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LA CRISI DEL DOPOGUERRA IN ITALIA E L'AVVENTO DEL FASCISMO

I. La crisi del dopoguerra

I.1. Economia, societ e politica nel dopoguerra: problemi generali e specificit italiane
Il primo dopoguerra in Italia fu caratterizzato dagli stessi problemi economici, sociali e politici che
interessarono la maggior parte degli stati europei nello stesso periodo:
la distruzione di mezzi e di risorse umane
la vulnerabilit alle patologie fisiche e psichiche, conseguenza della denutrizione e dell'effetto
devastante delle atrocit viste e commesse in guerra
l'inflazione, conseguenza dell'aumento di carta moneta che i governi avevano stampato per far
fronte ai debiti di guerra (questo riguardava anche i paesi vincitori, che si erano indebitati con gli
USA)
i problemi di riconversione dell'economia, che per anni era stata quasi completamente mobilitata
per le esigenze della guerra
il reducismo: chi aveva rischiato la vita sui campi di battaglia tornava a casa con una nuova
coscienza dei propri diritti, con la convinzione di aver maturato un credito nei confronti della
societ. Coloro che al fronte avevano avuto ruoli di comando trovavano spesso difficolt a
riprendere occupazioni o studi per troppo tempo abbandonati e mal si rassegnavano al ritorno ad un
lavoro subordinato
la crisi della posizione economica e sociale del ceto medio, declassato sia nei confronti dei "nuovi
ricchi", gli speculatori, sia nei confronti di una parte dei ceti operai e contadini. Questi, infatti,
nell'esasperazione delle conflittualit tipica di ogni periodo di crisi, diedero vita ad una forte ondata
di scioperi e di rivendicazioni salariali. In queste iniziative essi portarono tutta l'esasperazione di chi
aveva atteso dalla fine del conflitto il miglioramento delle proprie condizioni e tutto il pragmatismo
di chi aveva appreso proprio dalla disciplina del fronte l'importanza dell'organizzazione per il
perseguimento dei propri obiettivi: il complesso di queste circostanze, unito al disorientamento del
ceto politico italiano, consent ai movimenti operai e contadini di conseguire qualche buon risultato,
che agli occhi della piccola e media borghesia appariva come un'ulteriore prova della propria crisi.
A questo complesso di problemi, che l'Italia condivideva con molti paesi europei, se ne aggiungevano
poi altri che erano connessi con le peculiarit dell'Italia:
il sistema industriale italiano non era mai stato completamente autonomo dallo Stato; esso era
cresciuto sotto la protezione delle tariffe doganali, con il "vantaggio" di un mercato interno arretrato
(il Mezzogiorno) e con la garanzia di commesse cospicue e sovvenzioni vantaggiose. Il carattere
per certi aspetti parassitario del capitalismo italiano si era ancor pi accentuato con la guerra,
durante la quale gli episodi di speculazione e corruzione furono numerosi: questo significa che
l'industria italiana era divenuta ancor meno autonoma che in passato (e che l'arricchimento degli
speculatori era avvenuto a spese dello Stato, cio della collettivit, e in modo particolare dei piccoli
risparmiatori).
L'intensit delle tensioni politiche del dopoguerra, provocando il timore di rivoluzioni, aveva
dappertutto favorito un atteggiamento di tipo conservatore o addirittura reazionario. La svolta
conservatrice ebbe per esiti diversi nei differenti paesi. Alcuni di essi, come la Gran Bretagna,
avevano solide tradizioni liberali e democratiche; i loro parlamenti avevano affrontato e superato
altri momenti di difficolt e la fiducia nelle istituzioni continuava ad essere abbastanza diffusa. In
questi paesi furono sufficienti brevi periodi per riassorbire i contraccolpi del dopoguerra, senza che
mai venissero seriamente posti in discussione i diritti civili e i meccanismi democratici. Ma altri
paesi, e Italia e Germania fra questi, avevano una storia liberale di pochissimi decenni alle
spalle, e ancor pi recenti erano le tradizioni democratiche: esse non ressero all'urto e vennero
sostituite da regimi totalitari. Naturalmente, oltre al minore radicamento delle istituzioni liberali,
per comprendere i casi italiano e tedesco necessario tener conto anche di altri elementi, quali la
debolezza economica che esasper le conflittualit interne e grav sui rapporti internazionali, e
come la presenza di forti partiti di orientamento socialista, divenuti ancor pi "sospetti" dopo la
rivoluzione bolscevica, che spinse molti verso posizioni illiberali, pur di sconfiggere il "pericolo
rosso".
Uno degli aspetti della debolezza del sistema politico italiano consisteva, come era in parte emerso gi
prima della guerra, nel fatto che i capi del governo, espressione dell'orientamento liberaldemocratico,
erano ancora avvezzi alla politica ottocentesca basata sul clientelismo e sui rapporti personali tra
elettori e notabilato e tra governo e singoli parlamentari. Questo limite, gi evidente nella politica
forzatamente oscillante di Giolitti, divenne ancor pi chiaro dopo il conflitto, quando la societ italiana
aveva assunto ancor pi chiaramente i caratteri di una societ di massa. Le vicende dell'immediato
dopoguerra mostrarono che la vecchia classe politica italiana non era in grado di fronteggiare questa
trasformazione.

I.2. La caduta del governo Orlando e il governo Nitti


Agli elementi critici che abbiamo gi rilevato si aggiungeva, per l'Italia, la delusione per i modesti
risultati ottenuti dopo la guerra. Vittorio Emanuele Orlando non pot (o, secondo i suoi avversari, non
fu in grado) di ottenere di pi: il suo governo cadde fra recriminazioni ed esasperazioni in cui prendeva
sempre pi respiro il "mito della vittoria mutilata".
Si form allora, nel giugno del 1919, guidato dall'economista Francesco Saverio Nitti, un gabinetto di
centro, appoggiato da deputati cattolici costituitisi in un autonomo Partito Popolare con l'autorizzazione
pontificia (don Luigi Sturzo ne fu il fondatore). Durante il suo governo, durato un solo anno, Nitti
dovette misurarsi con due questioni, strettamente connesse con i tratti problematici del dopoguerra
italiano.
L'impresa di Fiume: la citt di Fiume (i cui abitanti in un plebiscito avevano sollecitato
l'annessione all'Italia) era divenuta il simbolo delle rivendicazioni italiane sull'Istria e sulla
Dalmazia, in cui, per, la maggioranza della popolazione era slava. Quando si decise di assegnare
Fiume alla Jugoslavia, Gabriele D'Annunzio si mise alla testa di alcuni volontari ed occup la citt.
L'impresa, curata anche nella "scenografia" e condita dalla retorica dannunziana, suscit ampi
consensi nell'opinione pubblica nazionalistica e patriottica e anche nell'esercito, ma di essa l'Italia
doveva rispondere di fronte al consesso internazionale. Nitti assunse un atteggiamento attendista,
e la questione fu risolta solo dopo la sua caduta, nel 1920, da Giovanni Giolitti, con il trattato di
Rapallo (Fiume venne dichiarata "citt libera" e Zara pass all'Italia).
Il biennio rosso. L'acuirsi delle tensioni sociali provoc, fra il 1919 e il 1920, una serie di
manifestazioni in diverso modo "sovversive" e talvolta violente: scioperi e agitazioni nelle campagne
come nelle citt, ondate di intolleranza verso gli ufficiali reduci (visti come simboli della guerra),
formazione di leghe e cooperative di braccianti nelle campagne (forti e capaci di imporsi sui
proprietari fondiari soprattutto in Toscana e in Emilia Romagna). Si tratta del periodo detto
"biennio rosso", per l'orientamento socialista di molti partecipanti alle iniziative in questione (le
quali coinvolgevano per anche anarchici e cattolici, soprattutto per quanto riguarda l'attivit delle
leghe nelle campagne). Anche in questo caso il governo Nitti mostr un atteggiamento titubante:
non solo non fu in grado di proporre una propria linea di mediazione, ma neanche appoggi in
modo deciso l'uno o l'altro dei contendenti: a volte le manifestazioni e gli scioperi vennero
repressi con violenza, in altri casi episodi anche pi significativi, come le occupazioni di fabbriche,
furono tollerati, con la conseguenza di suscitare le apprensioni di una borghesia sempre pi
preoccupata dalla "minaccia bolscevica".
La crisi della vecchia classe dirigente divenne ancor pi evidente dopo una riforma elettorale, voluta
soprattutto dai popolari: l'introduzione del sistema proporzionale in luogo di quello fondato sul collegio
uninominale1. Il sistema uninominale aveva favorito le forze liberali, non organizzate in un partito di
tipo moderno, ma ricche di notabili locali. Il nuovo sistema premi i due partiti di massa a struttura
rigida: i socialisti e i popolari. Nelle elezioni del novembre 1919 le forze liberali e democratiche
tradizionali conquistarono circa 200 seggi, i popolari oltre 150 (triplicando le loro posizioni) e i
socialisti un centinaio (anch'essi in crescita)2.
I liberali dovevano ormai abbandonare la vecchia prassi politica fondata sulle trattative fra il governo e
i singoli gruppi di parlamentari, e popolari e socialisti potevano esigere, per entrare a far parte dei nuovi
governi, una linea politica complessiva pi consona alle proprie aspirazioni.
Ma anche questo non era facile: sia gli uni che gli altri erano infatti travagliati dalle proprie
divisioni interne. Fra i popolari si ritrovavano le tradizionali "tre anime" del cattolicesimo italiano:
conservatori (la cui corrente faceva capo ad Agostino Gemelli), moderati (Luigi Sturzo) e sindacalisti
(Giovanni Miglioli), con richieste ed esigenze differenti. Fra i socialisti si erano accentuate le tensioni
fra riformisti e massimalisti. Furono questi ultimi a prevalere, ma anche in questo caso la prevalenza
numerica di una corrente non era tale da imporre una linea politica coerente, e il socialismo italiano
attravers una fase fortemente velleitaria: a parole i massimalisti erano proiettati verso la rivoluzione, e

