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Media e conoscenza

Pier Cesare Rivoltella*

(in «Vita e Pensiero», 6, novembre/dicembre 1999, pp. 622-637).

Il rapporto tra le tecnologie di comunicazione e i processi cognitivi costituisce oggi un


tema di grande interesse per le scienze umane e dell’educazione. Di esso si occupano,
infatti, sia gli esperti di neuroscienze che lavorano all’introduzione di nuovi modelli
algoritmici capaci di ridare forza al progetto dell’Intelligenza Artificiale, sia i ricercatori
di didattica che riflettono sulle nuove opportunità che la ICT (Information
Communication Technology) può garantire all’apprendimento umano.
In questo intervento vorremmo giustificare questa attenzione riconducendola a ragioni
che sono insieme storiche e teoriche. Questo significa, da una parte, chiedersi quali
motivazioni di fondo consentano di mettere in relazione i media e la conoscenza;
dall’altra, verificare su base storica come questa relazione si sia storicamente declinata
per fare ritorno all’oggi con la capacità di leggerne in profondità motivi e linee di
tendenza.

I media, tra protesizzazione e mediazione simbolica

Il termine latino medium — con il cui plurale media oggi indichiamo, attraverso la sua
adozione da parte della lingua inglese, tanto i mezzi di comunicazione “tradizionali”
come la radio, il cinema, la televisione (mass media), che le nuove tecnologie come
Internet e i servizi telematici in genere (new media) — autorizza almeno due derivazioni
etimologiche significative.

1. Anzitutto medium è il mezzo, lo strumento di cui ci si serve per fare qualche cosa.
Nel caso della comunicazione, i media sono dunque tutto ciò cui l’uomo fa ricorso per
comunicare, dalla parola orale fino alla rete telematica costituita dall’interfaccia del
computer con il sistema di telefonia. Questo significato del termine è attestabile già
nell’Organon aristotelico quando lo Stagirita definisce la proposizione (cioè il
linguaggio) come la forma logica del giudizio, cioè come l’espressione, visibile e
udibile, di quanto abbiamo pensato e trova la sua definitiva determinazione con Harold
Innis agli inizi di questo secolo. È sua, anche se diffusa e resa celebre da McLuhan1,
l’idea dei media come protesi dei nostri sensi: la televisione come protesi della vista, la
radio come protesi dell’orecchio.
Dietro a questa intuizione si può cogliere una ben precisa concezione dello sviluppo
dell’uomo sulla terra organizzata attorno al suo tentativo di estendere progressivamente
il suo mondo di incidenza oltre il suo mondo di osservazione. Questo significa esercitare
un controllo sullo spazio e sul tempo per contrarne, rispettivamente, l’estensione e la
durata: colmare spazi sempre più estesi in un tempo sempre inferiore, questa è una delle
grandi costanti del processo di ominazione sul pianeta. Per farlo, l’uomo ha da sempre
avuto a disposizione due strategie possibili: viaggiare, spostarsi, o far viaggiare al suo

* Docente di Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa, Università Cattolica di Milano. Il testo di
questo intervento riprende la relazione tenuta dall’autore nell’ambito del Corso di perfezionamento in
Media Education. Cultura e professione per la formazione multi-mediale - Milano, 10 aprile 1999.
1
M.McLuhan, Understanding media, Mc Graw-Hill, New York 1964; tr.it., Gli strumenti del
comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967.
posto dei messaggi. La protesizzazione dei sensi cui i media mettono capo ha a che fare
con questa seconda possibilità: essi sono gli strumenti, i supporti fisici, che consentono
alle possibilità fisiologiche del nostro occhio e del nostro orecchio di oltrepassare il
luogo fisico della compresenza vedendo e sentendo, in tempo reale, a migliaia di
chilometri di distanza.

