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PAOLO TROVATO

BANDELLO NELL’«AMINTA»
(CON QUALCHE APPUNTO
SULLO “STILE MEDIO” DEL TASSO)*

Primo cominciamento. Anche se il sorriso, la curiositas, la capacità di capi-


re subito erano gli stessi per tutti, credo che ognuno di noi che siamo
rimasti a terra abbia conosciuto un Marco diverso. Noi due, certo per
miei limiti di competenza, parlavamo poco di caccia o di altri sport o di
musica. Piuttosto, parlavamo volentieri della provincia veneta e dei suoi
straordinari personaggi (un terreno comune e caro ad entrambi) e, alme-
no in certi anni, dell’altra metà del cielo (anche per noi, come per tanti
altri, un mistero senza fine bello). Solo di rado, di lavoro, e preferibilmente
di scrittori che, in ragione del “genere” non formalizzato in cui si cimen-
tavano, dovevano, in qualche misura, fabbricarsi una lingua e uno stile
nuovi: come l’Ariosto del Furioso, in bilico tra petrarchismo (nel senso più
largo) e prosa letteraria. O come – aggiungo ora, cercando di riprenden-
dere, fuori tempo e fuori luogo, il filo di quei discorsi – il Tasso dell’A-
minta, dall’autore definita “favola pastorale”, ma anche “ecloga”. (E l’o-
scillazione o irresolutezza terminologica non è senza significato, ma sem-
bra come incorporare la preistoria quattrocentesca del “genere”).

*Alcuni snodi di questo saggio sono stati esposti una dozzina di anni fa, in una lezio-

ne (inedita) tenuta a Venezia, nell’ambito di uno dei corsi di aggiornamento per italiani-
sti organizzati alla Fondazione Cini da Francesco Bruni. Ringrazio per i loro utili sugge-
rimenti gli amici Andrea Afribo, Davide Colussi, Enzo Mengaldo, Cristina Montagnani,
Arnaldo Soldani.

«Stilistica e metrica italiana» (2013)


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Secondo cominciamento. La mia generazione è passata dalla Lettera 22


al PC verso il mezzo del cammin di nostra vita: quando i primi compu-
ter, ingombranti, costosi e di poca memoria, ci sembravano semplice-
mente versioni più potenti di oggetti oggi desueti come le macchine da
scrivere elettriche. Ma ha scoperto abbastanza presto che la nuova mac-
china non cambiava solo il modo di scrivere, ma anche quello di leggere
e di cercare i dati. Per quanto mi riguarda, ho cercato di segnalare per
tempo la rilevanza e le potenzialità euristiche di varie versioni della nostra
più veneranda banca dati testuale, la LIZ (ossia Letteratura Italiana Zani-
chelli).1 E ricordo ancora con ammirazione (per la prontezza di riflessi
dimostrata dal maestro, non più giovane) di essere stato invitato, in que-
gli anni, a casa del sempre operoso Maurizio Vitale, per dargli qualche
dimostrazione pratica delle modalità di impiego di quella anche per lui
seducente applicazione dell’informatica umanistica.
Tra le tante sorprese, piccole o grandi, che la LIZ poteva riservare ai
suoi utenti, conservo da almeno un ventennio un mazzetto di luoghi del
Bandello prosatore, fagocitati dal Tassino per essere riutilizzati nell’Amin-
ta. Le tessere bandelliane, a prima vista sorprendenti, obbligano a interro-
garsi su quella che i nostri antenati chiamavano l’intenzione dell’autore e
sulle sue scelte stilistiche.
Del resto, mentre negli ultimi anni altre zone della produzione tassiana
sono state riccamente analizzate sul piano della lingua e dello stile (penso
in particolare ai Dialoghi, alle Rime e alla Liberata, messi a fuoco, con tagli
diversi ma sempre molto persuasivi, da Afribo, Bozzola, Colussi, Soldani e
Vitale),2 l’Aminta, con cui Tasso si inserisce originalmente nella tradizione
ferrarese del “genere misto”, non è ancora stato studiato a fondo. E i tra-
vasi da Bandello sono sintomi di una tensione (o di una disponibilità?) che
non deve essere trascurata da chi intenda riconsiderare le caratteristiche
stilistiche dell’esperimento “pastorale” del Tasso, ancora non precisate
nonostante una letteratura fluviale sull’Aminta (ricorderò, per ora, solo la
benemerita apertura d’inchiesta di Da Pozzo, che ha applicato nel suo sag-
gio diversi modelli di indagine, incluse le analisi retorica e stilistica).3

1. Trovato 1994; Id. 1998.


2. Bozzola 1999; Soldani 1999; Afribo 2001; Vitale 2007; Colussi 2011.
3. Da Pozzo 1983.
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Il percorso che proporrò in questa breve inchiesta – un po’ tortuoso,


ma, garantisco, attraversato in modo fin troppo veloce – sarà quindi:
“fonti” diciamo eccentriche (§§ 1-2) – procedimenti stilistici che carat-
terizzano l’Aminta (§ 3) – individuazione del livello stilistico dell’Aminta
a norma della retorica tassiana. E ritorno (§§ 4-6).4