1Sistema uninominale (o maggioritario secco): il territorio nazionale viene diviso in collegi (tanti quanti sono i
deputati da eleggere) e in ogni collegio viene eletto solo il deputato che ha ricevuto il maggior numero di voti. Sistema
proporzionale: il territorio viene diviso in un numero minore di collegi, in ciascuno dei quali vengono eletti pi
deputati, sulla base di liste di candidati presentate dai partiti, in proporzione ai "voti di lista". Il primo sistema pi
adatto alla "governabilit", il secondo alla "rappresentativit".
2 Alle elezioni si era presentato anche, raccogliendo pochissimi voti, un nuovo movimento politico: i "fasci di
combattimento", di Benito Mussolini.
per questo rifiutavano la collaborazione con i "governi borghesi", ma dall'altro, contrastati all'interno del
partito, non operavano in maniera risoluta per provocare la rivoluzione. Essi si limitavano
all'estremismo verbale, col risultato di accentuare la paura della borghesia.

II. La recessione economica e il governo Giolitti


Nella primavera del 1920, mentre la crisi economica stava per raggiungere il suo culmine, la
Confindustria irrigid le proprie posizioni e si mostr ancor meno disposta che in passato a concedere
miglioramenti salariali, esasperando i ceti operai. Questi entrarono in agitazione nel marzo del '20 per
protestare contro l'introduzione nelle fabbriche dell'ora legale. Il provvedimento aveva, allora come oggi,
lo scopo di risparmiare energia elettrica, ma gli operai reagirono a quello che poteva apparire come un
ennesimo asservimento alle esigenze degli imprenditori: per consentire loro il risparmio nel consumo di
energia, essi si arrogavano il diritto di decidere perfino del tempo, alterandone la scansione a proprio
vantaggio.
L'agitazione prosegu poi sul tema del rinnovo del contratto di lavoro, la Confindustria respinse le
rivendicazioni e l'Alfa Romeo di Milano proclam la "serrata", cio la chiusura degli stabilimenti. I
metallurgici risposero allora con l'occupazione delle fabbriche, soprattutto nel "triangolo industriale" di
Milano, Genova e Torino. Essi venivano sostenuti, a Torino, anche da un gruppo dell'estrema sinistra
socialista che si riconosceva nelle posizioni del periodico "Ordine nuovo", cui collaboravano due giovani
intellettuali: Antonio Gramsci e Piero Gobetti3.
Il successo dell'occupazione fece supporre agli esponenti della rivista "Ordine nuovo" che i tempi
fossero maturi per un'iniziativa rivoluzionaria, ma le organizzazioni operaie e il partito socialista nel suo
complesso si rifutarono di seguire le indicazioni rivoluzionarie proposte dal gruppo di "Ordine nuovo":
essi considerano l'occupazione come un semplice momento di lotta sindacale, per la cui riuscita
contavano anche sulla politica di mediazione del nuovo capo del governo, un esperto nell'arte della
mediazione. Si trattava di Giovanni Giolitti, tornato alla presidenza del Consiglio nel luglio del 1920.
Questi, come gi aveva fatto in altre circostanze, non fece intervenire la forza pubblica contro gli
occupanti e si limit a far presidiare i nodi vitali del Paese per evitare tentativi insurrezionali. A met
settembre, le posizioni pi moderate prevalsero e si giunse ad un accordo: gli operai ottennero
miglioramenti salariali e normativi, e la promessa di misure legislative che avrebbero consentito una
forma di intervento delle rappresentanze operaie sulle scelte aziendali.
Anche nelle campagne, dove le agitazioni di coloni, braccianti e mezzadri proseguivano dalla
conclusione della guerra, Giolitti riusc a mediare e a far concludere un accordo alle parti. Ma ci non
bast a consolidarne la posizione:
3Antonio Gramsci fu protagonista con Amadeo Bordiga della scissione di Livorno del 1921, il congresso del Psi
durante il quale i delegati dell'estrema sinistra abbandonarono il partito per fondare il Pci, aderente alla terza
Internazionale, cio l'Internazionale comunista o Comintern, nata per iniziativa dei bolscevichi russi. I partiti che
aderivano si impegnavano a darsi una struttura analoga a quella del Pcus, a sostenere l'Urss, a rispettare le direttive
del Comintern, a lottare contro la socialdemocrazia per favorire la nascita di autonomi partiti rivoluzionari. Gramsci
mor in carcere nel 1937, a 46 anni. Piero Gobetti era un liberale, non un marxista, persuaso dell'importanza assunta
dalla classe operaia nelle nuova realt della nazione. Come scrisse sulle pagine del periodico "Rivoluzione liberale",
da lui fondato nel 1922, i principi del liberalismo andavano riaffermati, disgiungendoli per dalla classe borghese che
se ne era resa interprete, perch essa si era mostrata incapace di proseguire nell'affermazione dei diritti fondamentali
dei cittadini. Mor in esilio nel 1926, a 25 anni, a seguito delle percosse ricevute dai fascisti.
Gli accordi raggiunti avevano indotto il padronato rurale e l'imprenditoria industriale a concessioni
che avevano un costo economico elevato, e di ci, in una fase di recessione, erano certamente
scontenti: avrebbero voluto, da parte del governo, un'azione pesantemente repressiva, che ponesse
fine alle agitazioni, alle occupazioni e a tutte le violazioni della legalit in corso. A Giolitti veniva
rimproverata, insomma, un'eccessiva debolezza verso le forze del proletariato rurale e urbano.
Questa debolezza appariva particolarmente grave, agli agrari e agli industriali, in quanto essi
temevano di essere alla vigilia di una rivoluzione di tipo sovietico: le violazioni della legalit e le
violenze durante le occupazioni delle fabbriche, le dichiarazioni rivoluzionarie del massimalismo
socialista e della stampa di estrema sinistra concorrevano ad alimentare questo timore, bench la
situazione storico-politica italiana fosse ben diversa da quella della Russia del '17 e ben diverso
fosse anche il partito socialista italiano rispetto al partito socialista bolscevico. Ma i timori in corso
indussero gran parte del mondo imprenditoriale rurale e urbano ad abbracciare l'idea di "farsi
giustizia" da solo, ricorrendo a milizie private e a soluzioni extralegali. Fu in questo contesto che
prese forza il movimento fascista.
Giolitti, infine, si rese ancor pi inviso ai ceti pi abbienti perch tent di riequilibrare la difficile
situazione finanziaria italiana proponendo una politica finanziaria mirante ad aumentare il carico
fiscale sui pi ricchi, con provvedimenti come un'imposta straordinaria sui patrimoni e le
successioni o la nominativit di azioni e titoli (anche questi provvedimenti, come quelli relativi alla
partecipazione operaia alla gestione delle fabbriche, non vennero realizzati).