2. Ma medium fa riferimento anche a ciò che sta in mezzo e che, proprio per questa sua
posizione mediale, rende possibile il contatto e la comunicazione. In questo senso i
media più che come strumenti possono essere riconcettualizzati come il mezzo-
ambiente, lo spazio comune all’interno del quale avviene la comunicazione. Anche il
punto di vista aristotelico si trasforma: la proposizione più che il mezzo di cui l’uomo si
serve per esprimere i propri giudizi si può intendere come il luogo nel quale quei giudizi
possono essere condivisi con altri e messi in discussione. Più che l’idea di una
protesizzazione dei nostri sensi, allora, pare qui supportabile quella avanzata da
Thompson2 secondo la quale i media, a partire dal linguaggio parlato, costituirebbero i
grandi mediatori simbolici di tutte le nostre pratiche di costruzione e di trasmissione dei
significati.
Anche in questo caso è facile intuire come dietro a questa tesi sia operante una ben
precisa concezione dei sistemi e dei rapporti sociali. La si può esprimere in due
convinzioni di base: da una parte l’idea — mutuata da Berger e Luckmann3 e più in
generale dall’interazionismo simbolico — che la realtà altro non sia che il risultato di
una attività di costruzione sociale; dall’altra la convinzione, a quella strettamente
connessa, che solo una minima parte delle nostre conoscenze sia il risultato di una
esperienza diretta del mondo. In sostanza, la maggior parte delle “certezze” che
costituiscono il nostro sapere ha valore mediato, cioè le ricaviamo dalla testimonianza
altrui e non da un’esperienza diretta della realtà. Il risultato è che ciò che noi chiamiamo
realtà non è il mondo così come esso è, ma la rappresentazione del mondo così come
essa risulta dalle mediazioni che ne conosciamo e dalla contrattazione simbolica che
intraprendiamo nei confronti di queste mediazioni prima di farle nostre. Ora, se in età
pre-elettronica questa funzione di mediazione simbolica dell’esperienza del mondo
poteva essere svolta dal racconto dei testimoni o dalla narrazione dei libri, oggi essa è in
buona parte prodotta dai media: così l’idea che abbiamo della Guerra in Cecenia o del
disastro di Paddington è sostanzialmente quella restituita dai telegiornali e dalla stampa.

I media e l’elaborazione della conoscenza

In tutti e due i casi — la protesizzazione e la mediazione simbolica — i media hanno a


che fare con i processi attraverso i quali produciamo e scambiamo le nostre conoscenze.

1. Anzitutto i media-protesi. È facile cogliere in essi, come osserva Sainati4 della cui
riflessione siamo qui debitori, almeno tre grandi modalità di rapporto con il sapere.

2
J.B.Thompson, The Media and Modernity. A Social Theory of the Media, Polity Press, Cambridge 1995;
tr.it., Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Il Mulino, Bologna 1998.
3
P.Berger, T.Luckmann, The Social Construction of Reality, Doubleday & Co., Garden City, New York
1966; tr. it., La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1969.
4
A.Sainati, Supporto, soggetto, oggetto: forme di costruzione del sapere dal cinema ai nuovi media, in
A.Piromallo Gambardella, a cura di, Costruzione e appropriazione del sapere nei nuovi scenari
tecnologici, CUEN, Napoli 1998, pp. 143-156.
I media sono anzitutto un supporto per la fissazione e la trasmissione del sapere; in tal
senso essi offrono alla conoscenza più che una opportunità di essere elaborata, un canale
attraverso il quale essere trasportata e uno spazio entro cui essere conservata: come
osserva Stiegler, «non vi è sapere incomunicabile, non vi è sapere se non a partire dalla
sua trasmissibilità... la trasmissibilità del sapere è lo stesso sapere»5.
È questa la funzione del libro, grazie al quale una società può archiviare le proprie
conoscenze e trasmetterle in eredità a quella successiva, ma anche del cinema (sulla cui
capacità di documentazione della realtà si sofferma già nel 1898 Boleslaw Matuzewski)
e, oggi, dei nuovi media, dai CD-Rom a Internet. Questa duplice capacità dei media —
di conservare e trasferire informazioni — risponde ad altrettante fondamentali esigenze
dell’uomo: fissare il patrimonio di conoscenze da cui dipende la propria stessa
sopravvivenza (i greci indicavano questo patrimonio con i termini di εθος e νοµος, cioè
l’insieme dei comportamenti e delle leggi) e trasmetterlo alle generazioni future. La
storia delle tecnologie di comunicazione in Occidente procede, a ben vedere, in ossequio
a questa logica: il superamento dell’oralità primaria, cui Walter Ong ha dedicato celebri
studi, si deve leggere proprio nella prospettiva di una incapacità della parola parlata a
soddisfare adeguatamente questa esigenza. Come osserva ancora Stiegler, «il sapere
umano è tecnologico nella sua essenza (...) non vi è nessuna possibilità di sapere senza
superfici d’iscrizione artificiale della memoria»6.

