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CAPITOLO 1.

Il sistema politico italiano


La scoperta del sistema politico nelle scienze sociali
Solo dopo la seconda guerra mondiale si è discusso del rapporto tra sistema e
politica, e l'entrata di tale concetto in un ambito scientifico si colloca solo con
l'affermazione nelle scienze sociali della scuola struttural funzionalista. Fu il
politologo canadese David Easton a porre il concetto di sistema politico al centro
dell'agenda della scienza politica, una disciplina che nel Nord America, nel periodo
immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale, stava
crescendo rapidamente. Prima di allora gli scienziati sociali si erano concentrati
essenzialmente su concetti più tradizionali, come “élite”, “governo”, “potere” e “stato”.
Concetti che rimanevano centrali nell’analisi, ma dovevano essere visti come parti di
uno scenario complesso. Con Eston il sistema politico diventava l’unità di analisi
privilegiata. Tale oggetto doveva essere studiato attraverso le sue componenti
fondamentali: la “comunità politica”, il “regime politico” e le “autorità”.
La comunità politica corrisponde alla dimensione orizzontale della politica, ovvero
cittadini e policy takers, ovvero i fruitori e i destinatari delle scelte politiche; il regime
politico corrisponde l'insieme di norme e procedure che rendono effettive le
assegnazioni imperative di valori e quindi le decisioni e le scelte politiche; le autorità
corrispondono alla dimensione verticale della politica, ovvero l’insieme dei soggetti
chiamati a prendere decisioni e scelte politiche.
Easton sviluppava quella che sarebbe stata la sua più celebre eredità intellettuale: il
celebre schema input - output - feedback.Il funzionamento del sistema e la sua
perenne ricerca di equilibrio sarebbero il risultato di un flusso di domande e di
sostegno (inputs) proveniente dall' ambiente sociale, che passando attraverso i
gatekeepers socioistituzionali (élite, partiti, associazioni, ecc) penetra nella scatola
nera (black box) del sistema e da lì si trasforma in azioni e decisioni (outputs) che
mutano di nuovo l’ambiente sociale.Il mutare dei rapporti sociali derivato dall'impatto
degli outcomes del sistema politico può determinare delle retroazioni (feedbacks),
che a loro volta stimolano il rimodularsi delle aspettative e l’articolazione delle future
domande.Il contributo di Easton aveva valorizzato la nozione di interdipendenza tra
gli elementi fondamentali della politica, enfatizzando il ruolo del sistema politico non
come semplice struttura bensì come processo complesso e mutevole. Easton
muoveva una forte critica a quello che egli definiva iperfattualismo grossolano, cioè
la raccolta acritica di dati priva di un quadro interpretativo, e auspicava invece una
meticolosa azione di lettura sistematica di dati coerenti attraverso la formazione di
una teoria generale del sistema politico che però non ebbe il seguito auspicato.

Almond e Powell
Il celebre manuale di Almond e Powell, Comparative politics (1966), ispirato
all'approccio struttural-funzionalista e ai lavori di Easton e della scuola
comportamentista, specificava il contenuto dell'analisi della Politica vista come un
sistema. Secondo Almond e Powell, il sistema politico si struttura in una pluralità di
funzioni: 1. le funzioni di sistema, come quella di socializzazione e mobilitazione
politica o quella di selezione e reclutamento del personale politico,
corrisponderebbero alla formazione delle strutture interne alla scatola nera del
sistema stesso; 2. le funzioni di processo, ossia l'aggregazione e l'articolazione degli
interessi e la messa in opera delle decisioni, corrisponderebbero invece alle
concrete azioni portate sui due versanti del sistema eastoniano, l’input e l’output; 3.
le funzioni di politica pubblica (estrazione, regolazione e distribuzione/ridistribuzione
delle risorse) costituirebbero l'ulteriore insieme di operazioni che attendono gli attori
politici per rispondere in modo concreto alle domande e alle aspettative della
comunità. Quest’ultima dimensione della politica, i due autori la trovavano già allora
enormemente più complessa rispetto a quella che Max Weber aveva
sostanzialmente descritto come un’azione ripetitiva e prevedibile, basata sui due
tradizionali compiti dello Stato liberale: mantenimento dell'ordine interno e difesa dei
propri confini e delle proprie aspettative sullo scenario internazionale. Almond e
Powell indicavano una serie di strutture che assolverebbero molteplici funzioni dei
sistemi politici avanzati:
- gruppi di interesse e partiti politici, cioè i principali attori impegnati sul
versante degli input, che si occupano di raccogliere, rappresentare e
articolare le domande sociali;
- governi, parlamenti e altre istituzioni, centrali e locali, che compongono
l’ossatura istituzionale di un sistema;
- le amministrazioni e l’insieme degli attori pubblici e semipubblici che si
prendono cura della fase esecutiva e dell’implementazione dei programmi
pubblici, operando sul versante degli output del sistema.

Tra i meriti di questo lavoro di sistemazione teorica vi era quella di comprendere


all’interno dell’agenda della scienza politica comparata gli oggetti tipici di una nuova
sottodisciplina che stava facendo, soprattutto negli Stati Uniti, i primi passi: l’analisi
delle politiche pubbliche.
La nozione di “sistema politico” diventava uno strumento per cogliere e ordinare le
variazioni decisive nei fenomeni politici, mentre altri concetti assumevano una
grande rilevanza teorica. Ad esempio, il concetto di sviluppo politico che andava a
occupare un ruolo centrale nell'agenda dei ricercatori.

Sviluppi recenti nell’analisi dei sistemi politici contemporanei


L’approccio struttural-funzionalista e sistemico non poteva mantenere tutte le sue
promesse: troppo vago nella scelta delle dimensioni di analisi e dei concetti centrali;
troppo ambizioso nel voler spiegare il macrofenomeno della “politica”, attraverso lo
studio dei collegamenti tra funzioni e strutture solo apparentemente simili da un caso
all’altro, ma che poi, alla luce dell’analisi empirica profonda, si rivelavano oggetti
diversi, spesso incompatibili.
L'idea di uno studio comparato basato su sistemi politici ha allora fatto posto
lentamente ad un'agenda di ricerca incentrata su concetti più specifici, ad esempio: i
sistemi partitici; i regimi politici e il loro mutamento; la variabilità dei modelli
democratici. Il concetto di sistema politico non era più utilizzato in una chiave teorica
rigida, come quella dello schema eastoniano; tale concetto è divenuto lo strumento
più adatto per indicare il livello più ampio possibile della comparazione della politica
tra le nazioni. Quando si definisce una griglia di casi possibili per assicurare la
conoscenza della politica in una categoria di realtà politiche affini (nelle democrazie
avanzate, o nei nuovi regimi democratici dell’Europa centro-orientale,ecc), possiamo
correttamente parlare di una comparazione “tra sistemi” se il fine del lavoro è la
costruzione di teorie a medio raggio che non riguardano solo la spiegazione di
aspetti specifici (stabilità dei regimi, tipo di democrazia, ecc), ma appunto la
rilevanza della persistenza o del mutamento dei rapporti complessivi nell’insieme di
questi aspetti.
Le analisi che si focalizzano sul concetto di sistema politico sono generalmente
costruite sulla selezione di un numero medio-piccolo di casi, analisi quindi che
consentono quella strategia intensiva che risponde alle esigenze, tipiche
dell'approccio sistemico, di studiare e interpretare un complesso di relazioni.
Tuttavia, non mancano lavori comparati che si rifanno all'unità sistema politico
comprandone un ampio numero di casi: in questi lavori il concetto è usato in modo
sostanzialmente equivalente a regime politico. L’elemento più ricorrente nella
comparazione tra sistemi politici, la vera eredità del contributo dell'approccio
sistemico struttural-funzionalista di Almond, è il riferimento costante al doppio
versante input/output, e quindi la velata critica all’eccessivo sbilanciamento sul primo
dei due versanti operato da Easton. L'argomento di fondo proveniente da molti
importanti lavori appartenenti oggi al mainstream della politica comparata è
semplice quanto convincente: si preferisce parlare di “sistema politico” perché con
tale definizione risulta più immediatamente comprensibile la concezione della politica
come un fenomeno complesso, multidimensionale, legato alla tradizionale diade
funzione/struttura e al doppio versante che oppone il flusso domande/sostegno a
quello decisioni/risultati.

Il sistema politico oltre lo stato-nazione


Appare sempre più chiaro che i singoli sistemi politici (concepiti fino a ieri come
entità territorialmente corrispondenti agli Stati nazione) non siano così indipendenti,
e in qualche misura neanche più totalmente distinguibili rispetto a un altro livello di
sistema. Se la “sovranità”, nozione di stampo giuridico che costituiva la chiave
fondamentale per definire la tradizionale forma di stato, è oggi condivisa e dispersa
tra autonomie locali, unità subnazionali, governi nazionali e organizzazioni
sovranazionali, allora anche il sistema politico tende ad assumere più forme e più
dimensioni. Molte realtà subnazionali e sovranazionali hanno oggi le caratteristiche
di un sistema, comprese le denominazioni di quelle funzioni (legislativa,
amministrativa, ecc.) e strutture (Parlamento, governo, ecc.) che accompagnavano
fino a oggi essenzialmente le realtà politiche degli Stati-nazione. Questo anche per
la presenza di spostamenti di potere e responsabilità politiche non solo tra i vari
livelli (vertical shifts), ma anche tra soggetti diversi collocati sullo stesso livello
(horizontal shifts), alcuni dei quali facenti parte del vecchio ordine politico-
istituzionale, altri ascrivibili in una dimensione semipubblica o addirittura non
pubblica. La teoria della governance di multilivello (multilevel governance), che
intende costituire una risposta ai problemi sollevati da questi continui shifts, ha
mostrato come il grado di interdipendenza politica tra le istituzioni, formali e non,
porti a mutamenti profondi della nozione stessa di “sistema politico”, soprattutto in
un’area come quella dell’Unione Europea, nella quale tale gioco di interdipendenze
avrebbe toccato il suo massimo livello conosciuto.

Comparare i sistemi politici


Le istituzioni contano e riscoprire le istituzioni sono stati i due fortunati motti
dell’analisi politologica di fine XX secolo, che ci hanno stimolato a riportare
l’attenzione sull’importanza della conoscenza degli effetti (micro e macro) generati
dai vari modelli istituzionali, ma anche del mutare continuo delle istituzioni stesse,
intense non in senso giuridico-formale, ma come strutture consolidate di
comportamenti politici.

Un ritorno di attenzione
Il sistema politico italiano è stato al centro di un ampio dibattito, costituendo l'oggetto
di una serie di sforzi interpretativi da parte della comunità scientifica. Il caso italiano
è stato reinserito nell'agenda di molti progetti comparati, figurando come caso di
studio rilevante in vari manuali.Non poteva essere altrimenti del resto: il
cambiamento politico avvenuto negli anni 1992-1996 e quello più strisciante degli
anni successivi, rappresenta un esempio molto peculiare, non solo per la storia
italiana, di transizione: il tipo di mutamento, classificabile come “transizione da
democrazia a democrazia”, non è sufficientemente studiato in letteratura, e
all'interno di questa categoria la transizione italiana sembra avere caratteri
particolari. L'improvviso sussulto della politica italiana, nel corso degli anni ‘90, aveva
risvegliato l'interesse degli osservatori per un'analisi condotta livello di sistema
politico: fino a quel momento la comunità scientifica non sentiva il bisogno di
rimettere mano a una interpretazione che poteva essere sintetizzata con la vecchia
metafora del calabrone. Come l'insetto pesante che riesce a volare, il sistema
politico italiano, nonostante i suoi molti problemi, “funzionava” e questa tutto
sommato era un elemento sufficiente, per quanto sorprendente. La sfida per gli
studiosi era quella di spiegare le cause e talvolta i prezzi di una democrazia difficile,
senza prestare un’eccessiva attenzione alla complessità di un sistema che in
qualche modo era considerato un modello di successo o, perlomeno, un sistema
destinato a rimanere in equilibrio. L'immagine prevalente del sistema politico italiano
è quella di un insieme di attori e pratiche politiche ancora in cerca di una loro
definizione, che proprio per questo motivo esercita grande fascino presso gli
osservatori internazionali.

Questioni al centro del volume (riposta al capitolo finale)


1. Come sono realmente cambiati i rapporti sul versante degli input del sistema
politico? E’ importante rilevare la tenuta (o meno) delle classiche funzioni dei
partiti e delle altre strutture di aggregazione degli interessi e il nuovo ruolo
rivestito dall’opinione pubblica, al di là di espressioni un po’ a effetto sul
dominio dell’antipolitica e sulla democrazia del pubblico.
2. Quali livelli di capacità istituzionale, trasparenza e responsabilità raggiungono
oggi le istituzioni centrali del governo? E’ importante verificare le ipotesi circa i
presunti fenomeni di leaderizzazione/personalizzazione della politica
democratica, e le connesse derive di presidenzializzazione e verticalizzazione
dei sistemi di governo collegiali e parlamentari europei.
3. Qual è stato il reale impatto di fattori interni (crisi dei partiti storici, adozione di
diversi sistemi elettorali e di altre riforme istituzionali come quelle che hanno
cambiato il sistema di governo locale e regionale) al cospetto dell’azione
esercitata da fattori esogeni come la fine della Guerra fredda e l’accelerazione
del processo di integrazione europea?
4. Quali dei particolari settori istituzionali sono particolarmente bisognosi di
adattamenti o riforme? Quali principi o particolari soluzioni risultano oggi
consigliabili per i policy makers?

CAPITOLO 2. Il sistema politico italiano: le sfide di


lungo periodo
L’unificazione del paese
L'Italia è stata forgiata, unificando una serie di stati regionali e staccando pezzi
importanti dal declinante e multinazionale impero austro-ungarico, nell'epoca del
nazionalismo, quando la cultura politica prevalente riteneva che ad una nazione
dovesse corrispondere uno Stato ed a ogni Stato una nazione. L'Italia ha raggiunto
l'unità nel 1861, grazie al saldarsi delle efficaci manovre internazionali del Regno di
Sardegna, da tempo orientato a un’espansione verso la penisola, e delle aspirazioni
del movimento nazionale e liberale attivo nel resto del Paese. Per quel che riguarda
la posizione nel sistema internazionale, l’aver raggiunto solo in tempi relativamente
tardivi la dimensione di “grande paese”, perlopiù grazie al decisivo aiuto militare
della Francia e al sostegno più indiretto del Regno Unito, ha posto l'Italia nella
difficile posizione di ultima tra le grandi potenze. Questo ha determinato a lungo in
parte significativa dell’élite politiche l'idea che l'Italia dovesse mettersi al passo con i
paesi più influenti d'Europa e meritasse una posizione significativa sulla scena
internazionale, un sentimento che ha contribuito a spingere il paese verso una serie
di spedizioni coloniali non fortunate e a farsi coinvolgere nelle due grandi guerre del
XX secolo. Per quel che riguarda la dimensione interna, l'unificazione del paese è
stata probabilmente più facile da raggiungere sul piano dell'aggregazione territoriale
che su quello della funzionalità concreta dello Stato e dell'integrazione della società.
L'annessione del resto della penisola ad uno degli stati regionali, è stata dovuta a
una serie di fattori che poneva il Piemonte in una situazione di vantaggio rispetto agli
altri stati: maggiori risorse amministrative e militari, consolidatasi nella lunga lotta per
la sopravvivenza con il potente vicino francese; il più elevato grado di indipendenza
rispetto alle grandi potenze che esercitavano influenza sulla penisola; l’aver meglio
risolto il problema della legittimità politica attraverso la costituzione del 1848 (lo
Statuto Albertino) e l’istituzionalizzazione del Parlamento, mentre gli altri stati erano
tutti rapidamente ritornati e forme assolutistiche.
Il fatto che gli altri attori principali della penisola (Granducato di Toscana, Stato
Pontificio e Regno delle Due Sicilie) fossero molto più deboli su questi piani fece sì
che il Regno di Sardegna, che pure era geograficamente e culturalmente più
periferico, si trovasse invece in una posizione centrale nel momento in cui, a metà
dell'Ottocento, la partita dello Stato nazionale si aprì, come in altre parti d'Europa,
anche in Italia.Anche se inizialmente il movimento nazionale era diviso (con una
significativa ala repubblicana e democratica guidata da Mazzini e Garibaldi che
avrebbe preferito un’unificazione spinta dal basso e l'eliminazione dell’istituzione
monarchica) la dinastia sabauda grazie ai suoi successi militari e diplomatici, alle
sue istituzioni parlamentari e al solido sostegno interno, si guadagnò l'appoggio
dell’ala moderata del movimento e riuscì a essere accettata come la guida più sicura
della causa nazionale italiana. Il modello di unificazione che nei fatti è prevalso
comportò lo smantellamento delle strutture statali preesistenti di gran parte della
Penisola e la loro sostituzione con quelle sabaude. Questa unificazione “per
incorporazione” fu favorita dal fatto che il processo si svolse attraverso tappe
successive che si estesero per quasi 70 anni, dal 1859 al 1919. Se la parte più
importante dell'unificazione si ebbe nel 1861, il processo fu completato solo dopo
una serie di vicende belliche e diplomatiche che portarono all'acquisizione di quei
territori che venivano considerati italiani. Nel 1866 venne ad aggiungersi il Veneto;
nel 1870 Roma e il suo territorio, con l'eliminazione il potere temporale del papato;
nel 1919 il Trentino e il Tirolo meridionale (Alto Adige); il Friuli e Trieste con il suo
territorio; l’Istria e parte della costa dalmata. Fu più semplice per lo Stato-guida del
processo estendere le proprie istituzioni alle acquisizioni successive.
Come in altri casi europei di state building e nation building, la determinazione dei
confini dello Stato italiano non fu un’operazione semplice. Il processo di unificazione
ha condotto all'inclusione nel territorio italiano di una significativa minoranza di lingua
tedesca nella provincia di Bolzano e di lingua slava nel Friuli Venezia Giulia, oltre a
quella di lingua francese nella Valle d'Aosta, peraltro legata già da secoli ai domini di
casa Savoia. Viceversa sono rimasti fuori dall'Italia popolazioni di lingua o dialetti
italiani in Francia (Nizza), in Svizzera (Canton Ticino) e in Jugoslavia. Nei confronti
delle minoranze non italofone sono state adottate nel corso del tempo politiche
diverse: da quelle di assimilazione forzata del periodo fascista a un sistema più
elaborato di autonomie territoriali e culturali in epoca repubblicana. Per quanto
riguarda le popolazioni italiane rimaste fuori dai confini dello Stato italiano, esse
sono state a più riprese uno dei punti di forza dei partiti nazionalisti e dopo la
Seconda guerra mondiale hanno costituito un importante motivo di attrito con il
confinante Stato della Jugoslavia (anche a seguito dell’espulsione forzata di molti di
essi).
La Prima guerra mondiale aveva determinato significative acquisizioni, ma la
Seconda ha determinato significative rinunce sul fronte orientale (l’Istria e i territori
dalmati). I problemi successivamente, riguarderanno piuttosto come affrontare
rivendicazioni autonomiste o secessioniste provenienti dall'interno e relative ad
alcune zone periferiche dello Stato italiano.
Lo smantellamento dei vecchi Stati e delle loro case regnanti venne facilmente
accettato dalle élite liberali e modernizzatrici, ma lasciò consistenti strati delle loro
popolazioni nostalgici del vecchio ordine. Questi sentimenti vennero spesso
rinfocolati dai pesi, in particolare fiscali, che il nuovo Stato dovette imporre per
pagare i costi dell'unificazione. Il fenomeno più importante è stato quello
dell'opposizione cattolica, originata dalla conquista di Roma e dalle drastiche
politiche di secolarizzazione delle proprietà ecclesiastiche promosse dalla classe
politica liberale, oltre che da dissensi di natura ideologica. La Chiesa cattolica poteva
vantare un forte seguito tra larghi strati della popolazione e in particolare nelle
campagne. L'opposizione allo Stato italiano fu definita con forza dal decreto papale
del Non expedit (1874), che imponeva ai cattolici la non partecipazione alla vita
politica a livello; bisognerà aspettare il 1913 e il cosiddetto Patto Gentiloni per un
aperto ritorno dei cattolici nella politica italiana e il 1919 per la formazione di un
partito di ispirazione cattolica, il Partito popolare. Questo diverrà subito il secondo
maggior partito per consenso elettorale. Ma il difficile rapporto tra Stato e Chiesa
potrà dirsi risolto solamente sotto il fascismo quando, con i Patti Lateranensi (1929),
se ne dette un'organica sistemazione rivelatasi capace di durare nel tempo. Con il
trattato si garantiva alla Chiesa cattolica una piccola sovranità territoriale (lo Stato-
città del Vaticano), mentre il Concordato regolava aspetti riguardanti la presenza
della Chiesa nella vita italiana, come la questione scolastica, la politica matrimoniale,
i diritti e doveri del clero. Con i Patti Lateranensi il regime fascista si assicurava una
non belligeranza della Chiesa che la classe politica liberale non era riuscita a
conquistarsi. I contenuti di questo importante accordo sarebbero poi stati confermati
dalla Repubblica democratica, con una scelta di grande portata effettuata da una
larga maggioranza dell'Assemblea Costituente (ivi compreso il Partito comunista) e
solo piccoli ritocchi al Concordato sarebbero stati successivamente negoziati nel
1984. L'importanza che ha avuto la questione cattolica nella vita politica italiana è
evidente dal fatto che i primi 40 anni della Repubblica furono guidati dal partito di
ispirazione confessionale, la Democrazia Cristiana, costantemente presente al
governo con un ruolo centrale. Un importante elemento di debolezza rimase quindi
per molto tempo presente al processo di formazione della democrazia italiana.
L'opposizione al nuovo Stato proveniva anche da altre direzioni. Nell'Italia
meridionale una parte delle élite sociali e del clero, oltre che della popolazione delle
campagne, mantenne per un certo tempo un atteggiamento di sostegno la vecchia
dinastia borbonica. Percependo queste posizioni, al pari dell’emergere del
movimento socialista e anarchico, come una serie di minacce per il nuovo Stato, la
classe politica liberale considerava inizialmente con timore la prospettiva di
estensione del suffragio e l'opzione di una qualche forma di autonomia regionale. La
classe politica liberale non esitò a far ricorso a strumenti repressivi nei confronti di
manifestazioni popolari considerate sovversive, in particolare in Sicilia ed a Milano
negli ultimi anni del XIX secolo.

Una società eterogenea


L'unificazione statale dell'Italia era stato un processo relativamente rapido, ma “fare
gli italiani”, come disse Massimo D'Azeglio, sarebbe stato più lungo e complicato. Se
la sua parte settentrionale è vicina e fortemente collegata con il centro dell'Europa, le
regioni meridionali poste nel mezzo del Mediterraneo e vicinissime alle coste
settentrionali dell'Africa, hanno avuto una complessa storia di relazioni con il mondo
arabo e poi una lunga dominazione spagnola. Per la sua posizione geografica, per le
eredità del passato e una lunga storia di divisione politica, per i diversi modelli di
sviluppo economico, la società italiana rimase anche dopo l'unificazione fortemente
differenziata al suo interno. Il linguaggio letterario e colto era stato standardizzato
ben prima dell'unificazione, ma per la gran parte della popolazione italiana non
costituiva un mezzo significativo di comunicazione ed erano invece dialetti molto
diversi e del tutto incomprensibili tra loro a dominare la vita quotidiana. In Piemonte,
Lombardia e Veneto il paesaggio era caratterizzato da migliaia di piccoli comuni con
le loro parrocchie e autorità municipali, mentre nel Sud prevalevano comuni più
estesi, caratterizzati da una distanza assai più grande dell’autorità rispetto alla
popolazione. Nel Nord accanto alle grandi proprietà si trovavano numerosi contadini
proprietari, nel Centro prevaleva la mezzadria, mentre nel Sud dominavano il
latifondo e il bracciantato. Il Piemonte e la Lombardia vantavano una lunga
tradizione di industrie tessili, meccaniche e militari, che non aveva eguali al Centro e
al Sud. L’unificazione politica e quella economica resero le differenze ancora più
grandi. L'industrializzazione protetta che si stava sviluppando nel Regno di Napoli fu
danneggiata dalla creazione di un mercato unico e dalla competizione con le
industrie del Nord. Genova, Milano e Torino divennero poli di un “triangolo
industriale”, mentre le regioni del Sud rimasero indietro. La questione meridionale,
cioè il problema del divario tra Nord e il Sud, divenne così uno dei temi permanenti
della discussione politica italiana.

I caratteri del nuovo Stato


Il nuovo Regno d'Italia era il risultato di una serie di successive annessioni degli altri
Stati e regioni della penisola al vecchio Regno di Sardegna. Le annessioni furono
sancite attraverso plebisciti a suffragio universale maschile (abbondantemente
manipolati) che accordarono una larghissima maggioranza all'unificazione.La
vecchia burocrazia piemontese dovette essere ampliata per far fronte alle nuove
necessità, ma il principio di centralizzazione fu applicato rigorosamente e per lungo
tempo le nuove regioni furono amministrate da funzionari piemontesi. Solo verso la
fine del XX secolo subentrò il processo di “meridionalizzazione” della burocrazia.
Anche il processo di nazionalizzazione delle élite politiche si sviluppò solo
gradatamente. Ancora fino al 1876, sotto la Destra storica, circa la metà dei Ministri
provenivano dal Nord Ovest, mentre il Sud era nettamente sottorappresentato. Il
primo capo del governo proveniente da una regione meridionale fu Francesco Crispi
nel 1889. Con il passare delle legislature i liberali formarono una vera classe politica
nazionale radicata in tutte le aree del Paese. Le fratture territoriali tornarono tuttavia
a emergere dopo la Prima guerra mondiale, quando una combinazione di fattori
determinarono un nuovo panorama politico.
Le élite liberali mantenevano le loro basi di forza nell'Italia meridionale, ma erano
stati praticamente spazzati via dall’Italia settentrionale e centrale, dove le nuove
forze politiche (i socialisti ei cattolici del Partito popolare) erano riuscite ad
assicurarsi il grosso dell’elettorato.Una simile divisione territoriale fece nuovamente
la sua apparizione dopo la Seconda guerra mondiale nelle elezioni del 1946. Nella
durissima competizione del 1948 la Democrazia Cristiana (erede del Partito
popolare) riuscì a diventare un partito nazionale.
Ai sensi dello Statuto Albertino il decentramento territoriale era limitato: al di sotto del
livello nazionale c'erano solo la provincia è il Comune. La provincia, concepito
secondo il modello francese del dipartimento, era guidata dal prefetto, che
rappresentava un cruciale strumento del controllo del potere centrale sulla periferia.
Quanto ai Comuni, essenzialmente avevano solo un consiglio elettivo, mentre il
sindaco era nominato dal prefetto. Solo nel 1888 fu riconosciuto al consiglio
comunale il potere di eleggere il primo cittadino. Tuttavia, anche questi organismi
democratici rimanevano sotto il controllo del Prefetto, che aveva il potere di
accertare la legittimità dei loro atti e quindi di scioglierli qualora avessero violato
delle norme o si fossero rivelati incapaci di governare efficacemente. Il timore di
perdere il controllo della periferia a favore di forze ostili allo Stato liberale costituì la
ragione principale per rifiutare una regionalizzazione del paese. I nuovi partiti, in
particolare il Partito popolare, avrebbero avuto un atteggiamento più favorevole al
decentramento politico e amministrativo, ma i loro programmi di riforma furono
rapidamente messi da parte con la crisi democratica e l'avvento del Fascismo, che,
al contrario, promosse un’ulteriore centralizzazione abolendo anche l'elezione dei
sindaci. La caduta del fascismo aveva significato anche un rifiuto dei modelli di
governance che questo regime aveva disegnato, in particolare del centralismo
politico-amministrativo. Pertanto, il nuovo ordinamento territoriale previsto dalla
Costituzione del 1948, pur non giungendo ad una soluzione federale e mantenendo
il vecchio sistema amministrativo basato sui prefetti, riconobbe alle autorità locali
elettive uno status costituzionale e aggiunse alle province ed ai comuni le Regioni.
L'adozione del regionalismo fu incoraggiata anche dalla necessità di dare una
specifica autonomia alle aree periferiche del paese dove, in coincidenza con la
sconfitta bellica e il collasso dello Stato, si erano manifestate spinte secessioniste o
comunque rivendicazioni autonomiste più forti.
Una volta garantita l’autonomia delle regioni speciali e con le principali
preoccupazioni dell'opinione pubblica focalizzate sulla ricostruzione economica e
sulle tensioni internazionali, la mobilitazione dal basso a favore dell'autonomia
regionale divenne molto più flebile. Inoltre l'entusiasmo dell’élite di governo per il
decentramento si raffreddò rapidamente per un insieme di ragioni: per i politici
passati da ruoli di opposizione a ruoli di governo i vantaggi della centralizzazione
apparivano più evidenti; le necessità della ricostruzione del paese richiedevano una
decisa azione dal centro; dato il quadro politico emerso dal ritorno alla democrazia,
l'attuazione delle istituzioni regionali avrebbe significato attribuire nelle regioni
dell'Italia centrale potere significativi e governi locali dominati dal Partito Comunista
con il quale allora lo scontro era diventato molto intenso. Il rischio di un’Italia tagliata
a metà della fascia rossa appariva troppo grande alle forze nazionale di governo per
indurle a procedere lungo la strada della regionalizzazione .Dopo gli anni del
miracolo economico, le richieste di un sistema amministrativo più flessibile erano
cresciute e l'attuazione delle regioni era una delle rivendicazioni del partito Socialista
entrato a far parte della coalizione di centro-sinistra con la Democrazia Cristiana.
Inoltre, anche per quest'ultimo partito, che aveva ormai consolidato la sua presa al
potere, la prospettiva che alcune regioni cadessero nelle mani dell'opposizione era
diventata meno preoccupante. Perdipiù il processo di regionalizzazione avrebbe
reso disponibili nuove posizioni di comando anche per i partiti di governo nelle molte
regioni nelle quali avrebbero governato, mettendo così a disposizione una risorsa
preziosa per la gestione dei conflitti interni tra le fazioni.Con le elezioni regionali del
1970 anche le regioni ordinarie videro la luce. Per effetto di questa ritardata
attuazione si trovavano però a dover fare i conti con un’amministrazione centrale
ormai pienamente ricostruita dopo il collasso della guerra e abituata a svolgere le
funzioni che la Costituzione assegna alle Regioni. Il trasferimento di funzioni e
risorse si sarebbe quindi rivelato difficile e avrebbe richiesto più di un decennio per
giungere in porto; in ogni caso il controllo delle risorse finanziarie rimase
strettamente nelle mani della burocrazia centrale.
Una nuova e più imprevista sfida agli equilibri territoriali del sistema politico si
sarebbe manifestata tra la fine degli anni 80 e l'inizio degli anni 90; a lanciare questa
sfida era un nuovo movimento politico: la Lega Nord, che partendo dal motore
economico del Paese (le regioni della Lombardia, del Veneto e del Piemonte)
promuoveva una richiesta di drastica revisione degli equilibri centro-periferia,
oscillante tra la proposta del federalismo e più radicali minacce di secessione. Le
proposte secessionistiche del passato non avevano mai toccato un'area così ampia
ed economicamente avanzata come quella che avrebbe costituito la base della Leg.
La questione assumeva quindi gravità inedita. Il successo della Lega andava di pari
passo con il drammatico declino della Democrazia Cristiana proprio in quelle regioni
del Nord che erano state a lungo saldi bastioni elettorali. La Lega dominante al Nord,
il partito postcomunista (Partito Democratico della Sinistra, poi Democratici di
sinistra) che manteneva il tradizionale predominio nel Centro, mentre la Democrazia
Cristiana resisteva nel Sud.Quando tra il 1993 e il 1994 si determinò il collasso della
Democrazia Cristiana la Lega parve ottenere un ruolo centrale nel nuovo sistema
bipolare e la richiesta di una svolta federale guadagnò il centro della scena politica.
L’elezione diretta dei sindaci, dopo la riforma del 1993, e la cresciuta visibilità politica
nazionale acquisita dai primi cittadini delle città più grandi, hanno probabilmente
stimolato anche un crescente attivismo al livello regionale.
L’intensa competizione elettorale ha poi spinto centro-sinistra a promuovere
un'ampia devoluzione dei poteri amministrativi alle Regioni e infine ad anticipare, nel
2001, alcuni aspetti della riforma federale proposta dal centro-destra attraverso una
consistente correzione del testo costituzionale, che ha trasferito importanti poteri alle
Regioni. Il modello adottato è essenzialmente quello del federalismo cooperativo:
per una larga serie di settori il Parlamento nazionale ha mantenuto il diritto di definire
i principi generali validi per l'intero paese, nell'ambito dei quali i consiglieri regionali
hanno poi il potere di legiferare. Quando, essendo riuscito a riportare la Lega nella
coalizione nel 2001, per il centro destra è stato il turno di adottare la riforma federale
come aveva promesso, concentrò i suoi sforzi sull’attribuzione di poteri esclusivi alle
regioni nei settori della sanità, istruzione, polizia locale, sulla riforma del
bicameralismo, oltre che sulla revisione della forma di governo parlamentare a livello
nazionale con un rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio. Il passaggio
di quest’ampia riforma ha creato notevoli tensioni tra i due schieramenti, ma anche
all'interno di quello al potere, contribuendo all'indebolimento del centrodestra,
antagonizzando il centrosinistra e in definitiva spaventando una parte significativa
dell’elettorato.Tant’è che nel referendum del 2006, richiesto per confermare la
riforma approvata dal Parlamento, la maggioranza dell'elettorato ha espresso un
voto negativo annullando la riforma. Il disegno costituzionale italiano indica ormai
chiaramente che il modello non è più quello di uno stato unitario centralizzato, ma di
un sistema basato su quattro livelli: lo Stato centrale, le regioni, le Province, i
comuni. Due di questi livelli, quello statale e quello regionale, hanno poteri legislativi
e costituzionali, ma la suddivisione delle competenze rimane non ben definita e c'è
un'area molto estesa di competenze concorrenti. Dopo il fallimento della riforma
costituzionale voluta dal terzo governo Berlusconi, la trasformazione del Senato
nella camera federale rimane legata al destino della riforma proposta nel 2014 dal
governo Renzi. La nuova vittoria del centrodestra nelle elezioni del 2008 aveva in
realtà riportato al centro del dibattito lo sviluppo del federalismo. Questa volta la
riforma, promossa con grande vigore dalla Lega, si concentrava sul tema del
federalismo fiscale, cioè prevalentemente sullo spinoso problema della ripartizione
delle risorse tra lo Stato centrale e le regioni, ma anche tra regione e regione. Con
questi cambiamenti l'ammontare delle risorse amministrate dalle regioni è
sensibilmente aumentato e gli ambiti di intervento di queste autorità subnazionali
sono diventati decisamente più rilevanti per la vita quotidiana dei cittadini. Tuttavia,
la tradizionale impronta centralistica dello Stato non è stata completamente
superata. Le regioni in attesa della piena attuazione del federalismo fiscale sono
rimaste in larga misura dipendenti dallo Stato centrale per le loro risorse finanziarie e
il trasferimento dei fondi rimane l'oggetto di un lungo e complicato negoziato tra i due
livelli di governo. I conflitti di competenza si sono moltiplicati portando un crescente
carico di lavoro per la Corte Costituzionale. L’equilibrio tra centro e periferia è
dunque tuttora non pienamente stabilizzato, anche perché i forti vincoli di bilancio
statale, dovuti al peso del debito accumulato negli anni passati e alla crisi finanziaria
recente, hanno generato forti controspinte centralizzatrici.