III. L'ascesa del fascismo

III.1. Mussolini: formazione e itinerario politico


Di estrazione sociale piccolo-borghese (figlio di un fabbro e di una maestra), Benito Mussolini aveva
presto lasciato il lavoro di maestro per dedicarsi ad un'intensa attivit politica e giornalistica.
Anticlericale e antimilitarista nella sua prima stagione politica (nella quale risent di alcune suggestioni
anarchiche), aveva poi abbracciato il socialismo, nella sua versione massimalista.
Come altri massimalisti, per, Mussolini era ostile alla lettura in chiave deterministica del pensiero di
Marx: a suo avviso, la rivoluzione non sarebbe stata il risultato di un'evoluzione graduale e pressoch
spontanea; essa andava favorita e sollecitata con interventi attivi e azioni risolute. Perfino la
partecipazione alla guerra (di cui era stato fra i pi accesi sostenitori, venendo per questo esplulso dal
partito socialista e dalla drezione dell'Avanti!) poteva essere allora vista come un'occasione per "far
esplodere le contraddizioni del mondo borghese" e dare l'avvio alla rivoluzione. In queste posizioni
mussoliniane erano presenti diverse componenti ideologiche:
del marxismo egli sottoline soprattutto gli elementi volontaristici e attivistici: la teorizzazione
della rivoluzione come "levatrice della storia", l'esaltazione della lotta delle "nuove" forze proletarie
contro la "decadente e corrotta" societ borghese, il rifiuto del socialismo utopistico (cui venivano
assimilate le posizioni dei riformisti).
Su tale atteggiamento influivano le suggestioni irrazionaliste introdotte nella cultura europea tra i due
secoli da autori non marxisti o decisamente antimarxisti come Sorel e Nietzsche.
Le opere di Nietzsche (1844-1900) furono al centro di una lettura politica che, volgarizzando e
deformando il suo pensiero, ne colse soprattutto aspetti come il culto della forza, la volont di
potenza, il diritto delle minoranze "elette" (i "superuomini") a dominare sulle masse.
Georges Sorel (1847-1922) con le sue Riflessioni sulla violenza fu il fondatore del sindacalismo
rivoluzionario, che sovrapponeva anarchismo, marxismo e volontarismo nietzschiano, contribuendo
a costruire il mito dello sciopero generale come strumento fondamentale della rivoluzione proletaria
in cui si sarebbero scatenati gli "istinti guerrieri e creativi" delle masse, e valorizzando la "funzione
purificatrice" della guerra.
Proprio sulla base dell'interventismo, di cui il "Popolo d'Italia" diretto da Mussolini fu accesa tribuna, il
politico di Predappio cerc consensi anche in altri ambienti politici, e fu guardato per un breve periodo
con simpatia anche dai democratici radicali. Ma a conflitto concluso egli trov appoggi soprattutto fra
le organizzazioni degli ex-Arditi e dei reduci: gli "Arditi" erano stati i componenti di truppe d'assalto
che, durante la guerra, avevano elaborato una mistica del rischio, del disprezzo della morte,
dell'aspirazione all'avventura; fra i reduci, soprattutto sottufficiali, molti incontravano difficolt a
reinserirsi ed erano disposti a qualsiasi avventura pur di recuperare il prestigio e il potere perduti.
Con questa eterogenea piattaforma ideologica e con l'appoggio di questi uomini, Mussolini comp il suo
primo atto politico del dopoguerra: il 23 marzo 1919 a Milano, in piazza Sansepolcro, fond una
nuova formazione politica, i "Fasci di combattimento". Il programma di Sansepolcro prevedeva fra
l'altro: il suffragio universale esteso anche alle donne e con i minimi di et abbassati, la giornata
lavorativa di otto ore e minimi salariali garantiti, forme di partecipazione operaia alla gestione tecnica
delle fabbriche, la nazionalizzazione di tutte le fabbriche belliche, un'imposta straordinaria sul capitale,
il sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose, il sequestro dell'85% dei profitti di guerra.
Si trattava di un programma che risentiva dell'eterogeneit delle componenti presenti nella formazione di
Mussolini e della volont di far leva su tutte le possibili fonti di malcontento della popolazione italiana,
ma che proprio per la volont di accontentare troppi non persuase gli elettori, i quali bocciarono la
nuova formazione politica alle elezioni del 1919. Quando Mussolini oper una pi decisa scelta di
campo, i consensi, gli appoggi e i finanziamenti non gli mancarono.

III.2. Dai Fasci di combattimento allo squadrismo


Nei primi nuclei fascisti erano numerose le componenti dell'estrema sinistra, ma intorno al 1920 le
adesioni al nuovo raggruppamento politico cominciarono ad essere diverse: al fascismo aderirono
soprattutto "uomini d'ordine" allarmati per le violenze e i disordini del "biennio rosso", borghesi
spaventati dall'avanzata dei ceti operai, perfino monarchici (pur essendo il movimento ancora
dichiaratamente repubblicano). Il collante che teneva insieme gruppi politici e sociali cos palesemente
diversi era rappresentato dal disprezzo per le istituzioni democratiche. Era, questo, un elemento non
nuovissimo nella storia italiana: gi al tempo del dibattito fra interventisti e neutralisti, l'ostilit nei
confronti del "parlamentarismo" era stata un elemento presente, e ancor pi questo tratto si era
accentuato nel dopoguerra, quando il Parlamento venne accusato di incapacit nella gestione di una
situazione difficile e densa di motivi di malcontento per molte componenti della societ italiana.
Queste accuse, per, non venivano mosse ad un particolare governo o ad un particolare parlamento:
esse cominciarono a dirigersi verso il metodo democratico in quanto tale: molti cominciarono a
ritenere che solo una prassi politica pi energica e sbrigativa avrebbe potuto risolvere i difficili nodi
della situazione italiana. Questo fu ad esempio l'atteggiamento degli ambienti imprenditoriali e agrari,
che cominciarono ad appoggiare economicamente il fascismo, pensando di potersene servire per
"riportare l'ordine" che lo Stato non era pi, a loro parere, in grado di assicurare.
Fu soprattutto nelle campagne che il fascismo si radic profondamente. Grandi e piccoli imprenditori
agrari cominciarono ad aderire ai fasci trasformandoli in organizzazioni paramilitari con le quali
aggredire le organizzazioni dei braccianti e dei mezzadri. Si formarono "squadre d'azione" (da cui il
termine "squadrismo") che assaltavano case del popolo, sedi di leghe e cooperative bianche e rosse,
amministrazioni comunali socialiste, singoli militanti. Le organizzazioni dei lavoratori non riuscirono a
reagire: di rivoluzione, in questi ambienti, si era parlato molto, ma non si era mai arrivati ad
organizzarla concretamente, dandosi strutture di tipo militare. Gli squadristi, invece, erano spesso
reduci di guerra ed ex ufficiali, e la loro consuetudine alle armi e allo scontro fisico, oltre agli appoggi
economici provenienti dalle organizzazioni degli agrari, li mise in grado di seminare lo scompiglio e il
disorientamento nelle campagne.
Quando poi i socialisti emiliani reagirono con le armi, gli squadristi ne approfittarono per accentuare e
generalizzare i loro attacchi: nel novembre del 1920 gli squadristi effettuarono un assalto al municipio
di Bologna, che aveva un'amministrazione a guida socialista (palazzo D'Accursio); i socialisti risposero
con le armi, e vi furono diverse vittime, fra le quali un decorato di guerra, consigliere dell'opposizione. A
partire da questo episodio, lo squadrismo fascista dilag senza freni prima in tutta l'Emilia e poi in tutta
l'Italia rurale. Gli squadristi si diedero una divisa sul modello di quella degli arditi (caratterizzata dalla
camicia nera) e aprirono una vera e propria guerra civile contro le organizzazioni rivali. L'uso della
violenza e dell'omicidio politico era la loro prassi. Bastonature e umiliazioni di rivali politici, spedizioni
punitive contro socialisti e popolari, distruzioni di sedi di partito, redazioni di giornali, case del popolo,
cooperative, assalti a interi paesi o quartieri e impiego di mezzi motorizzati e di tecniche di guerra
divennero quotidiani4.
Naturalmente bisogna porsi il problema dell'atteggiamento del governo e delle forze dell'ordine di fronte
al dilagare della violenza.
Le forze dell'ordine in molti casi simpatizzavano con i fascisti, e talora questo avveniva anche nella
magistratura: funzionari, giudici, ufficiali e sottuficiali, di estrazione borghese, condividevano
l'ostilit verso il socialismo, che era l'obiettivo pi vistoso dei fascisti (ma non l'unico: anche le
organizzazioni "bianche" ebbero le loro vittime). I gradi intermedi dell'esercito erano poi i pi

4Nell'Italiadegli anni Venti si preparava chiaramente il passaggio da una societ aperta ad una societ chiusa. Come
ha rilevato K. Popper, i nemici della societ aperta operano prima di tutto per minare le basi della pacifica convivenza
tra gli uomini, ben sapendo che dall'insicurezza nascer la richiesta di ordine ad ogni costo, perch sotto la pressione
determinante dei bisogni primari (fra i quali la sicurezza rientra) negli uomini prevale la disponibilit a rinunciare
anche a quanto prima costituiva motivo di orgoglio: la libert in primo luogo.
accaniti nel loro filofascismo: ufficiali in servizio partecipavano in prima persona alle spedizioni
punitive e aiutavano le squadre con armi e munizioni.
Per quanto riguarda Giolitti, questi tent di arginare le connivenze fra i vertici amministrativi e
militari e il fascismo, ma nel complesso non guardava con ostilit al movimento: egli ritenne di
poterlo utilizzare come "forza nuova", da incanalare nella legalit come era avvenuto con il
socialismo riformista. E nel frattempo, come altri esponenti liberali, riteneva di potersene servire per
indebolire il massimalismo, tanto da accoglierli nel "listone" dei candidati governativi per le elezioni
del 1921, legittimandone di fatto le iniziative5.