2. Tuttavia i media-protesi, mentre si fanno supporto attraverso il quale archiviamo e


scambiamo il nostro sapere, contribuiscono anche alla sua articolazione diventando a
tutti gli effetti soggetto di conoscenza. È facile capire a cosa ci stiamo riferendo se si
pensa a due semplici esempi. Il primo è ricavabile dal cinema, dalla sua natura di
prolungamento del dispositivo della nostra visione che, a rifletterci bene, non costituisce
soltanto una sua reduplicazione meccanica, quanto piuttosto un suo potenziamento
semantico. Lo sguardo cinematografico, come i teorici da Munsternberg a Bàlazs hanno
ben evidenziato, è uno sguardo più attento e profondo dello sguardo ordinario, che
invece è distratto e superficiale: l’occhio della macchina da presa legge dentro lo
spessore della realtà, ne attinge l’essenza. Esso cessa di essere protesi e diventa a tutti
gli effetti soggetto autonomo di visione: è il kinoglaz, il cine-occhio di cui parla Dziga
Vertov, che, emancipatosi dall’occhio dell’operatore restituisce il suo punto di vista
sulla realtà rivendicandone l’originalità e l’autenticità.
Molti secoli prima la scrittura era stata protagonista di un processo analogo
riconfigurando l’ordine conoscitivo umano nel senso della visione: se la cultura orale
era stata una cultura dell’orecchio, la nuova cultura introdotta in Occidente dalla
scrittura è una cultura della vista. La simmetria e il ritmo, insieme alla prospettiva,
divengono ben presto i canoni di base di questa cultura: dipende da questi canoni la
nostra concezione dello spazio, l’organizzazione del nostro mondo, l’assetto urbanistico
delle nostre città, il nostro stesso modo di strutturare il tempo all’interno della giornata
lavorativa.

3. Parlare dello sguardo cinematografico nei termini di un potenziamento semantico del


dispositivo della visione o della prospettiva come di un ordine della rappresentazione
attraverso il quale la civiltà della scrittura favorisce da parte dell’uomo un certo tipo di
esperienza del mondo, significa guadagnare una terza modalità attraverso cui i media-

5
B.Stiegler, La technique et le temps, Galilée, Paris 1996, p.160.
6
Ibi., p.189.
protesi indicano il loro rapporto con il sapere: quello di una riflessione metateorica che
li costituisce a oggetto del sapere stesso.
Si riconoscono qui due istanze particolarmente presenti nella situazione socio-culturale
attuale. Da una parte la tendenza dei media a configurare se stessi in termini
decisamente autoreferenziali, come accade per il software informatico che mette in
scena nient’altro che se stesso insieme alle proprie indicazioni d’uso, o per la
neotelevisione che come dispositivo di rappresentazione tende a produrre immagini che
vanno sempre più emancipandosi dal riferimento al mondo reale. Dall’altra, la presenza
sempre più consistente di discorsi sui media ospitati, spesso, dai media stessi (la critica
televisiva dei quotidiani, i talk show che discutono di televisione, film come The
Truman Show che riflettono sulla televisione denunciandone forzature e contraddizioni):
una produzione discorsiva che, come hanno osservato Breton7 e Vattimo8, si confonde
con la realtà stessa diventandone parte integrante.