1. Veniamo dunque alle annunciate riprese dalle Novelle del Bandello:

Così fui prima amante che intendessi / che cosa fosse Amore (Am. 436-37)
Il giovane di lei ardentissimamente s’accese, non avendo per innanzi mai pro-
vato che cosa fosse amore (Bandello, I 20).5

Guarda quanto Amore aguzza l’intelletto (Am. 476-77)


…Di che maniera Amore aguzzasse l’intelletto ad un nostro giovane (Ban-
dello, III 27)

Attonito, godendo et amirando, / mi fermai buona pezza. Era su l’uscio…


(Am. 616-17)
…Stette buona pezza che pareva… una statua di marmo (Bandello, I 18); Stet-
te buona pezza senza poter dir parola (Bandello, I 27); Stette buona pezza sospe-
so (Bandello, I 49); Restò… per buona pezza quasi fuor di sé stesso (Bandello, II 9),
ecc. e soprattutto: Stette buona pezza attonito e quasi fuor di sé I 27).6

…Chi t’amava / più che le care pupille degli occhi (Am 1548-49)
…Quella persona che dice amare più che le pupille degli occhi (Bandello II
25); …Quella che più che le pupille degli occhi suoi amava (Bandello II 55);
…Quella che più cara aveva e più amava che le pupille degli occhi suoi (Ban-
dello III 57).7

4. Le citazioni sono ricavate dall’edizione dell’Aminta in preparazione, a cura di Davi-


de Colussi (introduzione e commento) e mia (testo critico e nota sul testo), per la «Biblio-
teca di scrittori italiani» della Fondazione Bembo.
5. Incrociato con Tasso, Tragedia non finita, in Rime e prose… Parte seconda, Ferrara, Vasa-
lini, 1583, p. 58: «e prima fui / amante sua che sposa».
6. Buona pezza occorre una dozzina di volte nel Decameron, 4 negli Asolani, 2 nelle Prose
del Bembo e ca 120 in Bandello.
7. Oltre a Bandello il GDLI, s.v. pupilla, 2, cita R. Borghini, l’Aminta, e i controversi Intri-
chi d’amore («O cara pupilla degli occhi miei»).
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Se non m’inganno, il manipoletto dei verosimili riscontri risulta, nel


complesso, convincente. Non ostacola, ma anzi corrobora l’ipotesi, il fatto
che si tratti di materiale verbale attestato nei primi tre libri delle Novelle,
pubblicati a Lucca nel 1554 dal Busdraghi e poi, con drastiche riduzioni
censorie, a Milano (1560), a Venezia (1566; ma si ricordi anche l’antologia
del Sansovino, del 1561),8 e non nel quarto, edito in un centro tipografico
relativamente lontano da Ferrara (a Lione) e solo nell’aprile 1573 (cioè a
pochi mesi dalla “prima” ferrarese dell’Aminta): e dunque difficilmente
utilizzabile dal Tasso. Che (come ci ha spiegato Elisabetta Graziosi) era
allora impegnatissimo, su commissione («come altrui piacque»), nel tenta-
tivo di propiziare, con la sua favola, un matrimonio tra cugini (Alfonsino,
figlio di don Alfonso, e Marfisa, figlia di don Francesco) che avrebbe potu-
to risolvere gli annosi e terribili problemi dinastici degli Este.9

2. È appena il caso di avvertire che la presenza nel capolavoro tassiano di


materiale verbale ricavato dalla novellistica e in particolare del patetico
bandelliano non rappresenta un’eccezione, ma si inquadra in una più
generale attenzione della lingua dell’Aminta a generi diversi da quelli,
centrali per l’esperienza poetica tassiana, dell’epica e della lirica.
Particolarmente folta, come era facile prevedere, è la presenza di alcu-
ni tra i comici cinquecenteschi di maggior fortuna editoriale, come
Machiavelli e specialmente il terenziano Ariosto della Lena, impiegati
come modelli linguistico-situazionali per affrontare inevitabili topoi del
teatro cinquecentesco, come ad es. le battute metateatrali sugli sposta-
menti degli attori dentro e fuori dal palcoscenico.
Dichiarazioni come quelle di Am. 333 («Ma sino a le mie case ir prima
voglio») o Am. 1316 («Io voglio irmene a l’antro / del saggio Elpino»),
apparentemente banali, in realtà informative e funzionali al cambio di
scena, presuppongono precedenti come:

Io me ne voglio ire in casa (Machiavelli, Cliz. III 3)

8. Nella raccolta esemplare del Sansovino (Cento nouelle scelte da i più nobili scrittori […]
nelle quali piaceuoli & aspri casi d’amore, & altri notabili auenimenti si leggono, In Venetia,
appresso Fran. Sansovino, 1561) 27 novelle su 100 sono tratte appunto dal Bandello.
9. Graziosi 2001.
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Allo stesso modo, uno scambio serrato come quello di Am. 985-88
(«Tu mi scherni… TIRSI. Non burlo io, no…») è costruito su modelli
simili a quelli che seguono:

CAPI. Que haeis, senora? Burlais de mi? Y bien podeis. AGNOL. Mi burlo? Ve
n’avederete, se sarà burla (Piccolomini, Amor costante I 12);

MARG. Voi vi volete burlare di me? RAFF. Come burlare? (Piccolomini, Raf-
faella 314-15);

FLA. Dite voi da dovero o pur mi burlate? ROSP. Ti giuro per l’anima mia che
non potresti far cosa che mi fosse più cara (Ruzzante, Vaccaria V 5);