III.3. Dallo squadrismo alla marcia su Roma


Finanziati dagli agrari, coperti dalle forze dell'ordine, legittimati dal governo, contrastati da un
socialismo duramente provato e indebolito dalla scissione di Livorno (1921), i fascisti continuarono
indisturbati la propria azione, determinando un clima di guerra civile cui non pose fine neppure un
cambio al vertice della politica italiana, quando Giolitti si dimise e il socialriformista Ivanoe Bonomi
var un governo di coalizione.
Fu a questo punto che Mussolini inizi a comprendere il rischio che il fascismo gli sfuggisse di mano, e
tent di riprenderne le redini con una serie di iniziative tese a proporre la pacificazione con i due
grandi partiti di massa italiani, quello socialista e quello popolare. Questa iniziativa, tuttavia, non
ebbe successo:
all'interno del fascismo le forze decisamente antisocialiste erano cresciute negli anni dello
squadrismo, e molti ras (capi dello squadrismo agrario) erano tutt'altro che disponibili a questa
nuova svolta del fascismo
nell'ambiente dei socialisti e dei sindacati la disponibilit a venire a patti con chi li aveva per mesi e
mesi attaccati a tutti i livelli era ancora inferiore.
Il "patto di pacificazione" di Mussolini si risolse cos in un fallimento, egli fu messo in minoranza dai
ras provinciali, e decise quindi di proseguire sulla via dello scontro con i socialisti.
Fu in questo contesto che (dopo un'ulteriore crisi di governo e dopo la formazione di un gabinetto
presieduto da Luigi Facta, nel febbraio del 1922), le organizzazioni socialiste decisero di varare uno
"sciopero legalitario" con l'intento di denunciare all'opinione pubblica l'intollerabilit delle violenze e
delle illegalit squadriste.
In realt lo sciopero legalitario si risolse in una prova della debolezza del socialismo, scompaginato
dalle iniziative fasciste e indebolito dalle scissioni interne, e in una prova di forza per i fascisti. Questi,
infatti, riuscirono in molte localit a sabotare lo sciopero, organizzando il "crumiraggio" con i loro
affiliati (nel frattempo il movimento dei Fasci di combattimento si era trasformato in un vero e proprio
partito, il Partito nazionale fascista; si era dato una struttura organizzativa articolata, aveva

5 Fu un errore prospettico basato su un luogo comune duro a morire: quello che la societ degli "onesti" possa trovare
un vantaggio nel lasciare che i "disonesti" si colpiscano a vicenda. Quando si lascia spazio all'illegalit, sono proprio
gli onesti a farne le spese per primi. Come in passato il Consolato francese aveva lasciato crescere il potere di
Napoleone pensando di potersene servire, e si era poi trovato ad essere esautorato di ogni potere da Napoleone, cos la
classe politica liberale italiana pens di potersi servire del fascismo per neutralizzare il massimalismo socialista e fu
essa stessa liquidata dall'in staurazione della dittatura.
accantonato le pregiudiziali antimonarchiche ed anticlericali ed aveva stabilito buoni rapporti con la
destra nazionalista); i fascisti, inoltre, approfittarono dell'occasione per attuare una nuova serie di
violenze squadristiche ai danni dei loro oppositori.
Il fascismo viveva un momento di forza: Mussolini ritenne giunta l'occasione per tentare la presa del
potere. Rassicur gli industriali con il discorso di Udine, in cui formul un programma di politica
economica di ispirazione liberista (anch'esso in contrasto con gli orientamenti espressi nel programma di
Sansepolcro), si assicur l'appoggio di alcuni esponenti della famiglia reale, rafforz la disciplina della
milizia di partito e infine (congresso di Napoli, ottobre del 1922) decise la "marcia su Roma": le milizie
fasciste si sarebbero impadronite dei principali centri del potere, quindi avrebbero marciato sulla
capitale sotto la guida di un quadrumvirato i cui esponenti (un militare di carriera, Emilio De Bono; un
fascista filomonarchico, Cesare De Vecchi; il ras di Ferrara, Italo Balbo e un ex sindacalista
rivoluzionario, Michele Bianchi) rappresentavano le diverse anime del fascismo. Mussolini sarebbe
rimasto a Milano, pronto a fuggire in Svizzera in caso di fallimento dell'impresa.
Il 28 ottobre 1922 i fascisti entrarono a Roma, mentre il re si rifiutava di firmare lo stato d'assedio,
come aveva invece precedentemente convenuto con Facta. Questi si dimise, e Vittorio Emanuele III
affid l'incarico di formare il nuovo governo a Mussolini, giunto nel frattempo a Roma.
Sulle motivazioni che indussero il re a non firmare lo stato d'assedio il dibattito storiografico ancora
aperto. La spiegazione ufficiale della monarchia fu legata al timore di provocare una guerra civile, ma
molti hanno interpretato la decisione del sovrano come un tentativo di salvare la monarchia di fronte
ad un potere emergente che sembrava ormai troppo forte per poter essere bloccato. Non va
dimenticato che molti fascisti erano ancora fedeli all'orientamento originario del fascismo, quello
repubblicano: Vittorio Emanuele III vide nel compromesso coi fascisti una buona opportunit per
garantire la continuit della monarchia anche dopo la presa del potere da parte dei fascisti.
La legalit era formalmente salva: Mussolini aveva assunto un incarico dietro mandato del re, secondo
la prassi statutaria. Ma era la prima volta nella storia d'Italia che un uomo politico si era fatto assegnare
il mandato governativo con la minaccia delle armi.

IV. La fase legalitaria: 1922-1925

Fra il 1922 e il 1925 il fascismo si consolid al potere attraverso i canali istituzionali tipici del vecchio
Stato liberale; solo con la fine del 1925 si potr parlare di "regime fascista", con il venir meno dei diritti
civili e la costruzione dello stato totalitario.
Al primo governo di Mussolini parteciparono, oltre ai fascisti stessi, i popolari, i demosociali (di
orientamento centrista) e uomini della destra storica. Sia la composizione del governo che le iniziative
prese successivamente rispecchiavano il tentativo di operare una "normalizzazione", che facesse
superare il modo anomalo in cui si era giunti alla formazione del governo, giungendo a situazioni
di compromesso con gli esponenti dei poteri tradizionali.
I tentativi di normalizzazione sono visibili in diversi ambiti:
la riforma Gentile e il riavvicinamento al mondo cattolico. Il ministero della pubblica istruzione
venne affidato al filosofo neoidealista Giovanni Gentile, che var nel 1923 una riforma del sistema
scolastico ispirata alla difesa della tradizione classica, alla selettivit degli studi, alla centralit dei
licei per la formazione delle classi dirigenti, a un'impostazione storicistica nell'insegnamento delle
principali discipline. Parte della riforma fu la centralit della religione nell'insegnamento elementare,
accolta con favore dagli ambienti del Vaticano, cos come l'introduzione di un esame di Stato alla
fine di ogni ciclo di studi, che metteva sullo stesso piano scuole pubbliche e private.
la politica militare e l'abbandono del mito della nazione armata. Fra le rivendicazioni originarie
del fascismo vi era la teoria della "nazione armata", in base alla quale il peso degli ufficiali di
carriera avrebbe dovuto essere ridimensionato a vantaggio della partecipazione popolare. Venne
invece conservata la struttura tradizionale dell'esercito di caserma, cosa che rafforz le simpatie
degli ambienti militari nei confronti del fascismo.
la politica economica e la continuit con il liberismo. Il titolare del ministero delle finanze, il
fascista Alberto De Stefani, tradusse in una serie di provvedimenti concreti l'orientamento
filoliberista gi espresso da Mussolini nel discorso di Udine. Venne revocato il blocco dei fitti,
furono concessi incentivi all'edilizia, venne avviata la privatizzazione delle assicurazioni sulla vita e
dei servizi telefonici, furono semplificate e ridotte le imposte sui redditi imprenditoriali. Gli
incrementi di produttivit furono notevoli e il bilancio dello Stato torn in pareggio.
la politica estera e la continuit con gli indirizzi precedenti. Anche in politica estera gli indirizzi
di fondo seguiti dal fascismo nei primi anni furono in linea con quelli dei governi precedenti. In
particolare, venne mantenuto il legame con Francia e Inghilterra, anche se talvolta venne adottato un
tono imperioso, tendente a blandire il nazionalismo italiano.
la politica interna. Anche in questo caso Mussolini punt alla normalizzazione, anche perch essa
gli appariva come l'unico modo per riuscire a riprendere il controllo del partito al di sopra dei vari
ras. Come al tempo del patto di pacificazione, Mussolini riteneva che il fascismo dovesse
abbandonare l'uso sistematico della violenza per riuscire a guadagnarsi stabilmente le simpatie
dell'opinione pubblica moderata, che pure aveva apprezzato l'azione delle squadre in funzione
antisocialista.
Per conseguire questo obiettivo e contemporaneamente per imporsi come unica guida del partito,
Mussolini doveva riuscire a ridurre il potere dei capi locali del fascismo. A questo scopo:
a) riaffid l'autorit locale ai prefetti e ne riafferm il ruolo di "unici e soli rappresentanti"
dell'autorit del governo, ai quali, quindi, anche le gerarchie locali del Pnf dovevano essere
subordinate;
b) cre il Gran Consiglio del Fascismo, supremo organo direttivo del Pnf composto da suoi fedeli,
e la milizia volontaria per la sicurezza nazionale, per inquadrare sotto la disciplina militare i
turbolenti ex squadristi ponendoli sotto il comando di ufficiali di carriera.
c) adott una politica di stampo trasformistico nei confronti dei principali partiti moderati.
Mussolini guidava un dicastero composto da liberali, popolari, demosociali e indipendenti. I
popolari erano profondamente divisi al loro interno, gli altri erano privi dei solidi apparati
organizzativi dei moderni partiti di massa: Mussolini si rese quindi conto che avrebbe potuto
facilmente cooptarli, mediante una prassi politica pragmatica e spregiudicata. Riusc facilmente in
questo intento soprattutto con i gruppi pi fragili, i liberali e i demosociali, ma ebbe un discreto
successo anche con i popolari. Sebbene il partito popolare si esprimesse a volte in termini
cautamente antifascisti, Mussolini riusc di fatto a guadagnarsi l'appoggio di numerosi esponenti
popolari (i cosiddetti clerico-fascisti), anche grazie a misure come la reintroduzione del crocifisso
nelle aule scolastiche e negli ospedali e alle garanzie per l'insegnamento della religione cattolica,
segno dell'ormai definitivo abbandono dell'originario anticlericalismo.
Oltre alla prassi quotidiana, Mussolini concep anche un progetto trasformista di ampio respiro: una
riforma elettorale che inducesse i vari gruppi a presentarsi riuniti in vaste coalizioni. Egli sperava
che molti deputati, timorosi di perdere il seggio, si candidassero in una lista governativa sotto il suo
diretto controllo. Venne cos varata, nel 1923, la legge Acerbo, in base alla quale alla lista che
otteneva la maggioranza spettavano i due terzi dei seggi, mentre per la ripartizione dei seggi tra i
partiti minoritari continuava a valere il criterio proporzionale.
Venne quindi creato un "listone" fascista aperto a indipendenti e uomini di altri partiti, che nelle
elezioni del 1924 aveva di fronte numerose formazioni avversarie, estremamente frammentate. Oltre
a questo vantaggio, i fascisti potevano godere dell'appoggio di buona parte della borghesia, di una
congiuntura economica favorevole, di un atteggiamento neutrale da parte del Vaticano e dei
maggiori centri finanziari. Non paghi di questi vantaggi, molti esponenti dello squadrismo fascista
ricorsero alla consueta prassi violenta: si moltiplicarono soprusi e intimidazioni nei confronti degli
avversari politici o anche dei fascisti dissidenti che avevano presentato liste proprie. Mussolini non
aveva un atteggiamento globalmente favorevole a tali violenze, contrarie alla sua aspirazione alla
"normalizzazione", ma non vi si oppose con decisione (e non lo fece affatto nei confronti dei
dissidenti del suo partito), per timore di perdere l'appoggio degli ambienti degli squadristi.
I risultati elettorali furono nettamente favorevoli ai fascisti, che ottennero oltre il 66% dei consensi,
ma da pi parti si levarono proteste contro le violenze che avevano preceduto e accompagnato le
operazioni di voto. Il principale portavoce di queste proteste fu il deputato socialriformista Giacomo
Matteotti. Il 31 maggio 1924 egli pronunci alla Camera appena riunita una ferma denunzia delle
illegalit e delle violenze, sollecitando un'invalidazione in blocco dei risultati. Undici giorni dopo,
Matteotti venne rapito e ucciso. Il delitto Matteotti segn il punto di non ritorno della rottura
fra Mussolini e le opposizioni, fra il fascismo e la democrazia. Dopo il delitto inizi la vera e
propria "costruzione del regime".