4. Arriviamo così all’ultimo rilievo, autorizzato questa volta dal secondo dei significati
che abbiamo riconosciuto al termine medium, cioè la sua capacità di offrirsi come spazio
di mediazione simbolica per le pratiche di costruzione della nostra conoscenza. Se ne
possono cogliere almeno due sensi: da una parte la funzione dei media (soprattutto di
quelli tradizionali) come agenti di socializzazione, cioè la loro capacità di alimentare il
dibattito culturale, sostenere le mode, proporre modelli per l’identificazione di genere;
dall’altra la loro peculiarità (e in questo caso si tratta soprattutto dei nuovi media) di
funzionare da ambiente cognitivo favorendo lo strutturarsi di un nuovo tipo di sapere «la
cui conoscenza non si propone tanto come un graduale processo di acquisizione
attraverso un percorso lineare e definito quanto soprattutto come immersione,
condivisione, scambio, interazione»9.
Ci troviamo di fronte, in sostanza, alla genesi di un nuovo paradigma conoscitivo che
evidenzia caratteristiche completamente differenti rispetto a quello “moderno”
compendiato nella cultura del libro. In esso, la conoscenza non è più rappresentazione di
qualcosa di già esistente, ma costruzione del nuovo; non è più esperienza
fondamentalmente individuale (Bildung), ma attività cooperativa; proprio per questo,
come osserva Pierre Levy, «per una specie di ritorno a spirale all’oralità delle origini, il
sapere potrebbe essere di nuovo trasportato dalle comunità umane vive piuttosto che da
supporti separati utilizzati dagli interpreti o dai sapienti»10.

Proviamo a comporre in sintesi, all’interno di una tabella, questi rilievi.

Funzione dei media Rapporto con il sapere Valenza conoscitiva


Media-protesi Supporto Trasmissione, archiviazione
Soggetto Rappresentazione
Oggetto Meta-riflessione
Media-mediatori simbolici Ambiente cognitivo Costruzione cooperativa

Tabella 1 - Media ed elaborazione del sapere

7
P.Breton, L’utopie de la communication, la Découverte, Paris 1992; tr.it., L’utopia della comunicazione.
Il mito del “villaggio planetario”, UTET, Torino 1995.
8
G.Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1988.
9
A.Piromallo Gambardella, La scuola al bivio tra cultura istituzionale e cultura veicolata dai media, in
Id., a cura di, Costruzione..., cit., p.208.
10
P.Levy, La cyberculture et l’éducation, in A.Piromallo Gambardella, a cura di, Costruzione..., cit.,
p.263.
Brainframes

C’è un secondo modo di considerare il rapporto tra la conoscenza umana e le tecnologie


di comunicazione che non consiste, come abbiamo fatto finora, nel considerare quali
possibilità garantiscono la tecnologie alla elaborazione del sapere, ma nel valutare in
quale misura retroagiscano sui set cognitivi umani contribuendo a strutturarne le
modalità di approccio alla conoscenza. Il risultato è la possibilità di ricostruire
l’evoluzione dell’umanità per grandi epoche ciascuna contrassegnata da un particolare
tipo di brainframe, di quadro mentale, corrispondente alla tecnologia culturalmente
dominante11.

1. Il pensiero orale, come una lunga tradizione di ricerca da Goody12 a Ong13 ha


indicato, è un pensiero concreto e situazionale, che vive di uno stretto rapporto con la
realtà e, di conseguenza, non conosce ancora l’astrazione: l’hanno dimostrato le ricerche
condotte negli anni ’30 da Luria14 su contadini analfabeti dell’Uzbekistan e della
Kirghizia. I contadini di Luria, ad esempio, per indicare le figure geometriche non
ricorrono a concetti astratti (cerchio, quadrato, ecc.) ma a nomi di oggetti della stessa
forma che appartengono alla loro esperienza: piatto, setaccio, luna, ecc. E ancora, non
riescono a chiudere i sillogismi proposti loro dall’intervistatore, dimostrando di
conseguenza di non avere elaborato la capacità del pensiero deduttivo. Come osserva
Walter Ong, «una cultura orale semplicemente non riesce a pensare in termini di figure
geometriche, categorie astratte, logica formale, definizioni, o anche descrizioni inclusive
o auto-analisi articolate che derivano tutte non semplicemente dal pensiero in sé ma dal
pensiero condizionato dalla scrittura»15.