Il percorso della prima democratizzazione


Quando l'Italia è stata unificata lo Statuto Albertino era ancora ispirato ai principi
della monarchia costituzionale: la e, per quel che riguarda l'esecutivo, si diceva
semplicemente che era nominato dal re ed era “responsabile” senza specificare la
necessità di un voto o di un rapporto di fiducia col Parlamento. tuttavia la prassi del
governo parlamentare era già stata accettata nello Stato predecessore, cioè nel
Regno di Sardegna, e da questo si trasmise al nuovo con l'unica limitazione che il
monarca continuò a mantenere una significativa influenza nella scelta del primo
ministro e di alcuni ministri importanti e che il suffragio era estremamente ristretto.
Restavano anche importanti limitazioni della libertà di espressione del dissenso
politico e un certo tasso di manipolazione dei processi elettorali da parte del
governo. Nonostante questi limiti si può dire che il primo importante passo nel
processo di democratizzazione era stato raggiunto e abbastanza stabilmente
acquisito prima che in paesi come l'Austria, la Francia, la Germania. In effetti negli
anni 60-70 del XIX secolo solo il Regno Unito e il Belgio avevano un sistema
parlamentare consolidato. Nonostante questo inizio abbastanza favorevole il
processo di democratizzazione è poi andato incontro a una grave interruzione nel
secondo decennio del Novecento. Ciò a causa di alcune importanti debolezze del
sistema politico italiano: la forte opposizione cattolica derivata dall' occupazione
militare di Roma da parte del nuovo Stato unitario, questo indeboliva la legittimità
dello Stato limitava seriamente la capacità delle élite politiche dominanti di acquisire
un più ampio sostegno popolare, inducendole quindi ha un atteggiamento molto
difensivo nei confronti del processo di democratizzazione; fino alla soglia del
fascismo la classe politica liberale non sviluppò una vera organizzazione partitica. La
ragione di questo ritardo si può far risalire al fatto che, con il suffragio ristretto, per
lungo tempo essa non aveva dovuto affrontare una seria competizione elettorale e
aveva potuto contare sulla risorsa della burocrazia statale per mobilitare e
manipolare il consenso della periferia del paese.
Senza una vera organizzazione di partito e con un sostegno limitato presso i più
ampi strati popolari, la classe politica di governo si trova ad affrontare la crescita del
partito Socialista e poi anche la mobilitazione dei cattolici. Gli strumenti di cui poteva
disporre erano a livello di élite le tattiche di alleanza parlamentare e le iniziative di
riforma. L'attore principale di questa politica era Giovanni Giolitti, figura dominante
nel campo liberale, più volte primo ministro.Attraverso abili concessioni egli riuscì ad
ottenere il sostegno parlamentare dei socialisti e poi di cattolici, quando questi fecero
la loro apparizione in Parlamento.Fino a quando il suffragio rimase ristretto questi
strumenti furono efficaci per salvaguardare l'egemonia liberale, ma produssero
importanti effetti collaterali negativi. In particolare, contribuendo ad allargare la
frattura tra socialisti moderati e radicali, resero il partito della classe operaia meno
capace di giocare un ruolo positivo nella ulteriore fase della democratizzazione e allo
stesso tempo alimentarono nella classe liberale l'illusione che la propria egemonia
politica potesse essere mantenuta senza un'organizzazione popolare di base.
Le elezioni del 1913, le prime dopo la grande estensione del suffragio maschile,
sembrarono inizialmente confermare la bontà di questa politica. I liberali, avendo
stipulato l'alleanza elettorale, tramite il Patto Gentiloni, con i cattolici, mantennero la
maggioranza nella Camera dei Deputati: la loro egemonia politica era assicurata.In
realtà questa tattica mostrò velocemente i suoi limiti e quella che sembrava un
egemonia incrollabile lasciò il posto ad una crisi profonda di regime e alla presa di
potere da parte di Benito Mussolini e del suo movimento politico. Per spiegare questi
processi occorre tenere conto di una serie di eventi che avevano mutato il panorama
politico.
1.Negli anni della prima guerra mondiale l'unità interna della classe politica liberale
era stata ripetutamente messa alla prova sulle questioni di strategia politica interna e
internazionale: la neutralità ho l'intervento in guerra, il dialogo oppure la repressione
nei confronti delle agitazioni operaie e socialiste, erano alcuni dei più importanti punti
di divisione.
2. Anche il Partito Socialista si era progressivamente diviso sulla questione
dell'accettazione del sistema parlamentare e, dopo la scissione della sua ala
moderata nel 1912, era caduto sotto il predominio dell’ala radicale.
3. I cattolici avendo acquisito maggiore consapevolezza del loro potenziale erano
diventati in meno inclini ad accettare l'egemonia liberale.
Alla fine della guerra la trasformazione del sistema politico subì una drastica
accelerazione poiché il paese sembrava non aver tratto i frutti sperati dalla vittoria.
Le ondate delle rivoluzioni bolsceviche in Russia e in altri paesi europei, generarono
in Italia nuove sfide alle quali il sistema politico non era preparato.Nel giro di pochi
anni in Italia la classe di governo tradizionale cadde a seguito della sua sconfitta
elettorale nelle zone più avanzate del paese e alla sua crescente frammentazione
interna, all'ascesa dei partiti di massa, che sommati insieme ottennero la
maggioranza dei seggi nel Parlamento nel 1919, e alla nascita del movimento
nazionalista. In presenza di una crescente radicalizzazione politica il Parlamento si
trovava diviso tra vecchi e nuovi partiti. Questi ultimi non erano ancora pronti ad
assumere da soli e con precisione ruoli di governo sia a causa delle divisioni
ideologiche che impedivano loro di coalizzarsi, sia anche, soprattutto nel caso di
importanti componenti del partito socialista, per la loro posizione di incerta lealtà nei
confronti dello Stato liberale e della monarchia. Allo stesso tempo la società si stava
radicalizzando: grandi scioperi e occupazione di fabbriche alimentavano le opposte
speranze e paure della rivoluzione. Le élite economiche e le componenti significative
delle classi medie persero la fiducia nella capacità della classe parlamentare liberale
di fronte alla minaccia di una rivoluzione sovietica. La perdita di efficacia della
politica e la radicalizzazione della società portarono al più presto al progressivo
spostamento del centro di gravità politico dalle istituzioni democratiche alle piazze e
ai centri di potere non democratici. Ciò spiega come il Partito Nazionale Fascista,
che alle elezioni del 1921 aveva ottenuto solo 35 seggi su 535, abbia potuto
guadagnare nel giro di pochi mesi un ruolo cruciale nel gioco politico. Se fino a quel
momento le colonne del potere politico erano state il Parlamento, la monarchia e la
burocrazia statale, ora la politica delle piazze e la violenza, i grandi interessi
economici e la monarchia costituivano un nuovo triangolo di forze capace di
sottomettere la politica parlamentare e aprire la strada alla dittatura.

La democratizzazione interrotta e il regime fascista


L'ascesa al potere di Mussolini fu un chiaro esempio della nuova politica del XX
secolo: da un lato l'esibizione di forza e di violenza a opera delle organizzazioni del
partito fascista che culminò nella “marcia su Roma” (ottobre 1922), dall'altro il
procedimento “legale” attraverso il quale il re nomina Mussolini capo del governo è
una maggioranza parlamentare, della quale fascisti erano solo componente
minoritaria, gli decretò la fiducia punto nonostante il forte premio di maggioranza
introdotta da Mussolini nel sistema elettorale e il ricorso sistematico alla violenza,
anche nella legislatura iniziata nel 1924 i fascisti non avevano ancora una vera
maggioranza e dovevano contare sul sostegno di altre componenti. Poiché
comunque l'alleanza degli oppositori non si concretizzò, a causa delle divergenze tra
i vari gruppi, non è dato sapere che cosa sarebbe successo in caso di un voto
parlamentare sfavorevole al governo.
Il capo del governo fu in grado di sfruttare a proprio vantaggio la legittimità
parlamentare che i partiti democratici, spaventati e divisi, non erano stati in grado di
mettere alla prova, e riuscì così a combinare sia risorse del vecchio sistema sia
quelle della nuova politica.Il Duce riuscì a consolidare il nuovo regime, liberandosi
progressivamente dai vincoli del vecchio ordine politico e plasmando una nuova
“costruzione” politica, che costituisce una delle più influenti “invenzioni” politiche del
XX secolo. In questa costruzione il ruolo del leader era assolutamente centrale
anche se non mancavano altri elementi. Mussolini, durante tutto il periodo del
regime, era alla testa del Governo e chiaramente era anche il capo del Partito
fascista, sebbene la posizione ufficiale di segretario del partito forse lasciata ad altri.
Questa soluzione permetteva a Mussolini di mantenere un pieno controllo sul partito
e avere allo stesso tempo un profilo “più ufficiale”. Il partito pur essendo un
importante strumento per il funzionamento del regime non diventò mai un fattore
indipendente rispetto al leader rimanendo essenzialmente uno strumento di
mobilitazione delle masse. Con il tempo le sue file si ingrossano significativamente,
anche perché avere la tessera divenne un prerequisito per la carriera
nell'amministrazione pubblica.
Se ci si attiene definizione più accettata di “totalitarismo” e alle caratteristiche
attribuite a questa forma politica, il fascismo italiano era carente sotto molti profili. In
particolare, non era stato capace o non aveva voluto eliminare ogni altro centro
dotato di risorse sociali di influenza. La monarchia, la Chiesa cattolica, le forze
armate, la burocrazia, il grande capitale privato avevano in maniere diverse
sostenuto o accettato l'avvento del fascismo anche perché visto come un male
minore rispetto alla temuta rivoluzione proletaria e all'impotenza del governo
parlamentare. Nei loro confronti il regime adottò un misto di strategie che
comportavano persuasione, cooptazione, infiltrazione e, in certa misura, coercizione.
Velate minacce venivano di tanto in tanto trasmesse, ma il fascismo non osò alla fine
attaccarli direttamente o smantellarne completamente l’autonomia. La
fascistizzazione della società italiana non fu dunque completata. Nel momento in cui
la sorte della guerra al fianco della Germania divenne catastrofica e il regime ne
risultò veramente indebolito, questi attori della coalizione dominante ebbero, proprio
come Mussolini temeva, un ruolo significativo nella caduta del regime.

La crisi del fascismo e la transizione alla democrazia


La decisione di Mussolini di aderire alla guerra a fianco alla Germania nacque in
buona parte dal isolamento internazionale nel quale l'Italia si era trovata dopo
l'attacco e la conquista dell'Etiopia compiuti sfidando la Società delle Nazioni, e dal
timore che la vittoria tedesca avrebbe lasciato l'Italia neutrale in una posizione
difficile. Tuttavia, dopo le prime facili vittorie dell'Asse, l'Italia dovette far fronte alla
perdita delle colonie e, cosa ancora più ancora più grave, all'invasione da parte delle
truppe alleate angloamericane. Attori già schierati in opposizione alla guerra o che
erano stati al massimo tiepidi sostenitore di questa scelta si prepararono a questo
punto ad abbandonare Mussolini. La monarchia fu al centro della cospirazione per
abbattere dittatore che coinvolse gli alti comandi dell'esercito, i vertici
dell'amministrazione statale e anche alcune componenti del partito fascista. La
chiesa è importante ambienti economici offrirono il loro sostegno. La caduta di
Mussolini segno anche la fine del regime fascista che tanto fortuna intesero
densificato con la figura del leader, ma apri un processo di transizione politica molto
difficile.
La transizione alla democrazia fu complicata dal fatto che essa prendeva avvio in
una situazione di guerra con il paese diviso dal fronte. Mentre il Sud veniva occupato
dalle forze alleate, il Nord e il Centro vennero invasi dalle truppe tedesche non
appena d'Italia cambiò fronte, dopo l'armistizio con gli angloamericani dell’8
settembre 1943. Questo comportò un vero collasso dell'apparato statale, in
particolare delle forze armate, lasciando il paese in uno stato di profonda incertezza.
Mentre la monarchia e altri settori al suo fianco sarebbero stati appagati dalla
soluzione semiautoritaria che preservasse lo Statuto e una certa continuità con il
passato, i partiti politici, vecchi e nuovi, riapparsi dopo gli anni di esclusione,
avevano piani differenti. Essi guardavano con sospetto la monarchia e volevano
prendere il controllo del processo di transizione. Dovevano però anche superare i
vecchi conflitti e la reciproca mancanza di fiducia che avevano avvelenato gli ultimi
anni la democrazia prefascista, e le persistenti differenze tra le loro piattaforme
ideologiche. Un primo importante compromesso, raggiunto nel 1944, rinviava i
problemi più divisivi (tra i quali quello della monarchia e della Costituzione) a un
momento successivo, consentendo la formazione da parte del re di un governo con il
sostegno e la partecipazione di tutti i maggiori partiti. Fino al 1946 una grande
coalizione di tutti i partiti antifascisti avrebbe governato la transizione. Questo passo
garantì un largo consenso sulle scelte cruciali della transizione, tra cui quella di
eleggere l’Assemblea Costituente per redigere la Costituzione e di lasciare ad un
referendum popolare la decisione sul mantenimento o meno della monarchia.
Un evento molto importante per il futuro del sistema politico fu l'ascesa al potere del
leader della Democrazia Cristiana, Alcide De Gasperi, nella posizione di capo del
governo (dicembre 1945). Per i successivi 35 anni la Democrazia Cristiana avrebbe
sempre detenuto questa posizione è solo dopo il 1981, a malincuore, l'avrebbe
condivisa con altri partiti.
Il 2 giugno 1946 un referendum decideva sulla forma repubblicana dello Stato e il
primo voto pienamente competitivo dopo 25 anni eleggeva l'Assemblea Costituente.
Per la prima volta dopo la caduta del fascismo veniva accertato il peso elettorale
rispettivo da diversi partiti, e le sorprese non mancarono:
● gli eredi della classe politica liberale si ridussero a una piccola forza con il
baricentro elettorale concentrato nel sud;
● il partito socialista risultò il primo partito della sinistra, ma soltanto di poco
rispetto a quello comunista, che registrò un forte successo;
● la Democrazia Cristiana emerse come il partito più forte e vide confermato il
ruolo di preminenza;
● altri partiti, come la Democrazia del lavoro o il Partito d'Azione, che avevano
avuto un ruolo importante durante la transizione e la Resistenza, risultarono
non avere quasi seguito elettorale;
● all'estrema destra, l'Uomo Qualunque, partito che avanzava una netta critica
dell'alleanza dei partiti antifascisti e in particolare della sinistra, ottenne,
soprattutto nel Sud, un risultato inaspettato.
Questo fece suonare un campanello d'allarme per la Democrazia Cristiana, alleata al
governo con i partiti di sinistra si trovò allora esposta a una vivace competizione
sulla destra.

La crisi del fascismo e la transizione alla democrazia


La decisione di Mussolini di aderire alla guerra a fianco alla Germania nacque in
buona parte dal isolamento internazionale nel quale l'Italia si era trovata dopo
l'attacco e la conquista dell'Etiopia compiuti sfidando la Società delle Nazioni, e dal
timore che la vittoria tedesca avrebbe lasciato l'Italia neutrale in una posizione
difficile. Tuttavia, dopo le prime facili vittorie dell'Asse, l'Italia dovette far fronte alla
perdita delle colonie e, cosa ancora più ancora più grave, all'invasione da parte delle
truppe alleate angloamericane. Attori già schierati in opposizione alla guerra o che
erano stati al massimo tiepidi sostenitore di questa scelta si prepararono a questo
punto ad abbandonare Mussolini. La monarchia fu al centro della cospirazione per
abbattere dittatore che coinvolse gli alti comandi dell'esercito, i vertici
dell'amministrazione statale e anche alcune componenti del partito fascista. La
chiesa è importante ambienti economici offrirono il loro sostegno. La caduta di
Mussolini segno anche la fine del regime fascista che tanto fortuna intesero
densificato con la figura del leader, ma apri un processo di transizione politica molto
difficile.
La transizione alla democrazia fu complicata dal fatto che essa prendeva avvio in
una situazione di guerra con il paese diviso dal fronte. Mentre il Sud veniva occupato
dalle forze alleate, il Nord e il Centro vennero invasi dalle truppe tedesche non
appena d'Italia cambiò fronte, dopo l'armistizio con gli angloamericani dell’8
settembre 1943. Questo comportò un vero collasso dell'apparato statale, in
particolare delle forze armate, lasciando il paese in uno stato di profonda incertezza.
Mentre la monarchia e altri settori al suo fianco sarebbero stati appagati dalla
soluzione semiautoritaria che preservasse lo Statuto e una certa continuità con il
passato, i partiti politici, vecchi e nuovi, riapparsi dopo gli anni di esclusione,
avevano piani differenti. Essi guardavano con sospetto la monarchia e volevano
prendere il controllo del processo di transizione. Dovevano però anche superare i
vecchi conflitti e la reciproca mancanza di fiducia che avevano avvelenato gli ultimi
anni la democrazia prefascista, e le persistenti differenze tra le loro piattaforme
ideologiche. Un primo importante compromesso, raggiunto nel 1944, rinviava i
problemi più divisivi (tra i quali quello della monarchia e della Costituzione) a un
momento successivo, consentendo la formazione da parte del re di un governo con il
sostegno e la partecipazione di tutti i maggiori partiti. Fino al 1946 una grande
coalizione di tutti i partiti antifascisti avrebbe governato la transizione. Questo passo
garantì un largo consenso sulle scelte cruciali della transizione, tra cui quella di
eleggere l’Assemblea Costituente per redigere la Costituzione e di lasciare ad un
referendum popolare la decisione sul mantenimento o meno della monarchia.
Un evento molto importante per il futuro del sistema politico fu l'ascesa al potere del
leader della Democrazia Cristiana, Alcide De Gasperi, nella posizione di capo del
governo (dicembre 1945). Per i successivi 35 anni la Democrazia Cristiana avrebbe
sempre detenuto questa posizione è solo dopo il 1981, a malincuore, l'avrebbe
condivisa con altri partiti.
Il 2 giugno 1946 un referendum decideva sulla forma repubblicana dello Stato e il
primo voto pienamente competitivo dopo 25 anni eleggeva l'Assemblea Costituente.
Per la prima volta dopo la caduta del fascismo veniva accertato il peso elettorale
rispettivo da diversi partiti, e le sorprese non mancarono:
● gli eredi della classe politica liberale si ridussero a una piccola forza con il
baricentro elettorale concentrato nel sud;
● il partito socialista risultò il primo partito della sinistra, ma soltanto di poco
rispetto a quello comunista, che registrò un forte successo;
● la Democrazia Cristiana emerse come il partito più forte e vide confermato il
ruolo di preminenza;
● altri partiti, come la Democrazia del lavoro o il Partito d'Azione, che avevano
avuto un ruolo importante durante la transizione e la Resistenza, risultarono
non avere quasi seguito elettorale;
● all'estrema destra, l'Uomo Qualunque, partito che avanzava una netta critica
dell'alleanza dei partiti antifascisti e in particolare della sinistra, ottenne,
soprattutto nel Sud, un risultato inaspettato.
Questo fece suonare un campanello d'allarme per la Democrazia Cristiana, alleata al
governo con i partiti di sinistra si trovò allora esposta a una vivace competizione
sulla destra.

La nuova democrazia e il problema dell’opposizione


Nella scrittura della Costituzione l'accordo tra i partiti maggiori continuò a persistere
nonostante le differenze tra le idee ideologiche. Questo portò ad una serie di
compromessi che permisero un largo consenso sul testo costituzionale:
1. la sinistra, che prediligeva il modello politico e istituzionale dell'Unione
Sovietica, accettò il modello di democrazia a governo parlamentare;
2. le proposte provenienti dal centro e dalla destra, miranti a rafforzare
l'esecutivo, furono respinte e lo stesso accade per le proposte di
bicameralismo asimmetrico.
Alla fine la Costituzione fu approvata quasi all'unanimità (453 voti contro 62). Sul
piano delle relazioni politiche ebbero luogo durante questo periodo importanti
cambiamenti che, in modo profondo, incisero sul funzionamento della politica
italiana:
● a sinistra, la competizione tra socialisti e comunisti si risolse presto a favore
del secondo partito: la sua più forte organizzazione nella società, la disciplina
interna e gli stretti legami internazionali con una delle potenze vincitrici,
l'Unione Sovietica, ma anche la frattura che si determinò nell'altro partito sulla
questione dell'allineamento internazionale (neutralismo o alleanza con
l’Occidente), si rivelarono fattori decisivi. La conseguenza fu il predominio di
lungo periodo dei comunisti nell'ambito della sinistra;
● al centro, la Democrazia Cristiana si trovò a dover scegliere tra la
continuazione dell'alleanza con la sinistra e una posizione di maggiore
indipendenza. La crescente competizione a destra e la paura di perdere voti
in quella direzione, la radicalizzazione del maggiore partito di sinistra e d'altro
canto l'apparire di partiti di centro-sinistra di orientamento occidentale
indussero la leadership del partito a optare per una rottura dell'alleanza con il
partito comunista e quello socialista e a imboccare una strada diversa, quella
della coalizione centrista.
La crescente divisione all'interno del paese tra i partiti antifascisti replicava la frattura
che si era andata manifestando tra i vincitori della seconda guerra mondiale.
Contrariamente a quanto accade con la divisione territoriale tra Germania Est
(filosovietica) e Germania Ovest (filoccidentale), che separò drasticamente anche i
due campi politici, in Italia essi rimasero parte dello stesso sistema politico. Alle
tradizionali fratture interne se ne aggiunge un'altra, quella delle lealtà internazionali.
Lo stretto collegamento tra sfera interna e sfera internazionale divenne così una
caratteristica peculiare della politica italiana.
Le prime elezioni dopo l'approvazione della Costituzione (18 aprile 1948) furono
combattute con successo dalla coalizione guidata dal presidente del Consiglio Alcide
De Gasperi sui termini divisivi della scelta occidentale, dei valori cristiani,
dell'economia di mercato e della democrazia pluripartitica. D'altra parte la sinistra,
egemonizzata dal Partito Comunista, cercò di fare appello all’orgoglio nazionale e
prospettò la neutralità tra i blocchi, ma non potè cancellare l'immagine di
subordinazione all'Unione Sovietica e al suo modello. Il risultato della sconfitta fu
l’esclusione di lungo periodo del principale partito della sinistra dal governo.
La nuova democrazia iniziò dunque il suo percorso con una situazione abbastanza
paradossale. Da un lato c'era una Costituzione approvata con un largo consenso
dalla” coalizione antifascista”, dall'altro questa coalizione si era rapidamente dissolta
per lasciare spazio ad una nuova divisione, quella tra partiti filoccidentali e partiti
favorevoli al blocco comunista. I forti legami tra il più grande partito di opposizione e
il Partito comunista sovietico, che guidava un sistema totalitario, fecero sì che la
possibilità di un'alternanza al governo si configurasse come un rischio troppo alto per
essere accettato dagli altri partiti e da una larga maggioranza di elettori.Il
consolidamento della democrazia rimase quindi condizionato all'esclusione
dell’opposizione dalle posizioni di governo nazionale.
Sulla base di questo timore una coalizione di governo con il Pci fu esclusa per un
lungo periodo anche dalle altre forze di centro-sinistra, impedendo così a questo
partito di arrivare al potere. Questo tipo di consolidamento democratico significò
anche che un partito, la Democrazia Cristiana, ottenne una posizione permanente di
governo e sostanzialmente fu votata (e ritenuta responsabile) da una parte
importante degli elettori più per la sua capacità di preservare la democrazia,
chiudendo la strada a un accesso al potere dell'opposizione comunista, che per la
qualità della sua gestione degli affari di governo.

Dalla crisi alla crisi: gli anni ‘90, il tentato riconsolidamento del
sistema politico, la recessione e lo stallo istituzionale del 2013
L'equilibrio di coalizione tra i “partiti di governo” è stato costantemente sottoposto a
negoziazione e questo ha determinato un alto livello di instabilità dei governi. Alla
fine, tuttavia, nonostante le tensioni, le accuse reciproche e le lunghe crisi di
governo, gli stessi partiti ritornavano sempre insieme.
Nei primi anni ‘90 il sistema politico ha attraversato una crisi profonda e improvvisa:
nel suo momento culminante molti osservatori erano arrivati persino a temere per la
sopravvivenza della democrazia. La crisi aveva infatti colpito l’architrave
dell’architettura politica: il sistema dei partiti. In un arco di tempo molto breve, tutti i
partiti che avevano governato l'Italia per più di quarant’anni erano crollati.
L'epicentro del terremoto era stata l'azione giudiziaria (Mani Pulite) nei confronti di
una larga fetta della classe politica e di alcuni importanti figure del mondo
imprenditoriale. Ma era evidente l'obsolescenza di un intero sistema di attori e di
relazioni che avevano a lungo connotato il sistema politico. Era inevitabile che una
tale tensione producesse delle alternative radicali:
1. la Lega Nord, la nuova forza politica apparsa nelle regioni del paese più
ricche, erodeva il sostegno elettorale democristiano nelle regioni del Nord Est
fino ad allora bastioni elettorali per il partito di governo, lasciando a
quest'ultimo un seguito prevalentemente meridionale;
2. il movimento per la riforma del sistema elettorale, il movimento referendario,
che proponeva l'introduzione di un sistema maggioritario, convinceva
l'opinione pubblica a esprimersi massicciamente a favore di una riforma che
avrebbe cambiato radicalmente il meccanismo sul quale partiti si erano
tradizionalmente basati;
3. la magistratura, la decisione del giudiziario di non fermarsi ai livelli inferiori
della scala politica, ma di incriminare anche i leader nazionali, come persone
che non potevano ignorare le azioni illegali dei responsabili finanziari dei
partiti, distruggeva in pochi mesi ciò che restava della credibilità della classe
politica.
L'apparizione da un lato di un attore completamente nuovo - Silvio Berlusconi con il
suo movimento Forza Italia creato giusto in tempo per le elezioni del 1994 - dall'altro
il rinnovamento della sinistra e della vecchia destra, producevano una forte
competizione bipolare, che tagliava le gambe alle speranze della Lega di diventare il
primo partito leader nel Nord, a quelle dei referendari moderati di creare un partito
riformista di centro di un qualche peso. Anche una delle figure simbolo dell'azione
giudiziaria, Antonio Di Pietro, avrebbe guidato solo più tardi un movimento per la
“politica pulita”, peraltro molto limitato nel consenso.
Dopo la riforma del sistema elettorale del 1993 cominciava a svilupparsi un quadro
politico completamente nuovo:
● la Lega vide i suoi trionfi iniziali ridimensionati, dovendo il partito di Bossi
spesso accettare un ruolo secondario nelle coalizioni;
● il leader del movimento referendario, Mario Segni, andò incontro a una dura
sconfitta elettorale;
● la magistratura, che aveva avviato un lungo duello con Berlusconi, avrebbe
subito riforme fortemente avversate e i giudici, come di Pietro, “prestati” alla
politica, sarebbero scesi in campo in ordine sparso e con risultati altalenanti.

Fino al 2011 questo nuovo quadro politico sembrava aver acquisito alcune
caratteristiche abbastanza stabili: tutti i partiti erano ormai diventati candidati
potenziali e accettati per ruoli di governo, e la competizione si svolgeva in misura
prevalente tra due grandi coalizioni di centro-sinistra e di centro-destra.
Questo comportava una capacità di durata maggiore e un'azione più incisiva del
governo in Parlamento. Altri caratteri invece non si mostrarono così consolidati,
come il sistema elettorale che, dopo essere stato modificato nel 1993, aveva
continuato a restare al centro della discussione per essere riformato nel 2005.
Anche la riscrittura dell'assetto centro-periferia dello Stato, introdotta con la riforma
del Titolo V della Costituzione dal governo di centro-sinistra del 2001, non era stata
certamente chiara e risolutiva. In agenda rimanevano temi come la riforma
dell'articolazione bicamerale del Parlamento e le relazioni istituzionali tra Governo e
Parlamento. Le vicende personali e giudiziarie di Berlusconi e soprattutto la crisi
economica hanno fatto il resto, azzerando gli effetti della lunga transizione e
conducendo il paese allo stallo istituzionale del 2013.

L’Italia sulla scena internazionale


Il più debole dei grandi paesi europei
L'unificazione del 1861 fu percepita a lungo come parziale, dato che importanti
territori erano sotto la sovranità di altri Stati e la loro liberazione era contrastata da
questi. D'altro canto, in un'epoca in cui le colonie erano viste sia come una sorta di
status symbol del potere internazionale, sia come risorsa per risolvere il grave
problema del sovrappopolamento nazionale, molti pensavano che l'Italia “avesse
diritto”, alla pari della gran parte dei paesi europei, ad avere un impero coloniale.
Per un lungo periodo di tempo, la politica estera italiana tese a porsi in linea di
collisione con lo status quo europeo ed extraeuropeo e indusse, almeno fino alla fine
della Seconda guerra mondiale, le componenti meno prudenti della classe politica
italiana a schierarsi con le forze che in Europa volevano mettere in questione l'ordine
esistente e a porre in atto tentativi ripetuti di conquistare un impero coloniale. Il caso
più estremo e disastroso di questa politica fu la decisione di Mussolini di allearsi con
Hitler e di sostenere il suo tentativo di rovesciare l'ordine europeo.
La sconfitta totale nella Seconda guerra mondiale ridusse drasticamente queste
ambizioni e convinse la politica italiana che un miglioramento della posizione
dell'Italia in Europa e nel mondo non poteva essere raggiunto attraverso tentativi
unilaterali e conflittuali di trasformazione del quadro internazionale, ma piuttosto
attraverso la partecipazione a sforzi multilaterali e pacifici di costruzione di istituzioni
di governo sovranazionale.

Integrazione atlantica e destino europeo


La sconfitta nella Seconda guerra mondiale aveva lasciato l'Italia nella peggiore
posizione mai avuta. Questo spinse rapidamente i leader della Democrazia Cristiana
a sviluppare una più stabile preferenza per l'integrazione sovranazionale. La prima e
decisiva scelta in questa direzione è quella di entrare nell'Alleanza Atlantica (Nato);
era un modo per garantire la sicurezza interna del paese( quindi ridurre impegno e
spesa militare), ma anche per rendere compatto il fronte dei partiti contrari al
comunismo. La scelta atlantica assicurò all’Italia una posizione chiara all'interno di
un sistema di sicurezza collettiva e contribuì a stabilire una forte relazione con la
potenza leader del mondo occidentale, gli Stati Uniti.
Con l'Europa e il mondo diviso in due blocchi contrapposti, e l'Italia schierata con
l'alleanza occidentale, divenne impensabile sul fronte politico interno, che il Partito
Comunista potesse far parte del governo finché rimaneva strettamente legato
all’Unione Sovietica. La divisione governo/opposizione si cristallizzò. Ci sarebbe
voluto il crollo del comunismo e la fine dell'Unione Sovietica, con la conseguente
trasformazione del Partito Comunista nel più innocuo Partito Democratico della
Sinistra, per cancellare questa fattura.
Quando in Europa cominciarono a essere dibattute proposte di integrazione
sovranazionale con la finalità di dare soluzione stabile ai problemi aperti dopo la
seconda guerra mondiale, i governi italiani colsero l'importanza di non cadere nel
pericolo dell'isolamento e si orientarono alla promozione di una più forte delega di
responsabilità alle autorità comunitarie per prevenire il predominio degli interessi di
altri paesi più forti. La posizione europeista adottata dalla classe di governo dovette
fronteggiare una forte resistenza delle opposizioni e un sostegno labile dell'opinione
pubblica.Tuttavia, il successo facilmente intuibile del mercato comune incoraggiò un
cambiamento di opinione nel pubblico, che negli anni ‘70 si tradusse in un sostegno
generalizzato all'integrazione europea. L'Alleanza Atlantica e l’integrazione europea
divennero i due strumenti principali con cui l'Italia si inseriva nel sistema
internazionale e perseguiva con successo le due finalità fondamentali della
sicurezza e dello sviluppo economico. Quando il legame con l'Unione Sovietica
cominciò a essere percepito come una zavorra dall'opinione pubblica interna, il Pci
imboccò la strada dell’europeizzazione, prima con il tentativo di sviluppare una
famiglia eurocomunista (con i francesi e gli spagnoli comunisti), poi avvicinandosi ai
partiti socialisti europei.
Che l'integrazione europea potesse comportare, accanto ai vantaggi, anche dei
costi non era per lungo tempo mai emerso nel dibattito pubblico italiano. Il diffuso
favore sarebbe rimasto unanime fino alla fine del secolo, grazie agli importanti passi
avanti compiuti verso la piena integrazione del mercato europeo e l'adozione di una
moneta comune. Tuttavia, proprio l'effetto combinato delle regole introdotte per
completare il mercato europeo e i forti vincoli di bilancio derivati dalla scelta della
moneta unica (severi per un paese fortemente indebitato come l'Italia) hanno presto
determinato conseguenze tangibili su importanti aspetti della funzionalità del sistema
politico domestico:
1. a causa della necessità di tenere più strettamente sotto controllo la spesa a
livello istituzionale c'è stata la crescita di importanza del Ministero del Tesoro;
2. sul piano delle politiche pubbliche questi sviluppi hanno contribuito a
promuovere e a sostenere ampi programmi di privatizzazione dell'economia e
di smantellamento di buona parte dell'apparato dello Stato imprenditore e
successivamente anche a simulare una critica revisione di alcuni aspetti del
welfare state, in particolare il sistema pensionistico;
3. la più ridotta capacità dei partiti di usare politiche clientelari e distributive
come strumento di influenza politica.
Questa nuova situazione ha costretto i governanti a dover compiere scelte più difficili
rendendo più consistenti e percepibili i costi dell’integrazione.Questo spiega come
abbiano cominciato a manifestarsi posizioni di euroscetticismo.
La crisi del periodo 2008-2013 ha però messo in evidenza la tendenza ad un appello
per far tornare indietro la marcia dell'integrazione. La linea da seguire sulle politiche
europee è oggi infatti il principale elemento di divisione tra le forze di governo.
CAPITOLO 3. L’input del sistema politico: valori,
domande, regime elettorale
La società italiana e la politica.
Il modello classico: consensualismo e collateralismo
Nell’Italia repubblicana è facile rintracciare una struttura degli interessi; il concetto di
gruppo di interesse riguarda, secondo la definizione di Schmitter, organizzazioni
permanenti, dotate di personale a tempo pieno, che si specializzano nell’opera di
individuazione, promozione e difesa degli interessi, influenzando e contestando le
politiche pubbliche.
Dalla fine della seconda guerra mondiale si è formato un solido blocco sociale di
gruppi che è entrato presto nella coalizione dominante in grado di guidare il nuovo
regime democratico verso il consolidamento. Ritroviamo in questo sistema
consensuale le associazioni imprenditoriali (Confindustria, Confartigianato,
Confagricoltura, ecc.), quelle professionali, quelle finanziarie (l’Associazione
bancaria italiana) e anche il sindacato, che pur entrando spesso in conflitto con il
governo e con le parti sociali, ha accettato gli strumenti del negoziato, ottenendo in
cambio una legislazione che gli riconoscesse un ruolo permanente nelle
contrattazioni.
Proprio la storia del sindacato nell’Italia del dopoguerra descrive le particolarità di un
sistema piuttosto frammentato ma mai “atomizzato”:
1. i confederali, cioè le sigle sindacali capaci di mettere assieme milioni di
lavoratori raccolti in diversi ambiti occupazionali, pur cercando di marciare
compatti, hanno dovuto rendere conto a base chiaramente divise nella propria
ispirazione ideologica (Cgil raccoglie le istanze di sinistra, in particolare del
Pci; Cisl è il sindacato del centro cattolico; Uil rappresenta partiti laico-
socialisti);
2. anche gli interessi professionali e imprenditoriali (ad es. gli artigiani, i
commercianti e gli agricoltori) si sono divisi in organizzazioni di categorie che
rappresentavano le componenti “di destra” o “di sinistra”;
3. ancora più evidente la politicizzazione nel settore della cooperazione, dove la
differenza tra le leghe rosse e le leghe bianche trovava le sue radici nel
pluralismo del mutuo soccorso ottocentesco.