V. La costruzione del regime

V.1. La reazione al delitto Matteotti e la "secessione dell'Aventino


Pochi giorni dopo il delitto, gli assassini di Matteotti vennero identificati: si trattava di un gruppo di
squadristi direttamente legati agli ambienti del Viminale. Si ebbe una decisa ripresa delle opposizioni,
parte delle quali decisero di non partecipare pi ai lavori della Camera sino al ritorno dell'Italia alla
legalit, ritirandosi, come afferm allora il socialista Turati "sull'Aventino delle proprie coscienze" (con
riferimento alla secessione dei plebei nella Roma antica). I partiti dell'Aventino speravano che il re
destituisse Mussolini, considerato il responsabile morale, se non il mandante, del delitto. Ma Vittorio
Emanuele III si rifiut di prendere qualsiasi iniziativa, e Mussolini pot dare inizio alla controffensiva.
Il 3 gennaio 1925, in un discorso alla Camera, sfid il Parlamento a chiedere di incriminarlo, dichiar di
assumersi tutta la responsabilit di quanto era avvenuto e si proclam, nei confronti di quanti
consideravano il fascismo un'associazione a delinquere, il capo di tale associazione. "Quando due
elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione la forza": con queste parole il capo del fascismo
rompeva senza pi possibilit di equivoci con la tradizione democratica, per la quale quando due parti
sono in lotta, la soluzione il confronto e il rispetto della maggioranza. Ma al confronto con la
maggioranza Mussolini non sarebbe certamente andato, poich l'esasperazione per il clima di violenza
gli aveva inimicato anche alcuni "moderati" che avevano inizialmente appoggiato il suo governo.

V.2. Gli omicidi politici e le "leggi fascistissime"


Dopo questa svolta, Mussolini affid la guida del partito a Roberto Farinacci, portavoce dello
squadrismo: la conseguenza fu l'immediata intensificazione della violenza, di cui rimasero vittime il
liberale Piero Gobetti, il democratico Giovanni Amendola e molti altri, mentre gi nel 1924 era stato
assassinato un religioso, Don Minzoni. Al ministero degli Interni venne designato il nazionalista
Federzoni, che pure si dedic a colpire l'opposizione con sequestri e altri provvedimenti di polizia. Della
stretta autoritaria, inoltre, Mussolini approfitt anche per rafforzare il proprio controllo sul Pnf.
La radicalizzazione dello scontro politico si espresse anche in ambito intellettuale: se gi nel '24 era
stato pubblicato un Manifesto degli intellettuali del fascismo, redatto da Gentile e sottoscritto fra gli
altri anche da Pirandello e Marinetti, nel '25 venne pubblicato un "Contromanifesto" antifascista,
curato da Benedetto Croce e sottoscritto da Salvemini e da Amendola.
La stretta autoritaria incontr gli ultimi tentativi di opposizione in alcuni attentati a Mussolini, ci che
forn il pretesto per emanare, tra il '25 e il '26, le cosiddette "leggi fascistissime":
i deputati "aventiniani" vennero dichiarati decaduti
fu abolito il pluralismo sindacale e politico
il presidente del Consiglio, che secondo lo Statuto era responsabile di fronte al Parlamento, venne
dichiarato responsabile solo di fronte al re (il Parlamento non poteva pi provocarne la caduta con
la sfiducia) e i suoi poteri vennero rafforzati
venuta meno l'azione parlamentare, il Gran Consiglio del Fascismo divent l'organo istituzionale cui
spettava proporre i nominativi dei ministri e del capo del governo
le organizzazioni contrarie al regime vennero soppresse
le autonomie locali furono ridotte
la stampa fu sottoposta alla censura
venne ripristinata la pena di morte
fu istituito un "tribunale speciale per la sicurezza dello Stato" con il compito di reprimere le attivit
antifasciste, che durante il ventennio commin 28.000 anni di carcere e decine di condanne a morte.
L'Italia aveva inequivocabilmente cessato di essere uno stato liberale e si era trasformata in una
dittatura.