Dite da dovero over burlate voi? Io dico da dovero e non burlo (Straparola,
Notte I, 3);

CIUL. Eh, eh! Che burlate voi? ALF. Io dico da miglior senno… (Lasca., La
gelosia V 4);

CAM. Tu burli, Magagna. MAG. Io non burlo… (Tasso [?], Intrichi d’amore I 5)

Varie battute dell’Aminta ricordano in particolare la Lena (di cui si


conserva una dozzina di edizioni cinquecentesche), come si vede dalle
coppie che seguono:

Aminta è quel che di là spunta. È desso (Am. 1033)


Parmi Corbolo / che di là viene: è desso (Ariosto, Lena, II 3)

Vorò veder ciò che Tirsi havrà fatto / e, s’havrà fatto nulla… (Am. 1034-35)
Io vo’ aspettarlo, e intendere / quel ch’egli ha fatto (Ariosto, Lena II 3)

Ohimè, che ma? Tu taci; tu m’uccidi (Am. 1073)


ILARIO. Sì salvo insomma? CORBOLO. Nol vo mettere
Per salvo ancor. ILARIO. Tu m’occidi (Ariosto, Lena V 3)

Ohimè, ch’ho troppo atteso, e troppo inteso (Am. 1442)


MENGHINO. Pur troppo ho udito e veduto (Ariosto, Lena V 10)
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3. Come ho già accennato, i trapianti lessicali da Bandello differiscono


però da quelli appena segnalati (nei quali il modello non è sempre pre-
cisabile): sono diversi principalmente perché non sono tributi al o mar-
che di “genere”, funzionali e “astratti” (cioè risultanti, per lo più, di paro-
le vuote o poco informative: «voglio ire», «è desso», «havrà fatto», «trop-
po ho inteso» e simili), ma ingredienti, per così dire, facoltativi, lessical-
mente rilevati, che presuppongono un grado maggiore di affinità o com-
patibilità “estetica”. Riprendendo un’opposizione di Segre, alcuni dei
riscontri dell’Aminta con la commedia cinquecentesca sono interdiscor-
sivi (cioè il testo si richiama ad enunciati «non firmati, o di cui non è
nota la firma»), ma quelli con Bandello sono interstestuali (il testo «si
richiama a un altro testo»).10
Ma perché, nel portare avanti la pastorale il Tasso si permette (o sente
il bisogno) di intarsiare il suo linguaggio poetico con tessere “firmate”
della novellistica recente? L’interrogativo può essere riformulato come un
problema di classificazione stilistica, se non m’inganno non ozioso e però
di regola eluso dagli studiosi.11 Come si potrebbe definire, nei termini
consegnatici dalla riflessione teorica antica e rinascimentale, lo stile del-
l’Aminta?
Credo che, arrivati a questo punto, un assaggio dalla pastorale, avvici-
nato, magari, a una porzione della Tragedia non finita o del Torrismondo, sia
più utile di tante chiacchiere.

Aminta, V, sc. 1
[ELPINO]
Veramente la legge con che Amore
il suo imperio governa eternamente 1840
non è dura et obliqua; e l’opre sue,
piene di providenza e di mistero,
altri a torto condanna. O con quant’arte
e per che ignote strade egli conduce
l’huomo ad esser beato, e fra le gioie 1845
del suo amoroso paradiso il pone,
quando ei più crede al fondo esser de’ mali!

10. Segre 1982 (1984), 105-6.


11. Con qualche eccezione. Per es., Bosco 1949 (1970) e Accorsi 1999.
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Ecco, precipitando, Aminta ascende


al colmo, al sommo d’ogni contentezza.
O fortunato Aminta, o te felice 1850
tanto più, quanto misero più fosti!
Hor co ’l tuo esempio a me lice sperare,
quando che sia, che quella bella et empia,
che sotto viso di pietà ricopre
il mortal ferro di sua feritade, 1855
sani le piaghe mie con pietà vera,
che con finta pietade al cor mi fece.
CORO
Quel che qui viene è il saggio Elpino, e parla
così d’Aminta com’ei vivo fosse,
chiamandolo felice e fortunato. 1860
Dura conditione de gli amanti!
Forse egli stima fortunato amante
chi more, e morto al fin pietà ritrova
nel cor de la sua ninfa; e questo chiama
paradiso d’Amore, e questo spera. 1865
Di che lieve mercé l’alato Dio
i suoi servi contenta! Elpín, tu dunque
in sì misero stato sei, che chiami
fortunata la morte miserabile
de l’infelice Aminta? e un simil fine 1870
sortir voresti?