Non si deve tuttavia pensare che una conformazione così nettamente sbilanciata a
favore dei partiti significasse una totale sottomissione nei confronti dei leader politici:
infatti, le analisi empiriche pongono sempre accanto al tema della subalternità il
concetto di collateralismo: i gruppi di interesse, in particolare sindacato e
associazioni delle categorie produttive, hanno costituito per decenni delle
fondamentali strutture capaci di sostenere, ma anche di forgiare le élite partitiche,
fornendo loro personale da reclutare, valori, laboratorio di costruzione dei progetti e,
naturalmente, consenso.
Il politologo americano J.LaPalombara identificava i due modelli (clientela e
parentela) con i quali i politici, burocrati e gruppi di interessi avevano costruito in
Italia un solido sistema di potere:
● la relazione definita come clientela indica una pratica di contatti stretti e
continuativi tra uno specifico gruppo di pressione e gli attori burocratici. Un
esempio è il rapporto instauratosi, sotto l’egida della Democrazia cristiana, tra
la principale associazione di agricoltori italiani (la Confagricoltura) e il
ministero dell’Agricoltura: l’associazione influenzava la selezione dei politici
chiave del settore e anche le nomine al massimo livello ministeriale;
● la relazione di parentela si sviluppa quando, in un dato settore delle politiche
pubbliche, un ampio novero di attività viene portato avanti con la
consultazione continua di attori amministrativi e sociali che “condividono”
valori e percorsi di formazione. Un esempio è quello del ministero della
Pubblica istruzione, a lungo dominato dalla Democrazia cristiana: tale
ministero aveva ospitato la collaborazione di politici, dirigenti pubblici ed
esperti di policy cresciuti in larga misura all’interno di associazioni culturali
religiose, come l’Azione cattolica.

La crisi della politica e le nuove relazioni con la società civile


Il ceto politico della Prima Repubblica affrontò una crisi, sfociata in Tangentopoli. La
crisi ha investito tutte le organizzazioni collettive, a cominciare dai sindacati, e le
relazioni di collaborazione tra sfera politico-istituzionale e sfera sociale rimangono
sempre molto incerte. Due elementi mostrano la portata innovativa dello scenario
attuale:
- si è assistito ad un declino della dimensione di subalternità dei gruppi di
interesse nei confronti della politica, che ha rafforzato il ruolo di alcuni gruppi
di interesse in determinati settori delle politiche pubbliche. Questo fenomeno,
una conseguenza diretta della crisi dei partiti e della partecipazione politica,
non porta necessariamente ad un vantaggio per le organizzazioni di
interesse. Soprattutto quelle tradizionali, in particolare i sindacati, hanno infatti
sofferto di una crisi vocazionale, perdendo iscritti e reputazione sociale, e
sono costretti ad inseguire le nuove generazioni troppo a lungo ignorate;
- si è verificato lo spostamento della rilevanza politica di alcuni gruppi rispetto
ad altri. Negli ultimi vent'anni i gruppi di interesse economici, come i sindacati
e le organizzazioni di impresa, hanno segnato il passo nella loro capacità di
penetrare la società raccogliendo e articolando le domande che provengono
da essa. Anche i gruppi di interesse istituzionali (le burocrazie pubbliche, le
associazioni di enti locali territoriali, la stessa chiesa) vedono ridotto il proprio
raggio d'azione, a seguito di fenomeni diversi come la diminuzione delle
risorse disponibili e la secolarizzazione.Nella politica di oggi sembrano
sempre più importanti alcuni gruppi promozionali (detti single-issue per la
natura specifica della causa che promuovono).Talvolta essi sono in grado di
unirsi in organizzazioni-ombrello che in realtà diventano attori politici capaci di
una spinta di qualche rilievo. E’ il caso delle associazioni culturali, di quelle
ricreative e anche di quelle ambientali. Tuttavia, gli esempi più sorprendenti di
innovazione nel rapporto società-politica, negli ultimi anni, si registrano
probabilmente nel contributo delle reti di associazioni del volontariato e del
Terzo settore.

La partecipazione politica nell’esperienza repubblicana


Stabilità e mobilitazione
La domanda politica è stata il risultato della penetrazione dei partiti nazionali nei
primi anni della nuova democratizzazione, ma al tempo stesso il fattore essenziale
per spiegare la stabilità del sistema partitico nei successivi quarant’anni. Qui ci
limitiamo a riepilogare gli elementi fondamentali del voto degli italiani, in particolare
l'alto livello di fedeltà e ripetitività nei comportamenti degli elettori e la prevedibilità
delle loro scelte.
- Gli italiani hanno solitamente reagito alla “chiamata alle urne” con un
atteggiamento simile, quale che fosse l'oggetto della competizione. Se i tassi
di partecipazione più elevati hanno sempre riguardato il voto delle elezioni
legislative nazionali, incentivato dalla formula costituzionale del diritto/dovere,
le serie relative alle elezioni amministrative mostrano tuttavia un trend non
troppo dissimile. La forte presa dei partiti su tutti i livelli della vita politico-
istituzionale è la spiegazione migliore di questo dato.
- Le diverse espressioni del voto si sono mostrate molto stabili nel lungo
periodo così come i fattori che le spiegano. In uno studio sui tipi di elettore in
Italia, Parisi e Pasquino individuano:
1. l’ettore di appartenenza - colui che si sente “parte” di un partito - che
mantiene costante il proprio voto e raramente nega il suo consenso con
manifestazioni di astensione o protesta;
2. l’elettore di opinione fa del cambiamento una propria peculiare strategia, in
quanto tende a valutare con attenzione il comportamento degli attori partitici
preferiti in precedenza, ma tende comunque a rimanere in un’area di partiti
affini;
3. l’elettore di scambio si basa sul calcolo e sull’aspettativa di una
controprestazione: accorda infatti consenso ad un partito (o ad un singolo
candidato) in grado di soddisfare qualche suo preciso interesse.

Tutti e tre i tipi di relazioni partito-elettore sono stati diffusi e ben rappresentati, con
una prevalenza del voto di appartenenza nelle aree del Centro e del Nord-Est. Il voto
di opinione è stato cruciale nel generale piccoli ma determinanti spostamenti di
consenso in aree ad alta competizione, come il triangolo industriale. Il voto di
scambio è emerso soprattutto in vaste aree del Mezzogiorno, determinando i
presupposti per il successo di alcune cordate di politici, in particolare quelli della
Democrazia cristiana. La persistenza di questi modelli ha generato un' elevata
prevedibilità degli eventi elettorali.
Le competizioni diverse da quelle legislative costituivano in buona misura elezioni di
secondo ordine, perché gli elettori vi si avvicinavano pensando alle tematiche
generali del dibattito politico, finendo per premiare o sanzionare i partiti nel loro
complesso e non i rappresentanti locali, provinciali, regionali, ecc. in quanto tali.
Per anni sono state decisive alcune tematiche generali e in qualche misura
simboliche, come la scelta sullo scacchiere internazionale, la posizione
sull'integrazione europea, quella circa di religione e la difesa delle “libertà
costituzionali”. In virtù di ciò, in Italia il comportamento elettorale non è mai risultato
dominato da forme di mobilitazione tipicamente locale come quelle che spesso
decidono i picchi di partecipazione, e gli stessi risultati, negli Stati Uniti.
Il secondo aspetto da evidenziare è il valore elevatissimo della mobilitazione
elettorale, misurabile sia con il tasso di partecipazione al rito del voto sia con
l'effettiva espressione di un voto valido, ovvero di una preferenza questo o quel
partito/candidato. Questo fenomeno rimane perfettamente discernibile almeno fino al
1976, turno elettorale cruciale, che segna l'apice del duello tra Democrazia Cristiana
e Partito comunista.

I partiti dalla Prima repubblica alla crisi della politica di massa


La Democrazia Cristiana e il Partito Comunista furono i principali protagonisti della
lotta politica in Italia nell'era della Prima Repubblica. La fase tra il 1948 e il 1994 è
solitamente associata all'idea di partitocrazia, ovvero alla persistenza di un regime
dominato da attori partitici capaci di penetrare la società, raccogliendo e articolando
le domande e il consenso del popolo, attivandosi nel contempo in modo esteso,
tramite le proprie élite, nelle istituzioni e nei processi decisionali a ogni livello
territoriale di governo.
I partiti dovrebbero anche sviluppare funzioni essenziali per la democrazia: informare
ed interessare i cittadini, ascoltarli, scegliere tra di essi i più capaci e meritevoli,
promuoverli nella vita politica anche quando hanno mezzi inferiori ad altri, e
controllare la condotta dei propri rappresentanti delle istituzioni. Per rispondere a tali
sfide, i partiti possono organizzarsi in vari modi.
Nell'Italia della Prima Repubblica, il partito organizzato di massa, con le
caratteristiche tipiche di questa forma, come una membership ampia ed omogenea,
un’organizzazione burocratica diffusa territorialmente ed un’elevata capacità di
controllo degli apparati su elettori ed eletti dei vari livelli, aveva costituito il modello
tipico, in particolare per il Partito comunista, ma anche per il Partito socialista e il
Movimento sociale. La Dc aveva mostrato i connotati tipici del partito pigliatutti,
ovvero un'organizzazione attiva soprattutto nel legare alcuni pezzi di società
attraverso il collateralismo con gruppi che rappresentano culture e valori dominanti
(ad es. il mondo cattolico) e capace di potenziare la propria performance elettorale
raccogliendo consenso tra ceti sociali diversi.
Le organizzazioni partitiche avevano subito dagli anni ‘80 una significativa
evoluzione: oltre alla riduzione degli iscritti e delle unità di base dei partiti, anche
l'importanza attribuita dalla gente comune alle attività ed ai messaggi culturali
prodotti da essi era scemata. Non è un caso che dagli anni ‘80 in poi la capacità di
mobilitazione dei partiti su specifiche tematiche politiche si era ridotta
drammaticamente a paragone, ad esempio, di quella dei sindacati. Inoltre, il
ridimensionamento del controllo pubblico sulle imprese produttive, dovuto alle
privatizzazioni comparse sin dalla fine di quel decennio, avrebbe ulteriormente
ridotto la possibilità per i partiti di nominare propri affiliati in posizione importanti
dell’élite economica del paese. Per bilanciare tali cambiamenti, e gli effetti negativi
che hanno avuto sulle risorse controllate dai partiti, questi ultimi hanno perseguito
con determinazione la strategia del ricorso crescente a contributi pubblici, che sono
diventati ormai la loro fonte primaria di reddito secondo il modello del cartel party.
Tuttavia, anche il fenomeno della cartellizzazione non ha determinato una deriva
organizzativa omogenea e coerente: i partiti usciti dalla fase più caotica della
transizione di fine secolo presentano forme alquanto variabili. Seguendo la
ricostruzione di Leonardo Morlino possiamo asserire che le formazioni
tradizionalmente “più forti” sul piano organizzativo (ad es. i Democratici di sinistra e
poi il Partito democratico) si presentano ora come partiti di quadri, dando ancora un
rilievo importante agli iscritti e conservando strutture locali, apparati e scuole di
formazione, senza tuttavia contare sulla mobilitazione di “basi” molto ampie. Questa
evoluzione è la conseguenza della contrazione dell'attivismo.
I due partiti autenticamente svincolati dalle organizzazioni del periodo della prima
Repubblica - Lega Nord e Forza Italia - hanno attraversato un consolidamento
organizzativo complesso e per certi versi contraddittorio: la Lega ha sempre riposto
attenzione nella selezione e nella “cura” dei propri militanti che ricorda modelli del
passato, tuttavia assorbendo vari elementi del modello di cartello o di quadri. Forza
Italia ha invece mutato il suo aspetto originario di partito patrimoniale verso un
modello certamente ancora pecuniarie, dato il legame diretto tra macchina e leader
fondatore, ma che può essere avvicinato a una categoria più ampia, definita del
partito personale. A questo modello si sono avvicinate anche altre fattispecie, dal
movimento di Antonio Di Pietro (Italia dei valori) al partito di Gianfranco Fini
(Alleanza Nazionale) e persino la peculiare esperienza del Movimento 5 Stelle.

Le stagioni del referendum


In Italia, dal 1970 i cittadini potevano contare sul mezzo del referendum abrogativo,
sancito dalla Costituzione, ma fino ad allora non regolato dalla legge ordinaria. La
legge che attivava questo strumento è il risultato di un compromesso consensuale
tra i partiti per permettere al movimento cattolico di ricorrere allo strumento
referendario e opporsi fuori dal Parlamento ad una legge come quella sul divorzio,
promossa dalle forze laiche di governo e dal Partito comunista. Il referendum
rappresenta dunque una garanzia di libertà di movimento per i partiti dell'arco
costituzionale. Tuttavia, negli anni l'uso di tale strumento divenne la bandiera di altri
soggetti, forze politiche periferiche e antagoniste come i radicali, l'estrema sinistra e
poi, negli anni della crisi partitocratica, ampi cartelli fatti di politici isolati, alleanze
trasversali, movimenti tematici ad hoc, talvolta sostenuti apertamente dai media o da
determinati gruppi di interesse.
La storia dei referendum in Italia dice molto circa il rapporto tra italiani e politica, e in
particolare chiarisce le fasi di “declino” della delega incondizionata alla classe
politica e ai partiti.
Dal 1974 al 1985 nell'arco di 4 tornate si tennero 9 referendum, che ebbero tutti esito
negativo. Nel 1987 il Partito Socialista di Bettino Craxi intravide nell'uso dei
referendum già promossi da ecologisti e radicali (contro norme sulla produzione di
energia nucleare e contro i privilegi dei magistrati) la possibilità di conquistare nuovi
consensi, abbracciando temi fino ad allora cari solo a forze minori di opposizione.
Successivamente furono gli stessi partiti di governo a farsi mettere in minoranza dai
referendum elettorali del 1991 e 1993, sottovalutandone la straordinaria
partecipazione popolare. Dopo questa stagione iniziò invece una fase di declino
della partecipazione diretta: nessuno dei 24 referendum tenutisi tra il 1997 e il 2009
ha raggiunto il quorum necessario per rendere valida l'eventuale vittoria della
proposta abrogativa. Soltanto un nuovo referendum elettorale, quello relativo alla
protezione della quota proporzionale per la camera del 1999, si avvicinò al quorum
del 50% degli aventi diritto. Nel 2011, in occasione dei 4 referendum su nucleare,
privatizzazione della gestione delle reti idriche e “legittimo impedimento”, si è tornati
a superare il quorum e, soprattutto, il referendum abrogativo è tornato a determinare
effetti concreti, grazie alla vittoria dei “Sì”.

Culture politiche e comportamento elettorale


Le subculture e le Italie del voto
Presentiamo le evidenze mostrate dalla letteratura che ha inquadrato la
cristallizzazione dei valori politici radicatisi nel territorio, generando “culture
subnazionali” o “subculture”, con effetti di lungo periodo sui comportamenti politici.
Approfondiremo l'evoluzione dei trend di differenziazione territoriale nel
comportamento elettorale dell'era repubblicana, partendo dai risultati della copiosa
letteratura sulle Italie del voto (Cartocci 1985).
L’area “rossa” era concentrata nelle quattro regioni del centro (Emilia-Romagna,
Toscana, Umbria e Marche) mentre quella “bianca” (Dc) comprendeva le regioni del
Triveneto, la la parte orientale della Lombardia, la Brianza e la provincia di Cuneo in
Piemonte.Gli altri territori del Nord si dividevano tra aree caratterizzate dalla
presenza della subcultura bianca e aree “neutrali” (Piemonte e Liguria) dove la forte
componente operaia poteva favorire la sinistra, o dove una componente rilevante di
“voto di opinione”diventava spesso decisiva. Altri aree neutrali erano quelle urbane
del centro sud. A Roma, ad esempio, l'elettorato cittadino sceglieva in prevalenza la
sinistra, mentre le periferie e la campagna laziale erano dominate dalla Democrazia
Cristiana. Anche le regioni del Sud risultavano caratterizzate dall'assenza di un vero
e proprio dominio subculturale, ma questo non ha impedito al partito dello
Scudocrociato di mantenere il controllo su larghe fasce di elettorato, grazie a un élite
politica che in queste aree era maggiormente legata alla tradizione notabilare nella
fase prerepubblicana, e che riusciva a ottenere una grande massa di consensi
anche in virtù di un esteso voto di scambio.
Appare significativamente deviante soprattutto il caso della Sardegna, regione con
una piccola area di predominio comunista a sud, nella zona di Cagliari, e un voto
moderato e sostanzialmente favorevole alla Democrazia Cristiana nelle restanti
aree.
Politologi, sociologi e anche alcuni storici hanno spiegato come la continuità di un
chiaro modello di differenziazione degli orientamenti partitici prevalenti avesse una
solita origine culturale, che si sovrapponeva alla distribuzione nel territorio di una
serie di caratteristiche socio-economiche. Con la trasformazione complessiva del
sistema partitico e soprattutto con l'emergere di una questione settentrionale -
ovvero il disagio e il sentimento anticentralistico riscontrato in alcune aree,
soprattutto del Nordest, muoveva il consenso a un partito, per certi versi antisistema,
come la Lega- gli studiosi hanno dovuto correggere l'analisi e spiegare una dinamica
ben più movimentata. La dissoluzione dell'area bianca ha portato a una miriade di
piccole zone verdi (le enclave del voto della Lega Nord) alternati alle fasce urbane
dove Forza Italia è stato a lungo il partito erede del patrimonio dei voti democristiani.
Vale la pena sottolineare quanto siano stati diversi i legami con l'elettorato costruiti
da un partito “senza territorio” come Forza Italia, caratterizzato da una natura
personalistica e dall'assenza di una vera organizzazione locale. Forza Italia ha a
lungo sostituito la Democrazia Cristiana senza diventare un partito con legami
subculturali forti, ma guadagnando ugualmente percentuali elevatissime di voti, sia
nelle province che furono bianche sia in molte aree neutrali.
Tuttavia, la maggiore frammentazione occorsa nella Seconda repubblica e i limiti
organizzativi di Forza Italia hanno permesso anche ad altre forze del centro-destra di
ottenere buone e stabili performance, soprattutto nel centro sud. In particolare,
Alleanza Nazionale è stata relativamente forte in Puglia, Campania e Calabria,
mentre i partiti centristi postdemocristiani poi confluiti nell’Unione di centro hanno
ottenuto molti consensi in Sicilia.
Per quanto riguarda l'area rossa, l'eredità comunista si è divisa tra i due diretti eredi
del vecchio partito di Togliatti e Berlinguer: il Partito Democratico della Sinistra/
Democratici di sinistra e Rifondazione comunista hanno infatti dominato la scena
dopo il 1992 in tutte e quattro le regioni centrali, contando su un livello di
mobilitazione elevato.
Tuttavia, una parte del patrimonio storico dei voti della sinistra è andata ad altre
formazioni presentatisi come alternativi alla sinistra tradizionale (verdi,radicali) fino
alle recenti formazioni difficilmente collocabili su un continuum destra-sinistra: l'Italia
dei Valori di Di Pietro, e nel 2013 il Movimento 5 Stelle.
Il terremoto elettorale del 2013 e la nuova mappa
politica multicolore
Le elezioni del 2013 e l'avvento di una forma di partito del tutto nuova - il Movimento
5 stelle - che ha sconvolto la politica italiana mettendo in crisi il sistema partitico
della Seconda Repubblica, ebbero portata rivoluzionaria. Questo ebbe effetti in
termini di mutamento del comportamento elettorale e superamento del classico
modello di distribuzione territoriale del voto.
Con il suo abbondante 25% dei voti espressi, il M5S è entrato in Parlamento come il
secondo partito italiano, e ha impedito il pieno successo di una delle due coalizioni
che avevano invece dominato il ventennio precedente. Alla Camera il M5S ha fatto
registrare la sua migliore performance, evidenziando un'altra importante novità nel
comportamento di voto in Italia: per la prima volta dal 1948, il voto della fascia
giovanile ( 18-24 anni), ammesso solo alla Camera dei Deputati, si è distribuito in
modo diverso rispetto al resto dell'elettorato, premiando in forza il partito ispirato da
Beppe Grillo. Un elemento, questo, che è stato associato al tipo di mobilitazione
politica in rete proposto dal M5S: dal notissimo blog dell'ex comico, principale
riferimento programmatico del movimento, all'organizzazione leggera di gruppi locali
di militanti autoorganizzatisi sul social network Meetup, fino alle deliberazioni prese
consultando gli scritti, sempre attraverso internet.
Il quadro di improvviso sfaldamento dei modelli di comportamento elettorale è
completato dalla ricomparsa di un polo centrale che è entrato nel nuovo Parlamento
con un ruolo cruciale per la formazione della maggioranza. Si devono poi notare
anche i nuovi flussi interni alle coalizioni preesistenti, come il rientro in Parlamento
della sinistra radicale di Sinistra Ecologia e Libertà (Sel) e il declino evidente del
Popolo della Libertà ( che sarebbe tornato a chiamarsi Forza Italia).
Il tasso complessivo di volatilità elettorale totale - la misura del cambiamento data
dalla somma degli scarti tra le percentuali di voto ottenute da ogni partito tra
un'elezione e l'altra - e quello di ricambio parlamentare - la percentuale di deputati
esordienti - rappresentano due indicatori riconducibili all'improvviso successo di
nuovi partiti, ma anche alla ridistribuzione dei voti all'interno di coalizioni persistenti o
al cambiamento generazionale nella dirigenza di un partito stabile.
I voti giunti nel 2013 al cartello centrista, e soprattutto al M5S, sono arrivati da
destra come da sinistra e, soprattutto, dalle aree territoriali più diverse, rompendo il
tabù dell'invincibilità degli altri partiti nelle province “fortezza”.
La spiegazione del voto in Italia in chiave di sedimentazione storica delle subculture
politiche era ancora un argomento forte nell’interpretazione complessiva dei
comportamenti politici. Quello che si è palesato agli osservatori dopo le elezioni del
2013 è un quadro completamente diverso.
Il Partito Democratico di Bersani, erede della tradizione di sinistra, riusciva a
mantenere il comando nel centro e si spingeva ad un buon risultato anche in
Lombardia. Ciò nonostante, un'intera regione della vecchia area rossa - le Marche-
era conquistata dal M5S.
La Lega, soffrendo l’infiacchimento del messaggio federalista e anche gli scandali
che avevano visto protagonisti il vecchio leader Bossi e il cerchio magico di dirigenti
a lui vicini, teneva le posizioni nel nord est, mentre il Pdl, che aveva spopolato nel
2008, ora era la prima lista soltanto in 17 province perdendo oltre 3 milioni di voti.

I regimi elettorali nell’esperienza repubblicana.


Le scelte originarie e il fallimento del primo tentativo
maggioritario
La Costituente oltre a scrivere la nuova costituzione aveva anche il compito di
pronunciarsi sulla futura normativa elettorale ordinaria per l'elezione del Parlamento.
Il sistema proporzionale fu confermato a larga maggioranza, sia pure con varianti di
un certo rilievo tra Camera e Senato:
- alla Camera si ribadiva un sistema proporzionale di lista con soglie di
rappresentanza molto basse, un metodo di utilizzazione nazionale dei resti
(quoziente corretto) generoso con i piccoli partiti, e la possibilità di esprimere
più voti di preferenza;
- al Senato si combinava l'impiego dei collegi uninominali con un criterio
proporzionale. Infatti, per l'elezione diretta nel collegio veniva fissata una
soglia “impossibile” del 65%, al di sotto della quale scattava una ripartizione
proporzionale dei seggi a livello regionale, grazie al collegamento di ogni
candidato uninominale a un simbolo partitico. Si procedeva con la nomina dei
candidati con le migliori percentuali di voto a livello di collegio.

Il dettame costituzionale che sanciva un’elezione a “base regionale” per il Senato


(art.57) non viene comunque applicato in senso “federale”, cioè garantendo la parità
rappresentativa a tutte le regioni (come negli Stati Uniti), o comunque assicurando
una sovrarappresentazione delle regioni più piccole, come avviene nella camera alta
in Germania. Il numero di senatori attribuiti a ogni regione fu infatti calcolato in
proporzione alla distribuzione della popolazione: la composizione politica delle due
Camere è sempre risultata fino al 1994 molto omogenea.
Il sistema della preferenza multipla usato alla Camera predispose un contesto
favorevole allo sviluppo di una forma di competizione intrapartitica. Nelle
circoscrizioni i candidati dello stesso partito entravano in aperta competizione per i
voti di preferenza all'interno della loro lista. L'insieme dei candidati alleati dentro una
lista costituiva la “cordata”: un gruppo di candidati che cercava di prevalere
escludendo dal Parlamento i competitori delle altre fazioni.
L’assenza di un sistema di lista ed il voto di preferenza al Senato favoriva un
coordinamento centralizzato nella scelta dei candidati: i candidati promossi dal
partito potevano essere comodamente sistemati nei collegi dove il partito poteva
giungere a un quorum di voti sufficiente per strappare un seggio. E se questo non
bastava, era possibile candidare la stessa persona sia in un collegio senatoriale sia
in un certo numero di circoscrizioni alla Camera, a testimoniare una gestione
controllata e partitocratica della selezione parlamentare.
Nel 1953 la coalizione centrista guidata da Alcide De Gasperi varò la riforma che
introduceva un correttivo al sistema per l'elezione della Camera: un premio di
maggioranza attribuito al partito o all'insieme dei partiti “apparentati” che avesse
raggiunto complessivamente la maggioranza assoluta dei voti espressi.
De Gasperi intendeva così favorire una pratica di governo più efficace e
maggioritaria, ovvero allargare la base parlamentare della maggioranza, senza
minare tuttavia l'impianto pluripartitico del sistema.
L'opposizione accusava De Gasperi di aver adottato una legge truffa in quanto la
coalizione centrista era l'unica a poter aspirare al premio di maggioranza, essendo
improponibile per la sinistra formare un cartello con l'estrema destra. Alla fine, non
essendo stato raggiunto da una coalizione il quorum della maggioranza assoluta dei
votanti, il premio di maggioranza non scattò e la coalizione centrista dovette
continuare a governare con una maggioranza risicata di seggi. La riforma venne
cancellata e l'idea di rimettere mano ai sistemi elettorali e fu accantonata per
decenni.

L’età d’oro del proporzionalismo


Fallita la tentata riforma maggioritaria del 1953, la scelta proporzionalista tornava a
segnare il punto di equilibrio tra maggioranza e opposizioni. Il regime elettorale
dell'Italia nei decenni del proporzionalismo puro fu molto stabile e permise una
perfetta riproducibilità non solo dei meccanismi di allocazione dei seggi, ma anche
della struttura dei “sistemi di governo”. Infatti, la presenza di istituzioni esecutive
subordinate alla fiducia delle assemblee, la regola proporzionale e il sistema
pluripartitico e multipolare conducevano alla formazione di governi di coalizione a
tutti i livelli territoriali: Comuni, Province e Regioni.
Il principio del proporzionalismo fu considerato fino alla fine degli anni ‘70 un criterio
non sindacabile se non addirittura “quasi costituzionale”.
Si dovevano aspettare i mesi di Tangentopoli per osservare il ritorno del problema in
un contesto completamente diverso, con i politici che non riuscivano più a
selezionare alcuna preferenza e il pubblico che si interessò improvvisamente di una
questione tecnica come il sistema elettorale, usandolo come una leva per stimolare il
ricambio della classe dirigente.

Il problema del “sistema elettorale” e la scelta del


misto-maggioritario
La riforma del sistema elettorale del 1993 è legata ad una fase importante della
cosiddetta “transizione” alla Seconda repubblica. La riforma fu strappata al
Parlamento e alla classe politica da eventi come Tangentopoli e grazie ai movimenti
referendari. L'introduzione del sistema misto-maggioritario nel 1993 rappresenta un
elemento di forte discontinuità rispetto al controllo esercitato dai partiti e dal
preesistente establishment sulle regole elettorali e più generale sulle questioni
istituzionali.Tuttavia c'erano già stati alcuni elementi di cambiamento che avevano
trasformato il rapporto tra elettori, partiti ed eletti. Ad esempio, lo stile di conduzione
politica era mutato già negli anni ‘80, quando personaggi come Berlinguer, Craxi e
De Mita, sia pure con modi molto diversi, avevano imposto una forte
personalizzazione alla vita politica. Le campagne elettorali erano già cambiate
sensibilmente, e la televisione aveva mostrato tutte le sue potenzialità.
Negli ultimi anni della Prima Repubblica erano emersi quei segnali che più tardi
sarebbero stati interpretati come i sintomi di una disaffezione montante, non solo
verso una data élite ma anche verso un intero sistema. Tra questi, il tasso crescente
di turnover parlamentare, l'emergere di nuove tipologie di rappresentanti ma
soprattutto l'aumento della disaffezione e della protesta, misurabili con il voto ai
partiti antagonisti, con l'astensionismo e anche con le aperte proteste contro
l'occupazione partitica della televisione pubblica e il finanziamento pubblico della
politica.
Quello che i leader partitici non riuscirono a capire è che stava aumentando un
settore di astensionismo intermittente, comunque informato e attivo e quindi
politicamente rilevante, e che questo si apprestava a diventare un attore decisivo nel
gioco elettorale. Molti italiani che si mobilitarono in occasione dei referendum del
1991 e 1993, quando molti politici consigliavano di “andare al mare”, avevano già
cominciato ad astenersi oppure a votare scheda bianca e nulla. La crisi della
relazione tra partiti ed elettori fu dunque sottovalutata, e quando emerse più
nettamente apparve chiaro che le vecchie “regole del gioco” proporzionali non erano
più gradite a una larga parte del pubblico.
Il referendum del 1993 abolendo la soglia di elezione maggioritaria del 65% nei
collegi del Senato, aveva creato una situazione del tutto nuova: senza un intervento
legislativo le elezioni della XII legislatura si sarebbero svolte con un sistema
proporzionale puro alla camera e un sistema uninominale secco al Senato. Era
dunque necessario formulare una nuova normativa, coerente con la domanda di
cambiamento manifestatasi con i referendum.
Il governo tecnico di Carlo Azeglio Ciampi mise tale riforma al centro del suo
programma, con l'appoggio di un ampio fronte politico comprendente la vecchia
maggioranza del Pentapartito e i parlamentari del nuovo Pds.
I tempi brevi dettati dall'agenda politica e dall’esplodere degli scandali di
Tangentopoli crearono le condizioni per condividere rapidamente la soluzione di un
sistema misto-maggioritario, adottato sia alla Camera sia al Senato.
Secondo le nuove norme, in entrambe le Camere il 75% dei seggi sarebbe dovuto
essere allocato in via maggioritaria, attraverso collegi uninominali, mentre il restante
25% sarebbe stato distribuito proporzionalmente, su base nazionale alla Camera e
regionale al Senato. Le diverse modalità di allocazione della quota proporzionale del
25% dei seggi introducevano una differenza tra Camera e Senato che, seppur
piccola, avrebbe potuto determinare una composizione dei due bracci parlamentari
più disomogenea rispetto alla Prima Repubblica.
La resistenza che era stata a lungo opposta alle innovazioni nello stile politico e nelle
campagne elettorali non aveva più ragione d'essere e la definitiva scomparsa del
voto di preferenza dette un ulteriore colpo ai retaggi del passato gioco elettorale.
Con la prima elezione maggioritaria del 1994 la classe politica andò quindi incontro
all'innovazione senza avere una chiara idea di cosa comportasse. Improvviso fu
l'adattamento del quadro regolativo al nuovo sistema di competizione basato su
singoli candidati: la legge di contorno aveva regolato la responsabilità individuale dei
candidati, i tetti di spesa, l'obbligo di denunciare le risorse ricevute e di affidarli ad un
mandatario, oltre a vietare la pubblicazione dei sondaggi nella fase immediatamente
precedente alle elezioni. Tuttavia, la legge non riusciva a cogliere molti degli aspetti
divenuti critici nella nuova fase politica: l'accesso ai media di partiti e candidati
rimaneva privo di regolazioni ad hoc.
Le elezioni del 1994, oltre a determinare il primo clamoroso e sorprendente
successo elettorale di Silvio Berlusconi, passarono alla storia come le prime lezioni
giocate soprattutto sulla televisione e sul piano del marketing elettorale.
L'incertezza sulle norme dominava anche altri aspetti della competizione politica, a
cominciare dal problema del finanziamento pubblico dei partiti: un referendum del
1993 aveva cancellato la vecchia legge del 1974, e i partiti si erano presto resi conto
che la totale assenza di questa copertura pubblica avrebbe reso la competizione
troppo costosa per chiunque.Non fu difficile ricostruire un sistema, basato questa
volta sui rimborsi elettorali, più che sulle sovvenzioni, che sarebbe stato rifinanziato
negli anni fino a far riemergere il problema con drammaticità durante la recente crisi
economica.
L'uso dei media fu regolato con l'approvazione, da parte del governo di centro-
sinistra, di una legge che ridusse l'esposizione dei partiti e candidati sui mezzi di
comunicazione, limitando le forme di propaganda e regolando gli spazi di
informazione secondo una logica di par condicio, una rigida divisione dei tempi fra
tutti i competitori. Questa legge ha costituito per anni uno degli argomenti critici
preferiti di Berlusconi, che l'ha definita liberticida, ma non è mai riuscito ad abrogarla.

La fase del proporzionale corretto: dal Porcellum


all’Italicum
Le elezioni parlamentari del 2006 hanno visto il ritorno del principio proporzionale
con ampie circoscrizioni per entrambe le Camere. Il voto di lista veniva “bloccato”
impedendo quindi l'espressione di qualsiasi forma di voto di preferenza; venivano
introdotte varie soglie a livello nazionale volte a penalizzare i partiti più piccoli o,
almeno, a incoraggiarli a formare coalizioni senza costringerli a rinunciare ai rispettivi
simboli. La soglia di ammissibilità al riparto proporzionale per le liste che corrono da
sole era infatti relativamente elevata (4%) ma per i partiti inseriti nelle coalizioni era
sufficiente il 2% dei voti validi per ottenere seggi. I cartelli entravano in lizza per i
premi di maggioranza, l'elemento peculiare del sistema misto-proporzionale.
In pratica, se la differenza in termini di voti tra i due cartelli non era tale da creare un
distacco in termini di seggi pari al rapporto di almeno il 55% alla maggioranza e il
45% all'opposizione, scattava una modalità automatica che garantiva tale vantaggio
al cartello o alla lista più votati, attribuendogli un premio. Il premio di maggioranza
era “unico” (ovvero nazionale) alla Camera, dove la coalizione più votata otteneva
almeno 340 seggi su 630. Al Senato gli eventuali premi erano invece allocati su base
regionale, e quindi venivano attribuiti a entrambe le coalizioni, a seconda di quale
arrivasse prima in ciascuna regione.
Un gioco del genere rifletteva le deliberate finalità che stavano dietro alla riforma del
2005: il nuovo sistema puntava infatti a svantaggiare il centro-sinistra, che
normalmente riusciva meglio nella competizione maggioritaria, e a rendere più
difficile la posizione del leader di questa coalizione che non avendo un suo partito
era costretto a cercare ospitalità in una lista partitica, o a imporne una propria
almeno in una delle due competizioni, al fine di poter disporre di un seggio nel futuro
Parlamento. Infine, questo sistema permetteva di superare alcuni problemi di
conflittualità nella coalizione di centro-destra, visto che ogni partito poteva, con il
sistema proporzionale, cercarsi da solo il consenso “contando” i propri voti.
Va peraltro detto che il ritorno del proporzionale finiva per alleviare anche problemi di
molti attori partitici del centro-sinistra, che pure avversavano duramente la riforma in
Parlamento, nel senso che esso riduceva i costi di negoziazione presenti nel
precedente sistema e legati alla necessità di stabilire le quote per le candidature dei
vari partiti e di individuare i candidati uninominali “spendibili” per l’intero elettorato di
centro-sinistra. In definitiva, il sistema ribattezzato Porcellum, tranquillizzava anche il
più piccolo partito con un qualche potenziale di coalizione, e le metteva le élite
partitiche centrali al comando del processo di selezione parlamentare.
Il paradosso maggiore della riforma del 2005 era quello di un utilizzo di due sistemi
elettorali “in fotocopia” tra Camera e Senato che però determinava elevati rischi di
disallineamento nella composizione politica delle camere.
La bontà del Porcellum veniva subito messa in discussione dalla nuova maggioranza
di centro-sinistra, e la stessa opposizione mostrava alcuni ripensamenti. Ma i
dissensi tra le due coalizioni, e soprattutto all'interno di esse, resero impossibile una
nuova riforma sino a che la Corte costituzionale ha di fatto obbligato il Parlamento a
produrne una, con la peculiare sentenza del 4 dicembre 2014 che ha dichiarato
incostituzionali sia l'entità di un premio di maggioranza così esteso senza
l'indicazione di una soglia minima di voti, sia le lunghe liste bloccate delle grandi
circoscrizioni previste dal proporzionale corretto.
L’onere di produrre una nuova riforma diventava del Partito Democratico di Matteo
Renzi. Nonostante la perdita dell'appoggio del principale gruppo parlamentare di
centro-destra, Forza Italia, che inizialmente aveva siglato con Renzi un patto (il patto
del Nazareno) con cui appoggiava un blocco di riforme istituzionali comprendenti la
legge elettorale, i mugugni della minoranza del suo stesso partito, il governo Renzi
portava a termine l'operazione Italicum nel maggio del 2015, dando al paese un
sistema che avrebbe garantito, a detta dei suoi ispiratori, governabilità e
rappresentatività (la soglia di sbarramento nazionale è stata infatti progressivamente
abbassata fino al 3%) e anche legittimità: con il nuovo sistema il premio di
maggioranza scatta infatti solo in presenza di un’ottima performance elettorale della
lista vittoriosa, che deve raggiungere il 40%. In caso contrario si va a un ballottaggio
tra le due migliori liste, e quindi tra i due loro leader, il più votato dei quali vedrebbe
rafforzata la sua legittimazione di premier in pectore.