V.3. La politica economica


Anche la politica economica del fascismo sub una svolta dopo il 1925, abbandonando gli schemi
tradizionali del liberismo e proponendo una concezione di carattere corporativo, caratterizzata da un
accentuato interventismo statale.
per far fronte alla svalutazione della lira, il valore della moneta italiana nei confronti della sterlina
(che costituiva il parametro internazionale di riferimento) venne fissato a "quota novanta". La fine
della congiuntura internazionale positiva aveva portato ad una crisi delle esportazioni italiane, e
questa ad una crisi economica complessiva, perch in Italia i consumi interni erano deboli: la
debolezza dell'economia italiana aveva provocato la svalutazione della lira. Appunto per ovviare a
tale fenomeno, Mussolini decise di applicare una politica deflazionistica, fondata su una limitazione
dei salari, dei prezzi e dei crediti. L'obiettivo venne raggiunto, ma il rallentamento dell'economia che
ne scatur provoc un ulteriore decremento della domanda interna e un aumento della
disoccupazione, reso ancor pi drammatico dal fatto che il regime non riusciva ad assicurare una
diminuzione dei prezzi proporzionale al calo dei salari.
in materia di politica economica si diffusero anche le teorie del corporativismo. Esso propugnava
l'organizzazione dell'intero mondo del lavoro in "corporazioni" che dovevano garantire la
collaborazione fra datori di lavoro e lavoratori. La teoria corporativa comprendeva anche ambizioni
che andavano al di l del semplice ambito lavorativo: in prospettiva, infatti, le corporazioni
avrebbero dovuto assorbire anche le funzioni del Parlamento. Il principio della rappresentanza
corporativa non prevedeva che i rappresentanti del popolo venissero nominati e legittimati
attraverso il voto, ma in quanto esponenti delle diverse articolazioni della societ, che avrebbe
dovuto essere organizzata in 22 corporazioni. Si tratta di un principio di carattere organicistico,
in base al quale il soggetto dei diritti non pi l'individuo, ma l'organizzazione cui appartiene.
In realt il corporativismo non fu mai pienamente realizzato. Si arriv anche all'abolizione della
Camera, ma poi gli eventi bellici posero la questione in secondo piano.
Con l'introduzione delle corporazioni e la successiva "Carta del lavoro" del 1927 il fascismo si
proponeva l'obiettivo di sostituire il principio della collaborazione fra le classi a quello della lotta di
classe e quindi lo scopo di ampliare il proprio consenso sia nell'ambiente imprenditoriale che in
quello dei lavoratori, a vantaggio dei quali vennero anche presi provvedimenti di tutela del lavoro:
furono istituiti gli uffici di collocamento, concesse le ferie retribuite, potenziato il sistema
mutualistico. Di fatto, per, le corporazioni si ridussero ad organo di trasmissione fra lo Stato, di
cui erano diretta emanazione, e gli interessi industriali, poich le libert sindacali e il diritto di
sciopero erano stati aboliti, e gli stessi sindacati fascisti non erano autonomi rispetto allo Stato. La
pace sociale nelle fabbriche non venne raggiunta, n il consenso al fascismo si radic negli ambienti
operai.
Dove invece il fascismo acquis una base di massa fu nelle campagne, cui il regime dedic
particolare attenzione: l'Italia era ancora un paese prevalentemente agricolo, e la conquista del
consenso nell'ambiente rurale era importante. L'attenzione al mondo rurale si espresse ad un duplice
livello: economico e politico-ideologico.
Dal punto di vista economico venne lanciata la "battaglia del grano", cio una vasta campagna per
l'incentivazione della produzione cerealicola, con lo scopo di assicurare all'Italia l'autosufficienza
nella produzione del grano (si trattava di un primo esempio delle direttive di politica autarchica, che
furono largamente impiegate dopo l'applicazione delle sanzioni economiche causate dalla politica
coloniale del regime). In questo quadro furono anche avviate iniziative di bonifica nell'Agro
Pontino, con la costituzione delle citt di Littoria e Sabaudia e con il completamento dell'acquedotto
pugliese. I risultati di questa politica furono contraddittori: da un lato la produzione di cereali
crebbe notevolmente, dall'altro gli incentivi alla cerealicoltura scoraggiarono altre produzioni (come
la zootecnia) che assicuravano maggiori rendimenti.
Dal punto di vista politico-ideologico l'attenzione alle campagne si espresse come un ampio disegno
di ruralizzazione della societ italiana (vi fu perfino un movimento intellettuale, detto
"Strapaese", che difese sulle proprie riviste l'immagine e il valore di un'Italia tradizionalista e
rurale): la civilt urbana, legata alla grande industria, veniva vista dal fascismo come produttrice di
un irrequieto proletariato di fabbrica; essa andava dunque posposta al mondo agricolo e paesano, di
cui si esaltavano virt come l'attaccamento alla famiglia, alla terra, alle tradizioni, e di cui si
sottolineava con favore la tradizionale prolificit. La campagna per gli "otto milioni di baionette", la
tassa sul celibato, i premi alle famiglie prolifiche erano altrettanti aspetti di una persuasione
profonda di Mussolini: solo un massiccio incremento demografico avrebbe potuto assicurare
all'Italia un futuro di grande potenza internazionale.

VI. L'apogeo del consenso: 1929, patti lateranensi e plebiscito

VI.1. I patti lateranensi


Fra le diverse vie battute dal fascismo per acquisire un durevole consenso vi fu il raggiungimento di un
accordo con la Chiesa cattolica, a cui milioni di italiani guardavano come ad una sicura guida spirituale.
Si gi visto come l'abbandono dell'originario anticlericalismo fosse stato uno dei primi aspetti del
tentativo di Mussolini di consolidare il proprio potere. Dopo la conquista delle leve del potere, l'esigenza
del radicamento e del consenso non venne meno: ancor pi che in passato, il fascismo avvertiva
l'esigenza di una legittimazione sia agli occhi dei milioni di credenti italiani, sia a quelli del consesso
internazionale, presso il quale la Chiesa godeva di prestigio morale.
Con questo intento, Mussolini punt direttamente alla conciliazione definitiva fra Stato e Chiesa:
nonostante un deciso miglioramento dei rapporti dai tempi della breccia di Porta Pia, infatti, un accordo
formale non c'era mai stato. Il duce, come nel frattempo Mussolini aveva preso a farsi chiamare, era
incoraggiato a sperare in un esito positivo da una presa di posizione della stampa pontificia a favore del
governo durante il periodo di crisi seguito al delitto Matteotti. Iniziarono quindi le trattative, che si
conclusero l'11 febbraio 1929 con la firma dei patti lateranensi, composti da tre parti: un trattato, una
convenzione finanziaria e un concordato.
Col trattato la Santa Sede accett il fatto compiuto della perdita dei suoi domini temporali e
riconobbe la legittimit del regno d'Italia; quest'ultimo riconobbe la sovranit pontificia sullo
stato autonomo di Citt del Vaticano.
La convenzione finanziaria prevedeva la concessione al pontefice di 750 milioni in contanti e di un
miliardo in titoli di stato, come rimborso per i danni subiti dalla Santa Sede per la perdita del
patrimonio di San Pietro (le regioni che costituivano lo Stato della Chiesa e i beni dei conventi che
erano stati secolarizzati).
Il concordato, infine, regolava le condizioni in cui si svolgeva la vita della Chiesa cattolica in
Italia, concedendo a questa vastissimi privilegi rispetto alle altre confessioni: l'insegnamento della
dottrina cattolica assunse un ruolo ancora maggiore rispetto a quello che le era stato riservato nella
riforma Gentile, vennero introdotte cattedre di religione anche nelle scuole medie inferiori e
superiori; lo Stato si impegn ad escludere dall'insegnamento e dagli impieghi a contatto col
pubblico i sacerdoti apostati o colpiti da censure; al matrimonio religioso vennero riconosciuti
effetti civili.
I patti lateranensi vennero presentati dalla propaganda di regime come un grande successo personale di
Mussolini e sicuramente aumentarono il credito di cui godeva sia in Italia che all'estero. Ma questo non
significa che essi siano stati accettati con consenso unanime. Vennero condannati, con le cautele
necessarie in un regime autoritario, da alcuni fascisti, legati all'originaria impostazione del movimento,
che rimproveravano a Mussolini i cedimenti di fronte alla Chiesa (fu il caso di Giovanni Gentile); ma
soprattutto dagli ambienti liberali e laici, il cui portavoce Benedetto Croce pronunzi in senato un
discorso nel quale implicitamente accus Mussolini, paragonandolo al re Enrico IV di Francia, ex-capo
ugonotto, che nel XVI secolo si convert strumentalmente al cattolicesimo per riacquistare il controllo
del regno. Ricordando la celebre frase di Enrico IV, "Parigi val bene una messa", Croce riafferm che
"vi sono uomini per i quali ascoltare o meno una messa cosa che vale infinitamente di pi di Parigi,
perch affare di coscienza".

VI.2. Il plebiscito
Sull'onda del consenso per la conciliazione fra Stato e Chiesa, vennero organizzate nuove consultazioni
politiche, con modalit di tipo plebiscitario: gli elettori non erano chiamati a scegliere fra diverse
opzioni possibili, ma solo ad esprimere il loro assenso o il loro dissenso su una lista unica di nominativi
selezionati dal Pnf.
Si trattava dell'ultimo passo verso la legittimazione del potere, che intendeva presentarsi come
riconosciuto dalla sanzione popolare: la percentuale dei "no" non raggiunse l'uno per cento dei votanti.
Diverse furono le ragioni del successo plebiscitario del fascismo:
i consensi acquisiti con la propaganda di regime e la conciliazione (il voto veniva presentato come
"un s al duce e al papa")
il sostegno delle masse cattoliche cui il presidente dell'Azione cattolica aveva esplicitamente chiesto
di sostenere il regime
le modalit delle votazioni, che non assicuravano la segretezza del voto
le divisioni interne dell'antifascismo. Il fronte antifascista era tutt'altro che compatto. Ne facevano
parte liberali, democratici, socialisti, comunisti e popolari come Don Sturzo e Alcide De Gasperi
(anche il loro partito era stato disciolto). La maggior parte degli esponenti pi prestigiosi era stata
costretta a rifugiarsi all'estero, soprattutto in Francia. Anche dall'estero gli antifascisti tentavano di
influire in vario modo sulle vicende italiane. Liberali, democratici, socialisti e cattolici tendevano a
farlo soprattutto mediante prese di posizione politiche e morali, con interventi sulla stampa francese
e tentando di mantenere i collegamenti con le personalit come Croce, che pur non aderendo al
fascismo continuavano a risiedere in Italia. I comunisti cercarono invece di svolgere, ovviamente in
forma clandestina, un'intensa attivit propagandistica in Italia. Queste divisioni si manifestarono
anche in occasione del plebiscito: mentre i comunisti invitarono a votare "no", gli altri invitarono i
loro simpatizzanti ad esprimere il loro antifascismo con l'astensione, indebolendo ulteriormente le
gi fragili possibilit dell'antifascismo.