2. Il brainframe alfabetico subentra a questa situazione modificandola profondamente.


Sono due, da questo punto di vista, le principali novità che l’alfabeto completo16
introduce, e cioè la temporalizzazione e la concettualizzazione. Entrambe queste istanze
– che si traducono poi in habitus cognitivi – sono strettamente legate a precisi caratteri
psicodinamici della scrittura.
La temporalizzazione è una conseguenza della orizzontalizzazione che è propria della
scrittura alfabetica. Tutte le scritture ideogrammatiche, essendo costituite dalla necessità
di riconoscere sistemi di segni a partire dal contesto entro il quale vengono disposti,
11
Per quanto discutibile per il rischio di un certo determinismo tecnologico è d’obbligo citare qui il
contributo di D. de Kerkhove, Brain-frames. Technology, Mind and Business, Bosch & Kreuning, Utrecht
1991; tr.it., Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Baskerville, Bologna 1993.
12
J.Goody, The Domestication of the Savage Mind, Cambridge University Press, Cambridge 1977; tr.it.,
L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Angeli, Milano 1981.
13
W.Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, Methuen, London – New York 1981;
tr.it., Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986.
14
A.R.Luria, Cognitive Developments: Its Cultural and Social Foundations, a cura di M.Cole, Harvard
University Press, Cambrdige Mass. – London 1976; tr.it., Storia sociale dei processi cognitivi, Giunti-
Barbera, Firenze 1976, pp.99 ss.
15
W.Ong, Oralità…, cit., p.86.
16
Un alfabeto completo, come quello introdotto dai Greci nel sec. VIII a.C., è un alfabeto fonetico in cui
per ogni suono semplice è predisposto un segno.
sono disposte in verticale. La ragione di questo fatto è che la disposizione verticale degli
oggetti nel nostro campo visivo è quella che meglio si presta ad essere colta con un
colpo d’occhio sintetico. A differenza di queste scritture, quella alfabetica non necessita
di un riconoscimento contestuale, ma di due tipi di operazioni successive:
a) il riconoscimento della forma dei segni;
b) l’analisi della loro disposizione sequenziale.
Entrambe queste operazioni richiedono una disposizione orizzontale dei segni e,
tendenzialmente, un orientamento verso destra della scrittura: questo perché l’emicampo
visivo destro del nostro occhio è quello deputato al riconoscimento delle forme e perché
la disposizione orizzontale è più confacente alla lettura analitica (proprio come quella
verticale lo è alla lettura sintetica e contestuale).
Ora, il lavoro di messa in sequenza dei segni e di valutazione del loro rapporto reciproco
facilita lo strutturarsi di un modello di ragionamento in cui la relazione temporale
(prima-dopo) è particolarmente sviluppata. Da qui alla genesi del pensiero causale il
passo è breve: sarà sufficiente rileggere il nesso prima-dopo nei termini di un rapporto
di causa-effetto.
L’altra caratteristica evidente del brainframe alfabetico è la concettualizzazione. Anche
in questo caso è facile dimostrarne la relazione con un aspetto psicodinamico
caratteristico dei sistemi di scrittura alfabetica e cioè la loro struttura di doppia
articolazione.
Parlare di “doppia articolazione” della scrittura alfabetica significa fare riferimento a un
sistema di scrittura i cui segni non si riferiscono rappresentativamente alla realtà
designata (come nei sistemi pittografici): «Laddove l’ideogramma conserva un rapporto
di rappresentazione simbolica tra l’immagine e l’idea, rapporto che esige una
ricostituzione visiva del significato, l’evocazione del senso data dalla catena fonologica
non proviene direttamente da un’immagine, ma da una codifica uditiva prodotta
dall’interpretazione delle codificazioni visive»17. In qualche misura, cioè, l’ideogramma
viene sempre associato all’immagine mentale dell’oggetto che esso indica; la parola
alfabetica, invece, evoca direttamente un significato (primo livello di articolazione) dal
quale poi si può risalire a un’immagine (secondo livello di articolazione): il fatto è che,
una volta colto il significato, diviene superfluo risalire all’immagine corrispondente. In
questo modo la scrittura alfabetica promuove un pensiero concettuale via via sempre più
emancipato da un riferimento oggettuale.

