paolo, 13
Matulli Roberto, 121n Passarelli Lucio, 65n
Maturi Michele, 105 Patassini Domenico, 165
Mazza Luigi, 195, 196 Pavese Cesare, 62
Mazzolari Primo, don, 20 Pavoncelli Giuseppe, 189
Melloni Mario (Fortebraccio), 21, 22, 58 Pedace Donatella, 14n
Melograni Carlo, 121n, 123 Peguy Charles, 14
Meneghetti Lodo, 173n Pellicani Gianni, 93, 94, 98, 102, 103, 111, 137,
Mercalli Luca, 199 154
Mercurio Franco, 190 Pennetta Luigi, 190n
Milani Lorenzo, don, 20, 21n Perna Massimo, 48
Minelli Stelvio, 57 Perugini Giuseppe, 7n
Mocenigo Pietro, 111 Petrini Carlo, 199
Molino Raffaele, 75n Petrucci Amerigo, 127
Mondini Paolo, 195 e n Pia Margherita, 135n
Monello Paolo, 122 Piano Renzo, 139
Morandi Bruno (Dado), 6, 63 Piccinato Luigi, 47, 53, 65n, 80, 127
Morandi Maurizio, 36 Piccotti Pierre, 171
Moretti Luigi, 3 Pinochet Augusto, 85 e n
Moro Aldo, 79, 100, 201 Pio xii, papa, 20, 43

238
indice dei nomi di persona

Pirelli Giovanni, 6n Salzano Francesco, 160f


Poggiani Alessandra, 171 Salzano Germana, xlviif, 33
Pompei Stefano, 121n Salzano Giovanni, 160f
Prasca Giuliano, 70 Salzano Giulia, 94, 160f
Predonzan Dario, 187 Salzano Maria, xlviiif, 160f
Prodi Romano, 140n Salzano Mauro, 160f
Proudhon Henri, 8 Salzano Mauro, xlviiif
Pulli Giuseppe, 121n Samon Giuseppe, 56, 80
Samperi Piero, 65
Quaroni Ludovico, 12n, 25 Sandulli Aldo, 55
Sani Maurizio, 164n, 190n
Radicioni Raffaele, 117, 118 e n, 119 e n, 121n, Sanna Antonello, 180n
134n Sarti Armando, 76
Ravaioli Carla, 173n, 228n Sartre Jean-Paul, 23
Reagan Ronald, 85, 116 Sassen Saskia, 213
Realacci Ermete, 163 Savoia, fam., 69
Renzini Anna, 121n Scalfari Eugenio, 84, 101 e n
Restucci Amerigo, 121n Scandizzo Lucio, 75n
Ricardo David, 214 Scano Luigi, 14n, 91n, 92n, 95-97n, 98 e n, 94,
Ridolfi Mario, 13 107 e n, 112, 114 e n, 120 e n, 125, 133 e n,
Rigamonti Paolo, 198 134 e n, 138, 154, 155 e n, 190n, 194, 197n,
Righi Ezio, 121n 214n, 231f
Rigo Mario, 93, 145, 154 Schenk Helmar, 180n
Rinaldini Franco, 21 Sebasti Rinaldo, 48
Ripa di Meana Carlo, 134, 135n Sennett Richard, 210, 211n, 213
Ripa di Meana Daria, 48 Settis Salvatore, 163
Rivi Gianni, 94 Siliani Simone, 134n
Rodano Franco, 17-19, 21-24, 26, 28, 30, 32, Sinisgalli Leonardo, 6
54, 59, 63, 158f, 213 Smith Adam, 214
Rodano Marisa, 18 e n, 19, 28, 59 Somma Paola, 135n, 204
Roggio Sandro, 173n, 188 Soru Renato, 179-181, 185, 188
Romanelli Giandomenico, 134n Sotgia Antonello, 72n
Roscani Bruno, 72, 76 Spilotros Elisa, 164n
Rossellini Roberto, 5 Spriano Paolo, 15 e n
Rossi Aldo, 61 Stalin Iosif, 8, 19n
Rubin de Cervin Maria Teresa, 140, 143 Stanghellini Stefano, 121n
Ruffolo Andrea, 134n Storchi Stefano, 134n
Ruffolo Giorgio, 138, 215, 216n, 227 e n Storto Giancarlo, 121n, 197n
Russo Giovanni, 123 Strobbe Francesco, 38
Russo Saverio, 190n Sullo Fiorentino, 44, 48, 50, 57, 77, 196

Sacconi Filippo, 21, 22 Tamburini Giulio, 35n, 36, 37, 48, 83, 197n
Sachs Wolfgang, 213 Tat Tonino, 21, 22
Salinari Carlo, 15 Teilhard du Chardin Pierre, 14
Salvagni Piero, 135n Testa Enrico (Chicco), 123, 133n
Salvagno Vittorio, 114 Thatcher Margaret, 85, 116
Salzano Anna, 160f Tirelli Lino, 121n, 134n
Salzano Carmela, 157f Tito Josip Broz, 20
Salzano Carmen (Litta), xlviif Tocci Walter, 133n, 134n, 135n
Salzano Edoardo, 15n, 24n, 30n, 38n, 56n, 57n, Todde Giorgio, 173n, 180n
60n, 61n, 71n, 75n, 77n, 82 e n, 95n, 114n, Todros Alberto, 54 e n, 76, 121n
116n, 121n, 123 e n, 125n, 127n, 129n, 130n, Togliatti Palmiro, 19, 22, 32
132n, 133n, 135n, 142n, 143n, 149n, 175n, Tranfaglia Nicola, 133n
180n, 195n, 196n, 197n, 204n, 224n Tranquilli Vittorio, 21, 22
Salzano Eduardo, xlvif, 19 Trifoni Romolo, 37

239
Trivelli Renzo, 63 Vettoretto Luciano, 166
Trupiano Antonino, 83 Viesti Gianfranco, 190n
Turroni Sauro, 134n, 197 Visentini Bruno, 140, 142
Tutino Alessandro, 76, 80 Vitale Mirella, 190n
Vittadini Maria Rosa, 133n, 134n
Urbani Paolo, 180n Vittorini Marcello, 25, 41, 47-50
Urbinati Nadia, 147n Vivante Raffaele, 90n

Valecic Dusana, 173n Weir Todd, 232f


Valente Erasmo, 21
Valle Cesare, 10, 25, 35, 80 Zagrebelsky Gustavo, 223 e n
Valori Michele, 12n, 65n Zambrini Guglielmo, 134n
van der Borg Jan, 140 Zanazzo Marina, xiv
van Dijk Teun A., 177n Zappulli Umberto, 21
Veltroni Walter, 194 Zennaro Angelo, 153
Vendola Nichi, 189 Zevi Bruno, 40, 62, 80
Venti Donatella, 134n Zucca Raimondo, 180n
Venturi Marco, 133n, 134n Zucconi Massimo, 200n, 203

Finito di stampare
nel mese di gennaio 2010
da Cierre Grafica, Sommacampagna (VR)
per Corte del Fontego editore

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