L'ITALIA FASCISTA NEGLI ANNI TRENTA

I. Il dirigismo economico
Gli effetti della crisi del '29 si fecero sentire anche in Italia, ed accelerarono una tendenza che si
era gi manifestata in operazioni come la "battaglia del grano": venne, cio, accentuato il
dirgismo statale nei processi economici.
In una situazione internazionale caratterizzata da contrazione dei commerci, chiusura
protezionistica delle diverse economie, ritiro dall'Europa del capitale statunitense, il regime
reag riducendo per decreto le retribuzioni e comprimendo i consumi privati, ma anche
intensificando con nuovi strumenti il suo ruolo di direzione dell'economia.
L'operazione pi importante fu la creazione, nel 1933, dell'Iri (Istituto per la ricostruzione
industriale), un ente pubblico che acquis la propriet delle maggiori banche italiane e dei
pacchetti azionari delle imprese che queste controllavano, per impedirne il tracollo. Attraverso
l'Iri, lo Stato italiano divent proprietario di oltre il 20% dell'intero capitale azionario
nazionale: lo Stato si trov quindi ad essere il maggior imprenditore e il maggior
banchiere italiano. Decine di imprese vennero cos "salvate" a carico del bilancio pubblico;
una parte di queste, poi (in genere quelle pi redditizie) venne rivenduta ai privati. A questo
proposito si detto che, attraverso l'Iri, si vennero realizzando la privatizzazione dei profitti e
la socializzazione delle perdite.
L'intreccio fra il potere politico e i grandi gruppi industriali, fin dall'unit tipico dell'economia
italiana, divenne dunque durante il fascismo ancora pi stretto e si intensific ulteriormente
nella seconda met degli anni Trenta, in seguito alla politica di riarmo e alla guerra coloniale in
Etiopia.
L'enorme dilatazione della presenza dello Stato nell'economia e nella vita sociale non avvenne
attraverso le istituzioni corporative, che ebbero sempre un'influenza modestissima, ma
attraverso la moltiplicazione degli enti pubblici, organismi che caratterizzeranno la vita
dell'Italia ben oltre la fine del fascismo. Accanto agli enti pubblici economici (quali l'Iri e l'Agip
-azienda generale italiana petroli) si svilupparono gli enti pubblici assistenziali e previdenziali,
mutualistici e pensionistici (molti dei quali sopravvissuti nel dopoguerra, come Inps, Enpas,
Inail). Questi enti in parte unificavano istituti gi creati alla fine dell'Ottocento, in parte
vennero istituiti ex novo dal regime.
In questo modo lo stato fascista assunse i caratteri dello stato assistenziale, a somiglianza di
quanto avveniva in altri paesi. La differenza stava per nel fatto che altrove (per es. negli Usa
del welfare state) le decisioni dovevano comunque passare al vaglio degli organi
rappresentativi democratici e venivano prese sulla base della persuasivit e dell'efficacia che
dimostravano, mentre in Italia le libert politiche erano state soppresse, e quindi l'esecutivo era
in condizioni di agire senza misurarsi con le opposizioni e di utilizzare la politica sociale come
ulteriore veicolo per estendere la propaganda ed organizzare il consenso. Pressoch tutti i
settori della vita economica e sociale - previdenza, assistenza, assicurazioni, industria,
agricoltura, turismo, spettacolo, sport, cultura - vennero interessati dalla creazione di enti,
tanto da dare luogo a una sorta di "amministrazione per enti" parallela a quella dello stato, con
una propria estesa burocrazia e, spesso, con una propria rilevante forza economica e politica.
Dal fascismo l'Italia del dopoguerra eredit dunque, tra l'altro, anche un'amministrazione
parastatale pletorica, burocratizzata e scarsamente efficace.

II. La politica coloniale


a) gli anni Venti
In campo coloniale la politica del regime fascista fu inizialmente rivolta a consolidare i
possedimenti italiani in Africa: Libia, Eritrea e parte della Somalia (condivisa con Gran
Bretagna e Francia).
Si trattava innanzitutto di riconquistare gran parte della Libia, di cui l'Italia aveva perso il
controllo durante la guerra. La resistenza dei ribelli arabi fu vinta con le armi in una lotta
condotta con metodi molto violenti: il maresciallo Rodolfo Graziani fece ricorso a rappresaglie,
deportazioni di popolazioni, esecuzioni sommarie, provocando diverse decine di migliaia di
vittime.
Anche in Eritrea e in Somalia il governo di Mussolini cerc di consolidare la presenza militare
ed economica italiana. In Somalia il dominio italiano, inizialmente limitato ad un'area piuttosto
ristretta, venne ampliato, anche in questo caso piegando con la forza la resistenza delle
popolazioni e dei governi locali.
Furono avviate imprese di colonizzazione affidate a societ private con il sostegno del
governo: furono costruite strade e infrastrutture e venne sviluppata la produzione di cotone e
di banane, impiegando manodopera indigena in forma coatta. Costruzioni di strade e opere di
bonifica avvennero anche in Eritrea. L'importanza di quest'ultima, peraltro, era pi strategica
che economica: il paese, infatti, costituiva una base di penetrazione verso l'Etiopia e forniva
gran parte delle truppe indigene utilizzate dall'Italia nelle sue operazioni militari in Africa (il
nome di questi militari era scari, un termine che viene ancora impiegato nel lessico politico
per indicare coloro che sono disponibili a danneggiare anche i gruppi cui appartengono in
cambio di un limitato tornaconto personale).

b) gli anni Trenta


La decisione di procedere alla conquista militare dell'Etiopia matur fra il 1932 e il 1934.
L'Abissinia, la regione centrale dell'altopiano etiopico, costituiva un tradizionale obiettivo
coloniale italiano, peraltro non raggiunto (sconfitta di Adua, 1896). In seguito il governo
italiano aveva cercato di penetrare gradualmente nel paese, ora con accordi commerciali con il
negus, ora sobillando i capi delle popolazioni di confine con la Somalia e l'Eritrea.
Nel 1930 era salito al potere in Etiopia il negus Hail Selassi, che aveva iniziato un'opera di
modernizzazione e di rafforzamento militare del paese. Ci indusse Mussolini ad accelerare i
tempi, perch gli spazi per un intervento si riducevano: come notava un diplomatico italiano "i
posti al sole, e specialmente al sole africano (che sono quelli che pi ci interessano) sono tutti
accaparrati".
Altri motivi vanno per tenuti presenti per comprendere la decisione di Mussolini di lanciare
l'Italia in un'impresa coloniale difficile, costosa e anacronistica, dal momento che in tutto il
mondo il colonialismo doveva affrontare conflitti e ribellioni e si andava modificando.
motivi di prestigio internazionale, legati alla volont di fare dell'Italia una potenza di primo
piano, affermandone il ruolo sia di fronte alle democrazie occidentali sia di fronte alla
Germania nazista;
motivi di carattere economico: stimolare la produzione industriale, che faticava a
riprendersi dopo la crisi dei primi anni Trenta, e ridurre la disoccupazione;
motivi di politica interna, quelli tradizionali del colonialismo italiano: l'espansione coloniale
era vista come mezzo per consolidare il consenso e cementare l'unit della nazione.
Avviare la conquista, tuttavia, poneva problemi nel rapporto con il consesso internazionale: era
ormai dalla fine dell'Ottocento che la spartizione del pianeta procedeva sulla base di accordi fra
le potenze principali. Proprio in considerazione della prassi internazionale, infatti, il re e parte
delle gerarchie militari e politiche erano contrari all'impresa, perch temevano che essa portasse
ad un conflitto con la Gran Bretagna e la Francia.
La Francia, in realt, era molto interessata a mantenere un buon rapporto con l'Italia per timore
di un accordo Hitler-Mussolini, e quindi aveva indirettamente dato via libera all'impresa. La
posizione della Gran Bretagna era pi complessa. Da un lato, essa nutriva la stessa
preoccupazione della Francia, e non voleva quindi guastare i rapporti con l'Italia. Dall'altro,
per, non desiderava un rafforzamento degli italiani nel Corno d'Africa e si sentiva impegnata,
come rappresentante di primo piano della Societ delle Nazioni, ad evitare che uno stato
membro (quale era l'Etiopia) subisse un'aggressione da parte di un altro membro, l'Italia. Il
governo di Londra cerc di mantenere una posizione di equilibrio e di mediazione, ma quando
le intenzioni di Mussolini divennero manifeste, assunse un atteggiamento pi deciso. Gli
inglesi, tuttavia, non erano disposti ad una guerra con l'Italia: Mussolini aveva dunque ben
calcolato che avrebbe potuto prendere l'Etiopia senza provocare una crisi internazionale.
Il 3 ottobre 1935 le truppe italiane iniziarono l'invasione dell'Etiopia. Dopo una campagna
militare condotta con grande abbondanza di uomini e mezzi e con l'impiego di gas tossici, nel
maggio del 1936 l'invasione si concluse con la presa di Addis Abeba e la fuga di Hail Selassi.
Iniziava al tempo stesso una guerriglia che gli italiani non riuscirono mai a stroncare
completamente, nonostante la dura repressione e il regime di segregazione razziale instaurato
nella colonia.