Il re Torrismondo, V [sc. 1]
NUTR.
A detti falsi
forse troppo credete, e ’l dritto e ’l torto
alma turbata e mesta, egra d’amore
non conosce sovente, e non distingue
dal vero il falso, e l’un per l’altro afferma.
ALVI.
Siasi de la novella, e del messaggio,
e de la fé norvegia, e del mio regno, 2835
e de gli ordini suoi turbati e rotti,
ciò che vuol la mia sorte, o ’l mio nemico.
Basta ch’ei mi rifiuta, e ’l vero io ascolto
del rifiuto crudele. Io stessa, io stessa
con questi propi orecchi udii pur dianzi: 2840
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«Alvida, il vostro sposo è ’l re Germondo,


non vi spiaccia cangiar l’un re ne l’altro,
e l’un ne l’altro valoroso amico,
ed al nostro voler concorde e fermo
il vostro non discordi». In questo modo 2845
mi concede al suo amico, anzi al nemico
del sangue mio. Così vuol ch’io m’acqueti
nel voler d’uno amante, e d’un tiranno.
Così l’un re mi compra, e l’altro vende,
ed io son pur la serva, anzi la merce, 2850
fra tanta cupidigia e tal disprezzo.
Udiste mai tal fede? Udiste cambio
tanto insolito al mondo, e tanto ingiusto?
NUTR.
Senza disprezzo forse, e senza sdegno
è questo cambio. Alta ragione occulta 2855
dee movere il buon re, ché d’opra incerta
sovente il buon consiglio altrui s’asconde.
ALVI.
La ragion ch’egli adduce è finta e vana,
e in me lo sdegno accresce, in me lo scorno,
mentre il crudel così mi scaccia, e parte 2860
prende gioco di me. «Marito vostro»,
mi disse, «È ’l buon Germondo, ed io fratello».
Ed adornando va menzogne e fole
d’un rapto antico, e d’un’antica fraude,
e mi figura e finge un bosco, un antro 2865
di ninfe incantatrici. E ’l falso inganno
vera cagione è del rifiuto ingiusto

Come subito si vede, la retorica e lo stile dell’Aminta sono ben diver-


si da quelli del Torrismondo (e della Gerusalemme). Se tragedia e poema,
caratterizzati da una sintassi complessa, sono affollati di figure della
“magnificenza” e dell’“oscurità” (certi enjambements del Torrismondo
quasi equiparano, su una strada che porta a Leopardi, la cesura alla pausa
di fine verso: vv. 2839, 2845, 2847, 2852), nell’Aminta le accumulazioni dal
tricolon in su (come per es. in Torrismondo, 2834-36), le asimmetrie, le
inversioni rispetto all’ordine non marcato Soggetto-Verbo-Oggetto e via
dicendo sono relativamente rare e giustificate spesso dallo sviluppo sin-
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tattico della frase (non infrequente, come del resto nell’italiano di oggi, è
ad es. l’anteposizione delle dipendenti finali, come in «Ma per istarne
anco più occulto… / deposto ho l’ali…» o «E per far sì bell’opra a mio
grand’agio / io ne vo…»).
Frequentissime, al contrario (l’esemplificazione che segue è voluta-
mente ridotta al minimo), le ripetizioni e i parallelismi, e specialmente le
ripetizioni che sottolineano i parallelismi:

In questa guisa? / In questa guisa gradirei ciascuno / insidiator di mia virgini-


tate.
Quando lei tenerella ei tenerello…
E in questo luogo / in questo luogo a punto io farò il colpo…
È cieca ella, non io, / cui cieco a torto il cieco vulgo appella
E, se non mancano / saette… / non tem’io che a me manchino diporti.
Insipidi diporti veramente / ed insipida vita
Forse, se tu gustassi… / …de le gioie / che gusta…
Quante vedove notti, / quanti dì solitari…
Ma che non puote il tempo? E che non puote / … / far un fedele et impor-
tuno amante?
Eccoti, Cinzia, il corno, eccoti l’arco…
Ch’a lui piaccia colei cui tanto ei piace.
Qual animo fia il tuo? O con quali occhi…?
Il vedrai fatto altrui? Fatto felice

Mi limiterò a segnalare l’esplosione di tali figure ai vv. 173-80 («Forse


ch’ei… o ch’ei non…? / o ch’altri lui non ama? / O ch’ei si cambia per l’a-
mor d’altrui…» ecc.) e il caso, particolare, delle ripetizioni a distanza (97-
99 «Ah cangia, / cangia, prego, consiglio, / pazzarella che sei», 129-31 «Can-
gia, cangia consiglio / pazzarella che sei / che ’l pentirsi da sezzo nulla giova»;
120 «DIResti, ripentita, sospirando», 132 «Quando io DIRò pentita sospiran-
do…»). Mi soffermo invece un poco sulla frequenza, notevolissima, di
chiasmi più o meno complicati:

Né ’l dolce nome di madre UDIRAI, / né intorno ti VEDRAI vezzosamente scher-


zar i figli pargoletti…
SEGUIR le fere fugaci, e le forti / ATTERRAR combattendo…
Stimo’ dolce BEVANDA E dolce CIBO / l’acqua e le ghiande, ed or l’acqua e le
ghiande / SONO CIBO E BEVANDA d’animali.
TORNERANNO i fiumi a le lor fonti, e i lupi FUGGIRANNO / da gli agni…
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MOSTROMMI l’ombra di una breve notte / all’hora quel che ’l lungo corso e il
lume / di mille giorni non m’HAVEA MOSTRATO.
Altri SEGUA i diletti… / me questa vita GIOVA.

Proviamo a interpretare questi dati.