3. Si può parlare anche di un brainframe audiovisivo? Di un videoframe, come


suggerisce de Kerkhove, capace di sostituirsi al brainframe alfabetico costruito da
duemila anni di civiltà della scrittura? E quali ne sono le caratteristiche? Sempre
seguendo la riflessione del massmediologo canadese si può parlare di una
corporeizzazione (o ricorporeizzazione) del pensiero. Ancora una volta le giustificazioni
di questo dato vanno cercate sul piano della psicodinamica della comunicazione
audiovisiva, in particolare: nella contrazione dell’intervallo tra stimolo e reazione e nel
significato corporeo dell’impatto audiovisivo sullo spettatore.
La categoria di «contrazione dell’intervallo» è stata introdotta da un ricercatore
associato al McLuhan Program, Edward Renoulf Slopek. Con essa si intende la
caratteristica propria della comunicazione audiovisiva di eliminare la distanza temporale
che, ad esempio, la scrittura garantisce tra il momento della ricezione e quello della
elaborazione dell’informazione ricevuta. Si tratta, in sostanza, di quanto nell’opinione

17
D. de Kerckhove, La civilisation vidéo-chretienne, Retz/Atelier, Paris 1990; tr.it., La civilizzazione
video-cristiana, Feltrinelli, Milano 1995, p.39.
comune viene indicato quando si fa riferimento alla capacità della televisione di inibire
la riflessione promuovendo, più che processi cognitivi ponderati, risposte immediate di
tipo irriflesso (skills).
Quanto alla corporeizzazione, de Kerkhove sostiene che essa andrebbe ricondotta alla
capacità, della televisione soprattutto, di produrre in noi una risposta di tipo corporeo.
«Il significato corporeo è di rado cosciente. Ma, nel profondo, regola e condiziona il
complesso delle nostre reazioni ai fatti di tutti i giorni. Il significato corporeo è anteriore
alla logica e può essere molto più globale del pensiero. Dunque l’effetto più profondo
della televisione potrebbe verificarsi al livello del significato corporeo, offrendo scarse
possibilità di reazione. La televisione suscita Reazioni di Orientamento che si
intrecciano nel tessuto del nostro sistema neuro-muscolare. Potrebbe essere questa
l’origine dell’affermazione alquanto criptica di McLuhan che la televisione è
“tattile”»18.

4. Il computer e le tecnologie multimediali intervengono in questa situazione


producendo un’ulteriore trasformazione dello scenario. Essa è registrabile sul doppio
versante dell’uomo e della macchina.
Per quanto riguarda l’uomo, secondo l’indicazione di de Kerkhove, il brainframe
multimediale getta un ponte tra il brainframe alfabetico e quello televisivo ponendoci di
fronte a un pensiero che pur mantenendo i tratti “corporei” tipici del secondo, consente
tuttavia di recuperare del primo la dimensione concettuale. Il risultato di questo fatto, in
tal senso, è una nuova libertà che il computer riconosce all’utente: la libertà di
“rispondere” allo schermo, di servirsi di esso ai fini della elaborazione delle
informazioni. Sta qui la valenza cognitiva dell’interattività, indicata dagli studiosi di
comunicazione come il fatto nuovo delle NTC rispetto ai media tradizionali: non si
tratta solo della possibilità del feed-back, della simulazione dell’interazione personale
nel rapporto con la macchina, quanto piuttosto della nascita di un nuovo spazio di
elaborazione della conoscenza intermedio tra il “fuori” rappresentato dal computer e il
“dentro” rappresentato dal nostro cervello (di qui l’importanza cognitiva straordinaria
dei dispositivi di interfaccia che costituiscono proprio lo spazio intermedio in cui questo
pensiero liminale, di soglia, può essere elaborato).
A questa dimensione interattiva lo sviluppo di Internet ne ha aggiunta una seconda
altrettanto importante: quella della cooperazione. Cognitivamente, infatti, la nuova
opportunità che i servizi telematici come Internet garantiscono è la costruzione
collaborativa della conoscenza: lo schermo, in questa prospettiva, diviene lo spazio in
cui il contributo dei singoli può essere visualizzato, confrontato, integrato.
Tecnologicamente queste operazioni possono essere svolte sullo stesso testo,
“attaccando” le proprie osservazioni o proposte di modifica sul testo proposto da altri,
con il risultato di rendere visibile contemporaneamente sia il testo originario che quello
prodotto dall’intervento commentativo. L’intelligenza, in questo modo, diviene
realmente collettiva, secondo il suggerimento di Levy.
Se, infine, ci spostiamo sul versante della macchina, è facile notare come l’avvento del
computer abbia prodotto una rottura epistemologica rispetto alle tecnologie di
comunicazione precedenti: essa consiste nel fatto di non avere soltanto prodotto delle
trasformazioni nei processi di costruzione ed elaborazione della conoscenza umana, ma
di rivendicare esso stesso una qualche forma di intelligenza. E’ il grande tema
dell’Intelligenza Artificiale, cioè della ricerca tecno-scientifica attorno alla possibilità di
surrogare attraverso il computer l’intelligenza umana. Oggi gli studiosi sono concordi