III. L'avvicinamento alla Germania nazista


Di fronte all'aggressione italiana, la reazione dell'opinione pubblica internazionale, presso la
quale il colonialismo godeva di sempre minori consensi, fu unanime nella condanna. La Societ
delle Nazioni dichiar l'Italia paese aggressore e applic nei suoi confronti sanzioni
economiche: divieto di esportare in Italia armi, munizioni e merci per l'industria di guerra,
divieto di importare merci italiane; le sanzioni escludevano per merci di grande importanza
strategica (quali il ferro, l'acciaio, lo zinco e, soprattutto, il petrolio), vennero applicate
parzialmente e infine abolite, dopo la vittoria italiana.
L'obiettivo di guadagnare consenso al regime grazie alla guerra d'Etiopia venne
pienamente raggiunto. Mussolini, in un famoso discorso, annunci agli italiani la "rinascita
dell'impero sui colli fatali di Roma", cio la fondazione dell'impero dell'Africa orientale italiana.
Vittorio Emanuele III aggiunse al titolo di re d'Italia quello di Imperatore d'Etiopia.
Straordinarie manifestazioni di entusiasmo accolsero l'impresa e la sua vittoriosa conclusione.
La propaganda del regime batt ossessivamente sul tasto della nazione "proletaria", l'Italia,
strangolata economicamente dalle nazioni "plutocratiche" (ricche), che dopo aver
spadroneggiato nel mondo ora volevano impedirle di conquistarsi il suo impero. Durante il
periodo delle sanzioni milioni e milioni di italiani donarono "oro alla patria", cio consegnarono
allo stato le fedi nuziali e altri preziosi. Ogni voce di dissenso sembrava sopita. E tuttavia di l a
poco apparve chiaro che la conquista dell'impero non aveva migliorato le condizioni di vita
interne, e proprio la disillusione per le speranze create con la conquista dell'Etiopia diede inizio
alla crisi del consenso nei confronti del fascismo.
Le conseguenze dell'impresa di Etiopia furono gravi non solo sul piano interno, ma anche e
soprattutto su quello internazionale. In primo luogo, divenne chiara l'impotenza della
Societ delle Nazioni (gi emersa nel 1931, quando nulla venne fatto contro l'aggressione
giapponese alla Cina); l'Italia, inoltre, ruppe il legame che ancora esisteva con le potenze
democratiche occidentali, nei confronti delle quali era riuscita ad accreditarsi nel decennio
precedente, e si and orientando sempre pi decisamente verso l'alleanza con la
Germania (che non aveva approvato le sanzioni). In campo economico si verific
un'accelerazione della tendenza all'autarchia (proclamata ufficialmente nel 1936) gi insita
nella politica economica del regime; anche per questa via si intensific il rapporto privilegiato
con la Germania, se si considera che nel 1938 circa un quarto delle importazioni-esportazioni
italiane riguardava l'area austro-tedesca. Tutto ci non fu privo di ripercussioni nel precipitare,
di l a quattro anni, l'Italia nella catastrofe della seconda guerra mondiale.
L'avvicinamento alla Germania nazista si concretizz in diversi modi:
la vita civile italiana and sempre pi conformandosi al modello tedesco, attraverso
un'accentuata militarizzazione di cui erano chiare manifestazioni le "adunate oceaniche",
l'irreggimentazione degli studenti in organizzazioni di tipo paramilitare, l'esaltazione della
romanit imperiale;
Mussolini appoggi un accordo austro-tedesco nel 1936, preliminare alla successiva
annessione dell'Austria da parte della Germania;
Italia e Germania agirono congiuntamente nella guerra civile spagnola, in appoggio al
futuro dittatore Francisco Franco, a partire dal 1936;
sempre nel 1936, venne costituito l'asse Roma-Berlino, che prevedeva il riconoscimento
da parte tedesca dell'impero d'Etiopia, l'uscita dell'Italia dalla Societ delle Nazioni, la
collaborazione di Italia e Germania nella lotta contro il bolscevismo, la difesa delle forze
franchiste in Spagna. Nel 1937, dopo la firma di un patto antibolscevico da parte di
Giappone e Germania, l'asse Roma-Berlino si allarg alla partecipazione del Giappone;
nel 1938 venne approvata la legislazione razziale, preceduta da una campagna di stampa,
in cui supposti "intellettuali" illustravano i fondamenti pseudoscientifici del razzismo, e da
una propaganda esplicitamente razzista al tempo della guerra di Etiopia. Vennero introdotte
leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei, quali il divieto di sposarsi con cittadini
italiani "ariani", l'esclusione dal servizio militare e dalle cariche pubbliche, la limitazione
nell'esercizio di attivit economiche e libere professioni. Le leggi razziali, d'altro canto, non
furono solo il risultato dell'accentuazione dei tratti totalitari del regime o della profonda
dipendenza di Mussolini nei confronti di Hitler, che dell'antisemitismo aveva fatto una
chiave del proprio successo: la logica sottesa alle leggi razziali rientrava pienamente in
quell'avversione per il diverso e in quella mentalit antidemocratica e antiegualitaria che
erano caratteri distintivi dell'ideologia fascista e che avevano gi avuto modo di
manifestarsi sia contro i "diversi" politici, sia -sotto lo specifico profilo razziale- al tempo
della guerra d'Etiopia.

IV. Il problema del consenso


Gli storici hanno discusso a lungo sul consenso goduto dal fascismo in Italia, sulla sua
estensione e qualit. Taluni hanno sostenuto che questo consenso vi fu, che fu ampio e anche
"attivo" da parte di molti strati della popolazione; fra questi, Renzo De Felice, che ha
identificato nel periodo 1929-1936 (tra i Patti lateranensi e la delusione per le aspettative
legate alla conquista dell'Etiopia) il periodo del maggiore consenso ed ha individuato nei ceti
medi "emergenti" la base sociale principale di tale consenso. A differenza di quanto sostenuto
dalla storiografia di derivazione marxista, che aveva visto nel fascismo un regime
essenzialmente reazionario, legato agli interessi delle classi dominanti, secondo De Felice
sarebbero state invece le classi medie, desiderose di affermarsi sia nei confronti del
proletariato che nei confronti della borghesia industriale, a decretare il successo del fascismo.
Altri storici hanno parlato invece di un consenso prevalentemente passivo, fatto di paura,
rassegnazione, apatia politica e opportunismo, pi che di consapevole adesione. Essi hanno
messo in evidenza il processo di sostanziale deresponsabilizzazione che la societ italiana sub
durante il fascismo: lo stato totalitario che il fascismo tent di costruire (senza riuscirvi
completamente, avendo mantenuto posizioni di compromesso con almeno altri due importanti
centri di potere: la monarchia e la Chiesa; si parla in proposito di "totalitarismo imperfetto")
trasform i cittadini italiani in sudditi passivi e manipolati, trascinandoli infine in una tragica
avventura militare. Questa la tesi espressa gi nel 1921 da Piero Gobetti, secondo cui il
fascismo non si proponeva altro che di fare del popolo italiano "un gregge di schiavi abbrutiti
da consegnare ad un padrone". Gobetti riteneva comunque che il fascismo godesse realmente
dell'appoggio della popolazione italiana (o almeno della sua parte peggiore, quella
conservatrice e quella incapace di assumersi la responsabilit della libert), e che la sua
affermazione fosse inevitabile: egli ne parlava come di "autobiografia della nazione", cio come
della logica conseguenza del particolare sviluppo storico dell'Italia, del suo ritardo nel
raggiungimento dell'unit, della sua debole e recente tradizione liberale, del suo sviluppo
economico viziato dall'accordo fra centri di potere economico e governi, e soprattutto della
debolezza e della pavidit della borghesia italiana, che per affermare il suo potere aveva sempre
preferito allearsi con i conservatori piuttosto che con le masse popolari.
Sicuramente molto difficile misurare il consenso nei confronti di un regime che aveva abolito
ogni libert politica, proibito ogni manifestazione di dissenso, occupato lo stato,
monopolizzato o sottoposto a rigido controllo le fonti di informazione e la scuola, attuato
un'opera sistematica di propaganda in proprio favore. Ma indubbio che una forma di
consenso vi fu, cos come indubbio che esso venne meno negli ultimi anni, quanto pi il
regime accentuava i suoi caratteri autoritari e bellicisti e si accostava alla Germania hitleriana.
La storiografia pi recente ha cominciato a considerare superata la stessa questione del
consenso ed ha cercato piuttosto di indagare i comportamenti concreti della societ italiana
durante il fascismo. E' emerso cos quello che la studiosa americana Victoria De Grazia
chiama "il paradosso del consenso": quanto pi il regime operava per mobilitare le masse
attraverso il partito e le sue organizzazioni (le associazioni giovanili e femminili, il Dopolavoro,
le attivit culturali...) tanto pi creava occasioni di socializzazione e di politicizzazione difficili
da controllare. La vita associativa dei Guf (giovent universitaria fascista) e delle altre
associazioni che irregimentavano ad ogni et e in ogni settore lavorativo e ricreativo gli italiani,
le attivit culturali e le riviste promosse dal fascismo per inquadrare le coscienze, si rivelarono
occasione di dibattito e di circolazione delle idee che contribuirono alla formazione di
un'attitudine critica e anticonformista tra le generazioni giovani intellettualizzate. Non pochi
furono i casi di intellettuali italiani che, formatisi all'ombra di riviste allineate al regime (come
"Critica fascista" di Giuseppe Bottai o "L'Italiano" di Leo Longanesi), maturarono poi il
passaggio nelle file dell'antifascismo militante.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Mondadori, Firenze 1998 (voll. I e III);
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