4. Nel già ricordato studio del 1983 Da Pozzo cerca ingegnosamente di


spiegare la presenza di certe figure e la scarsità di altre con il rispecchia-
mento di «elementi costitutivi profondi della vita della corte» come «l’a-
spetto ripetitorio, la nota che insiste e ritorna su se stessa» (p. 227). Di qui,
secondo lo studioso (pp. 228 ss.), l’uso insistito di certe figure (allittera-
zione, antitesi, anafora ecc.) e per contro lo scarso impiego di «scarti nel-
l’ordine delle parole» (p. 231), di ossimori (p. 234), di similitudini (p. 235).
Pur con tutte le cautele del caso, credo che criteri meno soggettivi per
valutare le scelte del Tasso possano essere ricavati dagli scritti teorici, che
costituiscono, per le altre scritture in versi del poeta, un aiuto-alla-lettu-
ra non trascurabile.12 Come si sa – ripeterò quel che Contini ha osserva-
to a proposito di Dante – è tipico anche del Tasso (una vera «costante») il
«perpetuo sopraggiungere della riflessione tecnica accanto alla poesia»,
l’«associazione di concreto poetare e di intelligenza stilistica».13 Natural-
mente, non sarà il caso di richiamarsi, qui, a opere relativamente tarde
come i Dialoghi (per lo più posteriori agli anni ’70) o tardissime come

12. Qualche accenno alle posizioni teoriche del Tasso, in Da Pozzo 1983, 168-70. Un
buon quadro d’insieme è quello di Grosser 1992. Sull’Arte poetica, da ultimo, il sempre
lucidissimo Javitch 1999.
13. Contini 1939 (1970), 320. Su una linea simile, per il Tasso, Fubini 1967 (1971), 2001:
«Fin dal giovanile Rinaldo, a cui è premessa una prefazione volta a delineare l’ideale di
poema da lui perseguito, e poi con la Liberata e con la Conquistata, a cui si accompagnano
i Discorsi sopra l’arte poetica e Sopra il poema eroico, costante è nel Tasso l’esigenza di render
conto non solo ai critici, ma anche e prima a sé medesimo delle ragioni del suo poetare:
della sua “favola boschereccia” invece egli non ha sentito il bisogno di dare una giustifica-
zione critica […] nemmeno in lettere private […]. L’”arte”, se non dichiarata in discorsi
critici, è presente prima ancora della poesia in tutta la favola […], opera tipica del maturo
classicismo, che ha dietro di sé non solo le rappresentazioni pastorali […], ma anche l’a-
spirazione del Rinascimento tutto a ridar vita alle forme della tragedia antica». Il «singo-
lare vuoto teorico» è denunciato, tra gli altri, anche da Bruscagli 1985, 279. Né vale a ridur-
lo la pur innegabile considerazione che la tradizione pastorale era di casa a Ferrara.
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l’Apologia (1585) o i Discorsi rifatti e aggiornati (non più «dell’arte poeti-


ca», ma «del poema eroico») alla fine degli anni ’80 e pubblicati nel 1594.
Né si deve dimenticare che – come ha notato già il Fubini – forse pro-
prio per la difficoltà di giustificare teoricamente l’Aminta, il Tasso non
discuterà mai le scelte stilistiche della favola (diverso ovviamente il caso
della tragedia, del tutto compatibile con Aristotele: il Torrismondo è citato
esplicitamente nel Costante ovvero de la Clemenza e, ripetutamente, nei
Discorsi del poema eroico, d’ora in avanti anche PE).14
Termini di confronto più pertinenti per inquadrare – almeno in nega-
tivo, come spazio letterario diverso da quelli dell’epica e della tragedia –
la prassi dell’Aminta si troveranno piuttosto da un lato nei culturalmente
patavini Discorsi dell’arte poetica (= AP), stampati solo nel 1587, ma risalen-
ti, se si esclude qualche aggiornamento, agli anni ’60, in fase con l’acerbo
Rinaldo,15 dall’altro in quella straordinaria testimonianza di bottega che
sono le cosiddette Lettere poetiche, in cui si documentano gli scrupoli del
Tasso correttore di se stesso in servizio della revisione “romana” della
Gerusalemme: sollecitata a vari letterati-censori tra cui Scipione Gonzaga
(1575-76).16
Si può aggiungere che, proprio nell’Aminta, Tasso trasmette ai lettori
meno ingenui qualche utile istruzione per l’uso: 76-77 «queste selve oggi
ragionar d’Amore / udranno in nuova guisa», 80 «spirerò nobil sensi a’
rozzi petti» ecc., 83-84, 85-88, 442-43. E si consideri anche, nel celebre
episodio di Mopso, l’accenno all’incontro con il duca:

…et in quel punto


sentii me far di me stesso maggiore,
635 pien di nova virtù, pieno di nova
deitade, e cantai guerre et heroi,
sdegnando pastoral ruvido carme.
E se ben poi (com’altrui piacque) feci
ritorno a queste selve, io pur ritenni
640 parte di quello spirto: né già suona
la mia sampogna humil come soleva:

14. Editi criticamente da Poma 1964, 59-259: 144, 208,


15. Pure editi da Poma 1964, 3-55.
16. Il rinvio d’obbligo è all’edizione Molinari 1995. Un’introduzione sui generis a PE
e alle Lettere poetiche, in Quondam 1999.
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110 PAOLO TROVATO

ma di voce più altera e più sonora,


emula de le trombe, empie le selve.17

In altre parole, non diversamente dai critici otto-novecenteschi, Tirsi-


Tasso sembra pienamente cosciente che, per effetto di una «aristocraticiz-
zazione», il suo Aminta è fuori linea («di voce più altera e più sonora, /
emula de le trombe») rispetto alle pastorali-commedia della tradizione
ferrarese immediatamente precedente, con il loro contorno di «servi-
caprari» specializzati in «“numeri” enogastronomici» (Beccari, Lollio,
Argenti…).18 Più vicino, semmai, a certi esperimenti quattrocenteschi,
non condizionati dall’aristotelismo del secolo successivo e però irriduci-
bili al comico, come la Orphei tragoedia di cui da tempo Antonia Tissoni
Benvenuti ha sottolineato la riduzione di espressività e la «volontà di clas-
sicismo» che la caratterizzano rispetto al modello polizianesco19 (ma il
tema, per forza di cose qui solo accennato, richiederebbe un adeguato
svolgimento). E sappiamo anche come «il fantasma di commedia» insi-
nuato nella prima parte dell’Aminta dai due più maturi confidenti, Dafne
e Tirsi, si dissolva completamente in seguito, dopo il «fallimento di que-
sta adulta pedagogia».20

5. Nel terzo dei Discorsi dell’arte poetica, il Tasso ripropone, pur integran-
dolo e insomma stravolgendolo radicalmente, lo schema diffusissimo della
tripartizione degli stili:

17. Come si sa, diversamente dalla tradizione interpretativa vulgata, l’assenza – nella
maggior parte dei manoscritti e in molte stampe – dell’episodio di Mopso, che è (anche)
una puntigliosamente felice celebrazione del mecenatismo estense, si spiega con il fatto
che quelle copie riflettono messe in scena non ferraresi. Per contro (mi permetto di rin-
viare a Trovato 2003), l’episodio è presente nella tradizione più genuina, cioè nei mss. Ub
(Ferrara, 1577) e Est (1579).
18. Una tradizione riesaminata più volte, da varie angolazioni, dalla critica, da Carducci
a Bigi, fino a Godard a Marzia Pieri a Bruscagli a Di Benedetto. Le parole tra virgolette
sono ricavate appunto da Bruscagli 1985, 292, 293, 309, 314.
19. Cito da Tissoni Benvenuti-Mussini Sacchi 1983, 173. Come è noto, nella rinnova-
ta edizione del Timone e dell’Orphei tragoedia la Tissoni Benvenuti rilancia autorevolmen-
te, e con nuovi argomenti, l’ipotesi del Ponte che il rifacimento dell’Orfeo sia opera del
Boiardo (Acocella-Tissoni Benvenuti 2009, 19-20, 238-44.
20. Ricavo anche queste citazioni da Bruscagli 1985, 310.
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BANDELLO NELL’«AMINTA» 111

Tre sono le forme de’ stili: magnifica o sublime, mediocre e umile: delle quali
la prima è convenevole al poema eroico per due ragioni; prima, perché le cose
altissime, che si piglia a trattare l’epico, devono con altissimo stile essere trattate;
seconda, perché ogni parte opera a quel fine che opera il suo tutto […]; adun-
que lo stile opera a quel fine che opera il poema epico, il quale, come si è detto,
ha per fine la meraviglia, la quale nasce solo da le cose sublimi e magnifiche.
Il magnifico, dunque, conviene al poema epico come suo proprio: dico suo
proprio perché, avendo ad usare anche gli altri secondo l’occorrenze e le mate-
rie, come accuratissimamente si vede in Virgilio, questo nondimeno è quello che
prevale, come la terra in questi nostri corpi, composti nondimeno di tutti i quat-
tro <elementi>.
Lo stile del Trissino, per signoreggiare per tutto il dimesso, dimesso potrà esser
detto; quello dell’Ariosto, per la medesima ragione, mediocre […]. 21

Buon lettore di Ermogene e del da poco riscoperto Demetrio Falereo


(o meglio ps-Demetrio) il Tasso aggiunge subito dopo che l’applicazione
del principio non è così semplice perché la tripartizione si ripropone
all’interno di ciascun genere letterario:

Il magnifico, il temperato e l’umile dell’eroico non è il medesimo co ’l magni-


fico, temperato e umile de gli altri poemi; anzi, sì come gli altri poemi sono di
spezie differenti da questo, così ancora gli stili sono di spezie differenti da gli altri.
Però, avvenga che l’umile alcuna volta nell’eroico sia dicevole, non vi si converrà
però l’umile che è proprio del comico, come fece l’Ariosto quando disse:

Ch’a dire il vero, egli ci avea la gola;


..........................
e riputata avria cortesia sciocca,
per darla altrui, levarsela di bocca;

e in quegli altri:

E dicea il ver; ch’era viltade espressa,


conveniente ad uom fatto di stucco,
..........................
che tutta via stesse a parlar con essa,
tenendo l’ali basse come il cucco.

21. AP, pp. 40.


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112 PAOLO TROVATO

Parlari, per dire il vero, troppo popolareschi sono quelli, e questi inclinati alla bas-
sezza comica per la disonesta cosa che si rappresenta, disconvenevole sempre all’e-
roico. E anco:

e fe’ raccorre al suo destrier le penne,


ma non a tal che più l’avea distese.
Del destrier sceso, a pena si ritenne
di salir altri.