CAPITOLO 4. Il sistema dei partiti: dal


pluripartitismo polarizzato all’illusione
bipartitica
Il primo sistema partitico
Il “primo” sistema partitico italiano, quello del periodo del suffragio limitato (1861-
1913), era stato dominato dai partiti parlamentari della Destra storica e della Sinistra
storica. Solo il Partito socialista poteva essere considerato un partito di massa
abbastanza sviluppato, che tuttavia sarebbe rimasto a lungo ai margini del sistema
politico. Nel complesso il primo sistema partitico italiano portò a termine la
costruzione dello Stato unitario assicurando per circa mezzo secolo il mantenimento
di una costituzione liberale e una vita parlamentare abbastanza regolare.

Il secondo sistema partitico


L'espansione del suffragio maschile nel 1912, la Grande Guerra e poi l'introduzione
del sistema proporzionale nel 1919 dettero inizio alla formazione del secondo
sistema partitico, che tuttavia non ebbe tempo di consolidarsi data la transizione al
regime fascista. Il nuovo sistema partitico vide l'ascesa di un altro partito di massa, il
Partito popolare, di ispirazione cristiano democratica, fondato nel 1919. Il resto del
panorama politico rimase ancora costituito, fino all'avvento del regime a partito
unico, da partiti di notabili scarsamente organizzati e da personalità indipendenti.
La divisione tra vecchi e nuovi partiti era anche una divisione territoriale del paese: i
primi avevano mantenuto una buona presa nel Sud, mentre i partiti di massa
avevano preso il sopravvento nel Nord. Ai margini estremi dello schieramento
politico cominciavano ad apparire partiti di stampo antiparlamentare e orientati a
interpretare la politica in una chiave di scontro violento e definitivo: a destra
Mussolini e i suoi Fasci di combattimento; a sinistra il Partito Comunista d'Italia di
Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci. Il secondo sistema partitico e la sua classe
politica non riuscirono a dare una solida base di sostegno a governi capaci di
escludere e tenere sotto controllo le nuove forza anti-sistema che stavano
emergendo.
Merita sottolineare che le condizioni nelle quali si svolse la transizione dal regime
autoritario alla democrazia influirono significativamente sul ruolo dei partiti nella vita
politica e sulla strutturazione del sistema partitico. La caduta del regime fascista, il
sopravvenuto collasso dello Stato e la divisione in due dell’Italia con l’occupazione
degli eserciti stranieri, consentirono alla monarchia di liberarsi dalla tutela del
fascismo ma le impedirono di dominare il processo di transizione dal vecchio regime
ad un nuovo ordine.
Tra il 1943 e il 1945 i partiti poterono rinascere e progressivamente conquistarono il
controllo del processo che avrebbe condotto nel 1946 alle prime libere elezioni per
l'Assemblea costituente e alla scrittura della nuova Costituzione.
La bancarotta dello Stato e la debolezza degli altri attori contribuì a far sì che i partiti
acquisissero un ruolo preponderante nella fase cruciale della ricostruzione del
sistema politico. Si ponevano le premesse per la nascita di un vero “stato dei partiti”.

Il terzo sistema partitico


I governi formatisi tra il 1944 e il 1946, basati sull’accordo tra i partiti antifascisti, si
caratterizzano per un uguale rappresentanza di tutte le formazioni. Con il passare
del tempo il peso politico di questi partiti non sarebbe rimasto lo stesso e l'assetto
del sistema partitico non poteva ancora considerarsi stabilizzato.
Un primo passaggio cruciale furono le elezioni del 1946, che indicarono quale fosse
il seguito popolare di ciascun partito. Meritano di essere segnalati tre aspetti: la
divisione della sinistra e la sfida per la leadership di quest'area politica lanciata dal
Partito comunista (Pci) al vecchio Partito socialista (Psi); la crescita del partito
cattolico, la Democrazia cristiana (Dc), che collocato al centro dello schieramento
politico riusciva ad affermarsi come il partito più forte; la riduzione del Partito liberale
ha una posizione di minoranza.
Nelle elezioni del 1948 la collaborazione antifascista tra i principali partiti che aveva
dominato gli anni della transizione, cedette progressivamente il passo ad una
robusta competizione. La drammatica campagna elettorale del 1948, combattuta in
un momento in cui le prese del potere comunista si erano consolidate in Europa
centrale, aumentando la tensione tra i due blocchi contrapposti, diede vita ad una
strutturazione bipolare del sistema partitico lungo la linea di frattura
comunismo/anticomunismo.
La divisione del Psi determinò la caduta della sinistra sotto l’egemonia dei comunisti.
La Dc, contando anche sull’aperto sostegno della chiesa cattolica e della sua estesa
rete di organizzazioni laicali (ma anche strettamente religiose), poteva ottenere il
sostegno di tutte le classi sociali, ed era tra tutti i partiti non di sinistra quello in
migliore posizione per accreditarsi come “diga” contro il pericolo comunista.
Le elezioni del 1948 posero la parola fine sull’alleanza antifascista. La netta vittoria
della Dc e dei suoi alleati e la sconfitta del Fronte popolare crearono le condizioni
per un’egemonia democristiana di lungo periodo e per la stabilizzazione di una
difficile democrazia. Il fatto che la frattura comunismo/anticomunismo fosse diventata
la linea di divisione politica preminente, ha avuto conseguenze importanti per il
sistema politico italiano:
1. nei successivi quarantacinque anni la sinistra stessa sarebbe stata divisa da
questa frattura;
2. il Pci a causa dei suoi stretti rapporti con l’Unione Sovietica sarebbe stato
visto per molto tempo come un partito “antisistema” e perciò non adatto per
diventare un possibile alleato di governo;

Come conseguenza di ciò un’alternanza al governo sarebbe stata impossibile. La Dc


è stata quindi, fino alla crisi degli anni ‘90, sempre al potere, anche se, non avendo
mai ottenuto da sola la maggioranza in parlamento, ha dovuto costantemente fare
ricorso ad alleanze con i piccoli partiti di centro-sinistra e di centro-destra, poi più
avanti con il Psi dal momento in cui questo decise di staccarsi dall’alleanza con i
comunisti.
Sartori ha definito tale sistema come un caso di “pluripartitismo polarizzato”,
caratterizzato dal fatto che:
esistono due partiti antisistema (Pci e Msi),
uno spazio ideologico polarizzato, cioè molto esteso tra estrema sinistra ed estrema
destra;
il sistema dei partiti si articola in tre poli (sinistra, centro e destra), invece che attorno
a due come nei sistemi bipartitici o di pluripartitismo moderato,
le coalizioni di governo si formano sempre attorno al polo centrale;
le opposizioni sono bilaterali (da sinistra e da destra)
e hanno carattere di irresponsabilità poiché sanno che non saranno mai messe alla
prova del governo, ma tutto sommato anche le forze di governo sono poco
responsabili perché contano sul fatto che gli elettori non hanno veramente
alternative;
il clima è ideologico più che pragmatico e la competizione ha andamento centrifugo: i
partiti anziché convergere verso il centro devono rincorrere con le loro proposte le
componenti più estreme.
In questa situazione era probabile, secondo Sartori, che si verificasse una
progressiva erosione dal centro dello schieramento partitico a favore delle ali più
estreme con conseguenze molto negative per la governabilità e per la stabilità del
sistema democratico. Questa visione pessimistica sembrava confermata dalla
crescita della Pci, che nel 1976 raggiunse il suo apice, e dal declino del seguito
elettorale della Dc.
In parziale disaccordo con la visione di Sartori, alcuni studiosi osservavano però che
per superare la sua situazione di esclusione dal governo il Pci aveva dovuto
moderare le sue posizioni e allentare i legami con l’Unione Sovietica, accorciando
così l’ampiezza dello spazio ideologico e rendendo possibile, seppur per un breve
periodo, raggiungere un accordo di governo tra i partiti governativi e il Pci. Un altro
aspetto, in contraddizione con il modello sartoriano, era l’estesa collaborazione
parlamentare esistente tra governo e opposizione comunista nell’attività legislativa,
che si sarebbe ulteriormente estesa nel periodo del compromesso storico.
Occorre tuttavia notare che, ancora per svariati anni, non si è potuta produrre una
vera ristrutturazione del sistema partitico: basti ricordare che il Pci (sinistra) e il Msi
(destra) sono rimasti ancora per tutti gli anni ‘80 nella tradizionale condizione di
esclusione dal governo e sono continuate le difficoltà di costruire un’alleanza delle
forze di sinistra.

Partiti e “cleavages”
Il PCI ha mostrato l'organizzazione di iscritti più sviluppata fin dall’inizio, articolata in
una fitta rete di sezioni e cellule, e ha costruito una serie molto estesa di
associazioni parallele nel settore della cultura, dello sport e del tempo libero con la
finalità di creare una sorta di “società autosufficiente”. La Dc, che soprattutto all'inizio
era molto più debole quanto all'organizzazione partitica, poteva compensare questo
svantaggio grazie all'appoggio delle organizzazioni religiose, da un lato, e al
controllo degli apparati dello Stato, dall'altro. Anch’essa tuttavia promosse, a partire
dagli anni 50, lo sviluppo di un'organizzazione di iscritti più autonoma rispetto alla
chiesa e in grado di competere con quella comunista.
Tuttavia la crescita di un esteso apparato organizzativo, essendo
contemporaneamente fallito il tentativo di creare una forte leadership centrale del
partito, aprì la strada al rafforzamento delle varie correnti, presto fortemente
organizzate, che assunsero un ruolo dominante nella vita interna del partito.
L’esistenza del voto di preferenza per l'elezione dei deputati favoriva una dimensione
anche elettorale e pubblica alla competizione tra i candidati delle diverse correnti. Di
conseguenza i capicorrente acquisirono una posizione di rilievo nel partito mentre il
segretario rimase relegato al ruolo che non andava molto oltre quello di primus inter
pares. Né, d'altra parte, riusciva ad affermarsi come il leader incontrastato della Dc il
Presidente del Consiglio, pur essendo sempre un democristiano fino agli anni 80. Si
determinava così un frazionamento profondo della guida effettiva del partito.
Fino agli anni 90 il sistema partitico italiano si è sostanzialmente basato su sette
principali partiti: due più grandi (Dc e Pci), uno medio (Psi) e quattro piccoli (Psdi,
Pri, Pli e Msi). Nel complesso questo sistema partitico è stato piuttosto stabile per
circa 45 anni punto questo non significa che nel tempo non ci siano stati dei
mutamenti. Il momento in cui è sembrata più vicina la possibilità che gli equilibri di
questo sistema venissero meno è stato nel 1975-1976, quando il Pci, grazie a una
crescita elettorale impetuosa, parve in grado di superare la Dc come partito di
maggioranza relativa. La reazione difensiva della Democrazia Cristiana, che incluse
il Pci nella maggioranza parlamentare e quindi lo rese corresponsabile delle difficili
decisioni connesse alle crisi economica e alla minaccia terroristica, contribuì
probabilmente insieme ad altri fattori, a fermare il trend positivo del più grande partito
di opposizione. Durante gli anni 80 Il Pci tornò all'opposizione e il suo seguito
elettorale cominciò a declinare, mentre il fattore più dinamico della scena politica fu il
Psi, sotto la guida del suo nuovo leader, Bettino Craxi.

La linea di divisione destra/sinistra (con la sua componente economica e sociale) ha


certamente avuto un ruolo importante nel definire le identità dei partiti e
nell’orientarne le scelte di policy. Il maggiore partito italiano (la Dc) non si è mai
definito un partito di destra o “borghese”, bensì secondo l'originale tradizione
democratico-cristiana europea, un “partito interclassista di centro”.
In concreto, tra le sue correnti interne, alcune sono state caratterizzate da un'identità
più di sinistra sul piano economico-sociale e con forti collegamenti con una parte del
sindacato, mentre altre si sono collocate più a destra e vicino al mondo
imprenditoriale.

Un'altra linea di conflitto significativa è stata naturalmente quella confessionale.


L'importanza del conflitto Stato-Chiesa nella storia d'Italia è ben nota, così come
fattori che stanno alla sua origine:
1. la forza tradizionale della chiesa cattolica nella società italiana e la sua
originaria opposizione al liberalismo;
2. la presenza di forze politiche e culturali chiaramente anticlericali e
antireligiose;
3. il fatto che la chiesa si sia opposta al processo di unificazione e che questo
abbia comportato la conquista dello Stato pontificio e la spoliazione delle
proprietà ecclesiastiche.

A livello dei partiti la linea di frattura è stata evidenziata dal fatto che, da un lato, c'è
stato dal 1919 fino al 1994 un grande partito di ispirazione confessionale e, dall'altro,
una pluralità di partiti (soprattutto a sinistra) che hanno presentato caratteri
anticlericali piuttosto intensi. In particolare la linea di divisione è emersa tutte le volte
che sono state discusse questioni scolastiche o temi come la regolazione del
matrimonio, delle nascite, dell'aborto e più di recente, la fecondazione artificiale,
producendo alleanze di policy che hanno tagliato trasversalmente quelle di governo.
Questa linea di frattura non ha definito stabili maggioranze parlamentari e di
governo, anche perché la Dc ha sempre cercato un’alleanza con alcuni partiti “laici”
in chiave di opposizione al comunismo.
Il sistema partitico repubblicano è stato caratterizzato anche da significative
variazioni nel seguito elettorale ed organizzativo dei partiti da una regione all'altra:
- la Dc ha avuto i suoi punti di forza in Lombardia, Veneto, Friuli e in alcune
province del Piemonte, e nel Sud (Abruzzo, Sicilia, Puglia e Basilicata);
- il Pci invece ha avuto i suoi capisaldi nelle regioni “rosse” del centro.

Questa distribuzione territoriale conferma che gli allineamenti partitici non sono stati
determinati in maniera predominante dal fattore di classe, ma da un insieme più
complesso di fattori culturali e tradizionali. Proprio in alcune delle regioni più
industrializzate e con la maggiore presenza della classe operaia, ad esempio, la
sinistra è stata assai più debole di quanto ci si potrebbe aspettare.
Merita attenzione la distribuzione territoriale della Dc: la capacità di attrarre un largo
seguito sia nelle regioni più avanzate sia in quelle meno avanzate d'Italia, che l’ha
resa fino agli anni 90 il partito più compiutamente nazionale, è stata certo un
elemento chiave del suo successo. La Dc, grazie al suo orientamento anticomunista
e al suo ruolo di governo, era riuscita negli anni iniziali della Repubblica a unire la
tradizione del movimento cattolico organizzato (forte al Nord) con la componente più
liberale della destra, che aveva nel Sud i suoi punti di forza.
Viste le profonde differenze esistenti nella vita politica e sociale tra Nord e Sud,
questo ha significato anche che all'interno del più grande partito italiano si sono
riprodotte differenze organizzative e culturali di non poco conto. Il Pci avuto invece
maggiori difficoltà ad estendere il suo seguito delle diverse parti d'Italia e la sua forza
è rimasta più concentrata e omogenea, ma anche limitata.

Ci sono alcuni importanti aspetti di cambiamento che hanno avuto luogo in questo
quadro di stabilità. Occorre sottolineare soprattutto quei cambiamenti che hanno
avuto effetti cumulativi:
- progressivo declino della forza elettorale dei due partiti maggiori, avvenuto
durante gli anni 80. Il corrispettivo di questo declino è stata la crescita degli
altri partiti e quindi anche della frammentazione;
- calo significativo della forza organizzativa di tutti i partiti tradizionali.

Anche se questo non ha significato un allentamento della loro presa sui centri di
potere pubblici e su importanti settori dell'economia (Rai, Eni, Enel, Iri, ¾ del sistema
bancario) ha però accresciuto la distanza dei partiti dalla gente comune e ha
probabilmente contribuito ad alimentare la crescente insoddisfazione verso i politici.
All'interno del “guscio” sostanzialmente stabile del sistema partitico c'è dunque stato
un indebolimento dei partiti maggiori e una generalizzata perdita di capacità di tutti i
partiti tradizionali di rappresentare efficacemente la società.

Il mutamento dei primi anni ‘90


Tra la fine degli anni 80 e l'inizio degli anni 90 si verificò un’inaspettata implosione
del sistema partitico tradizionale e con essa l’inizio di una nuova fase politica
italiana.
Il primo shock a investire intero sistema politico italiano è stato il fallimento del
sistema comunista in Europa, simboleggiato dal crollo del muro di Berlino (1989);
con esso si era aperta una difficile fase di trasformazione del Partito Comunista, che
aveva portato al cambiamento del nome (Partito democratico della sinistra) e del
simbolo (dalla falce e martello alla quercia), ma anche a una scissione dell'ala
sinistra (Rifondazione comunista) rimasta a difendere la tradizione. Questo evento
ha toccato anche il suo antagonista: nella nuova situazione il ruolo della Dc come
diga contro il pericolo di una vittoria comunista perdeva rilevanza. Paradossalmente
il problema dell'identità a veniva quindi alla ribalta con uguale forza anche per il
partito “permanente” di governo. Non è un caso che proprio in questo periodo la Dc
abbia cominciato a essere sfidata seriamente nelle sue basi di forza elettorale
dell'Italia settentrionale dei nuovi partiti e identità territoriale. In un lasso di tempo
piuttosto breve la Lega veneta quella lombarda (riunitesi nella Lega Nord),
inizialmente poco più che un fenomeno folcloristico, sono diventati una seria
minaccia agli allenamenti elettorale tradizionali nell'area ricca del paese punta la
Lega conquistava lotto, 6% del complesso dei voti in sede nazionale e un'ottantina di
seggi parlamentari in occasione delle elezioni politiche del 1992. L'impatto della
Lega Nord sul sistema politico italiano è stato profondo sia per i nuovi temi di
discussione che ha introdotto (l’identità territoriale, la secessione, il federalismo, la
protesta fiscale), sia per il linguaggio del tutto inedito che ha utilizzato: rispetto al
tradizionale discorso politico, sofisticato e piuttosto critico, tipico di una classe
politica dedita a schermaglie tattiche e piuttosto distante dal pubblico, la Lega ha
diffuso un linguaggio popolare e rode, con risvolti ed espressioni volgari. Anche
questo linguaggio innovativo ha contribuito probabilmente al rapido radicamento del
nuovo partito soprattutto nella provincia dell’Italia settentrionale.

Questo periodo ha visto anche i media sfidare più apertamente la classe politica di
governo, denunciandone la corruzione e criticandone l’incapacità di affrontare i
problemi del Paese e di decidere. Contemporaneamente ha acquistato un seguito
crescente l'idea che il sistema politico richiedesse una vera riforma istituzionale
mentre è aumentata la sfiducia nella disponibilità e capacità della classe politica nel
produrre i cambiamenti necessari. Occorre ricordare che il largo consenso intorno
alla necessità di riformare alcune delle regole centrali del gioco politico ha
rappresentato un mutamento significativo rispetto all’orientamento prevalente negli
anni 70, la Costituzione del 1948 era stata oggetto di una sorta di “mitizzazione” e
presentata come il terreno d'incontro per il riavvicinamento tra Dc e Pci, dopo le
tensioni degli anni precedenti. In quel momento era stata percepita come intoccabile,
così come il sistema elettorale proporzionale, che pur non essendo regolato da una
legge di rango costituzionale, era stato a lungo una sorta di tabù politico. Ma dopo il
fallimento dell'impresa tra Dc e Pci il tema della riforma costituzionale (cioè della
riforma costituzionale e del sistema elettorale) era stato posto al centro dell'agenda
politica dal leader politici emergenti come il socialista Bettino Craxi e il democristiano
Ciriaco De Mita. Il tema aveva quindi dominato la discussione pubblica degli anni 80
ed era stato largamente accreditato come una necessità, ma la classe politica
tradizionale aveva fallito nel dare una risposta.

Questa situazione ha dato spazio a un’iniziativa popolare volta almeno a cambiare la


legge elettorale. L'opinione pubblica aveva largamente assorbito le critiche mosse
alla legge elettorale proporzionale, associata a un sistema partitico molto
frammentato e oramai considerata incapace di offrire agli elettori la possibilità di
esercitare una scelta chiara per il governo. Un altro aspetto che veniva largamente
criticato era il voto di preferenza, visto come un fattore di frammentazione all'interno
dei partiti e fonte di corruzione: i candidati dello stesso partito erano infatti spinti a
entrare in competizione presso interessi organizzati e sezionali per ottenere le
risorse necessarie alla loro campagna elettorale. La proposta di un referendum sul
sistema elettorale, avanzata da una coalizione trasversale e composta da leader
marginali rispetto all’establishment partitico e sostenuta da una larga parte della
stampa, riuscì a mobilitare un sostegno popolare sufficientemente largo da essere
ammessa. Un primo referendum per ridurre il numero dei voti di preferenza fu
ottenuto nel 1991 e ottenne un successo clamoroso. Il risultato aprì la strada alla
raccolta di firme per un secondo referendum che attaccava i meccanismi centrali
della legge elettorale del Senato. Anche questa campagna referendaria fu un
successo e il referendum fu messo in agenda nel 1993.

Prima del secondo referendum un altro momento cruciale per il processo di


cambiamento sono state le elezioni politiche del 1992 che evidenziarono il declino
della Dc (la soglia scese, per la prima volta, sotto il 30%), e l'ascesa della Lega, che
raggiunse l’8,7% dei voti, diventando così il quarto partito. Il Psi manteneva
sostanzialmente intatta la sua forza, mentre il Pds, il principale successore del Pci,
otteneva un risultato insoddisfacente. si possono notare ulteriori elementi di
cambiamento. Nelle regioni del Nord la Lega diventava il secondo partito
minacciando la posizione di leadership della Dc. Per questo partito, che nelle regioni
meridionali aveva mantenuto un seguito costante, le perdite nel Nord erano molto
serie. Tali risultati erano il segnale che il partito di maggioranza relativa stava
perdendo il contatto con la parte più dinamica del paese e stava diventando un
partito meridionale.

Dopo le elezioni del 1992 la crisi della partitocrazia subì un'accelerazione imprevista
con l'entrata in gioco dell'altro fattore decisivo: la campagna giudiziaria contro la
corruzione. All'inizio degli anni 90 il clima dell'opinione pubblica e dei media era
diventato molto più militante e l'azione del giudiziario si trasformò rapidamente nella
messa in stato d'accusa del ceto dirigente dei partiti di governo.

Contemporaneamente, decollava la nuova campagna referendaria per il


cambiamento del sistema elettorale, che testimoniava ulteriormente la disaffezione
dell'opinione pubblica per l'aspetto esistente del sistema partitico. Il voto popolare
del 1993 fu di nuovo un “Sì” per l'abolizione del sistema proporzionale. Di fronte a
questo risultato il Parlamento non ebbe altra opzione che seguire l'indicazione
referendaria, introducendo sistema misto-maggioritario.
Nei mesi cruciali, tra il giugno 1992 e il gennaio 1994, i partiti tradizionali di governo
si sono visti sottoporre ad un attacco convergente da diverse direzioni (dalla Lega,
dal movimento referendario, dall’opinione pubblica e dai media), mentre la loro
leadership veniva portata in giudizio (in alcuni casi anche in carcere preventivo) per
rispondere dei reati di finanziamento illegale e di corruzione. I tentativi di autoriforma
dei vecchi partiti di governo sono sostanzialmente falliti dando luogo a scissioni ed a
un esodo di parti importanti della classe dirigente di medio e alto livello.In particolare,
la Dc si imbarcava in un difficile ripensamento della propria identità, che finì nel
gennaio 1994 con una scissione dell'ala destra andata a formare un nuovo partito, il
Centro cristiano democratico (Ccd). Il Psi, dopo aver perso il suo leader Craxi,
cambiava in rapida successione vari segretari, mettendo in luce la profondità di una
crisi senza soluzione. Il terremoto politico aveva dunque sconvolto il vecchio sistema
partitico italiano aprendo la strada a un nuovo periodo, la Seconda repubblica.

Dalla svolta del 1994 al quasi bipartitismo


Il risultato delle elezioni anticipate del 1994, indette appena fu licenziata la nuova
legge elettorale, scatenò una drastica ristrutturazione del sistema partitico.
Il nuovo panorama politico che ne era uscito presentava una combinazione inedita
di vecchi partiti in cerca di una ridefinizione della propria identità per sfuggire ai
problemi riscontrati precedentemente, e di nuovi partiti che tentavano di sfruttare la
crisi dei vecchi. Tra i vecchi partiti il Pds aveva avviato il suo rinnovamento prima
degli altri e non era stato troppo colpito dall'azione della magistratura. Il suo
principale competitore sulla sinistra, il Psi, era stato messo fuori gioco dagli scandali.
Con un sistema elettorale prevalentemente maggioritario l'interrogativo principale era
se sarebbe stato capace di superare la tradizionale diffidenza degli elettori di centro
e di convincerli a votare per candidati di sinistra. Il partito doveva inoltre affrontare
una nuova e insidiosa competizione sulla sua sinistra a seguito della scissione di
Rifondazione comunista (Rc).
All'altro estremo dello schieramento politico, l’Msi, anch’esso non toccato da
problemi giudiziari, era pronto a rinnovare la propria immagine sostituendola con
quella più moderata di Alleanza Nazionale (An), e ad annacquare il proprio richiamo
al passato regime. In questo modo, il partito di destra sarebbe potuto uscire dalla
sua condizione di marginalità politica.
La questione politica più grave si poneva per la Dc e i suoi alleati di governo. A pochi
mesi dalle elezioni del 1994 lo scenario politico mostrava una situazione
relativamente chiara a sinistra, dove una larga alleanza guidata dal partito maggiore,
il Pds, e che includeva Rc, Verdi, Ad (Alleanza Democratica) e altri gruppi minori,
sembrava avere buone possibilità, in una competizione maggioritaria, di prevalere
sui settori più frammentati del centro e della destra.
Questo quadro, tuttavia, sarebbe stato presto trasformato dalla apparizione sulla
scena di un nuovo attore, Silvio Berlusconi, uno degli imprenditori più ricchi d'Italia,
che negli anni 80, grazie anche all'appoggio dei socialisti e di alcune correnti
democristiane, aveva sfidato il monopolio pubblico della televisione creando un
impero dei media. Berlusconi lanciava il suo movimento politico, adottando come
nome Forza Italia, il grido di incitamento dei tifosi della squadra di calcio nazionale.
Al centro della sua piattaforma politica c'era l'appello elettorale, rivolto a tutti i filoni di
centro e di destra dell'opinione pubblica, a unirsi sotto la sua guida per impedire
l'ascesa al potere dei post-comunisti, difendere il mercato contro le prevaricazioni
dello Stato e ridurre le tasse. Tra gli obiettivi del magnate televisivo c'era
naturalmente anche quello di proteggere la sua azienda dalle minacce di norme più
stringenti sulla concorrenza nel mondo dei media. Berlusconi e il suo movimento si
rivelarono particolarmente abili (grazie anche alle risorse disponibili) nel far
convergere una gran parte del centro e della destra, ma anche porzioni del vecchio
Psi, in un nuovo cartello elettorale. Berlusconi abbandonò il progetto di un unico
fronte comprendente le destre e i partiti centristi, e optò per un'alleanza con i due
partiti emergenti sul versante di destra, cioè lega e An. Tuttavia, dal momento che
queste due forze, una orientata al forte decentramento territoriale, l'altra con una
piattaforma centralistica e nazionalistica, non erano disposte a stabilire tra loro
un'alleanza formale, Forza Italia costruì due diverse alleanze, una al nord con la
Lega (il Polo delle libertà), e una al centro e al Sud con An (il Polo del buon
governo).
Il sistema partitico si presentava quindi articolato intorno a tre poli: un polo di sinistra
dominato dal partito post-comunista, un polo di centro costituito dal principale partito
post-democristiano, il Ppi, e dal nuovo partito di Segni, e un polo di destra con Forza
Italia, la Lega, An e il più piccolo dei partiti post-democristiani, il Ccd. Fu presto
chiaro che la competizione sarebbe stata dominata dal duello tra Berlusconi e la
gioiosa macchina da guerra della sinistra.
Per la prima volta dal 1946 il partito democristiano non era la forza principale da
sfidare e la sinistra sembrava in grado di poter vincere, a fronte di una coalizione di
destra costruita in due mesi e imperniata su rapporti non facili. Il risultato elettorale
sorpresa gli osservatori e dette una nuova forma al sistema partitico. La destra
ottenne una vittoria inattesa, in particolare le elezioni si rivelarono un grande
successo personale per Berlusconi e per il suo partito appena nato.
Quello del 1994 era sicuramente un nuovo sistema partitico: tutti gli attori tradizionali
della prima repubblica, avevano mutato i propri nomi e ridefinito la propria identità e
avevano subito importanti scissioni. I risultati avevano reso chiaro che: la sinistra da
sola non era ancora in grado di vincere una maggioranza parlamentare; solo
tentando un'alleanza con una parte del centro le sue possibilità sarebbero diventate
più realistiche; il centro scopriva che per superare le forche caudine del sistema
elettorale maggioritario e sopravvivere come forza parlamentare doveva accettare
un accordo di coalizione, guardando alla propria sinistra o a destra; in nessuno dei
due casi peraltro sarebbe stato la forza dominante come nel passato; la destra
mostrava di poter formare una maggioranza, solo portando nello stesso campo la la
conservatrice della vecchia Dc, la Lega e An.
Contrariamente alle previsioni dei promotori dei referendum elettorali, la tradizionale
frammentazione del sistema partitico italiano non si era ridotta, anzi era cresciuta, è
la somma dei due partiti maggiori ( indice di bipartitismo), nonostante l'exploit di
Forza Italia, mostrava il valore più basso dell'intero dopoguerra. Allo stesso tempo il
sistema partitico acquistavano struttura più nettamente bipolare. A differenza del
passato, quando tutto ruotava intorno al partito centrale e non era possibile una vera
alternanza al governo, il nuovo sistema partitico risultava caratterizzato da una
competizione bipolare tra destra e sinistra (tra una coalizione di centro-destra e una
di centrosinistra).
Le elezioni successive al 1994 hanno evidenziato l'indebolimento del polo centrale e
soprattutto la variabilità della sua composizione: nel 1996 la Lega ha mantenuto le
posizioni grazie alle sue roccaforti elettorali. Nel 2001 Democrazia europea (De) e
Italia dei valori (Idv) hanno fallito l'obiettivo di entrare in Parlamento, mentre
l'adozione del sistema elettorale proporzionale corretto ha favorito l'abbandono di
strategie autonomistiche da parte dei partiti centristi. Dunque fino al 2006, il polo di
centro era diventato una sorta di “area di parcheggio” per leader e gruppi che non
avevano ancora deciso la propria collocazione e cercavano di capitalizzare sul fatto
che, non potendo vincere una rappresentanza parlamentare significativa, potevano
almeno influire negativamente sulle possibilità di vittoria di una o dell'altra coalizione.
Questo gioco è stato particolarmente chiaro nel caso della Lega che, dopo aver
lasciato il Polo delle Libertà alla fine del 1994, è riuscita a mostrare, correndo da sola
nel 1996, come questa alleanza non potesse vincere senza la sua collaborazione. E
ha potuto così alzare, alla tornata elettorale successiva, il prezzo della sua adesione.
Le elezioni del 9-10 aprile 2006 saranno ricordate per un esito incredibilmente certo:
la vittoria finale della coalizione di centro-sinistra guidata da Romano Prodi è stata
decisa alla Camera da uno scarto di soltanto 24000 voti, tuttavia sufficienti affinché
la coalizione ottenesse, in forza del sistema elettorale appena varato, il premio di
maggioranza in quel ramo del Parlamento. Al Senato, invece, nonostante un numero
complessivo di voti inferiore alla coalizione avversa, lo stesso centro-sinistra ha
ottenuto una risicatissimo maggioranza di soltanto due senatori, grazie al gioco dei
“premi regionali di maggioranza” e al buon risultato del cartello dell'Unione nella
circoscrizione per gli italiani all'estero.
Ci si è chiesti a lungo se quella fosse stata una vittoria di Prodi e della sua coalizione
oppure una (quasi) vittoria dello stesso Berlusconi, capace di recuperare con un
efficace sprint finale il vantaggio accumulato da Prodi durante la lunga maratona
elettorale. Sicuramente, Prodi non aveva vinto con un margine sufficiente per
governare una coalizione così complessa. Altrettanto sicuramente, Berlusconi
poteva uscire dalla sua (seconda) sconfitta nei confronti del professore bolognese
con una rinvigorita fama di “condottiero”. Tuttavia, una seconda risposta possibile è
che l'Italia in tutti questi anni, sia rimasta davvero divisa come mostra anche il
risultato nettamente favorevole al centro-destra di soli 2 anni dopo, successivamente
alla nuova caduta anticipata di Prodi per l'eccessiva litigiosità della sua coalizione. In
quella occasione, mentre la bipolarizzazione quasi perfetta del 2006 veniva
leggermente ridimensionata ( a causa della decisione di Casini e della sua Udc di
non seguire ancora Berlusconi), l'indice di bipartitismo si impennava al valore più alto
di sempre, grazie alla scelta dei partiti protagonisti del ventennio della Seconda
repubblica diffondersi in due partiti a vocazione maggioritaria: Il Popolo della Libertà
(Pdl) di Berlusconi e il Partito Democratico (Pd) di Veltroni.
Questo stato di cose, definito un bipolarismo limitato, ha rappresentato un nuovo
importante punto di approdo, restituendo un esito elettorale mai raggiunto sotto
forma di decisività delle elezioni, ma non ha scardinato il sistema delle preferenze
emerso sin dai primi anni della Seconda repubblica.