18
D. de Kerkhove, Brainframes, cit., p.57.
sul fatto che il problema, così come esso viene elaborato a partire dagli anni Cinquanta e
poi decisamente messo in discussione, è mal posto: come hanno fatto di recente
osservare K.M.Ford e P.J.Hayes19, impostare la questione dell’Intelligenza Artificiale
nei termini del tentativo di imitare l’intelligenza umana è come pretendere di costruire
una macchina volante che sbatta le ali come gli uccelli. La questione è che la macchina
potrà volare (come di fatto è successo), ma forse proprio solo nel momento in cui la
progettazione si sforzerà di non pensarla in analogia con il volo degli uccelli. Ora, nel
caso dell’Intelligenza Artificiale, questo significa smettere di pensare al computer come
una macchina cognitiva sequenziale (il nostro pensiero è sequenziale) e sforzarsi di
riconoscergli un pattern cognitivo suo proprio che, come dimostra bene James Bailey in
un libro recente20, è parallelo e non sequenziale. Per capire cosa significhi è sufficiente
pensare a come lavora una rete neurale, cioè un sistema di microprocessori collegati in
rete (come la Connection Machine progettata al MIT di Boston negli anni Settanta, che
collegava in rete 64.000 processori): semplificando molto si può dire che essa è costruita
per elaborare simultaneamente un numero elevatissimo di elementi singolarmente banali
ricavando da questa elaborazione conclusioni sinteticamente rilevanti. Come dice
Bailey: «Il comportamento della rete nella sua totalità è diverso dal comportamento dei
singoli partecipanti, e molto più complesso. Il valore aggiunto proviene dalle
interrelazioni fra nodi, e non dall’interno dei nodi stessi»21.

Componiamo in sintesi in una tabella anche queste considerazioni.

Tipo di pensiero Tecnologia Brainframe


Orale Parola Concretezza, situazionalità
Letterario Scrittura alfabetica Temporalizzazione, concettualizzazione
Audiovisivo Cinema, Televisione Corporeizzazione
Multimediale Computer, NTC Interattività, cooperazione

Tabella 2 - Media e stili cognitivi

Prospettive educative

Al termine di questo breve percorso cerchiamo di verificare come il rapporto tra i media
e la conoscenza, soprattutto tra i media elettronici e la conoscenza, possa essere
declinato nell’ottica dell’educazione che è il punto di vista dal quale intendiamo
posizionarci. Ci limitiamo a due sole considerazioni.

1. Un primo dato interessante da registrare è che i media (la televisione e il computer,


soprattutto) producono una trasformazione profonda dell’idea della conoscenza, nel
senso di una proiezione verso l’esterno dei processi cognitivi e di una ridefinizione del
sapere secondo le logiche dell’immersione e dello scambio. Il risultato è di disegnare
una pedagogia di tipo assolutamente diverso rispetto alla pedagogia di scuola: nella
pedagogia di scuola, settata dalla tecnologia alfabetica, la conoscenza è un processo
graduale di acquisizione, che descrive un percorso lineare e mette in conto la fatica del
concetto; la televisione e i nuovi media, invece, costruiscono una nuova idea del
processo di conoscenza basata piuttosto sull’idea di un processo di acquisizione
19
K.M.Ford, P.J.Hayes, Su ali algoritmiche. Ripensare gli obiettivi dell’Intelligenza artificiale, in
L’intelligenza, Dossier di «Le Scienze», 1, 1999, pp.88-93.
20
J.Bailey, Il postpensiero. La sfida dei computer all’intelligenza umana, tr.it., Garzanti, Milano 1998.
21
Ibi., p.181.
“parallelo”, non lineare, e soprattutto iscrivibile sicuramente nell’area del loisir . Quel
che pare profilarsi, dunque, è la nascita di un nuovo paradigma educativo, alternativo a
quello istruzionale classico: i media come “scuola parallela”. Come dice Pierre Levy, si
tratta di una «transizione da un’educazione e una formazione strettamente
istituzionalizzate (la scuola, l’università) a una situazione di scambio generalizzato dei
saperi, di insegnamento da parte della società stessa, di riconoscimento autogestito,
mobile e contestuale delle competenze»22.