E benché sia più convenevolezza tra il lirico e l’epico, nondimeno troppo


inclinò alla mediocrità lirica in quelli:

La verginella è simile alla rosa etc.22

E ancora:

Lo stile eroico è in mezzo quasi fra la semplice gravità del tragico e la fiorita
vaghezza del lirico, e avanza l’una e l’altra nello splendore d’una meravigliosa
maestà; ma la maestà sua di questa è meno ornata, di quella men propria. Non è
disconvenevole nondimeno al poeta epico ch’uscendo da’ termini di quella sua
illustre magnificenza, talora pieghi lo stile verso la semplicità del tragico, il che fa
più sovente, talora verso le lascivie del lirico, il che fa più di rado, come dichia-
rando sèguito.
Lo stile della tragedia, se ben contiene anch’ella avvenimenti illustri e perso-
ne reali, per due cagioni deve essere e più proprio e meno magnifico che quel-
lo dell’epopeia non è: l’una, perchè tratta materie assai più affettuose che quelle
dell’epopeia non sono; e l’affetto richiede purità e semplicità di concetti, e pro-
prietà d’elocuzioni, perchè in tal guisa è verisimile che ragioni uno che è pieno
d’affanno o di timore o di misericordia o d’altra simile perturbazione; e oltra che
i soverchi lumi e ornamenti di stile non solo adombrano, ma impediscono e
ammorzano l’affetto. L’altra cagione è che nella tragedia non parla mai il poeta,
ma sempre coloro che sono introdotti agenti e operanti; e a questi tali si deve
attribuire una maniera di parlare ch’assomigli alla favola (sic; corrige: fav<el>la)23
ordinaria, acciò che l’imitazione riesca più verisimile. Al poeta all’incontro, quan-

22. AP, p. 41.


23. La correzione sembra indubitabile. Basti dire che in PE, p. 198, il passo in questio-
ne («…operanti; e a questi tali si deve attribuire una maniera di parlare ch’assomigli alla
fav<el>la) ordinaria…») è riscritto come segue: «operanti; a quali si deve attribuire una
maniera di parlare men disusata e men dissimile dall’ordinaria. Ma ’l coro per aventura deve
parlar più altamente» ecc.
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BANDELLO NELL’«AMINTA» 113

do ragiona in sua persona, sì come colui che crediamo essere pieno di deità e
rapito da divino furore sovra se stesso, molto sovra l’uso comune e quasi con
un’altra mente e con un’altra lingua gli si concede a pensare e a favellare.
Lo stile del lirico poi, se bene non così magnifico come l’eroico, molto più
deve essere fiorito e ornato; la qual forma di dire fiorita (come i retorici affer-
mano) è propria della mediocrità. Fiorito deve essere lo stile del lirico e perchè
più spesso appare la persona del poeta, e perchè le materie che si piglia a tratta-
re per lo più sono <oziose>, le quali, inornate di fiori e di scherzi, vili e abiette
si rimarrebbono; onde se per avventura fosse la materia morata24 trattata con sen-
tenze, sarà di minor ornamento contenta.
Dichiarato adunque e perchè fiorito lo stile del lirico, e perchè puro e sem-
plice quello del tragico, l’epico vedrà che, trattando materie patetiche o morali,
si deve accostare alla proprietà e semplicità tragica; ma, parlando in persona pro-
pria o trattando materie oziose, s’avvicini alla vaghezza lirica; ma né questo né
quello sì che abbandoni a fatto la grandezza e magnificenza sua propria. Questa
varietà di stili deve essere usata, ma non sì che si muti lo stile non mutandosi le
materie; chè saria imperfezione grandissima.25

6. A scanso di equivoci: come tante altre “poetiche” rinascimentali, anche


i Discorsi dell’arte poetica risentono, credo, della mancanza di una compiu-
ta teoria antica dello stile basso e dello stile medio. Come in fondo suc-
cede già con la Poetica di Aristotele, i caratteri delle scritture al di sotto
dell’epica e della tragedia vanno spesso ricavati dalle indicazioni del Tasso
sullo stile alto per sottrazione o rovesciamento, con procedimenti degni
di una teologia negativa. Ma rimane l’impressione che proprio nell’Arte
poetica, come per altri versi nelle Lettere poetiche, più che nei tardi e biblio-
graficamente aggiornati e apologetici Discorsi del poema eroico, sia possibi-
le cogliere il nucleo più autentico, o almeno il più spontaneo, delle inno-
vative riflessioni tassiane sugli stili.26

24. Nel senso latineggiante di ‘relativa ai mores’. In PE, p. 199, il latinismo forte è evi-
tato: «Ma se le cose fossero piene di affetti e di costumi, sarebbono per avventura contente di
minor ornamento».
25. AP, pp. 41-42.
26. Come sottolinea Javitch 1999, 529 e 532-33, «prima delle formulazioni di Tasso non
c’è nessuna discussione specifica sullo stile alto o sui tre livelli che metta in relazione stile
e genere»; «Aristotele non diede ai codificatori italiani del Cinquecento una definizione
di genere bell’e pronta né tanto meno un sistema dei generi. Piuttosto costoro, volendo
erigere un tale sistema, compresero che i fondamenti potevano essere tratti dalla Poetica».
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114 PAOLO TROVATO