La nuova crisi del sistema partitico: 2011-2015


Uno studio più approfondito ha recentemente analizzato in prospettiva storica 4
dimensioni di mutamento del sistema partitico: si tratta delle dimensioni della
continuità identitaria e organizzativa di partiti, misurata con un apposito tasso di
innovazione effettiva, del modello di competizione, misurato con l'indice di
bipolarismo, della stabilità del comportamento, misurata con lo strumento della
volatilità elettorale e del livello di nazionalizzazione del moto. Ebbene, nel 2013,
almeno tre di questi indicatori hanno subito un brusco cambiamento, con l'aumento
dell'innovazione partitica, la diminuzione del bipolarismo e la misura record della
volatilità.
Altri aspetti confermano una fase di profondo mutamento, come le novità apportate
al livello di discussione pubblica e nella valenza specifica di alcune issues un tempo
non così di visive, che invece oggi determinano una forte polarizzazione tra gli
elettori. L'Europa (l’appartenenza all’Euro, il potere della Banca centrale europea,
ecc.) ha costituito un tema di forte divisione durante la campagna elettorale del
2013. E la divisione non era tanto sull’asse destra-sinistra, quanto tra partiti moderati
e quelli radicali (la Lega e i Fratelli d’Italia a destra e Sel a sinistra) all’interno delle
stesse coalizioni. Il M5s si aggiungeva alla lista degli oppositori radicali, con le prove
dure posizioni su moneta unica e istituzioni europee, e aggiungeva una preferenza,
sia pure talvolta ambigua, non lontana dalla xenofobia della Lega Nord, su un altro
tema divisivo come l'immigrazione.
Nei due anni successivi alle elezioni del 2013, l'instabilità partitica non si è mai
arrestata. Il nuovo Pd di Renzi è l'emblema di tale fluidità: per un verso esercita un
notevole potenziale di attrazione su entrambi i suoi lati, catturando parlamentari dalla
sinistra radicale e dal centro; per altro verso subisce miniscissioni e clamorose
defezioni come quelle di alcuni leader della minoranza interna.
Questi dati ci dicono qualcosa sullo stato delle diverse componenti del sistema
partitico in divenire:
- il Pd, pur soffrendo per qualche abbandono, ha un saldo molto positivo di
attrattività;
- la sinistra radicale e il M5s pagano la vulnerabilità del proprio ceto politico;
- i tentennamenti di Berlusconi, e anche la sua forzata assenza dal Parlamento
per l'annullamento della sua elezione a seguito di una condanna giunta nel
2014, altro evento che ha ulteriormente scosso il quadro post-elettorale,
rende molto vulnerabile il principale gruppo di centrodestra;
- l'esatto opposto accade alla Lega Nord, che dopo i guai dell'ultima stagione
della leadership di Bossi, trova in Salvini un leader forte attivo, che traghetta il
partito verso una posizione più di destra, incontrando un ottimo riscontro nei
sondaggi. Proprio Salvini deve tuttavia competere con Grillo e anche con i
leader minori della destra per l'ormai ampio pubblico che si riconosce
nell’euroscetticismo e nella polemica antipolitica.

I partiti italiani alla ricerca di un nuovo equilibrio: le novità del


sistema partitico
Il quarto sistema partitico dell'Italia unitaria, emerso dopo la fase critica (1994-1996)
e assestatosi tra il 2001 e il 2008, ha portato novità come la scomparsa della Dc, e il
successo della Lega, quello evidente di Forza Italia, e la nascita del Pd.
La causa più plausibile del collasso della Dc, uno dei pochi casi nella politica
europea di crisi improvvisa e totale di un partito di prima grandezza, deve essere
trovata nel carattere profondamente frazionalizzato che il partito democristiano
aveva acquisito. Invece di produrre un leader capace di guidare il partito sulla strada
di un difficile rinnovamento, molti esponenti ex democristiani hanno trovato più facile
staccarsi lungo le linee di corrente e dare luogo a una sorta di diaspora, che ha
generato vari partiti(ni).
Il successo della Lega Nord, in particolare nelle aree provinciali del Nordest, ha
mostrato quale fosse il livello di insoddisfazione di questo ambiente sociale nei
confronti della politica nazionale e della burocrazia statale centrale. Con la sua
retorica anticentralistica il partito di Bossi ha offerto a questa parte del paese uno
strumento efficace di protesta. Fino alla svolta operato da Salvini, naturalmente, ciò
ha comportato l'impossibilità per la Lega di trovare un seguito significativo in molte
regioni, specialmente nel Sud, l'area più dipendente materialmente e culturalmente
dagli aiuti dello Stato centrale. La conseguenza non è stato l'affermarsi, per la prima
volta in Italia, di un partito abbastanza grande non legato a una minoranza etnica ma
con una base territoriale circoscritta. Se la Lega ha oscillato tra la proposta più
moderata di una trasformazione federale dello Stato italiano e quella più estremista
di una secessione delle regioni del Nord per costruire lo “Stato padano”, alla fine tutti
i partiti hanno dovuto prendere posizione su questo tema.
Quanto a Forza Italia, è stato forse l'attore partitico che ha introdotto i maggiori
elementi di innovazione, per la sua natura di nuovo catch-all party di governo e per
la dinamica che ha impresso al sistema partitico partitico. Il ruolo di fondatore del
partito e di suo leader incontrastato assunto da un imprenditore economico ha
rappresentato qualcosa di nuovo e di scioccante per la tradizione politica italiana.
Benché l'elite del partito berlusconiano sia diventata negli anni un popoloso ceto di
politici di professione, la propaganda di Forza Italia e il suo leader hanno sempre
sottolineato la loro distanza rispetto ai modelli tradizionali di partito. Con le sue
strategie coalizionali Forza Italia ha anche contribuito al bipolarismo consolidatosi
fino al 2008: in concorrenza con gli altri partiti successori della Dc, il partito di
Berlusconi ha definito la sua identità molto più chiaramente come quella di un partito
di destra e alternativo alla sinistra, anche facendo ampio uso di una retorica
anticomunista che la bici aveva negli ultimi anni abbandonato. Inoltre, ha sottolineato
l'immagine di un partito più nettamente schierato a difesa del settore privato e contro
lo strapotere del sindacato e l'invadenza dello Stato. Forza Italia ha anche dato
prova di non essere un fenomeno così transitorio. Berlusconi è riuscito a recuperare
anche dopo il crollo di popolarità che ha fatto seguito alle sue vicende personali e
giudiziarie negli anni della crisi.
Il Pd segna un altro significativo tassello di rinnovamento. La sua nascita, nel 2008,
sotto la guida di Walter Veltroni, ha segnato la definitiva presa d'atto della necessità
per la sinistra di cercare una strutturale convergenza con la parte più progressista
del centro al fine di costruire un partito in grado di sostenere il confronto della destra.
La vocazione maggioritaria è presto sfumata, per lasciare il posto a una strategia di
faticosa costruzione di coalizioni, alla quale neanche un leader come Renzi,
sicuramente decisionista e capace di presidiare un vasto spazio politico, non sembra
potersi sottrarre.

Le novità nelle organizzazioni partitiche


La minaccia antipolitica e l'apatia galoppante sono state esorcizzate con una varietà
di pratiche. Se la sinistra alternativa ha cercato di assorbire le esperienze
movimentistiche del circuito no global, le proteste spontanei come i girotondi e la
destra (soprattutto oggi la Lega Nord) propone l’ascolto di altre “reti” e
associazionismi, come i forconi o i movimenti spontanei contro gli insediamenti Rom,
i partiti più moderati cercano di avvalersi di un mix di strumenti vecchi e nuovi (dalla
“festa di partito” alle piattaforme di partecipazione dei giovani e degli iscritti, ecc.)
nuovi. Non esiste un modello di partito oggi vincente.
Tuttavia, in questi anni ci sono stati anche elementi unificanti tra i vari partiti.
Un ruolo molto più marcato è stato assunto ovunque dalla figura del leader.
Le vicende personali, i successi e gli insuccessi dei leader si ripercuotono sulla vita
dei partiti, introducendo un elemento di maggiore imprevedibilità. Tutti i partiti,
inoltre, hanno semplificato il proprio linguaggio (anche per l’uso obbligatorio dei
social network) e hanno accettato forme organizzative più “leggere”, non solo per la
necessità di ovviare al declino delle risorse finanziarie, ma anche per mostrare la
precisa volontà di razionalizzare il costo della politica.
Da un altro punto di vista i partiti hanno mantenuto, e per qualche verso accresciuto,
un ruolo tradizionale. In un sistema politico, diventato più competitivo e nel quale
maggioranze di governo che si alternano hanno acquisito una certa forza in
parlamento, i partiti che compongono queste maggioranze hanno maggiori
opportunità di perseguire i propri obiettivi di policy. La fase della Prima repubblica
aveva mostrato partiti impegnati perlopiù nella difesa statica delle prove identità
ideologiche, ma non necessariamente decisivi dello svolgimento delle politiche
pubbliche. Nella Seconda repubblica i partiti hanno mostrato di poter essere dei
dinamici innovatori di policy. I nuovi partiti, dunque, devono ancora dimostrare di
saper compiere questa “missione”.

CAPITOLO 5. Il difficile processo di rafforzamento


del governo
Il governo nella tradizione costituzionale italiana
L'istituzione governo ha trovato in Italia una menzione esplicita ed una dettagliata
regolamentazione nel testo fondamentale soltanto nel 1948. Il gabinetto, prodotto
tipico della forma parlamentare di governo, era venuto in esistenza de facto e come
risultato indiretto della nuova situazione politica e della costellazione di forze
politiche generata dall'applicazione dello Statuto Albertino, piuttosto che con una
conseguenza de iure dalla Costituzione concessa dal re Carlo Alberto.
L'Assemblea Costituente ebbe come obiettivo la definizione precisa della posizione
dell'esecutivo rispetto alle altre istituzioni politiche centrali, anche con l'obiettivo di
prevenire le grandi oscillazioni che esso aveva sperimentato durante il periodo dello
Statuto. Il tentativo di precisare, attraverso le norme costituzionali, la posizione e il
funzionamento del governo all'interno del sistema politico fu tuttavia raggiunto solo in
parte, a causa di due fattori principali: 1. anche i costituenti italiani erano preoccupati
delle esperienze passate che non desideravano ripetere, ma non erano in grado di
prevedere i problemi del futuro. Non potevano immaginare quale impatto avrebbe
avuto un nuovo sistema partitico sulla struttura e sul funzionamento delle istituzioni
democratiche da loro disegnato; 2. sulla questione del governo, il compromesso
raggiunto nell'Assemblea Costituente tra visioni assai diverse delle istituzioni e della
democrazia portò inevitabilmente a formulazioni del testo costituzionale non molto
cogenti.
Affinché la natura e il ruolo del governo in un sistema politico siano definiti devono
ricevere risposta 3 tipi di domande:
1 - la definizione della figura del capo dello Stato e delle relazioni tra questo e il
governo, la legittimazione democratica del governo stesso e il processo attraverso il
quale il governo si forma;
2 - la struttura interna dell’istituzione governo e più in particolare la relazione tra le
componenti individuali, cioè i ministri, e il governo come entità collettiva, e la
relazione tra il capo del governo e gli altri ministri (capire, cioè, se tra questi soggetti
venga prevista una gerarchia oppure prevalga l’uguaglianza di status);
3 - il ruolo del governo nel processo di policy making e in particolare le sue relazioni
con il Parlamento nel procedimento legislativo.
Le risposte che i costituenti del 1948 diedero a queste domande sono state per lo
più vaghe e ambigue; la Costituzione, anziché fornire soluzioni ben definite, esprime
piuttosto compromessi aperti a differenti interpretazioni.

Il capo dello Stato


La Costituzione ha stabilito che il Presidente della Repubblica venga eletto dal
Parlamento. Il Presidente della Repubblica viene definito “simbolo dell'unità
nazionale” e il profilo che gli è stato assegnato è tendenzialmente quello dell'arbitro.
Deve quindi essere eletto con un voto segreto da Camera e Senato in seduta
comune e da tre rappresentanti di ogni Consiglio regionale (uno per la Valle
D’Aosta). Per favorire un largo accordo, per le prime tre votazioni viene richiesta la
maggioranza dei due terzi dei votanti, dopo di che è sufficiente la maggioranza
assoluta. La durata del mandato di 7 anni è stata concepita per evitare la
coincidenza tra mandato parlamentare (ed eventualmente di governo) e
presidenziale, e per slegare il presidente dalle cadenze elettorali. La diversa durata,
pertanto, ha fatto sì che le elezioni del Capo dello Stato si siano tenute lontano
dall'inizio delle legislature, in contesti politici diversi tra loro.
Le vicende relative alle ultime due elezioni presidenziali mostrano il mutevole clima
politico che ha connotato questo rituale anche nel corso della XVII legislatura: nel
2013 la maggioranza di centro-sinistra ha deciso, dopo una lacerante divisione
interna seguita al tradimento di almeno un centinaio di grandi elettori del PD che nel
segreto dell'urna fecero mancare il proprio voto al candidato unitario, Romano Prodi,
di ricandidare il presidente uscente Giorgio Napolitano, creando così il precedente di
una conferma al Quirinale. Nel 2015 un ulteriore evento inedito è stato costituito
proprio dalle dimissioni di Napolitano il quale, accettando all'età di 88 anni il difficile
ruolo di traghettatore istituzionale, aveva anticipato la volontà di rimanere in carica
soltanto fino all'approvazione della legge elettorale, passo necessario per uscire
dallo stallo istituzionale. Il nuovo capo dello Stato, Sergio Mattarella, è stato eletto al
quarto scrutinio da un fronte coerente con la maggioranza governativa, questa volta
sufficientemente blindata dal premier di turno Matteo Renzi.
Le funzioni del Presidente (art.87 Cost.) mettono il capo dello Stato nelle condizioni
di esercitare un'influenza cruciale per assicurare il regolare funzionamento delle
istituzioni democratiche. In questa prospettiva sono di particolare rilievo i seguenti
poteri:
1. nomina del capo del governo e dei ministri;
2. scioglimento anticipato del parlamento;
3. convocazione delle elezioni;
4. autorizzazione alla presentazione delle leggi al parlamento da parte del
governo;
5. rinvio al parlamento delle leggi per una nuova approvazione;
6. promulgazione delle leggi;
7. invio di messaggi al parlamento;
8. nomina di un terzo dei membri della Corte Costituzionale;
9. presidenza del Consiglio superiore della magistratura.

Anche prima della fase che qualcuno ha definito quasi-semipresidenziale dell'era


Napolitano, rimarcando soprattutto il ruolo del presidente nel processo di formazione
del governo tecnico durante la crisi economica ((2011), questi poteri sono stati
utilizzati in modo molto difforme, anche a seconda delle personalità dei titolari del
Quirinale.

Il governo
Il disegno costituzionale del 1948 stabiliva che il governo dovesse avere il sostegno
esplicito del Parlamento; pertanto, una volta che è stato nominato e ha giurato di
fronte al Capo dello Stato, il governo deve ottenere un voto di fiducia collettivo da
ciascuna delle due camere con un voto nominale e palese. Simmetricamente, il
gabinetto dovrà dimettersi nel caso di un voto di sfiducia di uno qualsiasi dei due
rami del Parlamento. Le regole costituzionali prevedono dunque che il Governo
debba godere di una maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, optando quindi
per un regime piuttosto rigoroso di dipendenza del governo dal Parlamento (o dalla
maggioranza parlamentare) e dunque lasciando poco spazio a esperimenti di
governi di minoranza. Per bilanciare il potere del Parlamento, la Costituzione ha
introdotto alcune limitazioni alla presentazione e discussione delle mozioni di
sfiducia: queste devono essere sottoscritte da almeno un decimo dei membri di una
camera e, una volta presentate, possono essere messe ai voti solo dopo tre giorni.
Per quanto riguarda la struttura del governo, la Costituzione non ha scelto
chiaramente tra un modello collegiale, primoministeriale o dell'autonomia
ministeriale, ma ha introdotto elementi di ciascuno dei tre.
- Da un lato attribuisce uno status speciale al presidente del Consiglio: spetta
infatti a lui proporre i nomi dei ministri al Capo dello Stato, coordinarne
l'azione e guidare le iniziative di policy del gabinetto.
- Dall'altro, tuttavia, queste facoltà non annullano il carattere collegiale del
gabinetto; è infatti il governo nel suo insieme, e non il presidente del consiglio
da solo, a ricevere il voto di fiducia.
- Sulla scelta tra collegialità del gabinetto e individualismo ministeriale la
Costituzione sembra prima propendere per un modello collegiale coordinato
dal presidente del Consiglio stabilendo esplicitamente principio della
responsabilità collegiale dei ministri. Subito dopo, però, introduce una non
ben definita responsabilità individuale dei Ministri per quel che riguarda le
questioni relative ai loro ministeri. La cosa più importante è che la
Costituzione non prevede specifici strumenti per disciplinare i ministri, in
particolare non fa menzione alcuna di un potere del capo del governo di
licenziare ministri.
- Quanto al potere di scioglimento del Parlamento è stato posto nelle mani del
Capo dello Stato e il governo ha al massimo il potere di chiederlo, ma non ha
alcun ruolo speciale in questo procedimento.
- Infine, per quel che riguarda il processo legislativo, la Costituzione
attribuisce: alcuni privilegi al governo, il più importante dei quali è il potere di
emanare decreti legge che hanno effetti immediati, con l'unica condizione di
dover essere ratificati dal Parlamento entro 60 giorni altrimenti perdono la loro
validità e gli effetti; però, riconosce sia al governo sia ai singoli parlamentari lo
stesso potere in materia di iniziativa legislativa ordinaria e li sottopone alle
stesse procedure.
La gran parte dei tratti peculiari della forma di governo italiana e dell'assetto
dell'esecutivo non traggono origine dagli articoli della Costituzione ma piuttosto da
una serie di fattori politici che, in assenza di previsioni normative costituzionali
vincolanti, sono stati in grado di orientare le pratiche di governo. Si può dire dunque
che il quadro costituzionale italiano è stato di tipo “permissivo”, piuttosto che di tipo
“canalizzante”, rispetto ai fattori e agli attori politici.
Negli ultimi 15 anni il disegno di una grande riforma delle istituzioni di governo è
stato ripreso in varie versioni dalle coalizioni che si sono succedute. Nel 2005 il
governo di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi riuscì a far passare in
Parlamento una profonda riforma costituzionale che prevedeva il passaggio a un
sistema di governo del premier, rafforzando i poteri del capo del governo e
vincolandolo alla sola fiducia della Camera. Il referendum confermativo dell'anno
successivo bocciò tuttavia la riforma.

Cicli di coalizione e caratteri strutturali del governo


Dalla ripresa della democrazia dopo il fascismo fino ai primi anni ‘90 quattro aspetti
fondamentali hanno caratterizzato l'esecutivo italiano:
1 - assoluta prevalenza dei governi di coalizione (tutti includenti la Dc come partito
maggiore);
2 - alternanza molto limitata tra i partiti che hanno fatto parte del governo;
3 - durata breve dei gabinetti;
4 - debolezza della figura del presidente del Consiglio.

Dopo il 1994, con la nuova fase politica, importanti trasformazioni hanno interessato
l’esecutivo sebbene l'assetto costituzionale non abbia subito modifiche. Gli aspetti
più significativi di innovazione sono: la piena alternanza al governo tra coalizioni
distinte è diventata una proprietà del sistema; il presidente del Consiglio ha visto un
significativo rafforzamento del proprio ruolo; la durata dei governi è sensibilmente
accresciuta.
Il cambiamento del sistema elettorale e la profonda ristrutturazione del sistema
partitico sono stati i principali fattori alla base di questi mutamenti, anche se non
deve essere dimenticata l'importanza di fattori esterni come il processo di
europeizzazione.

La formazione dei governi nella Prima repubblica


Data la natura frammentata del sistema partitico, la formazione dei governi ha
sempre comportato la costruzione di una coalizione punto fino al 1992 questo
processo a seguito un modello abbastanza stabile, mentre dopo il 1994 ha preso
una strada diversa.
Nel primo periodo la formazione delle coalizioni è avvenuta dopo le elezioni e le
alleanze di governo si sono costituite essenzialmente per aggiunta di altri partiti al
partito di maggioranza relativa. Secondo la terminologia sartoriana il processo di
formazione dei governi è stato caratterizzato da un'alternanza periferica, invece che
da una piena alternanza: soltanto i piccoli partiti del centrosinistra o del centrodestra
sono entrati e usciti dalle maggioranze. Questa situazione nasceva dal fatto che il
Pci non era mai stato considerato un accettabile partner di governo (almeno a livello
centrale) e che questo partito sarebbe stato indispensabile per poter costruire una
maggioranza alternativa a quelle guidate dalla Dc.
La scelta della persona incaricata di formare il governo veniva tradizionalmente
presa dal Presidente della Repubblica dopo avere svolto consultazioni con i leader di
tutti i partiti per accertare quale coalizione fosse in un dato momento possibile e chi
fosse in grado di guidarla. Visto il ruolo centrale della Dc nel sistema politico, per un
lungo periodo è stato un fatto scontato che il capo dello Stato designare come
presidente incaricato un esponente di quel partito. La prima scelta era quindi il
risultato di una competizione interna alla Dc, influenzata anche dalle preferenze degli
altri partiti della coalizione. Dagli anni 80 la Presidenza del Consiglio non è stato più
bottino di guerra della Dc. Si è affermata infatti una sorta di “regola dell'alternanza”
tra il partito maggiore della coalizione e gli altri partiti, seppure non senza discussioni
e tensioni: Giovanni Spadolini (Pri), Bettino Craxi e Giuliano Amato (Psi) si sono
alternati con i democristiani Francesco Cossiga, Arnaldo Forlani, Amintore Fanfani,
Giovanni Goria, Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti.
Davanti alle criticità che impedivano agli attori partitici di trovare una soluzione il
Presidente della Repubblica ha potuto far valere le proprie scelte. Una volta
nominato, toccava poi al presidente del Consiglio condurre negoziati con i potenziali
partner coalizionali per definire la piattaforma programmatica e la composizione del
governo. Se il negoziato falliva il capo dello Stato conduceva uno o più nuovi giri di
consultazioni per arrivare ad attribuire un nuovo incarico.
Per quanto riguarda la composizione e la base politica del governo le principali
alternative sono state le seguenti:
1. governi di coalizione organica con assegnazione dei posti ministeriali a tutti i
partiti della maggioranza parlamentare; questa soluzione è stata adottata più
di frequente nelle fasi in cui è stato possibile costruire un'alleanza abbastanza
solida e stabile tre partiti governo;
2. governi monopartitici o di coalizione con il sostegno esterno di uno o più partiti
necessari per garantire una vera maggioranza in Parlamento;
3. governi di minoranza, cioè governi monopartitici o di coalizione senza una
vera maggioranza in Parlamento, ma in grado di contare sull’astensione di
altri partiti; queste ultime due soluzioni (2 e 3) sono state utilizzate come
strumento di transizione quando non poteva essere raggiunto un accordo
pieno e pubblico tra i partner di un'alleanza tradizionale oppure tra quelli di
una nuova in via di elaborazione, e quando uno o più partiti preferivano dare
al governo un sostegno meno visibile e non impegnarsi in una collaborazione
formale al governo;
4. governi per gli affari correnti che non hanno ottenuto una maggioranza in
Parlamento; questa soluzione è stata adottata in seguito all' impraticabilità
della terza, quando andare a nuove elezioni era ritenuta l'unica opzione
possibile.
I quattro tipi di governi corrispondono ad una sorta di “scala decrescente di accordo”
tra i partiti con potenziale di governo: si va da una situazione di accordo pieno e
durevole a una di assenza di accordo.

La formazione dei governi dopo il 1992


Dopo il 1992 le prassi di formazione nei governi sono cambiate significativamente.
Il collasso dei tradizionali partiti di governo e la mancanza di una realistica proposta
alternativa da parte dell'opposizione hanno dato al Capo dello Stato allora in carica
(Scalfaro) una libertà d'azione inusuale nella formazione del governo. Questo ha
portato alla nascita di un governo tecnico, guidato dall'ex governatore della Banca
d'Italia Ciampi, composto in misura significativa da non politici e caratterizzato da un
programma definito sotto l'attenta supervisione del Presidente della Repubblica.
Un altro governo tecnico, fortemente pilotato dal capo dello Stato e guidato da Dini,
un alto dirigente della Banca d'Italia, si è formato nel 1995 subito dopo la caduta del
primo governo Berlusconi.
Successivamente, il rinnovamento del sistema partitico e il nuovo sistema elettorale
misto-maggioritario hanno stimolato il formarsi di una prassi innovativa nella
formazione dei governi. I partiti sono stati indotti a formare coalizioni elettorali che
presentavano già prima dell'appuntamento elettorale un programma e indicavano
leader comuni. Le consultazioni del Capo dello Stato sono diventate un esercizio
politicamente meno rilevante e prevalentemente formale dal momento che la scelta
del capo del governo difficilmente poteva, a questo punto, contraddire il responso
elettorale. Così, all'indomani delle elezioni, Berlusconi e Prodi, leader delle coalizioni
elettorali vincenti, rispettivamente di centro-destra (nel 1994, 2001 e 2008) e di
centro-sinistra (nel 1996 e 2006), senza alcun motivo di incertezza hanno ricevuto
l'incarico di formare i nuovi governi.
Il fatto però che le maggioranza di governo abbiamo continuato ad avere carattere di
coalizione ha fatto sì che dopo il 1994 le consultazioni tra i partiti per decidere la
locazione dei ministeri siano stati un momento non privo di tensioni. In questo
processo il presidente del Consiglio designato ha avuto una parte molto più
importante che in passato, diventando da mediatore attore principale del processo.
Nelle coalizione di centro-destra tale ruolo è stato ulteriormente rafforzato dal fatto
che Berlusconi, oltre a essere leader naturale della coalizione, era anche il capo
indiscusso del proprio partito e perciò in grado di decidere autonomamente su tutti i
posti ministeriali da attribuite alla sua parte.
Un altro aspetto da sottolineare è quello per cui i leader dei partiti che sostenevano il
gabinetto hanno deciso di entrare nella compagine governativa, a causa di due
fattori: 1. l’accresciuta importanza e durata del governo hanno reso più attraenti le
cariche di governo; 2. con l'indebolimento dei partiti (e della loro legittimità politica) le
cariche di vertice di partito hanno perso di attrattiva.
La crisi del centro-destra del 2011, cioè di quella che era stata la coalizione più forte
della Seconda Repubblica, e l'indisponibilità del centrosinistra sostituirsi a essa o a
chiedere con forza il ricorso alle urne, hanno aperto la strada prassi diverse nella
formazione nei governi. Prima la formazione di un governo tecnico a forte spinta
presidenziale guidato da Mario Monti), poi governi nati in Parlamento attraverso la
ricerca di coalizioni diverse da quelle presentatisi alle elezioni che non garantivano
maggioranze sufficienti in entrambe le Camere. I governi Enrico Letta e Matteo
Renzi, da questo punto di vista, ricordano l'esperienza della Prima Repubblica.
L'ultimo dei due ha aggiunto però una nota inedita: un governo politico ma guidato
da un non parlamentare. Le due esperienze di governo risultano assolutamente
legittime sul piano della forma costituzionale, ma rispetto alla consuetudine
dell’investitura popolare, introdotta dalla Seconda Repubblica, hanno sollevato
qualche critica politica.

La caduta dei governi


In Italia la caduta anticipata dei governi è la regola piuttosto che l'eccezione.
Tipicamente i presidenti del Consiglio rassegnano le dimissioni senza aspettare un
voto formale del Parlamento non appena raggiunta la consapevolezza
dell'impossibilità della loro maggioranza a restare unita. Questo è spesso accaduto
dopo che uno o più voti negativi nel corso di procedimenti legislativi avevano
mostrato che la coesione della maggioranza era seriamente indebolita. In un caso
(governo Prodi,1998) è stato lo stesso esecutivo a chiedere un voto di fiducia per
verificare lo stato della coalizione, il cui esito negativo imprevisto lo ha costretto a
dimettersi.
Prima del 1994 la caduta del governo costituitosi subito dopo le elezioni e la
formazione di uno più gabinetti durante il corso di una legislatura erano eventi che
rientravano nella normalità delle cose. Si potrebbe dire che le crisi governative sono
state uno degli strumenti interni di regolazione delle coalizioni. Attraverso questo
processo i partiti rinegoziavano i loro accordi programmatici e ridefinivano il loro
peso relativo nel gabinetto.
Dopo il 1994 la situazione è cambiata. Dal momento che la coalizione e il presidente
del Consiglio hanno ricevuto de facto un’investitura popolare, la legittimità politica di
un cambiamento di governo durante la legislatura è stata oggetto di un dibattito
piuttosto vivace, in particolare dopo la caduta del primo governo Berlusconi nel
1994: appena sei mesi dopo le elezioni, la Lega aveva tolto il suo sostegno al
governo e un nuovo esecutivo tecnico era stato formato con una diversa
maggioranza parlamentare. A lungo, Berlusconi ha contestato questo governo
definendolo un tradimento del mandato elettorale (un ribaltone).
Un po' diverso il caso verificatosi con la crisi del Berlusconi II nel 2005: in questa
occasione si è velocemente riformato un nuovo governo formato dallo stesso leader
e con la stessa maggioranza.
Il punto sollevato in questi casi era se fosse accettabile avere una nuova
maggioranza formatasi in Parlamento che poteva differire da quella sancita dal
risultato elettorale oppure se si dovesse ricorrere ad elezioni anticipate. Dal
momento che il testo costituzionale non dice nulla sul punto, ma semplicemente
richiede che un governo abbia la maggioranza di entrambe le Camere, la questione
è più di opportunità politica che di conformità di legge. I presidenti della Repubblica
in carica durante questi eventi si sono mostrati riluttanti a far ricorso ad elezioni
anticipate, e quindi le crisi del Berlusconi I, del Prodi I e del Berlusconi II hanno
portato la formazione di nuovi governi seguendo la prassi del passato, cioè negoziati
tra i partiti presenti in Parlamento.
Nel 2008, invece, la crisi del Prodi II ha portato a elezioni anticipate, mentre dopo le
dimissioni del Berlusconi IV (2011) si è formato un nuovo gabinetto tecnico (Monti).
Questo caso di crisi/formazione di governo passerà probabilmente alla storia come
un esempio controverso di interpretazione del processo, per il ruolo giocato dal capo
dello Stato, ma anche dalle istituzioni europee, nel convincere un premier
politicamente indebolito e moralmente screditato, come Silvio Berlusconi, a lasciare
di fronte all’incombere di una crisi finanziaria che stava trascinando l'intera economia
italiana verso una situazione pericolosa.

La composizione politica dei governi


La scelta di ricorrere ad una grande coalizione composta dalla maggior parte dei
partiti, adottata una prima volta durante gli anni della transizione dal fascismo alla
democrazia, fu rinnovata per un breve periodo tra il 1976 e il 1979, quando, in
considerazione della difficile situazione economica e della minaccia del terrorismo,
l'alleanza tra i partiti tradizionali di governo e il Pci divenne accettabile per entrambe
le parti. Anche in questo caso, tuttavia, il Pci in non potè ottenere la piena
partecipazione al governo, ma dette soltanto l'appoggio parlamentare a un
monocolore democristiano. Questa formula, chiamata anche di solidarietà nazionale,
ebbe però breve durata ed entrò in crisi prima che il Pci riuscisse a superare la
soglia della piena partecipazione al governo.
Dal 1994 al 2011 si sono invece alternate coalizione di centro-destra o centro-
sinistra. L’esclusione dei partiti di estrema sinistra e di estrema destra dal governo
sono state progressivamente superate in corrispondenza della crescente
moderazione di questi partiti e dell'esigenza dei due schieramenti di fare il pieno di
voti per sfruttare i vantaggi offerti dal sistema elettorale alla forza maggiore. Nel
corso di un quindicennio tutti i partiti significativi dello spettro politico sono stati
coinvolti nei giochi di governo. Quanto accaduto successivamente conferma che il
periodo 2011-2015 può essere considerato una sorta di “fase di superamento” di
quel bipolarismo nevrotico che ha connotato i tre lustri precedenti: si è passati infatti
da un'ampia coalizione capace di sorreggere dall'esterno un governo tecnico
(governo Monti) a una “piccola grande coalizione”, ovvero il fronte rappresentato
dalle forze delle due tradizionali coalizioni avversarie. Questa seconda coalizione è
poi divenuta ancora più esigua dopo l'uscita di Forza Italia, che ha ritirato l'appoggio
al governo Letta e poi lo ha negato a quello di Renzi.

La struttura ministeriale
Il governo è composto dal Presidente del Consiglio, eventualmente da uno o più
vicepresidenti e da un numero variabile di ministri e sottosegretari. I ministri sono a
capo di un ministero, cioè di un'entità autonoma della pubblica amministrazione
centrale. Ci sono poi i ministri “senza portafoglio”, che sono responsabili di uno
specifico settore di policy, ma non hanno una vera struttura burocratica a propria
disposizione: è la Presidenza del Consiglio a fornire un (limitato) supporto
amministrativo. I sottosegretari, a differenza dei ministri, non partecipano alle riunioni
del Consiglio dei Ministri; possono però sostituire i ministri in varie incombenze, nei
rapporti con la società come interlocutori di gruppi di pressione, associazioni, e con
enti locali. La loro autorità dipende da una delega esplicita del ministro sancita dal
Consiglio. Una posizione speciale è occupata da uno dei sottosegretari della
Presidenza del Consiglio, che ha il ruolo di segretario del Consiglio dei Ministri e
prende parte (ma senza potere formale di voto) alle riunioni del gabinetto. Svolge
una funzione cruciale nella preparazione dell'agenda dell'esecutivo, conducendo
spesso le complesse negoziazioni con i rappresentanti di partito, ho anche con attori
esterni.
Il governo può quindi essere descritto come una struttura a due livelli: 1. il primo
livello, quello del presidente del Consiglio e dei ministri, è responsabile del processo
decisionale collegiale; 2. il secondo livello, quello dei viceministri e dei sottosegretari,
è invece attivo in ogni ministero, nelle relazioni tra ministeri, con il parlamento, con
gli altri attori politici e sociali.
Prima del 1994 i segretari dei partiti della coalizione di governo hanno in genere
preferito restare fuori dal gabinetto. La natura coalizionale dei governi e la loro
durata limitata contribuivano a rendere un posto di ministro (talvolta anche la
Presidenza) meno prestigioso e attraente rispetto alla leadership partitica. I segretari
di partito, restando fuori dall'esecutivo, sono stati in grado di sopravvivere alle cadute
dei governi e hanno potuto mantenere una libertà di movimento meno vincolata dagli
obblighi di coalizione. La presenza dei capipartito nel governo è diventata più
frequente dopo il 1994, ma non tutti i leader di partito, durante il ventennio
dell'alternanza, hanno voluto accettare responsabilità di governo. Anche in questo la
situazione creatasi dopo le elezioni del 2013 appare piuttosto anomala ed
eccezionale: Enrico Letta era il “numero 2” di Bersani nel Pd, e non si è candidato
alle primarie del 2014 per stabilire il successore del segretario democratico
dimissionario. Renzi, vincitore di quelle primarie e nuovo leader del partito di
maggioranza, ha riunificato le posizioni di leader di partito e del governo, ma è stato
anche l’unico Presidente del Consiglio con una personalità non tecnica a giungere a
Palazzo Chigi senza detenere un seggio parlamentare.
A proposito di tecnici, nel passato il reclutamento di ministri non provenienti dalla
carriera politica è stata un'eccezione. Personalità tecnocratiche erano state reclutate
occasionalmente per dicasteri specifici. Tuttavia, già negli ultimi anni della fase del
pentapartito e, soprattutto, dopo il 1994, lo strumento della scelta di tecnocrati per
alcune importanti posizioni ministeriali è diventato più frequente da parte dei
presidenti del Consiglio forti, per tenere alcuni ministeri chiave sotto il proprio
controllo e sottrarli ha l'influenza dei partiti della coalizione.
Rimane invece fuori discussione il principio cardine del processo di formazione dei
misteri: l'allocazione delle cariche continua infatti a seguire il principio della
rappresentanza proporzionale tra i partiti della coalizione. La distribuzione delle
molto più numerose posizioni di sottosegretario ha sempre consentito ai diversi
partiti di ottenere una rappresentanza ministeriale vicina alla propria consistenza in
Parlamento e di essere presente anche in quei settori nei quali non avrebbero potuto
piazzare propri esponenti nelle posizioni di vertice.