2. C’è un secondo aspetto assolutamente interessante dal punto di vista educativo nel
rapporto esistente tra i media e la conoscenza ed è la capacità dei media di promuovere
forme diverse di apprendimento.
In regime di oralità primaria ci troviamo di fronte all’imporsi di un’idea mimetica
dell’apprendimento. E’ facile capirlo se pensiamo alla polemica platonica nei confronti
della pedagogia omerica, incapace di produrre vero sapere perché basata sulla
ripetizione. Noi oggi sappiamo che l’obiezione platonica è viziata dall’appartenenza di
Platone alla cultura alfabetica: il suo rimprovero a Omero è di non servirsi di ciò di cui
non si può servire, cioè dei concetti. Il modello mimetico, invece, è perfettamente
giustificato dalla cultura orale dentro cui la Grecia omerica vive, nella quale l’obiettivo
fondamentale da raggiungere nell’apprendimento non può che essere la
memorizzazione.
Con l’avvento della scrittura alfabetica cambia completamente il modo di pensare
l’apprendimento: si passa da un apprendimento mimetico a un apprendimento
argomentativo. La pagina scritta consente la lettura retrospettiva, l’analisi del testo, la
riflessione su di esso: liberatosi dalla necessità di dover ricordare (il libro garantisce
ormai la presenza del sapere, lo garantisce dal rischio della dispersione) l’individuo
apprende concettualizzando, ragionando sui nessi causali.
La televisione e il computer trasformano ancora questo scenario. La nuova idea di
apprendimento che pare profilarsi è un’idea dell’apprendimento multimodale,
personalizzato e cooperativo: multimodale, perché il carattere multimediale delle nuove
tecnologie intellettuali comporta un’attivazione multisensoriale del soggetto, rendendo
l’apprendimento non solo una questione attentiva, ma immersiva sotto punti di vista
percettivi differenti; personalizzato, perché da una parte esso si libera dalla necessità di
seguire un percorso rigido e uniforme, dall’altra si dimostra capace di attivare le
molteplici intelligenze (Gardner) del soggetto valorizzandone il profilo intellettivo
personale; infine, cooperativo, perché, soprattutto l’ICT consente la costruzione di nuovi
ambienti di apprendimento nei quali l’acquisizione della conoscenza passa attraverso la
negoziazione e la costruzione collaborativa.

Si tratta di due questioni di grandissima rilevanza: i media, i nuovi media, la realtà


mediatica in cui viviamo, si propone come spazio di elaborazione di un nuovo modello
di apprendimento e come soggetto di un nuovo tipo di educazione. Non vogliamo
provare a disegnare il profilo della risposta che le istituzioni dovranno dare a questo
problema. Ci limitiamo a sottolineare come, in questa prospettiva, non sia proprio
possibile per le agenzie formative non farsi carico dei media.

22
P.Levy, La cyberculture, cit., p.271.
Abstract

L’articolo riflette sul rapporto tra tecnologie di comunicazione e processi cognitivi


prestando particolare attenzione ai nuovi media e alla sfida che essi lanciano al mondo
della formazione. Individuate le due accezioni del termine medium nelle metafore della
protesi e dello spazio di mediazione, l’Autore si sforza di evidenziare su questo doppio
versante come i media intervengano attivamente nella costruzione e nello scambio delle
conoscenze. Il risultato è una visione ergonomica dei rapporti tra mente e media, in cui
la mente si esternalizza attraverso i media ed essi retroagiscono su di essa. A partire da
questo rapporto vengono pensati i risvolti educativi.

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