Nel prosieguo del trattato il Tasso precisa che alcune figure e alcuni
artifici sono più propri dello stile alto:

L’umiltà dello stile nasce da le contrarie cagioni. E prima: umile sarà il con-
cetto, se sarà quale a punto suol nascere ne gli animi de gli uomini ordinaria-
mente, e non atto ad indurre meraviglia, ma più tosto all’insegnare accomodato.
Umile sarà l’elocuzione se le parole saranno proprie, non peregrine, non nove,
non straniere, poche translate, e quelle non con quell’ardire che al magnifico si
conviene; pochi epiteti, e più tosto necessarii che per ornamento. Umile sarà la
composizione se brevi saranno i periodi e i membri, se l’orazione non avrà tante
copule, ma facile se ne correrà secondo l’uso comune, senza trasportare nomi o
verbi; se i versi saranno senza rottura; se le desinenze non saranno troppo scelte.
Il vizio prossimo a questo è la bassezza. Questa sarà ne’ concetti se quelli
saranno troppo vili e abietti, e avranno dell’osceno e dello sporco. Bassa sarà l’e-
locuzione se le parole saranno di contado o popolaresche a fatto. Bassa la composizio-
ne se sarà sciolta d’ogni numero, e ’l verso languido a fatto, come:

poi vide Cleopatrà lussuriosa.27

A proposito delle antitesi, piuttosto frequenti nella ricerca pastorale


delle pluralità («Onde nasce il tuo odio? Dal suo amore», «Piacevol padre
di figlio crudele» ecc.), è notevole che la retorica giovanile le bandisca
dallo stile alto, citando senza troppi riguardi un verso del Bembo:

Schivi [il magnifico dicitore] gli antiteti come:

tu veloce fanciullo, io vecchio e tardo;

che tutte queste figure ove si scopre l’affettazione, sono proprie della mediocrità, e sì
come molto dilettano, così nulla movono. 28

Con le parole di Grosser:

Precetto specifico, derivante dallo pseudo-Demetrio […], è poi quello […]


che impone con una certa enfasi di evitare «certe minute diligenze, come di fare
che membro a membro corrisponda, verbo a verbo, nome a nome; e non solo in
quanto al numero, ma in quanto al senso»; di «schivare gli antiteti». Da evitare

27. AP, 46 (corsivi miei).


28. AP, p. 45 (corsivi miei).
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BANDELLO NELL’«AMINTA» 115

come «proprie della mediocrità» sono cioè le seguenti figure: simmetrie perfet-
te, parallelismi, chiasmi, coppie, tricola, isocola, e tutte quelle che producano un
eccessso di simmetria, di regolarità, di armonia.29

Nonostante l’esiguità della campionatura, la scheletricità della mia


analisi e l’elasticità del sistema teorico di riferimento, che ammette volen-
tieri sconfinamenti dall’alto al basso, o viceversa, e differenze di “genere”
(«Il magnifico, il temperato e l’umile dell’eroico non è il medesimo co ’l
magnifico, temperato e umile de gli altri poemi»),30 ritengo fin da ora
possibile rispondere alla domanda formulata sopra sul livello stilistico
dell’ Aminta. Mi pare evidente che il Tasso vuole mantenere la sua pasto-
rale nell’ambito della mediocrità: al di sopra, certo, della “bassezza comica”,
ma ben al di sotto della magnificenza.
Se questo è vero, si capisce anche perché, pur rimanendo fedele alla sua
avversione per le parole popolaresche, il poeta possa reimpiegare – a lato
del materiale poetico prefabbricato già repertoriato dagli studiosi (in
ordine di importanza: Petrarca, Dante, Ariosto, il Tasso lirico, suo padre
Bernardo, lo Speroni della Canace ecc.) – materiali prosastici della tradi-
zione letteraria (per es., la novellistica bandelliana o il teatro) e però non
connotati in senso comico: buoni appunto per lo stile medio.31

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29. Grosser 1992, 211.


30. Particolarmente controversa è la categoria delle ripetizioni, per cui occorrerà anche
tener conto del fatto che l’Aminta non è un sonetto o una canzone, ma un’opera “lunga”.
31. Accorsi 1999, 922-36, che pure intende analizzare l’Aminta «facendo riferimento
alla stilistica tassiana» e che sottolinea a ragione il carattere “equivoco” di certi stilemi, pro-
pende invece (se capisco bene) per lo stile alto.
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116 PAOLO TROVATO

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BANDELLO NELL’«AMINTA» 117

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ABSTRACT
Prendendo le mosse da alcune riprese intertestuali che legano l’Aminta alle
Novelle di Bandello, da un sommario confronto retorico e stilistico tra il Re Tor-
rismondo e l’Aminta e dalle indicazioni desumibili dagli scritti retorici tassiani, il
saggio suggerisce che, all’interno della tradizionale distinzione dei tre stili, l’A-
minta sia intesa dall’autore come un opera di stile medio.

Building on a little series of textual reminiscences that bind the Aminta to the
Novelle of Bandello, on a brief rhetorical and stylistic comparison between the
Re Torrismondo and the Aminta and on the indications contained in the rhetori-
cal writings of Tasso, the essay suggests that, within the classical distinction of the
three styles, the Aminta is intended by the author as a ‘middle’ style work.

Paolo Trovato
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