La guida del governo


Il carattere coalizionale dei governi, la natura spesso incerta degli accordi di
coalizione e l'assenza di molti leader partitici dal gabinetto hanno fatto sì che il
presidente del Consiglio abbia sempre dovuto pagare un tributo non indifferente a
forze esterne. Nella Prima repubblica il tipico strumento per affrontare i problemi più
seri della coalizione è stato il vertice, cioè un incontro tra il presidente del Consiglio e
i segretari dei partiti della coalizione nell'ambito del quale si confidava di risolvere i
problemi contingenti, magari ridefinendo la piattaforma programmatica del governo.
Il vertice poteva così diventare uno strumento di governo dell'esecutivo.
Alcune rilevanti aree di policy (ad es. la politica estera) sono state suddivise tra più di
un ministero e assegnate a rappresentanti di partiti diversi. Nella migliore delle
ipotesi ciò ha significato che in queste aree la politica del governo ha potuto essere
definita solo dopo complesse consultazioni tra i ministri competenti, nel peggiore dei
casi che ciascun ministro ha agito in maniera indipendente comportando più di una
politica del governo in uno stesso settore.
La creazione di comitati interministeriali è stato uno strumento cui si è fatto
frequentemente ricorso per bilanciare la frammentazione dei dicasteri; dovrebbero
servire a coordinare l’azione dei diversi ministri interessati in una determinata area di
policy. Non sono mancati i dubbi sulla costituzionalità stessa di questi comitati,
soprattutto nei casi in cui i poteri ad essi attribuiti non si limitano alla preparazione
delle decisioni del gabinetto. L'obiezione sollevata è che essi infatti pregiudicano il
carattere pienamente collegiale delle decisioni del gabinetto e accordano una
posizione privilegiata ad alcuni ministri (e al presidente del Consiglio che in genere li
presiede). Essi rappresentano una deviazione rispetto al principio secondo il quale il
governo deve adottare decisioni nella sua piena collegialità. Gli atti e i provvedimenti
regolativi emanati individualmente dai singoli ministri e quelli “dettati” direttamente
dalla segreteria partitiche all'agenda del presidente del Consiglio, costituiscono altre
violazioni al principio della collegialità.

Il rafforzamento del centro del governo


Dagli anni 80 l'esigenza di rafforzare il capo del governo e la sua capacità di guidare
l'esecutivo ha ricevuto un'attenzione crescente. Tra le ragioni non va sottovalutato
l'effetto del confronto internazionale; la maggiore frequenza delle interazioni a livello
europeo e globale, con controparti generalmente più autorevoli e stabili, ha
sicuramente sollecitato una più attenta riflessione. Sul piano interno si è poi fatta
sentire la necessità di affrontare seriamente le conseguenze negative di un processo
decisionale eccessivamente frammentato accumulatesi nel tempo, come la crescita
del deficit pubblico e dell'indebitamento statale.
Negli ultimi due decenni queste esigenze si sono tradotte anche in proposte di
riforma costituzionale (introdurre l’elezione diretta del capo dello Stato, realizzare un
sistema semipresidenziale, o eleggere direttamente il capo del governo, cioè
premierato). L'attuazione di queste proposte radicali è sempre fallita, ma altre
innovazioni hanno avuto maggiore fortuna.
1 - la creazione, dal 1983, all'interno del governo, del consiglio di gabinetto,
composto dai leader di partito, se appartenenti al governo, oppure dei ministri di più
alto rango in rappresentanza di ciascuna forza della coalizione e da qualche altro
ministro di particolare rilievo. Questo strumento, utilizzato prima in maniera informale
dal governo Craxi, fu probabilmente cruciale nel determinare la lunga durata di
questo governo.
2 - Il progressivo rafforzamento della Presidenza del Consiglio e del suo apparato.
Un passo importante, fatto prima della crisi della Prima Repubblica, fu l'approvazione
di una legge che si proponeva di limitare l'azione arbitraria dei singoli ministri,
migliorare la circolazione delle informazioni tra i componenti del governo, rafforzare
l'apparato amministrativo al servizio del gabinetto nel suo complesso e, in
particolare, sviluppare le risorse organizzative e finanziarie a disposizione del
presidente del Consiglio, nelle sue funzioni di direzione e di coordinamento del
governo.
Nella difficile fase di declino della prima repubblica, queste innovazioni organizzative
non sono state in grado di controbilanciare le spinte burocratiche che andavano nel
senso di una frammentazione dell'esecutivo.
Tra i cambiamenti che negli ultimi anni hanno inciso maggiormente sull'efficacia
dell'attività di governo merita una particolare menzione il rafforzamento del principale
ministero economico e del suo titolare.Il deterioramento della situazione delle
finanze pubbliche tra gli anni 70 ei primi anni 90 e la necessità di porre sotto
controllo il deficit pubblico, per soddisfare i crescenti vincoli europei, hanno
determinato un progressivo rafforzamento del Ministero del Tesoro e dei suoi
apparati preposti al controllo della spesa pubblica (la Ragioneria centrale dello
Stato). Successivamente una serie di riforme delle procedure di bilancio e la
significativa riorganizzazione del Ministero del Tesoro hanno fatto sì che il suo
titolare ottenesse un importante ruolo di coordinamento nel gabinetto per le materie
di rilevanza finanziaria. Il culmine di questo processo è stato raggiunto nel 2001,
quando i tre ministeri del Tesoro, delle Finanze e del Bilancio sono stati unificati nel
superministero dell'Economia.
Sono stati gli sconvolgimenti politici degli anni ‘90 a produrre i cambiamenti più
rilevanti. Il più importante di tutti è che dopo il 1994 i presidenti del Consiglio sono
stati anche leader capaci di costruire e portare alla vittoria una coalizione elettorale.
Questo fatto ha naturalmente dato al presidente del Consiglio una preminenza
maggiore nel gabinetto rispetto al passato: egli può richiamarsi al mandato elettorale
ricevuto e ricordare agli altri componenti del governo il suo ruolo nel mettere insieme
una coalizione e tenerla unita. Mentre in passato l'accordo di coalizione era uno
strumento di scarsa rilevanza, spesso nemmeno reso pubblico, negli ultimi 10 anni
ha acquisito un'importanza crescente. Questi testi contengono una lista di impegni
specifici ai quali il capo dell'esecutivo può richiamarsi quando nascono dissensi tra i
componenti della coalizione. A questo va aggiunto che il presidente del Consiglio ha
acquisito un ruolo più attivo nella selezione della squadra ministeriale.
Le mutate condizioni politiche hanno anche consentito una più efficace attuazione
della riforma della Presidenza del Consiglio. Questi cambiamenti trovano il loro
riscontro anche nello sviluppo di nuove strutture e attività.
- La creazione di un dipartimento per l'Attuazione del programma ( al quale con
gli ultimi governi ha corrisposto anche un ministro senza portafoglio) e la
messa in opera di un più elaborato sistema di divulgazione via internet delle
attività del governo.
- Occorre ricordare inoltre che le coalizioni di governo sono rimaste piuttosto
complesso nella loro composizione: 1. sono frammentate, 2. le coalizioni
restano poco omogenee ideologicamente, come è testimoniato dai programmi
di governo, per quanto dettagliati, sono poi spesso ambigui nella formulazione
dei provvedimenti da adottare e quindi soggetti a conflitti di interpretazione.
- Infine, il potere del capo del governo di promuovere un vero rimpasto di
governo per affermare così la propria autorità sui ministri resta tuttora
fondamentalmente assente. Oggi il presidente del Consiglio può, infatti,
cambiare i ministri di sua scelta (alcuni ministri tecnici e quelli del suo partito),
ma per quel che riguarda gli altri deve dipendere dal consenso dei partiti
interessati. Il mandato elettorale a non può così essere tradotto in un vero e
proprio controllo sul gabinetto.Nello stesso tempo, però, rispetto al passato
oggi è diventato più difficile sostituire un presidente del Consiglio con un altro
durante il corso di una legislatura. Si può dire che la nuova situazione genera
da un lato aspettative molto più elevate rispetto ruolo della Presidenza del
Consiglio, ma dall'altro non produce le condizioni necessarie per renderle
attuabili.

Governare con il parlamento (o senza)


Nella prima repubblica l’instabilità dei governi veniva in qualche misura bilanciata
dalla maggiore stabilità dei componenti delle compagini ministeriali.Lo stesso partito,
per la Democrazia Cristiana, era sempre presente con un peso dominante in ogni
governo e una buona parte dei ministri passava da un gabinetto all'altro.
Resta il fatto che il governo in quanto istituzione è stato seriamente indebolito nelle
sue prerogative e responsabilità, e che il governo dei partiti non ha potuto bilanciare
questa debolezza, anche perché le prospettive degli attori partitici sono
necessariamente diverse da quelle dell'organo esecutivo, essendo legate
primariamente a vocazioni particolaristiche.
Le debolezze dei governi si sono manifestate con particolare chiarezza nella loro
azione legislativa proprio perché questa poteva raramente contare su una
maggioranza coesa nell'arena parlamentare. Indicatori espliciti di questa debolezza
del governo in Parlamento sono costituiti dall’alta percentuale di proposte
governative respinte e dall'ampio numero di leggi pesantemente emendate durante
lavori parlamentari. Per fronteggiare questa situazione i governi hanno in vari modi
cercato di ridurre l'influenza del Parlamento oppure di aggirarne il controllo sui
processi decisionali.Un altro strumento è stata l'abolizione nel 1988 del voto segreto
come regola normale di votazione nel processo legislativo: il voto segreto era infatti
uno strumento usato dai dissidenti all'interno della maggioranza (in alleanza con
pezzi dell'opposizione) per bloccare o ricattare l'azione di governo a difesa di
interessi particolaristici. Si può dire che c'è stato un progressivo adeguamento dei
regolamenti parlamentari orientato ad attribuire al governo strumenti maggiormente
efficaci per difendere la propria azione legislativa dalle incursioni parlamentari.
Ma gli strumenti più importanti attraverso il quale il governo può far valere la propria
autorità sul Parlamento nella sua attività legislativa restano quelli attribuiti dalla
Costituzione del 1948.
Il più importante tra questi è stato, tradizionalmente, il decreto legge (art.76), che
consente al governo di emettere un decreto con valore di legge a effetti immediati,
anticipando quindi la deliberazione del Parlamento, che comunque dovrà intervenire
con ratifica entro la scadenza di 60 giorni. Questo strumento, pensato dai costituenti
per rispondere a situazioni straordinarie di necessità e urgenza, a partire dagli anni
‘80 è stato trasformato in uno strumento d'azione ordinaria dell'esecutivo. Questo
strumento non esenta il governo dal dover fare i conti con il Parlamento, che infatti
può respingere decreti e farli decadere oppure modificarli anche profondamente; la
sua utilità per il governo è che gli consente di intervenire in tempi certi su una
questione pendente, precostituendo così una nuova situazione di diritto e di fatto
della quale il Parlamento dovrà in qualche modo farsi carico. L'esecutivo acquisisce
così un controllo sull'agenda decisionale che altrimenti gli sfuggirebbe.
Non c'è dubbio però che questa sia stata un'interpretazione piuttosto libera del testo
costituzionale. Nel 1996 la Corte costituzionale ha voluto porre qualche limite alla
prassi corrente con una decisione che esclude la reiterazione dei decreti legge non
ratificati dal Parlamento, una pratica che consentiva al governo di tenere in piedi per
molto tempo un decreto anche senza l'approvazione parlamentare. Da allora i
governi hanno prodotto un numero complessivamente inferiore di decreti legge.
Tuttavia l'uso del decreto, talvolta forzato per decisioni la cui natura di urgenza
appare controversa, è ancora uno strumento favorito dai governi.
Un ulteriore strumento a disposizione del governo sono state le leggi delega, con le
quali il Parlamento si limita a definire i principi generali di un ambito abbastanza
vasto di legislazione attribuendo al governo il potere di regolare una materia
attraverso decreti delegati che hanno la stessa forza della legge e che non
richiedono un voto parlamentare di approvazione (art.77 Cost.). Negli ultimi anni
questo strumento è stato usato con crescente frequenza consentendo al governo di
affrontare settori complessi di legislazione con maggiore libertà e senza dover troppo
negoziare in Parlamento. Il Parlamento ha cercato dal canto suo di contenere la
libertà del governo, rendendo più dettagliati e vincolanti le indicazioni fissate nella
legge delegante.
Infine, ci sono alcuni strumenti “difensivi” che il governo pizza con frequenza per
promuovere nelle aule parlamentari il proprio programma legislativo:
1. la questione di fiducia, cioè il voto che il governo può chiedere a una o
entrambe le Camere su un provvedimento legislativo. Questo strumento
blocca tutti gli emendamenti pendenti al momento e costringe la maggioranza
a rinsaldare le fila, pena la caduta del governo.
2. I maxiemendamenti, che, riassorbendo gli emendamenti esistenti e
adattandoli ad una linea giudicata accettabile dal governo, operano una sorta
di “ghigliottina” sui tempi del procedimento legislativo e consentono
all'esecutivo di condurre in porto un testo sul contenuto del quale riesce a
mantenere un qualche controllo.
3. il processo di delegificazione, in base al quale negli ultimi anni settori
precedentemente regolati da leggi possono oggi esserlo attraverso strumenti
normativi secondari come i regolamenti e i decreti. Grazie a questo processo
il governo può, in misura maggiore rispetto al passato, intervenire e decidere
in autonomia in settori rilevanti (ad es. in materia di reclutamento del
personale, di carriere, di nomine) senza dover passare dalle due aule
parlamentari.
Governo e burocrazia
Per valutare il funzionamento del governo un altro importante aspetto è la relazione
tra i ministri e la burocrazia, ovvero la questione del controllo politico sull'attività delle
strutture ministeriali. Il processo di riforma della pubblica amministrazione avviato a
partire dagli anni 90 e tutt'ora in corso ha introdotto alcuni importanti elementi di
modernizzazione, in particolare:
- è stata affrontata la questione della riorganizzazione dei ministeri e di una
drastica riduzione del loro numero;
- l'introduzione di riforme che, ispirandosi al paradigma del new public
management virgola puntavano ad accrescere efficacia e trasparenza delle
amministrazioni centrali e ad applicare principi più rigorose di controllo dei
bilanci per ridurre sprechi di risorse organizzative, umane e finanziarie.

Nel complesso se consideriamo la situazione odierna possiamo dire che la relazione


tra ministeri e pubblica amministrazione è cambiata non poco rispetto ad una
quindicina di anni fa. Rimangono tuttavia in piedi alcune criticità:
1. la struttura del governo è tuttora assai farraginosa e, in molte aree di policy, è
caratterizzata da una dispersione delle competenze;
2. la creazione di agenzie funzionali dipendenti dei ministeri non ha risolto il
problema dell’elefantiasi di alcuni dicasteri;
3. il grado di corrispondenza tra le competenze dei ministeri e l'attribuzione dei
poteri di controllo tra le commissioni parlamentari e rimane tuttora imperfetto;
4. la propensione dei ministri a intervenire su tutti gli argomenti rimane
significativa e cresce con l'aumento della conflittualità politica.

Capitolo 6. Parlamento e sistema parlamentare:


verso il superamento del bicameralismo
simmetrico?
Dagli esordi del parlamento unitario alla crisi della democrazia parlamentare
Fu l'esperienza del Parlamento preunitario sabaudo (1848-1861), inaugurato dopo la
concessione dello Statuto da parte di re Carlo Alberto, a fornire un modello
parlamentare al sistema politico italiano. Si può concepire tale periodo (1861-1924)
come un lungo passaggio dalla monarchia costituzionale a un vero sistema di
governo parlamentare, sfociato nella crisi e nella svolta autoritaria del fascismo.
Alcuni caratteri originali del Parlamento prerepubblicano risultano utili per spiegare
l'evoluzione di tale istituzione:
- si trattava di un parlamento complesso: un bicameralismo con alcuni tratti
tradizionali e altri tipici del parlamentarismo costituzionale, che i flessibili
principi costituzionali dello Statuto rendevano piuttosto malleabile. Secondo lo
Statuto il potere legislativo apparteneva a re e alle due camere, senza
particolari riserve per la camera, elettiva, o per il Senato, di nomina regia.
Nella pratica si determinò dapprima un lento processo di emancipazione della
Camera elettiva, che portò all'introduzione di un rapporto di “fiducia” con il
governo, formalizzato durante l'età giolittiana e, poi, all'affermarsi di un vero e
proprio pluralismo organizzato dei partiti parlamentari, costituiti in gruppi dopo
l'introduzione il sistema proporzionale nel 1919.
- La camera bassa era la fotografia del solido legame territoriale tra elettorato e
eletti. Un legame costruito sulla presenza predominante dei “notabili”, figure
che grazie al proprio prestigio e alla rete di relazioni di cui disponevano
potevano agevolmente controllare i ristretti gruppi sociali che costituivano
l'elettorato. Il ceto parlamentare che veniva espresso era dunque una
coalizione di notabili, con caratteristiche sociali e occupazionali differenziate a
seconda della regione di provenienza, ma che facevano convergere le proprie
preferenze su un grande blocco di centro, non organizzata come un partito e
piuttosto flessibile nella sua composizione, a sostegno del governo. Dal
grande centro di “ministeriali” uscirono infatti tutti i protagonisti della politica
italiana fin dagli anni ‘80 del XIX secolo, quando si impose la pratica del
trasformismo mettendo fine alla netta contrapposizione tra destra e sinistra
liberale.
La nozione di trasformismo si riferisce ad una strategia di costruzione delle coalizioni
che si basava sull'inclusione individuale, la più vasta possibile, di personalità
provenienti da diversi schieramenti, territori e “frazioni” parlamentari. All'interno del
Parlamento (più in generale nelle istituzioni di governo) tale pratica avrebbe
inevitabilmente determinato anche l'affermarsi di un modus operandi caratterizzato
dagli scambi personali tra gli esponenti concetto politico. I costi politici di tale pratica
furono presto evidenti: 1. l'impossibilità di alternare al governo due o più proposte
diverse tra loro e, più in generale, la mancata realizzazione di quel principio
democratico per cui, con il passare del tempo, gli uni sostituiscono gli altri sfidandoli
in una gara per la guida del paese; 2.il Parlamento prerepubblicano era
caratterizzato da uno sviluppo organizzativo lento e incerto delle camere. Le
articolazioni parlamentari che avevano il compito di monitorare le proposte (gli uffici)
furono inefficaci e non vi fu lo sviluppo di un adeguato corpo di funzionari
parlamentari esperti nell'uso delle procedure. Finalmente, all'inizio del XX secolo,
furono varati dei regolamenti parlamentari e nel 1907 fu creata la Segreteria
generale della Camera dei Deputati, un elemento cruciale di istituzionalizzazione del
Parlamento.
Nonostante la sua debolezza strutturale, il Parlamento italiano conobbe, nei primi 60
anni di vita, una crescita istituzionale non indifferente.Particolare, si deve ricordare:
1. la crescente stabilizzazione di un’élite che gradualmente si impose
acquistando un notevole grado di professionalizzazione;
2. la parlamentarizzazione dei nuovi partiti di massa, iniziata nell'età giolittiana e
poi stabilizzata con l'adozione, nel 1919, del sistema elettorale proporzionale;
3. il potenziamento, almeno sul piano della prassi, delle prerogative della
Camera elettiva. Lo stadio finale di questa evoluzione storica fu aperto dalla
lunga legislatura 1913-1919, la prima eletta a suffragio universale maschile.
Alla fine di questa legislatura, gli effetti della lunga esperienza bellica e la
complessa situazione politica, avevano reso molto più debole la già
frammentata élite liberale, che si mostrò divisa e incapace di costruire
coalizioni robuste con le altre forze democratiche. La scelta del proporzionale
fu una delle componenti della strategia dei leader dell'epoca, tesa a includere
nel sistema le nuove forze e a rendere più moderna la democrazia
parlamentare, ma anche a garantire la sopravvivenza delle forze politiche in
declino.
L'impossibilità di una coalizione democratica stabile tra liberali, socialisti riformisti e
popolari consentì la presa del potere “dall'interno” di Mussolini, nell'ottobre del 1922.
Da quel momento iniziava la lenta agonia del Parlamento italiano che avrebbe
condotto alla costruzione del regime autoritario. Un regime che, senza cancellare la
flessibile lettera costituzionale, avrebbe comunque spazzato via la Camera dei
Deputati, sostituita pochi anni dopo dalla Camera dei Fasci e delle corporazioni, e
“fascistizzato”il Senato regio, che rimaneva in carica senza tuttavia esercitare alcun
ruolo nel sistema politico.

Rinascita del parlamento


La prima assemblea dei rappresentanti delle forze politiche protagoniste della
Resistenza (la Consulta nazionale) fu nominata subito dopo la liberazione (aprile
1945), mentre nel 1946 fu possibile eleggere, per la prima volta a suffragio
universale maschile e femminile, l'Assemblea Costituente. Dopo un'esperienza
autoritaria così lunga, tutte le forze politiche concordano sulla necessità di esaltare la
rilevanza simbolica e sostanziale dell'istituzione rappresentativa. Con uno scarto
netto rispetto all'ordinamento dello Statuto, il Parlamento assumeva una solenne
centralità nel testo costituzionale e ottenne il riconoscimento di un'ampia serie di
facoltà, dai classici poteri legislativi a nuove fondamentali funzioni di controllo e
investigazione.
La struttura del Parlamento del 1948 costituisce un nitido esempio di bicameralismo
ridondante, dotato di poteri equivalenti e di una composizione politica simmetrica.
Camera dei Deputati e Senato esercitano le proprie funzioni in piena parità di diritti.
Inoltre, la natura proporzionale dei due sistemi elettorali determinava un sostanziale
equilibrio nella pluralità delle posizioni espresse nelle camere, anche grazie alle
ampie dimensioni della seconda camera, composta da 315 senatori elettivi, oltre che
dai senatori a vita (gli ex presidenti della repubblica e un piccolo numero di
personalità, fino a 5, nominate dal presidente della repubblica per altissimi meriti in
campo sociale, scientifico, artistico e letterario).
Fin dai primordi dell'esperienza repubblicana, Camera e Senato hanno
generalmente condiviso lo stesso modus operandi:
1- la crescita parallela delle Commissioni legislative permanenti delle due camere,
con una distribuzione simile delle competenze sostantive. Oggi vi sono 14
commissioni permanenti sia alla Camera che al Senato, che coprono grosso modo
gli stessi settori legislativi. Inoltre, fin dalle prime legislature repubblicane è stata
utilizzata la facoltà di formare commissioni bicamerali di inchiesta o “speciali”, una
prassi che ha rafforzato la percezione di “pari dignità” delle due camere.
2- I termini di durata della legislatura sono stati anch’essi armonizzati. La riforma
costituzionale del 1963 ha definitivamente parificato la scadenza naturale delle
camere, fissandola in 5 anni. Da allora, tutte le volte che si è proceduto allo
scioglimento anticipato entrambe le camere sono state sciolte, nonostante l'art. 88
Cost. preveda lo scioglimento di anche una sola camera.
3 - La struttura Albertis delle camere (Ufficio di presidenza) è simile, con un
presidente in carica per l'intera legislatura, fiancheggiato da alcuni vicepresidenti,
oltre che dai segretari e dai questori. Simili sono le regole di elezione di queste
cariche e simili anche i poteri.
4 - La struttura amministrativa delle camere, il loro disegno organizzativo e i profili
prevalenti dei loro funzionari sono identici. Ci troviamo di fronte alla classica struttura
a clessidra, con al centro la prestigiosa Segreteria generale, che collega l'apparato
politico a quello amministrativo. Quest'ultimo si compone oggi di servizi parlamentari,
divisi a loro volta in ufficio. La differenza in termini di ampiezza delle strutture non
sortisce effetti particolarmente rilevanti, Anche perché le funzioni della burocrazia
parlamentare vengono coordinate tra i due rami parlamentari.

I poteri del parlamento repubblicano


Il primo richiamo della Costituzione riguardo ovviamente il potere legislativo. Un
secondo gruppo di poteri ha invece a che vedere con il controllo dell'esecutivo:
accanto al voto inaugurale di fiducia, il Parlamento viene dotato di una serie di
strumenti per sanzionare o verificare l'azione l'esecutivo. Lo strumento sanzionatorio
più forte è quello della mozione di sfiducia contro intero Consiglio dei ministri oppure
la mozione individuale di sfiducia contro ministro punto a questi strumenti si devono
aggiungere le facoltà di esaminare petizioni popolari e di promuovere inchieste
conferendo alle apposite commissioni poteri investigativi pare a quelli della
magistratura. Anche l'analisi approfondita e il voto su documenti di bilancio
costituiscono una forma di controllo parlamentare.
Per quanto riguarda l'attività di verifica, il Parlamento repubblicano si è dotato dei
classici strumenti di sindacato parlamentare. Interrogazioni (orali e scritte),
interpellanze e mozioni consentono al Parlamento di chiedere conto al governo delle
sue azioni o di impegnarlo ad esprimere giudizi e ad istruire una qualche attività in
relazione a un determinato problema.
Non si devono poi dimenticare i significativi poteri di nomina del Parlamento: per
rimarcare la natura paritetica delle camere, la Costituzione ha previsto per alcune
procedure la riunione del Parlamento in seduta comune; ciò accade per l'elezione di
un terzo dei membri della Corte Costituzionale e di un terzo del Consiglio superiore
della magistratura, oltre che per la solenne elezione del Presidente della Repubblica.
La legislazione ordinaria ha poi conferito alle Camere altri rilevanti poteri di nomina,
relativi alla dirigenza di aziende di Stato e, più recentemente, ai consigli di
amministrazione di gran parte delle agenzie regolative e di enti semipubblici come la
Rai.

Il processo legislativo
La Costituzione italiana ha definito un complesso insieme di strumenti atti alla
produzione di leggi. Le principali procedure sono tre:
- legislazione ordinaria, rappresenta un processo lungo e complesso a causa
dei tanti passaggi intermedi all’interno di ogni “lettura” in una singola camera,
e anche per i tempi della navetta parlamentare, il meccanismo attraverso il
quale un progetto di legge “rimbalza” da una camera all'altra fino a che
entrambe non avranno approvato un identico testo. Il processo legislativo
ordinario fedele al modello del bicameralismo simmetrico comincia con
l'attribuzione di un progetto a una commissione permanente. La funzionalità
delle commissioni può essere diversa e quindi non limitarsi alla fase istruttoria
(sede referente) o di composizione dell'articolato (sede redigente), ma
addirittura sostituire il Parlamento nell'approvazione della legge (sede
legislativa). Questa possibilità, assicurando alle commissioni il massimo
margine di autonomia conosciuto in un parlamento democratico, rende il
nostro sistema parlamentare altamente decentrato.
- Il decreto legge e la legge delega consentono un processo legislativo nel
quale il governo può, da un lato, svolgere un ruolo rilevante, dall'altro, lasciare
al Parlamento poteri non indifferente di controllo. Nel caso dei decreti-legge, il
controllo del Parlamento è ex post, poiché le camere hanno 60 giorni per
convertire in legge una decisione presa autonomamente dall'esecutivo. Nel
caso delle leggi delega, il Parlamento approva un disegno legge di delega
appunto, che in ordine a una data questione, include soltanto i principi guida
e, se necessario, l'agenda e la possibile tempistica delle decisioni operative.
Queste spettano poi al governo che le varerà attraverso i successivi decreti
legislativi delegati che hanno forza di legge.
Per ogni tipo di output legislativo, lo stadio finale del processo è determinato dalla
promulgazione ad opera del Presidente della Repubblica. Il Presidente può porre il
veto, motivandolo con un messaggio alle Camere. Il potere di veto del presidente
rimane tuttavia solo sospensivo, non potendo che firmare la promulgazione nel caso
la legge venga nuovamente votata dal Parlamento. Lo scrutinio da parte del
presidente costituisce il primo dei contrappesi creati attorno al Parlamento, assieme
a quelli garantiti dalla Corte Costituzionale e dal referendum abrogativo.

L’istituzionalizzazione del parlamento


La stabilizzazione del funzionamento parlamentare è stata sicuramente facilitata
anche dall’introduzione di un vero salario e di una serie di altri benefici per i
parlamentari che ha certamente reso attraente la carica e decisa la volontà degli
eletti di mantenere le proprie prerogative.
La concreta applicazione di questo complesso sistema di meccanismi istituzionali, in
particolare quelli relativi al rapporto parlamento-governo all'interno dell'arena
legislativa, è stata profondamente influenzata da un elevato numero di fattori politici.
Il sistema dei partiti e la sua evoluzione sono stati naturalmente fondamentali, ma
anche i cambiamenti relativi alla qualità e alle competenze del governo hanno avuto
un impatto decisivo sul Parlamento e sul suo rendimento. Possiamo evidenziare i
due principi cardine, strettamente collegati tra loro, che sono stati cruciali ai fini
dell’assetto costituzionale del Parlamento:
1. la pari dignità tra gli attori politici del fronte costituzionale, che sin dal 1946
ispirò l'adozione di un sistema proporzionale e che si tradusse in un sistema
di procedure orientato verso il modello consensuale;
2. La ricerca di un sistema istituzionale bilanciato da una moltitudine di
contrappesi istituzionali che determinò soluzioni come il bicameralismo
paritario e ridondante, rafforzando la centralità del Parlamento e la ritualità
delle sue procedure e allungando i tempi di qualsiasi decisione.

Tentativi maggioritari e derive policentriche


Se per definizione un Parlamento è “centrale” quando è fortemente coinvolto nelle
decisioni che contano, autonomo nella definizione della propria agenda di lavoro
(limitando l’esecutivo) e detiene strumenti rilevanti di controllo sull'esecutivo, allora
non possiamo avere dubbi: gli elementi strutturali che abbiamo sommariamente
riassunto ( parlamentarismo positivo con voto formale di fiducia inaugurale in
entrambe le Camere, autonomia dell'azione di governo, rilevanti facoltà non
legislative e notevoli risorse organizzative), unitamente alle caratteristiche,
anch’esse stabili, di collegialità e relativa debolezza della leadership di governo,
fanno di quello italiano un caso di centralità parlamentare.
Se consideriamo il periodo 1948-1992, utilizzando la distinzione tra modello
maggioritario e modello consensuale di democrazia, è possibile identificare fasi
alterne nel funzionamento dell'istituzione parlamentare.
- Dopo la fase di relativo accentramento di potere nelle mani del governo
guidato da De Gasperi, quando la Democrazia Cristiana aveva la
maggioranza assoluta in Parlamento, la fase declinante del centrismo
mostrava una concezione più consensuale dei rapporti interni al Parlamento,
e quindi un ruolo meno incisivo del governo nel indirizzare controllare la sua
maggioranza.
- Il predominio di un sistema di governo basato sulla dispersione di potere
piuttosto che sul dominio della maggioranza raggiunse il suo massimo livello
durante la seconda fase del centro-sinistra e poi, nel prosieguo degli anni 70,
con la cosiddetta solidarietà nazionale. Quel decennio si era aperto infatti con
la riforma dei regolamenti parlamentari (1971), che segnarono l'affermazione
del principio del consociativismo al centro del sistema parlamentare. La
neonata conferenza dei capigruppo divenne l'organo arbitro nella fissazione
dell'agenda parlamentare, decidendo le priorità legislative sulla base della
regola dell'unanimità. Il programma relativo ai successivi tre mesi di lavoro
parlamentare veniva fissato da quest'organo, e solo nel caso in cui non vi
fosse accordo unanime su alcuni passaggi del programma si rimetteva la
decisione all'aula, sempre tuttavia privilegiando una maggioranza qualificata.
Inoltre, trovavano ulteriore spazio gli strumenti di controllo parlamentare:
anche le commissioni permanenti potevano da quel momento rivolgere
interrogazioni al governo e sviluppare inchieste sull'operato dei settori
dell'amministrazione statale di competenza.

Il modello della democrazia consociativa fu spesso proposto in questa fase come


l’idealtipo democratico che meglio si attagliava al sistema politico italiano.
Tuttavia, negli anni seguenti il fallimento del governo di solidarietà nazionale
sostenuto dal Partito Comunista e la fine dell'emergenza democratica misero in
evidenza i costi e le disfunzionalità di un modello consociativo di parlamentarismo.
Gli anni ‘80 segnarono pertanto il ritorno di un tentativo “maggioritario” da parte degli
attori che si presero le responsabilità di governo a quel tempo. Tale tentativo si
sarebbe però scontrato con i tradizionali elementi della frammentazione politica e
dell’organizzazione policentrica del Parlamento.

Cambiamenti di lungo periodo nella pratica parlamentare


I cambiamenti nella pratica parlamentare nel corso del primo quarantennio
repubblicano:
- rapporto tra esecutivo e attori parlamentari nel processo legislativo. La
transizione dal periodo iniziale di governo “avversariale” verso una forma più
tipicamente consensuale è facilmente individuabile guardando al progressivo
declino del successo dell'iniziativa legislativa del governo: durante il
centrismo, il governo riusciva a far approvare circa l’80% delle proprie
proposte, ma tale dato scese a circa il 20% durante gli anni ‘80. Nello stesso
periodo si può notare una crescita incrementale della quantità di iniziativa da
parte dei singoli parlamentari. Si tratta di un'iniziativa spesso simbolica,
destinata a non avere successo, che però costituisce un indicatore chiaro
dell'autonomia dei backbenchers (i parlamentari di seconda linea) dalle
direttive dei rispettivi partiti.
- Nell'ottica della misurazione del cambiamento delle pratiche parlamentari
della Prima Repubblica, un indicatore importante è quello relativo all'utilizzo
della “sede legislativa” nelle commissioni, ovvero l'approvazione delle leggi
direttamente in questi organismi. La frequenza di questa procedura è risultata
più alta durante le fasi maggioritarie, mentre tendeva a essere meno rilevante
nell'era del consociativismo. In realtà questa evidenza esprime le due facce
della democrazia parlamentare italiana: 1) la prima è quella del
“compromesso nascosto” tra le parti avverse, che prendeva piede nelle fasi in
cui il conflitto ideologico tra maggioranza e opposizione era più forte con
alcune tipiche modalità processuali, tra le quali, appunto, il compromesso in
sede di commissione permanente. Lo scopo di questa pratica era quello di
sopravvivere in un contesto di difficile equilibrio Democratico. 2) Quando
invece il trend consociativo è sfociato in una vera e propria pratica “aperta” di
ricerca di convergenze, come durante il centrosinistra e ancora di più nella
fase di solidarietà nazionale, le leggine (misure a sfondo tipicamente
microdistributivo, frutto degli accordi in sede legislativa) rappresentavano per
le forze politiche di governo un costo in termini di qualità e adeguatezza delle
misure normative. Emergeva in questi momenti la seconda faccia del
parlamentarismo, quella che creava una convergenza più ampia, in nome dei
valori condivisi dell'arco costituzionale, e che non aveva bisogno di arene
periferiche per raggiungere il compromesso tra i partiti di maggioranza e
opposizione.
- Un elemento importante è quello relativo al sistema di autogoverno del
Parlamento. Una modalità di “potere condiviso” si venne estendendo nel
corso degli anni 70, quando un numero rilevante di incarichi parlamentari fu
assegnato a membri dell'opposizione (o “opposizione costituzionale”
rappresentata dal Partito comunista). Tra questi incarichi si possono ricordare
quello di “relatore”, attribuito congiuntamente a esponenti della maggioranza e
del Pci in alcune grandi leggi di riforma fatte con l'appoggio dei comunisti, le
presidenze di importanti commissioni permanenti e, soprattutto, la presidenza
della Camera, che andò ininterrottamente a un esponente di punta del PCI dal
1976 al 1994.

Gli anni ‘80 e la crisi del parlamento


Sotto il governo Craxi (1983-1987), il confronto tra governo e opposizione divenne
particolarmente duro, ma l'esecutivo continuava a sfidare anche la parte “amica” del
Parlamento, proponendo un uso frequente del decreto-legge insistendo nella propria
linea legislativa anche con la reiterazione di molti decreti non convertiti dalla
maggioranza. Il Parlamento rispondeva con un atteggiamento altrettanto duro: meno
della metà dei decreti emanati dal governo Craxi fu convertito in legge.
I tentativi di Craxi e dei presidenti del Consiglio successivi, sia pure orientati al
compromesso, erano destinate a fallire per la presenza di una serie di fattori che
giocavano contro l'installazione di una logica maggioritaria e contro la retorica del
decisionismo. La richiesta di riforma del Parlamento e delle sue regole, ispirata dal
bisogno di razionalizzazione e governabilità, produsse comunque alcuni interventi,
come: l'abolizione del voto segreto come procedura usuale per il lavoro in aula,
l'introduzione di una sessione di bilancio e la nuova regolazione del processo di
bilancio. Tuttavia, l'improvvisa crisi politica dei primi anni ‘90 avrebbe messo
nell'ombra queste importanti acquisizioni, lasciando spazio a nuove e ben più
rumorose domande proposte dall'esterno dei partiti e del Parlamento. La priorità
posta dal dibattito era adesso quella di sostituire una classe parlamentare
completamente delegittimata dalla fine dei partiti storici e dagli scandali.

La produzione legislativa (XXI secolo)


Negli ultimi 15 anni la produzione legislativa è cambiata, ciò è evidente osservando
tre aspetti:
1. la riduzione del numero di norme prodotte;
2. gli esecutivi tendono oggi a tenere sotto maggiore controllo il flusso della
produzione legislativa, grazie ad un assiduo lavoro di pressione sulla
maggioranza e ad un uso più efficace degli strumenti regolamentari che gli
consentono di spingere le proprie iniziative verso l'approvazione. Il tasso di
successo dell'iniziativa governativa rivela infatti che il Parlamento della fase
“bipolare” è, rispetto al passato, più subordinato alle priorità politiche fissate
dagli esecutivi attraverso i disegni legge, i decreti e le altre possibili forme di
iniziativa. La capacità decisionale dei governi dell'ultimo ventennio è stata
notevole, ma tale autorevolezza non ha tolto rilevanza alle iniziative dei singoli
parlamentari, i quali continuano a fare ricorso alla presentazione di molti
progetti di legge per sottolineare l'impegno, spesso puramente simbolico, a
favore del proprio territorio o di determinati gruppi di pressione;
3. è stata registrata una significativa riduzione del peso della legislatura
approvata direttamente in commissione. Nelle legislature dal 1996 al 2013,
tale tasso si è stabilizzato attorno al 20% del totale delle leggi. Un dato che
testimonia l'importanza di questa procedura e la natura per molti versi ancora
consensuale del parlamentarismo italiano. Si conferma così come dentro tale
sistema possono convivere mescolarsi opzioni e strategie decisionali molto
diverse.
La maggiore disponibilità del Parlamento ad accettare la conduzione del gioco
legislativo da parte del governo emerge anche osservando altri indicatori. Un
esempio è offerto dal fatto che il Parlamento ha accettato l'uso da parte del governo
di strategie di difesa delle proprie piattaforme legislative, che tendono a ridurre
l'impatto del passaggio parlamentare sul contenuto sostanziale delle leggi. Tra
queste strategie, la più importante è il “maxiemendamento”, una pratica con la quale
il governo chiede un voto diretto su un unico emendamento che accorpa in un solo
articolo l'intero testo di un determinato provvedimento legislativo, prevenendo così
emendamenti particolarmente invasivi da parte dei singoli parlamentari e
rimuovendo nel contempo i pericolosi spazi di ostruzionismo aperti da una
discussione approfondita su ogni singolo comma.

La nuova struttura dei processi parlamentari


Negli ultimi due decenni entrambe le camere hanno modificato il proprio
regolamento spostandosi un poco rispetto al modello consensuale al quale si
ispirava la formulazione del 1971. Tuttavia, il modello procedurale è rimasto
sostanzialmente inalterato.
Il potere di law making del Parlamento è oggi più vincolato rispetto al passato, ma
non ridotto nella sua potenzialità. Anche l'operazione di tipizzazione dei processi che
portano alla deliberazione annuale di due grandi leggi come la legge di stabilità (già
legge finanziaria) e la legge comunitaria, in modo da contenere il potere
parlamentare di trasformazione delle iniziative di governo, ha soltanto in parte
limitato le prerogative dei legislatori. Furono vari gli interventi che si susseguirono
per ottenere uno strumento di governo della finanza pubblica in grado di affrontare le
difficili sfide degli anni ‘70, quando i deficit strutturali accumulati negli anni divennero
insostenibili.
Il primo tentativo (1978) che introdusse la legge finanziaria non ebbe molto
successo, poiché il nuovo strumento, una legge omnibus capace di contenere non
soltanto i soldi e gli obiettivi di bilancio per l'anno successivo, ma anche ogni forma
di rifinanziamento della legislazione vigente, serviva come appuntamento annuale
per tutti i “comportamenti microdistributivi” del governo e soprattutto dei
parlamentari, capaci di fatto di riscrivere la legge.
L'intervento di riforma del 1988 si preoccupò di limitare il contenuto “necessario” (i
saldi e la modificazione del finanziamento di leggi di spesa pluriennali) della
finanziaria abolendo invece il suo contenuto “eventuale”. Inoltre, il Parlamento veniva
vincolato, già prima della sessione di bilancio, dal voto su un documento di
programmazione economica e finanziaria (Dpef) con il quale il governo pianificava gli
impegni, le priorità e le strategie di politica macroeconomica. L'intervento ebbe
l’immediato effetto di ottenere il varo della finanziaria nei tempi dovuti, ovvero entro
la fine dell'anno solare, cosa caduta solo tre volte il primo decennio di applicazione
della finanziaria.
Sul piano sostanziale si dovette attendere la manovra del 1993 per osservare un
reale cambio di strategia. Fu infatti il primo governo Amato a chiedere “pieni poteri”
in una fase drammatica di crisi valutaria e finanziaria, proponendo una manovra che
accumulava una serie imponente di tagli e di nuove entrate, e strappava al
Parlamento deleghe rilevanti su temi cruciali come sanità e finanza locale.
Negli anni successivi la manovra finanziaria annuale ha costituito comunque uno
strumento utile per raggiungere gli obiettivi fissati a Maastricht nel 1991 che, per un
paese dei costi pubblici dissestati, rappresentavano un ostacolo enorme sul
cammino dell'Unione economica e monetaria. Sia pure con una serie di problemi e
con qualche apprensione, l'operazione è riuscita e l'Italia entrò nell'area dell'euro con
il primo gruppo di 11 paesi nel 2001. La debolezza strutturale dei suoi conti pubblici
ha costituito il motivo principale per cui i partner europei più virtuosi sul piano
finanziario vollero assicurare la stabilità della nuova valuta ad un sistema di
sorveglianza multilaterale sulle politiche economiche, che rimanevano gestite dai
governi nazionali.
L’esigenza di adattamento a tale sistema imposto dall'Unione Europea, noto come
Patto di stabilità e di crescita, ha determinato una nuova riforma della legge
finanziaria, nel 1999, alla quale un decennio dopo ha fatto seguito un esteso
intervento sulle procedure di bilancio. Il processo di bilancio oggi in vigore prevede
un accorciamento dei tempi di realizzazione delle politiche congiunturali, con una
fase racchiusa tra il 15 settembre e la fine dell’anno. Entro la prima data il governo
deve presentare il Piano della decisione di finanza pubblica per poi portare in
Parlamento i disegni di legge di stabilità e di bilancio, che devono essere adottati
entro la fine dell'anno solare per evitare l'esercizio provvisorio.
Il processo che porta all'approvazione annuale della legge comunitaria e
sicuramente meno visibile alla pubblica opinione è assai meno intrusivo nel
calendario parlamentare. Tuttavia, anche in questo caso si è trattato del risultato di
un processo di apprendimento: la procedura prevista inizialmente è stata via via
rivista in modo significativo, anche perché i suoi effetti erano stati parecchio
deludenti. Lo scopo della legge comunitaria rimane quello previsto in origine,
ovverosia introdurre nella normativa interna quegli adattamenti che sono richiesti
dalla legislazione comunitaria e favorire l’armonizzazione tra le due sfere giuridiche.

Le funzioni non legislative


A partire dagli anni ‘80 il controllo parlamentare (interrogazione, orale, scritta e
urgente; interpellanza, mozione e risoluzione) ha assunto una grande importanza
nella vita parlamentare. Si è sviluppato l'uso delle interrogazioni scritte e negli anni
90, tuttavia, anche la forma del controllo in sede decentrata (le interrogazioni orali e
scritte proposte dalle commissioni permanenti) si è molto sviluppata, dimostrando la
vitalità di queste piccole comunità di legislatori, unite da una conoscenza e
competenza più approfondita di specifici problemi di policy.
In anni recenti la potenzialità politica di questi strumenti ha trovato modo di
esprimersi più efficacemente. Ad esempio, si è introdotto in Italia uno strumento
come le interrogazioni al governo a risposta immediata, per assicurare sui termini più
rilevanti dell'agenda politica un dibattito continuo e tale da poter essere portato “al di
fuori” del Parlamento, di fronte all'opinione pubblica anche grazie a un'adeguata
copertura televisiva e mediatica. Tale strumento, che ricorda il tipico question time
settimanale britannico, costituisce oggi un momento di rilevante dibattito, ma è stato
ripetutamente snobbato dai possibili interlocutori: i parlamentari, che tendono a
lasciare l'aula semideserta nelle convocazioni settimanali, e lo stesso capo del
governo, che generalmente delega al ministro per i Rapporti con il Parlamento o ai
ministri di settore il compito di replicare alle domande sollevate dai singoli deputati e
senatori.
Pur nel cambiamento non vengono però del tutto meno elementi del tradizionale
policentrismo del Parlamento italiano: la limitata capacità del governo (che è sempre
rimasto “di coalizione”) di rispondere all'incalzare delle interrogazioni come un “attore
unitario” e l'orientamento consociativo di molti parlamentari, che preferiscono
rimanere legati ad una logica di negoziazione e di tutela di domande
microdistributive, invece che dedicarsi a un lavoro più puntuale e collegiale di verifica
dell'azione di governo.
Un altro aspetto interessante sta nella crescente importanza di alcune articolazioni
non dotate di potere legislativo. Non tutte queste articolazioni risultano rilevanti sotto
il profilo del sistema politico. Le giunte, ad esempio, costituiscono organi di
autogoverno (vigilano sulla validità delle elezioni, questioni di compatibilità ,
immunità, ecc.) che non riguardano da vicino il ruolo pubblico e le funzioni delle
camere. Le commissioni speciali, invece, proliferate nel corso dei decenni, sono
dotate di rilevanti facoltà di monitoraggio, implementazione e valutazione in settori
particolari e complessi dell'attività istituzionale (diritti umani, pari opportunità, diritti
dei bambini, ecc.). Nel corso degli anni sono aumentati la visibilità e il potere reale di
una commissione come quella bicamerale per l'indirizzo generale e la vigilanza dei
servizi radiotelevisivi, incaricata di controllare la qualità del servizio pubblico e di
nominare i vertici della Rai, ma anche, più in generale, di controllare la funzionalità
del sistema dei media in Italia. In questo modo, mentre la maggioranza tende a
dominare il processo legislativo, la minoranza si è ritagliata un ruolo più visibile e
robusto di controllo e garanzia su una serie di attività politiche e amministrative.
Il disegno di legge Boschi e il nuovo tentativo di riforma costituzionale
Il progetto del nuovo disegno di legge (ddl) costituzionale, firmato dal ministro per le
riforme istituzionali Maria Elena Boschi, fa pendant con il già approvato sistema
elettorale Italicum, e costituisce l’ossatura della strategia di Renzi di rilancio
dell’intero sistema istituzionale.
La riforma prevede la rimozione del doppio voto di fiducia (fine bicameralismo
simmetrico), i poteri del Senato sono sostanzialmente ridotti in chiave legislativa: la
Camera Alta, ora formata soltanto da 100 rappresentanti per lo più eletti
indirettamente (21 sindaci, 74 consiglieri regionali scelti dai consigli regionali “in
conformità alle scelte degli elettori”, e gli “usuali” 5 senatori a vita scelti dal capo
dello Stato),voterebbe con piena facoltà soltanto le leggi in materia di referendum,
riforma costituzionale, sistemi elettorali per competizioni subnazionali, diritto di
famiglia, materia sanitaria e trattati internazionali. Il resto della legislazione ordinaria
vedrebbe il superamento della classica navetta, e darebbe al Senato soltanto la
possibilità di fare osservazioni e proposte di modifica, che la camera potrà tuttavia
scartare in modo tacito non rispondendo entro 20 giorni.
Il governo, oltre che a trovarsi di fronte un solo interlocutore (veto player)
parlamentare, ha l'opportunità di giocare una sorta di jolly, chiedendo una
discussione concentrata (in 60 giorni) su alcune proposte. Passato tale termine, la
camera sarebbe costretta a votare il provvedimento immediatamente, articolo per
articolo e senza ulteriori opportunità di emendamento. Si tratta di un'importante
innovazione che introduce anche in Italia uno di quegli strumenti di “forzatura” da
parte dell'esecutivo presenti in altre democrazie. Il governo tuttavia avrebbe, come
“contrappasso” per questa libertà d'azione, da osservare regole più rigide nella
preparazione dei decreti legge, e andrebbe incontro all'azione di altri contrappesi in
materia di revisione di costituzionalità e referendum.

Il luogo della classe politica


Nella seconda parte del XX secolo si è assistito al consolidamento di modelli di
“professionalizzazione” del ceto parlamentare, il processo che i partiti hanno a lungo
controllato, gestendo le fasi di selezione dei candidati e di reclutamento e carriera
all'interno dei parlamenti. Negli ultimi anni la crisi dei partiti stessi ha indebolito alcuni
presupposti dei processi, ma non ha snaturato il ruolo fondamentale dei parlamenti
nazionali come arene tipiche di formazione e selezione della leadership politica.
Questo resta valido anche per il caso italiano. In particolare, analizzeremo
l'evoluzione dei caratteri dei rappresentanti e il tipo di professionismo politico che
emerge da loro profili, prima e dopo la crisi degli anni ‘90; poi osserveremo alcuni
indicatori relativi agli orientamenti degli attuali parlamentari e ai loro legami con
partiti, territorio e gruppi di interesse.

Il professionismo politico nel parlamento repubblicano


Il legislatore dell'epoca contemporanea ha incarnato e consolidato la figura del
politico di professione. Sin dalle prime legislature repubblicane si era infatti
sviluppata la presenza in parlamento di rappresentanti prescelti sulla base della loro
militanza e delle loro esperienze partitiche, e talvolta sindacali. Anche coloro che
provenivano da profili professionali diversi (avvocati, giornalisti, insegnanti, medici,
ecc.) alle esperienze professionali private associavano una lunga socializzazione
politica, fatta di incarichi elettivi o amministrativi a livello locale. Nell'Italia
repubblicana si era radicato un diffuso predominio partitico sui processi di selezione
delle candidature e reclutamento parlamentare: anche i partiti “borghesi”, primo fra
tutti la Democrazia Cristiana, mostravano un elevato controllo su questi processi,
poiché la rilevanza il prestigio del locale dei candidati doveva essere comunque
complementare al gradimento dei vertici partitici. Il modello di reclutamento era
certamente molto diverso:
- nel Partito Comunista, la cui leadership nazionale era solitamente protetta dal
principio del centralismo democratico, si riusciva a imporre una selezione
d’apparato puro, quindi completamente controllata dall'alto;
- nella Dc (e in generale nei partiti di governo), invece, il personale politico
veniva scelto attraverso una mediazione tra leader locali e nazionali. I secondi
si garantivano una facile rielezione utilizzando le “teste di lista” e la pubblicità
del partito. I primi invece si sfidavano nelle grandi circoscrizioni proporzionali
andando a caccia dei voti di preferenza.
La differenza tra i due modelli persisteva anche a livello di carriera:
- nella Dc le carriere parlamentari dipendevano certo dall'appartenenza alle
forti correnti nazionali ma anche dal numero di voti di preferenza che i
candidati riuscivano a rastrellare nella propria circoscrizione;
- nel Pci, invece, era il partito a ispirare la distribuzione dei voti di preferenza e
soprattutto a porre un limite al numero di rielezioni in Parlamento. Così, il
turnover in parlamento era più elevato e molti esponenti di punta rimanevano
nella leadership partitica ma lasciavano lo scranno parlamentare, passandolo
magari a qualche giovane esponente della stessa federazione provinciale.
Queste caratteristiche convergevano in un'elevata partitizzazione del ceto
parlamentare. Una conseguenza immediata di questo tipo di reclutamento era il forte
controllo esterno esercitato dai partiti sulle articolazioni politiche all'interno del
Parlamento. I gruppi parlamentari italiani erano allora dominati dalle rispettive
organizzazioni partitiche, e questo comportava un livello generale di disciplina
partitica, anche se, nei fatti, un partito diviso in correnti (come la Dc) poteva spesso
spaccarsi di fronte a determinate scelte. Inoltre, la persistenza del voto segreto come
modalità di scelta in Parlamento (fino al 1988), potè generare qualche margine di
disubbidienza tra i parlamentari di area governativa, attraverso comportamenti
occasionali e mirati di alcuni franchi tiratori che votavano contro le indicazioni di
partito.
I cambiamenti dopo il 1994
La crisi politico-istituzionale dei primi anni ‘90 ha determinato un'elevata discontinuità
nella composizione del ceto politico. Se il grosso del cambiamento si spiegava nel
1994 con la crisi politico-giudiziaria e con il collasso dei partiti di governo, di recente
(2013) è stata l'esplosione del movimento di Beppe Grillo a sfidare i rappresentanti
dei deboli partiti della Seconda Repubblica.
I criteri del reclutamento di candidati ed eletti non sono sembrati così diversi rispetto
al passato: l’utilizzo di un sistema misto-maggioritario tra il 1994 e il 2001 aveva in
effetti determinato qualche nuovo accorgimento nei processi di selezione dei partiti,
che cercavano di favorire candidati territorialmente visibili e quindi più adatti alla
competizione nei collegi, ma senza modificare drasticamente i processi di selezione,
ancora incentrati sulle scelte delle élite nazionali, né tantomeno i caratteri sociologici
del ceto politico. Il ritorno di un sistema proporzionale, nel 2006, con l'introduzione
della lista bloccata e la possibilità di pluricandidature, ha fatto il resto: si potrebbe
tranquillamente asserire che questo tipo di regole abbia favorito un processo di
reclutamento parlamentare partitocratico, visto il totale controllo esercitato da un
numero relativamente basso di personalità sull’allocazione di un elevato numero di
seggi. In merito alle caratteristiche dei singoli candidati, l’élite parlamentare
promossa dai due partiti più nuovi ha mostrato qualche elemento innovativo: Forza
Italia ha in un primo momento reclutato un buon numero di manager ed esponenti
del mondo economico, mentre la Lega vede tra i propri rappresentanti molti attivisti
provenienti dalle categorie sociali che nelle regioni padane sono vicine alla sua
retorica politica, come piccoli imprenditori, artigiani, agricoltori e altre categorie della
classe media spesso “dimenticate” dalla politica.Tuttavia, dopo qualche anno,
l'aspetto socio-politico dell’élite parlamentare era tornato ad assomigliare molto al
profilo della prima repubblica e i modelli di carriera politica non si mostravano così
diversi rispetto al passato. L'introduzione dei collegi uninominali aveva effettivamente
favorito la comparsa di personalità con una certa visibilità sociale ed esperienze
politiche legate al territorio. Tuttavia, le modalità con le quali gli eletti tendevano a
rappresentare i rispettivi elettorati non era così diversa rispetto al passato. Inoltre, la
reintroduzione di un sistema proporzionale aveva determinato il ritorno di profili più
tradizionali di candidature partitiche. Fino al 2013 il confronto di lungo periodo ha
mostrato un profilo parlamentare relativamente stabile: i deputati e i senatori italiani
continuavano ad avere un livello di istruzione molto elevato (85% laureati), un'età
media piuttosto matura e una percentuale di donne tra le più basse in Europa.
Ci sono pochi elementi di innovazione emersi negli ultimi due decenni, che anche il
ritorno al sistema proporzionale non sembra aver cancellato. I politici di carriera che
si avvicinano al Parlamento sembrano oggi caratterizzati da da esperienze di
amministratore locale, più che dall'esperienza partitica pura. Ciò non sorprende,
visto il declino e la diminuzione degli apparati di partito, ma lascia pensare che la
carriera preparlamentare possa essere più flessibile e i legami partitici rimanere
relativamente deboli. D'altronde, il fenomeno della fluidità parlamentare (la tendenza
a cambiare formazione da parte di alcuni eletti) non è certo scomparso. È evidente
dunque la persistente difficoltà delle formazioni politiche a tenere disciplinato il
proprio personale elettivo all'interno delle istituzioni e controllarne la lealtà.
La polarizzazione, rispetto ai caratteri socio-occupazionali, delle due coalizioni, che
ripropone la tendenza dell'elettorato italiano a dividersi lungo la linea di frattura tra
“settore privato” e “impiego pubblico”. Il settore privato è infatti molto più nettamente
rappresentato dal centro-destra, che tende ad eleggere i parlamentari provenienti
dalle filiale dell'impresa, del management e delle libere professioni. Il settore
pubblico è invece territorio privilegiato dal centro-sinistra, che elegge un numero
maggiore di funzionari pubblici, insegnanti e docenti universitari.
Infine, un elevato numero di politici si mostra oggi disponibile a lasciare gli scranni
parlamentari se ha la possibilità di ricoprire cariche ritenute più importanti e influenti.
L'aumento del turnover parlamentare durante le legislature della Seconda
Repubblica può essere collegato alla attrattività di altre cariche come quella di
sindaco delle grandi città e in generale ai cambiamenti indotti da fenomeni di
“devoluzione” e di sviluppo della governance multilivello. Molti rappresentanti
preferiscono “scendere” al livello della politica locale, o “salire” a quello della politica
europea, per trovare nuovi stimoli e nuove opportunità. Il Parlamento nazionale non
rappresenta più l'unica arena dove mettere alla prova le ambizioni di carriera degli
aspiranti leader politici.
Guardando più in generale al modo in cui i parlamentari rappresentano i gruppi e il
sistema di interessi presenti in Italia, si può dire che il modello istituzionalizzatosi
negli anni del consolidamento democratico non sia stato cancellato dai cambiamenti
politici recenti. Piuttosto, è avvenuto un ampio adattamento, anche dovuto alla
perdita di capacità dei partiti di articolare tali interessi. Il caso più rilevante di
evoluzione riguarda il rapporto con la Chiesa cattolica, che dopo 40 anni di relazione
esclusiva con la Dc si è trovata rappresentata nei suoi valori (e in parte) nel proprio
disegno politico sia dal centrodestra sia dalla parte moderata della coalizione di
centrosinistra. Certamente, anche altri forti legami di un tempo, come quello tra il Pci
e la parte massimalista del sindacato confederale (la Cgil) sono oggi meno visibili,
sia per la maggiore frammentazione dei gruppi da rappresentare sia in virtù di una
depolarizzazione che ha avvicinato le posizioni dei partiti. Sotto questo profilo, i
risultati della rivoluzionarie elezioni del 2013 sono da considerarsi come una prima
seria opportunità per il superamento dei tradizionali modelli di reclutamento della
classe politica: la selezione dal basso operata dal Movimento 5 Stelle che promuove
cittadini come gli altri costituisce naturalmente l'alternativa più avanzata del
cambiamento. Tuttavia, anche altri partiti hanno rinnovato i propri metodi di
selezione, come mostrano alcune procedure innovative come le primarie
parlamentari sperimentate dal Pd, e soprattutto i dati sulla comparsa di molte donne
e molti giovani nelle file dei rappresentanti di molte liste.
Capitolo 7. Regioni e governo locale: un lungo
viaggio verso il federalismo?
Uno Stato unitario ma non unito
Molti elementi del sistema politico italiano originario indicavano un evidente deficit di
coesione e di unità, che si cercava di colmare con la costruzione di un ordinamento
giuridico statale altamente centralizzato. Una prima ragione riguarda la natura e la
difficile genesi dello Stato italiano: il processo di costruzione dello Stato fu possibile
grazie all'affermazione di un principio di consociazione tra i gruppi dominanti delle
varie regioni. Un processo dunque molto diverso rispetto al compromesso
costituzionale formalizzato in un modello federale, come quello caratterizzante la
nascita degli Stati Uniti d'America, ma anche rispetto alla formazione di uno stato il
cui potere centrale riuscisse a controllare la periferia tramite un solido apparato
burocratico-amministrativo (Francia, Inghilterra). Una seconda ragione per discutere
la natura unitaria dello Stato italiano sta nel fatto che le unità amministrative, in
particolare le amministrazioni municipali, potevano contare su una tradizionale
identificazione popolare, decisiva in alcuni momenti cruciali della storia del paese.
Dunque, per effetto di vari fattori culturali e storici, il sistema politico italiano era nato
associandosi a un'idea unitaria dello Stato, ma non potendo contare su una
comunità politica unita.
Il primo compromesso istituzionale non raccolte le istanze di uno stato federale o,
comunque, basato su comunità regionali riconosciute formalmente. Questo, oltre che
per la paura da parte dei leader dell'Italia liberale di un’eccessiva frammentazione, fu
probabilmente dovuto anche alla divisione tra posizioni inconciliabili nel fronte dei
federalisti: le opzioni neoguelfe vedevano la Chiesa di Roma come elemento
unificatore del paese, mentre le aspirazioni di federalismo repubblicano no.

Le interpretazioni del localismo


Il quadro che risulta dalla somma di tutte le differenziazioni è quello di un sistema di
fratture territoriali, un concetto che evoca sia la diversa salienza dei vari livelli
amministrativi e non, sia il diverso grado di attaccamento e di fiducia espresso dal
pubblico nei confronti di ognuna di queste comunità, rispetto all'idea di Stato-
nazione. L'intricato quadro del localismo italiano è stato studiato a lungo, utilizzando
metodi diversi e generando una pluralità di interpretazioni; vi sono tre principali
scuole di pensiero.
1. l'approccio basato sulle specificità dei microcosmi territoriali in Italia. Tale
approccio si è sviluppato nel XX secolo ispirando studi importanti come Le
basi morali di una società arretrata, dell'americano Edward Banfield. In
quest'opera il concetto di familismo amorale - la massimizzazione egoistica
dei benefici personali e familiari che azzera il senso di bene pubblico e la
cooperazione collettiva - fu considerato un modello diffuso nella vita di molte
comunità del Mezzogiorno italiano. Tra le soluzioni individuate dall'autore
stesso per fronteggiare la condizione di povertà culturale e di depressione
economica del Sud, troviamo la proposta di una devoluzione di quante
funzioni di governo possibile, al fine di insegnare alla gente la virtù
dell'autogoverno e, in conseguenza, di un’attitudine sociale positiva.. Una
riorganizzazione delle periferie in un sistema di autonomie locali avrebbe
dunque potuto sviluppare un comportamento virtuoso di amministratori e
cittadini, avvicinando questi ultimi alla sfera pubblica e creando canali più
efficienti di partecipazione democratica.
2. Un secondo filone di studi è quello sulle macroaree orientato a scoprire le
differenti eredità storiche culturali che coesistono nel sistema Paese. Anche in
questo caso, il sottosviluppo economico e sociale del Sud è al centro
dell'analisi. I problemi dello sviluppo del Sud, il preoccupante dato della
scarsa diffusione dell'istruzione pubblica, sono temi che si proposero subito
come fondamentali per uno Stato che registrava un forte rifiuto da parte delle
comunità locali, spesso conniventi con il banditismo in un contesto in cui
diventava difficile distinguere tra fenomeni di protesta politica contro
l'ordinamento centrale ed eventi caratterizzati dal controllo da parte della
criminalità organizzata. Questo spinse il neonato Parlamento italiano ad
occuparsi della questione meridionale fin da subito, dedicandogli la sua prima
inchiesta, e inducendo il governo a destinare molte risorse, sia distributive sia
di controllo, sull'ordine pubblico al Sud. La questione meridionale fu al centro
di un ampio dibattito che coinvolse storici, economisti e, più tardi, i primi
scienziati sociali italiani. Alcuni di questi contributi hanno posto l’accento sulla
connessione tra il diverso sviluppo politico e culturale del Sud e l'adattamento
ad una politica di massa della tradizionale figura del politico meridionale,
ovvero il notabile. In effetti questo fenomeno ha influenzato significativamente
sia l'evoluzione dell’élite politica nazionale, sia le capacità e i limiti del governo
locale. La nota classificazione delle tre Italie proposta da Bagnasco ha
costituito un lavoro fondamentale anche per i politologi impegnati nello stesso
periodo a chiarire i modelli di comportamento di voto e le mappe della
geografia politica dell'Italia contemporanea.
3. Infine, lo sviluppo della nozione di capitale sociale ha stimolato ricerche
incentrate su tale concetto ma sviluppate tramite strumenti metodologici
diversi, che hanno messo in luce le differenze tra i vari sottosistemi politici
locali del panorama italiano. Un contributo fondamentale è stato quello del
politologo americano Robert D. Putnam, la cui ricerca, condotta su vent'anni
di esperienza politica tra la nascita delle “regioni ordinarie” e l'inizio degli anni
‘90, puntava a spiegare la variabilità nella performance dei governi regionali.
In questo lavoro, la tradizionale frattura Nord-Sud continuava a essere un
tema importante, ma l'unità di analisi della ricerca, il governo regionale,
permetteva una più approfondita analisi delle variazioni, non solo tra le grandi
zone del paese, nello svolgimento delle funzioni di governo, nelle
implementazione delle politiche pubbliche e nel rendimento della finanza
locale. I risultati mostravano che molti aspetti del rendimento istituzionale
erano correlati alle eredità storiche delle varie regioni, sedimentate in periodi
lunghissimi, anche secolari, che determinavano un diverso accumulo di virtù
civiche e quindi di capitale sociale. L’impatto della ricerca di Putnam è stato
enorme sia sotto il profilo teorico sia per le sue implicazioni empiriche.

Il governo locale dalla fase monarchica al modello repubblicano


Pur non creando forme di vera autonomia politica, lo Stato unitario aveva
riconosciuto il ruolo del governo locale soprattutto attraverso i comuni e creando i
Dipartimenti (poi Province), il cui potere amministrativo veniva però ancorato ad un
forte controllo centrale esercitato sul territorio per mezzo dei Prefetti. Con l'avvento
del fascismo, si bloccò l'ipotesi di creazione delle Regioni e si andò verso il
rafforzamento delle prerogative dell'amministrazione centrale, completando lo Stato
unitario, anche grazie al controllo che polizia, Prefetti e podestà potevano garantire a
livello locale.
La Costituzione repubblicana del 1948 riconobbe tra i principi fondamentali il
principio dell'autonomia territoriale (art.5), denotando la rinnovata sensibilità dei
costituenti verso la crescita delle responsabilità degli enti locali. A questo principio si
accompagnava il decentramento di alcune facoltà dello Stato verso i diversi livelli
amministrativi. I principi del Titolo V furono l'effetto di un lungo negoziato tra
posizioni assai differenti: una minoranza di liberali di sinistra, tradizionalmente vicina
alla visione federale-risorgimentale, era incline ad una soluzione ispirata al
federalismo americano; la sinistra socialcomunista e la destra estrema erano, per
ragioni diverse, fortemente contrari ad ogni ipotesi di devoluzione del potere; la
Democrazia Cristiana puntava ad una moderata forma di autonomia territoriale
costruita sul “mesolivello” dei governi regionali e sui poteri dei municipi.
La Costituzione introduceva un intero capitolo (Titolo V, artt. 114-133) dedicato ai
temi dell'articolazione territoriale del potere politico e alla definizione delle
competenze attribuite ai governi locali. La rete dei governi locali stabilita dalla
Costituzione si configurava come un sistema a tre livelli: i Comuni, le Province e le
Regioni.
La municipalità (comuni) fu con confermata come l’unità amministrativa più
importante. La distribuzione dei posti di sindaco nelle grandi città fu spesso
considerata una questione politica di grande interesse, tale da coinvolgere le
leadership nazionali dei partiti. Sul piano del sistema di governo locale, sia i comuni
sia le province assunsero dall'inizio un assetto parlamentare: un consiglio elettivo
(comunale/provinciale; min.15 membri max.80) eleggeva tra i suoi componenti un
organo esecutivo (giunta comunale/provinciale) composto da un leader (sindaco o
presidente di provincia) e alcuni delegati (assessori).
Non si può dimenticare il rigido meccanismo di controllo che il governo centrale
poteva esercitare sull'attività dei governi locali grazie al potere di annullamento dei
loro atti e in extrema ratio di scioglimento degli stessi organismi elettivi.
La centralizzazione della raccolta fiscale costituì un altro decisivo fattore di
limitazione di una vera e propria autonomia politico-amministrativa.
I poteri e l'autonomia dei municipi e delle Province furono, durante la fase della
Prima repubblica, piuttosto modesti. Tuttavia, il loro ruolo politico fu importante
poiché favorirono una partecipazione diffusa alla vita pubblica, affrontando molti dei
problemi quotidiani della cittadinanza e offrendosi come “palestra” per il
reclutamento e la formazione delle élite politiche.

La natura incerta del regionalismo italiano


Dopo l'unificazione del paese e prima dell'apertura dell'Assemblea Costituente
nell'estate del 1946, la posizione federalista aveva avuto un peso relativo nella
cultura politica italiana. I sostenitori di un forte decentramento dei poteri statali
avevano almeno due forti argomentazioni: 1) potevano usare la retorica del
completamento del processo di formazione nazionale. L’immagine di una piena
democrazia implicava anche la costruzione di legami forti e funzionali tra centro e
periferia; 2) utilizzarono la tesi che il fascismo aveva potuto costruire una così lunga
esperienza autoritaria anche grazie al carattere unitario e centralistico dello Stato
italiano.Nonostante tali considerazioni, la Costituente non mostrò una chiara e
condivisa visione di questi problemi.
Il risultato della negoziazione all'interno dell'Assemblea Costituente fu dunque
l'introduzione di un terzo livello di governo locale, quello delle istituzioni regionali,
con poteri normativi individuati dalla legislazione di carattere generale di livello
nazionale in un novero di settore limitato (sanità, turismo, caccia e pesca, trasporti,
agricoltura e foreste). La Costituzione riconobbe, poi, a 5 regioni di frontiera e
insulari, con particolare i caratteri multietnici o linguistici, lo status di regione a
statuto speciale. Tale status consentì l'immediato avvio del processo di devoluzione
in quelle realtà, la cui autonomia veniva assicurata da una carta avente valore di
fonte normativa primaria. In concreto la distinzione tra i due gruppi di regioni fu
accentuato dal fatto che le regioni a statuto normale rimasero “in frigorifero” fino al
1970, mentre quelle a statuto speciale poterono immediatamente iniziare la loro
avventura istituzionale eleggendo sin dagli anni del dopoguerra i propri organi di
governo.

Il consolidamento di un regionalismo debole (dopo il 1970)


L’applicazione del modello di decentramento della Costituzione del 1948 dovette
attendere oltre vent'anni l'approvazione parlamentare delle norme che avrebbero
consentito l'elezione delle assemblee rappresentative nelle regioni ordinarie.
Dopo di allora il Parlamento varò altre disposizioni che determinarono un concreto
spostamento di funzioni e risorse alle nuove istituzioni regionali. Queste innovazioni
crearono il nucleo istituzionale e amministrativo del governo regionale, ma vi era
bisogno di maggiore tempo e di maggiore disponibilità di risorse per costruire un
sistema efficiente e consolidato. Tra le difficoltà emerse nell'implementazione del
regionalismo, in particolare: la regionalizzazione del 1970 non aveva toccato il tema
fondamentale del raggiungimento di un’autonomia finanziaria degli enti locali. Il
potere di bilancio era fortemente condizionato da una concezione top-down dei
rapporti tra centro e periferia periferia. Del resto, l'articolo 119 Cost. recitava che
l'autonomia finanziaria delle regioni era subordinata alla disponibilità delle risorse
dello Stato, e soltanto nelle regioni speciali questa subordinazione poteva essere
parzialmente superata da una regolamentazione più flessibile dei rapporti tra livello
regionale e statale.
In pratica: 1. il rapporto tra spese e spese regionali continuava ad essere molto
sbilanciato a favore delle prime; 2. anche sul piano dell'attività legislativa le istituzioni
centrali continuavano ad avere una posizione dominante: essendo il potere
legislativo regionale di natura “concorrente”, le leggi nazionali che dovevano definire
i principi entro i quali si sarebbe inserita la normativa regionale potevano subire
ritardi o rinvii, bloccando quindi l’iniziativa regionale; 3. il lavoro dei commissari
regionali e il ricorso ex post alla Corte Costituzionale costituivano gli strumenti
ultimativi per bloccare la legislazione regionale.
Le regioni italiane continuavano dunque a languire nell'ambiguità e nella palese
mancanza di chiarezza nei loro rapporti con i governi centrale e locali.

Un sistema di governo consensuale


L'art. 121 Cost. stabiliva che ogni regione doveva eleggere un consiglio, il quale
doveva selezionare e accordare la fiducia a un esecutivo (giunta regionale), con a
capo un presidente. L'implementazione di tale sistema nei primi anni ‘70, coincise
con la fase di espansione del consociativismo parlamentare, che determinò
un'interpretazione proporzionalista e policentrica anche dei singoli sistemi di governo
regionali. Pertanto, la distribuzione dei poteri tra consiglio e giunta ricordava la tipica
relazione esecutivo-legislativo dei governi della Prima Repubblica, e il Presidente
della Giunta regionale non si mostrava così forte, né sul piano del ruolo istituzionale,
data l'impossibilità di agire in modo efficace e sui processi decisionali, né su quello
del prestigio politico, visto che comunque la sua carica veniva vista come una
posizione di rango inferiore rispetto a quella di un leader politico nazionale. Il
Consiglio era di fatto l'istituzione decisiva nel decision making regionale, a partire
dalla redazione e dal voto sullo statuto, che doveva essere adottato dal Consiglio
stesso a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Per le Regioni ordinarie, il
sistema di decentramento rigidamente top-down previsto dalla Costituzione, che
richiedeva la ratifica di ogni statuto regionale da parte del Parlamento nazionale
attraverso apposita legge, poneva un ulteriore veto, questa volta da parte della
maggioranza parlamentare nazionale, alle decisioni fondamentali prese dai Consigli
regionali. Il sistema regionale sviluppato negli anni ‘70 appariva dunque come un
timido tentativo di divisione del potere su scala territoriale, influenzato e in qualche
modo limitato dal modello consensuale imperante al livello nazionale. Le stesse
elezioni regionali, seppur rilevanti, rivestivano essenzialmente un ruolo di elezioni di
second’ordine, costituendo una sorta di anticipazione o prosecuzione della
competizione elettorale nazionale. Ciò non soltanto per la scarsa decisività che esse
avevano in termini di formazione del governo regionale, ma anche per la valenza
che invece assumevano come test per gli stessi partiti in lizza per il governo
centrale.

Istituzioni simili, rendimenti diversi


In Italia la grande variabilità nel rendimento delle istituzioni regionali, con le regioni
del Centro-Nord più attive e “virtuose” rispetto a quelle del Sud e delle Isole, può
costituire un'evidenza sorprendente, vista l'omogeneità tra le soluzioni istituzionali
adottate. In realtà, fattori di tipo storico e strutturale spiegano tale variabilità. I risultati
principali dello studio di Putnam (La tradizione civica nelle regioni italiane) sono stati
i significativi dislivelli di performance delle regioni italiane e, in sede esplicativa, le
correlazioni, forti e positive, tra indice di rendimento e livello di capitale sociale,
misurato attraverso una batteria di indicatori relativi al livello di clientelismo, alla
partecipazione politica, alla diffusione dei giornali e alla penetrazione di associazioni
culturali e sportive.
Per Putnam, in Italia la pratica della democrazia locale si è sviluppata più
efficacemente laddove erano evidenti i positivi effetti di alcune attitudini di lungo
periodo a produrre senso civico. Al contrario, altre regioni sarebbero state
caratterizzate da sfiducia e diserzione nei confronti della società, dipendenza
dall'autorità e sfruttamento da parte delle gerarchie, isolamento e disordine,
criminalità ed arretratezza, si sono reciprocamente rafforzate in ripetuti circoli viziosi.
Inoltre, un interessante elemento è la capacità delle nuove istituzioni di sviluppare la
virtù civica e rovesciare la tendenza che penalizza alcune aree del Paese.
Cambiando e rafforzando le istituzioni politiche e si possono cambiare anche le
pratiche e gli stessi valori della politica.

La nuova politica locale come volano della transizione di sistema (dopo il


1990)
Le origini del cambiamento del sistema di governo locale vanno ricercate indietro nel
tempo e nel profondo sistema politico: ad esempio, nelle crescenti richieste di
maggiore autonomia da parte di enti locali e di alcune regioni. Il ciclo di riforme trova
il suo punto di partenza già prima della crisi e della transizione di sistema.
L'importante l.n.142/ 1990, di riassetto delle autonomie, era stata motivata dal
bisogno di rendere le istituzioni locali più responsabili e trasparenti, ma servirà anche
ad attribuire loro un certo numero di compiti che non erano stati implementati nella
legislazione precedente. Come, le nuove regole sulla trasparenza della pubblica
amministrazione, l'introduzione di referendum locale di tipo consultivo e altre forme
di consultazione diretta della popolazione finalizzate a consentire forme di scrutinio e
di controllo sull'attività amministrativa nei governi locali; l'introduzione di una sorta di
difensore civico al livello degli enti locali rivelava l'intento di usare la leva della
democrazia locale per riavvicinare le comunità politiche. La legge prevedeva un
potenziamento del ruolo delle istituzioni regionali, assegnando loro la funzione di
determinazione degli indirizzi in una serie di politiche, mentre gli enti territoriali
inferiori avrebbero dovuto assicurare le funzioni consultive ed esecutive.
Per l’effetto degli scandali di Tangentopoli, il Parlamento adottò una nuova legge
(1993) che introduceva l'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia.
L'opinione pubblica e soprattutto i media riscoprirono il mondo del governo locale e i
vantaggi di una più diretta relazione tra cittadinanza e politica. La competizione
politica fu immediatamente pervasa da un'accentuata personalizzazione e da una
crescente visibilità delle figure prescelte dal popolo a governare città e province, a
scapito delle assemblee rappresentative. La legge riformulò in modo decisivo anche
i rapporti interistituzionali relativi ai sistemi di governo locale, introducendo nei
comuni e nelle province quella che è stata definita una forma neoparlamentare, che
consiste: in un più bilanciato rapporto di forze tra legislativo ed esecutivo locale,
dove il capo dell’esecutivo legittimato direttamente è dotato di incisivi poteri, a partire
dalla nomina e revoca degli assessori, e di fissare nel proprio programma elettorale
l'agenda delle priorità politiche. Una crisi a livello di Giunta determina, in forza della
riforma, l'immediata dissoluzione del consiglio. Ciò significa che se un sindaco (e
all’epoca un presidente di Provincia) rimane comunque legato al rapporto fiduciario
con il suo consiglio, lo scioglimento automatico del Consiglio stesso in caso di
sfiducia costituisce una formidabile assicurazione per le sue prospettive di
persistenza. Il Consiglio dovrà dunque usare i propri poteri di sfiducia solo in
presenza di una modificazione irrimediabile degli equilibri politici o di un
comportamento del capo della Giunta palesemente contrario alle premesse e alle
promesse politiche, grazie alle quali aveva ottenuto in sede elettorale una così
elevata legittimazione. Dunque si cominciava a sperimentare al livello locale un
processo di verticalizzazione dell'esecutivo, piuttosto inedito per la tradizione
parlamentaristica italiana.
Per quanto riguarda il terzo livello, quello delle regioni, le domande di cambiamento
sollevate a lungo dalle stesse regioni, in particolare da quelle a statuto speciale e del
Nord, furono affrontate soltanto nel contesto di un più ampio disegno di revisione
costituzionale. La finestra di opportunità per la riforma costituzionale si sarebbe
dischiusa solo nel 2001. Furono invece le regole attinenti al sistema elettorale ad
avviare un processo di cambiamento dell'ordinamento regionale, infatti le elezioni del
1995 furono tenute con un nuovo sistema: il vecchio sistema proporzionale veniva
corretto con un premio di maggioranza, pari al 20% dei seggi in ogni Consiglio
regionale, allocato alla coalizione vincente, senza premiare i candidati delle varie
circoscrizioni ma un “listino” di candidati aggiuntivi collegati appunto ai cartelli
maggioritari. Unitamente all’effetto “bipolarizzante” la riforma dette un chiaro segnale
di rafforzamento dell'esecutivo regionale: di fatto, vi era già in questo sistema una
sorta di indicazione diretta del futuro Presidente della Giunta regionale, cioè della
personalità capace di unire le forze dello schieramento vincente e anche di scegliere
i candidati da aggiungere nel listino. Ulteriore fondamentale passaggio fu l'adozione
da parte del Parlamento nazionale di una serie di leggi riguardanti i rapporti
interistituzionali e la riorganizzazione amministrativa. La seconda metà degli anni ‘90
ha costituito un periodo estremamente produttivo in questo senso, in particolare,
sono state le cosiddette leggi Bassanini, ossia i decreti delegati scaturiti dell'azione
al governo di centro-sinistra per il periodo 1996-1999. Questa fase ha costituito il più
impegnativo e innovativo periodo di riforma per il sistema di governo locale in Italia
dal tempo dell'introduzione delle regioni ordinarie. Gli elementi di innovazione più
importanti sono stati: la definitiva affermazione del principio di autonomia decisionale
delle autorità locali, in forza del quale anche le più piccole unità potevano ricevere
risorse e responsabilità operative; l'affermazione definitiva del livello regionale come
vero e proprio attore politico produttore di norme; l'istituzionalizzazione della
conferenza unificata degli attori coinvolti nel gioco delle relazioni centro periferia (la
Conferenza unificata stato-regioni, città e autonomie), che ospita in un consesso
formale e permanente le attività di concertazione tra governo ed enti locali.
Il passo finale nella direzione di un rafforzamento del potere esecutivo regionale fu
la piccola modifica costituzionale del 1999, chi introdusse l'elezione diretta del
Presidente della Giunta regionale, formalizzando i poteri dello stesso presidente
nella fase di formazione del governo regionale.
Il nuovo secolo si apriva con la decisione del governo di centro-sinistra di
procedere, dopo il fallimento della cosiddetta bicamerale D'Alema, con una riforma
unilaterale del Titolo V della Costituzione. Tale decisione portò alla frettolosa
approvazione nel 2001, di un ampio emendamento costituzionale che avrebbe
dovuto essere sottoposto al referendum di conferma. Il referendum si tenne
nell'ottobre di quell'anno, quando al governo ormai era salita la coalizione di centro-
destra; tuttavia la scelta di riformare la Costituzione fu confermata dal referendum.

Dalla riforma costituzionale del 2001 al federalismo fiscale e oltre


La riforma del Titolo V della Costituzione introdotta dalla l. cost. n. 3/2001 ha definito
lo status quo dell'ordinamento regionale in Italia. Tre erano i suoi principali obiettivi:
1. ridefinire la distribuzione tra poteri dello Stato e governi locali; 2. modernizzare il
quadro complessivo della governance locale; 3. rafforzare il ruolo politico delle
regioni, risolvendo alcuni conflitti di attribuzione e introducendo elementi più marcati
di federalismo “dal basso”. L’art.117 elenca le materie nelle quali lo Stato centrale ha
potere legislativo esclusivo e quelle soggette al potere legislativo concorrente, per le
quali lo Stato può definire i principi fondamentali mentre le regioni fissano la
successiva legislazione ordinaria. Poiché non vi è menzione dei settori di politica
pubblica residuali, che costituirebbero i campi tipici della piena capacità normativa
delle regioni, si suppone che ogni regione possa muoversi con piena potestà
normativa in ogni campo non indicato dal suddetto articolo. Il rovesciamento della
struttura dell'articolo, ovvero la sistematizzazione generale della governance locale,
è un fatto importante. Infatti, secondo il dettato del 2001, le Regioni hanno potestà
legislativa nelle varie materie non delegate allo Stato, mentre le istituzioni locali
possono sviluppare le forme necessarie di regolazione secondaria e curare
l’implementazione delle politiche scaturite dalla legislazione regionale.
Una novità interessante è costituita dalle città metropolitane, che hanno trovato la
propria dignità costituzionale, e si presentano, come enti intermedi tra municipalità e
Regioni nelle aree ad alta urbanizzazione. Gli enti territoriali previsti dalla
Costituzione possono ora dotarsi di autonomia finanziaria e stabilire le proprie tasse
e le proprie entrate, in accordo con i principi di coordinamento della finanza pubblica
e con il quadro fiscale generale (art.119).
La coalizione di centrodestra, in particolare la Lega Nord, non hanno mai nascosto la
propria delusione per questa riforma ispirata da un federalismo cooperativo e
blando. Nel corso della XV legislatura, il Governo Berlusconi II tentò di varare una
nuova complessa riforma costituzionale che prevedeva di modificare ulteriormente
anche il Titolo V. Il progetto di revisione costituzionale veniva definito la devolution
italiana, grazie proprio al suo contenuto riguardante la forma dello Stato, inizialmente
stilato dal ministro per le Riforme Istituzionali, lo storico leader della Lega Umberto
Bossi. La riforma non ha passato il referendum costituzionale di conferma del 2006.
Il governo Berlusconi IV, nel 2008, ha riportato la questione al centro del proprio
programma. Tuttavia, l'esperienza acquisita e la forte recessione hanno consigliato
al centrodestra di utilizzare la piattaforma vigente per applicare attraverso leggi
ordinarie i principi del federalismo, evitando la strada di una nuova ambiziosa riforma
costituzionale. L'obiettivo specifico è diventato allora il federalismo fiscale che veniva
posto al centro di un disegno di legge delega già approvato nel 2009, dal quale
durante la XVI legislatura sono scaturiti 8 decreti. Con questa operazione, il governo
ha voluto dare un’attuazione decisa al principio di autonomia finanziaria di entrata e
di spesa per enti locali e regioni, anche se le analisi successive hanno evidenziato la
persistente incompletezza e indeterminatezza del sistema di divisione dei poteri.
Ulteriori accorgimenti sono venuti dai meccanismi di premi e sanzioni per i governi
locali, previsti da uno dei decreti attuativi della riforma, e dall'individuazione dello
speciale status di Roma Capitale.
In questo quadro di federalismo regionale due in particolare sono le innovazioni da
considerare: la prima, la l.n.56/2014 detta Legge Delrio (ministro Affari regionali),
riguarda un provvedimento che ha cancellato l'elezione diretta degli enti
rappresentativi provinciali trasformando le province in enti di secondo livello, in
attesa di una definitiva abrogazione per via costituzionale. Sul piano politico l'impatto
della riforma, che introduce un consiglio provinciale composto da rappresentanti dei
consigli comunali interessati e presieduto da un sindaco eletto dagli stessi consiglieri
comunali, ha l’impatto immediato di far dimenticare gli enti provinciali al popolo.
Ha dato decisiva spinta all’applicazione delle città metropolitane, le cui funzioni
strategiche e politiche sono ricalcate sul profilo delle vecchie province, ma alle quali
si concede una certa libertà statuaria, che potrà spingersi fino all'introduzione
dell'elezione diretta di un sindaco metropolitano. E’ intervenuto sull'organizzazione
delle società partecipate, un sistema di enti semipubblici che nell'ultima fase storica
ha costituito un elemento sempre più importante di gestione delle politiche locali ma
anche un canale di reclutamento e di scambio politico, nonché un nuovo territorio di
caccia di cariche per i professionisti della politica. E’ questo, forse, l'elemento più
importante della legge: l'idea di fondo è quella di introdurre “dal centro” regole
organizzative e criteri stringenti di contenimento della spesa.
La seconda innovazione è il disegno di legge Boschi di revisione costituzionale che,
in caso di definitiva approvazione, cancella totalmente le province dalla carta e
semplifica i potenziali conflitti di attribuzione, limitando la legislazione concorrente tra
Stato e Regioni e includendo una clausola di supremazia che consentirebbe al
governo di intervenire in materie riservate alla legislazione regionale quando la tutela
dell'unità giuridica o economica nazionale lo richieda. Il disegno di legge dettaglia
anche i criteri di efficienza nell'esercizio finanziario di qualsiasi ente. Il mancato
rispetto di questi potrebbe portare al commissariamento delle Regioni per dissesto
finanziario. Si tratta di una serie di norme generali che conferma l'impianto del
federalismo fiscale, ma al contempo restituisce al governo centrale un debole potere
di controllo in monitoraggio.
Questi sviluppi confermano che lo Stato centrale italiano appare oggi davvero
svuotato dalla libertà di autogoverno di regioni e governi locali, il cui ruolo nel
sistema politico è obiettivamente cresciuto. Un'innovazione fondamentale è stata la
soppressione del sistema dei controlli esercitati dai commissari di governo, pratica
che in passato aveva costituito il metodo principale per proteggere lo Stato centrale
e le sue prerogative dall'azione legislativa delle Regioni. Nel quadro attuale e fino
all'approvazione della riforma costituzionale del governo Renzi, lo Stato può
semplicemente ricorrere di fronte alla Corte Costituzionale impugnando un atto di un
dato ordinamento regionale, senza poter pretendere la sospensione della sua
applicazione.

Rendimento democratico ed europeizzazione


Gli effetti e le contraddizioni del sistema del governo locale in Italia sono oggetto di
un ampio lavoro di ricerca multidisciplinare, condotto su molteplici aspetti
(economico, sociale, giuridico). In generale, molti fenomeni meritano di essere
esplorati per spiegare le differenze nel funzionamento di un regionalismo sospeso
tra innovazione e dipendenza dalla storia. Il primo di essi è relativo alla persistente
variabilità nel rendimento democratico, mentre il secondo riguarda il livello di
europeizzazione della politica regionale in Italia.
1- Le diverse Italie continuano ad essere molto lontane tra loro, e questo si vede
soprattutto nel rendimento delle politiche e dei servizi pubblici a livello locale e
regionale e nel modo in cui partiti e associazioni si rapportano con la società. Il
lavoro di Putnam sul rendimento istituzionale delle regioni a statuto ordinario
smentisce parzialmente la relazione tra civicness ed efficienza delle istituzioni, che
sembra adesso una relazione spuria, ovvero soltanto apparente, mentre le variabili
decisive per spiegare il rendimento istituzionale e sono da cercare nella ricchezza
privata e nelle politiche di sostegno all'impresa.
2- Quanto al diverso impatto dell'europeizzazione nelle regioni italiane, l'esistenza di
ampi programmi comunitari che vanno sotto l'etichetta generica di politiche di
coesione ha fornito dalla metà degli anni ‘90 una serie di riscontri: in un'area
complessivamente interessata alle politiche di coesione come il Mezzogiorno italiano
è stato possibile rilevare casi relativamente “virtuosi” di utilizzo di queste risorse (ad
es. la Basilicata) al cospetto di regioni che palesavano maggiore difficoltà come la
Campania. Oggi, la nozione di europeizzazione delle regioni si estende ad un ampio
sistema istituzionale: sono infatti molte le politiche regionali e le pratiche interne a
subire un processo di trasformazione indotto dal sistema sovranazionale. Tutte le
regioni italiane hanno infatti mostrato interessante risveglio rispetto alla prima parte
delle politiche di coesione regionale: sia la presenza delle regioni presso le istituzioni
europee, sia il fondamentale aspetto del riassestamento delle organizzazione
politico-amministrativa delle Regioni stesse, al fine di assicurare i requisiti previsti
dalla multilevel governance, mostrano che sono stati compiuti passi davanti sebbene
realizzati con modalità diverse e con gradi diversi di soddisfazione. Le regioni
nordorientali e quelle centrali dell'area rossa si rivelano ancora le più virtuose nel
rispondere alla sfida delle europeizzazione, ma un rilevante tasso di variabilità è
oramai riscontrabile anche tra le regioni tradizionalmente meno sviluppate.

La mappa del potere locale nell’Italia di oggi


Accanto a prospettive più o meno prevedibili di mutamento o persistenza tra le
giunte e le maggioranze di questa o quella amministrazione, uno degli elementi più
rilevanti derivate dall'evoluzione della governance locale italiana sta nell'incremento
di rilevanza che le elezioni locali e regionali rivestono oggi per il pubblico. Non è un
caso che la mappa del governo regionale sia mutata in modo molto più evidente
rispetto agli anni della Prima repubblica. Allora, l'alta predisposizione all'instabilità
delle giunte tra una lezione e l'altra determinava rimpasti o mutamenti nella
composizione della maggioranza locale basati tipicamente sulla “semirotazione” di
alcuni partner minori, in piena coerenza con il modello consensuale-proporzionale.
Con l'arrivo di un sistema neoparlamentare, che ha coinciso con l'avvento di un
sistema partitico tendenzialmente bipolare, si è potuto osservare invece un esito
opposto, ovvero l'insediamento di giunte capaci di durare per l'intera legislatura, le
quali alle elezioni successive possono però andare incontro ad una sonora sconfitta
determinando una piena alternanza al governo. Tutto questo, ovviamente, fino alla
nuova fase di ristrutturazione del sistema dei partiti, che negli ultimi anni ha messo in
crisi, unitamente allo scoppio di nuovi plateali casi di corruzione e malcostume
politico, una serie di governi cittadini e regionali.
L'incertezza e la volatilità vengono ingigantite dalla nuova fase di destrutturazione
del sistema partitico e dal declino della partecipazione: il turno del 2015 ha visto
infatti l'entrata di un cospicuo gruppo di rappresentanti del Movimento 5 Stelle nei
consigli regionali, ed ha segnato, con il 52% di affluenza ai seggi, il punto più basso
della storia della partecipazione a questo tipo di competizione.
La maggiore rilevanza e autonomia del contesto elettorale territoriale si ritrova,
anche al livello delle elezioni locali, almeno per quello che riguarda i comuni delle
città più grandi. Facendo riferimento alle sole realtà metropolitane, riscontriamo che
a partire dal 1993 le elezioni dirette del sindaco hanno avuto un tasso di
partecipazione relativamente elevato e, in molti casi, esiti incerti e altalenanti. In
alcune di queste città è stata sperimentata almeno un'alternanza di giunte di colori
diversi, ad esempio a Palermo, a Cagliari, a Bologna e più di recente, a Roma e
Milano. La vittoria a Firenze nel 2009 di un candidato proveniente dall'interno del Pd,
Matteo Renzi, è suonata come una lezione per i più esperti insiders del partito
sconfitti nelle primarie che hanno lanciato il giovane leader prima verso Palazzo
Vecchio, sede del prestigioso comune toscano, e poi, cinque anni dopo, a Palazzo
Chigi. Gli scandali che hanno sovente bruciato la classe dirigente dei partiti della
Seconda repubblica hanno infatti lavorato a favore di un continuo fermento nella
ricerca di candidati credibili e amministratori rassicurati.
Capitolo 8. La pubblica amministrazione:
dall’immobilismo alla riforma permanente
I caratteri originari
Nelle tradizionali classificazioni dei sistemi amministrativi l'Italia è stata collocata nel
modello continentale-napoleonico, connotato da un'elevata centralizzazione,
uniformità delle procedure, rigido coordinamento e un apparato burocratico forte.
Le fondamenta del modello di amministrazione pubblica italiana si rintracciano in una
riforma dell’allora Regno di Sardegna del 1853 che prese il nome del primo ministro
(e futuro primo capo del governo italiano) Camillo Benso conte di Cavour. Tale
riforma, introduceva alcuni elementi della macchina statale destinati a persistere per
un secolo e mezzo, passando indenni attraverso i processi di prima
democratizzazione, la crisi democratica, una lunga parentesi autoritaria è una nuova
difficile transizione verso la democrazia repubblicana. Le caratteristiche originarie
dell'amministrazione italiana sono: 1) un sistema strutturato di ministeri; 2) un
modello di relazioni tipicamente “verticali” tra vertice politico di ogni struttura (il
ministro) e il suo apice amministrativo, tradizionalmente basato sulla figura cruciale
del segretario generale.
Le prime azioni del governo della Destra storica furono protese a consolidare la
presenza del nuovo Stato, trasferendo sul suo territorio un cospicuo numero di
funzionari, molti dei quali piemontesi. Successivamente i governi della Sinistra
storica tentarono di ammodernare il “centro” di governo con l'introduzione, nel 1877,
del Dipartimento del Tesoro, che accorpava la struttura di controllo sulla contabilità
pubblica, la Ragioneria generale dello Stato (1869. Qualche anno dopo (1888) il
ministero Crispi estese il controllo politico sulla burocrazia e introdusse la figura
tecnico-politica del sottosegretario parlamentare di Stato, al fine di rafforzare la
presenza del governo in Parlamento e sostituire la guida burocratica del vecchio
segretario generale con un vertice ministeriale politico.
L'altra fase rilevante di cambiamento fu il decennio giolittiano, durante il quale la
burocrazia italiana subì trasformazioni importanti. In prima battuta, la legge sul
personale degli enti locali (1903) assicurò un ruolo definito anche agli impiegati, già
molto numerosi, attivi negli uffici territoriali. Nel 1908 arrivò la legge sullo status
giuridico del pubblico impiego, che codificò una serie di diritti e doveri della
burocrazia e favorì la sindacalizzazione di una serie di categorie professionali. Infine,
il decennio vide una crescita netta delle dimensioni dell'amministrazione che nel
1910 era triplicata rispetto a vent'anni prima. Sul piano organizzativo, la sua struttura
non cambia in modo significativo almeno fino al consolidamento del regime fascista.

La nascita della burocrazia parallela e le eredità dell’amministrazione fascista


Solo dopo il compimento della transizione verso la dittatura e vari anni di controllo
sui poteri dello Stato, Mussolini si sentì abbastanza forte del consenso degli italiani
da porre mano alla robusta riforma che avrebbe costruito uno “stato totalitario”. La
strategia del fascismo era centralizzare e rafforzare la struttura amministrativa dello
Stato, al fine di affiancare al governo una burocrazia leale, capace di celebrare e
controllare, ma anche dimostrare l'efficienza dello Stato fascista. Con le riforme
successive al 1930 la “fascistizzazione” dello Stato potè realizzarsi.
Il dirigismo è un concetto che indica la realizzazione di una politica di robusta
pianificazione e di controllo continuo sulle attività dell'amministrazione. La finalità è
quella di influenzare fortemente la vita sociale dei cittadini e realizzare un ampio
programma di riforme economiche. Il completamento di intere strutture pubbliche,
dalla scuola alla difesa, dalle poste al sistema di trasporti pubblici, determinò lo
sconvolgimento dell'organizzazione in cui si dipanava il sistema amministrativo
italiano. La riforma Gentile della scuola fu probabilmente l'intervento più importante:
rafforzamento del “primo ciclo” scolastico obbligatorio, nuova classificazione degli
istituti di istruzione superiore, anche la centralizzazione del governo della scuola
attraverso la creazione dei provveditorati e la standardizzazione dei programmi.
Un interventismo crescente caratterizzò la seconda fase della politica di riforma
amministrativa fascista, determinando un trend espansivo del pubblico impiego.
Importante fu la forte presenza dello Stato nei rapporti economici, definito più avanti
sistema delle partecipazioni statali. Le grandi aziende create con denaro pubblico, in
particolare l’Imi (Istituto mobiliare italiano) e l’Iri (Istituto per la riconversione
industriale), furono sin dall'inizio della loro storia una struttura portante dell'economia
nazionale, assicurando centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Il terzo concetto chiave è quello di assistenzialismo. Durante il ventennio si sviluppò
un welfare totalitario basato su una miscela di statalismo ideologico e utilizzo della
macchina pubblica come mezzo di propaganda e di controllo da parte del regime.
La creazione di un sistema diffuso di assistenza e l'introduzione di nuovi schemi di
previdenza sociale costituirono infatti due strumenti straordinari di legittimazione e di
consenso.

L’adattamento della macchina burocratica (periodo repubblicano)


La rinascita di un sistema democratico non aveva demolito le fondamenta di un
modello amministrativo che si era lentamente sviluppato con lo Stato unitario, per poi
consolidarsi durante il fascismo. Il passaggio di consegne tra il sistema burocratico
del regime autoritario e quello della rinata democrazia fu una sorta di “adattamento”
più che una trasformazione. Segni di continuità con la pubblica amministrazione
fascista potevano trovarsi ad esempio nelle strutture ministeriali e nella persistenza
di una buona parte della vecchia dirigenza. Ovviamente, molte innovazioni furono
necessarie al fine di garantire il rispetto dei principi democratici e favorire la
modernizzazione dell’apparato. La Costituzione del 1948 introduceva una nozione di
pubblica amministrazione nuova, ma tuttavia generica poiché si limitava a
confermare il principio weberiano della neutralità-razionalità della missione
burocratica, senza far riferimento ai confini dell’attività burocratica. Così sin dall'inizio
dell'esperienza repubblicana, il modello italiano fu contraddistinto da un sostanziale
dualismo: mentre il centrale (i ministeri) fu caratterizzato da un'organizzazione
strutturata e stabile, il settore pubblico allargato tendeva da subito a includere una
pletora di corpi diverse tra loro (amministrazioni parallele). L’amministrazione italiana
divenne, perciò, una macchina pesante, uno dei sistemi più complessi del panorama
europeo.

La crescita dell’amministrazione pubblica dopo il 1945


Lo sviluppo incrementale delle unità ministeriali si sarebbe fermato solo all'inizio
degli anni 90, esponendo la Pubblica Amministrazione italiana alla pressione di
interessi particolaristici e clientele politiche. Nel complesso l'adattamento della
pubblica amministrazione seguì una logica eminentemente politica, più che un
progetto paradigmatico proteso alla modellizzazione dell'organizzazione statale.
La proliferazione dei ministeri non era affiancata da un serio monitoraggio e da una
revisione del loro strutture interne, che rimanevano ancorate al vecchio modello
gerarchico. Al contrario, le amministrazioni autonome furono al centro di una serie di
significativi interventi che ampliarono il loro raggio d’azione e innovarono le loro
strutture, facendone una sorta di seconda burocrazia. Un ruolo importante fu giocato
dalle aziende di Stato che furono rafforzate e ampliate coprendo una vastissima area
di intervento nell'economia. Dagli anni 50 crebbero in numero e soprattutto in termini
di esposizione finanziaria e di personale: i settori caratterizzati dalla presenza di
aziende di stato erano la siderurgia, la chimica, le telecomunicazioni e il gas.
Tutte queste attività pubbliche venivano motivate con il bisogno di stimolare uno
sviluppo più armonioso e territorialmente distribuito nel paese, portando la cultura
imprenditoriale al Sud. In realtà, l'intervento statale era spesso dettato da
un'esigenza più pratica: il bisogno di porre rimedio ai fallimenti dell'impresa privata,
evitando il collasso di particolari aree, e anche ai rischi politici indotti dal crollo
dell'occupazione in zone elettorali critiche che come molte province del
Mezzogiorno. Un esempio era la Cassa per il Mezzogiorno, organizzazione
concepita inizialmente come un'agenzia per la soluzione dei problemi del Meridione,
ma che si trasformò rapidamente nell'ennesimo pesante carrozzone burocratico. I
progetti, le sottostrutture e gli incarichi legati alla Cassa per il Mezzogiorno furono
finanziati per anni, senza mai sviluppare un sistema di monitoraggio del loro impatto
sui processi decisionali e sullo sviluppo delle aree interessate.
Nel 1956 si decise di varare un dicastero esplicitamente dedicato alle partecipazioni
statali; l’intento era quello di razionalizzare i flussi dell’intervento statale e limitare la
posizione oligopolista di alcune aziende di stato e il potere dei loro manager. Ma si
trattava di un obiettivo facilmente aggirabile da prassi che favorivano un uso
dispersivo e irrazionale delle risorse pubbliche. Lo stesso ministero vide il pochi anni
triplicare il suo personale, mentre il sistema delle partecipazioni manteneva la sua
natura caotica. Con queste importanti innovazioni la ricostruzione dello Stato italiano
poteva considerarsi completata, facendo emergere la più rilevante delle
caratteristiche del sistema amministrativo: la sua eterogeneità.

Dimensioni e caratteristiche del personale


Alcuni studi indicavano che il numero di persone impiegate nel settore pubblico si
era moltiplicato rispetto alle origini dello Stato italiano. Il complesso del settore
pubblico da stimare alla fine della Prima repubblica contava ormai su un personale
superiore a 3 milioni di unità. Gli studi hanno anche messo in rilievo elementi di
evoluzione qualitativa che sono fondamentali per descrivere la dinamica di
trasformazione burocratica. Il dato di fondo, quello dell’espansione di uno “Stato
sovraccaricato” dalle politiche del welfare, che hanno potenziato interi settori della
pubblica amministrazione, rimane costante. Tuttavia gli studiosi tendono a isolare
alcuni elementi peculiari dell'esperienza italiana in relazione ai caratteri del suo
personale: 1) il modello di carriera dei burocrati italiani risultava molto strutturato e
prevedibile, poiché la durata del servizio costituiva il requisito principale per la
progressione e la mobilità da una branca all'altra dell'amministrazione non era una
pratica frequente; 2) emergeva la meridionalizzazione del pubblico impiego, ovvero
una predominante presenza di funzionari e impiegati provenienti dalle regioni del
Sud; 3) i dirigenti amministrativi, in particolare i direttori generali ai vertici ministeriali,
mostravano in prevalenza un background di studi giuridici e competenze generiche,
mentre le esperienze tecniche e le competenze nel settore delle scienze fisiche e
sociali rimanevano largamente minoritarie; 4) la produttività media della burocrazia
tendeva a non aumentare nei decenni del dopoguerra, e subì anzi una netta
flessione nel corso degli anni 70. Questo fenomeno era anche dovuto alla crescente
influenza del sindacato, all'indebolimento dei ruoli dirigenti e alla standardizzazione
dei tempi di lavoro su una media di circa 6 ore al giorno, ottenuta in seguito alla fase
di contestazione; 5) un'ultima caratteristica della burocrazia italiana era l'evidente
gap nella presenza del genere. Un gap che dopo il 1968 veniva lentamente
bilanciato nel complesso del ceto impiegatizio, ma che persisteva nettamente a
livello di dirigenza.

Interpretazioni, critiche e tentate riforme


Il complesso burocratico italiano senza dubbio dette un contributo importante alla
crescita di una società composita, contribuì inoltre a far aggiungere al paese risultati
importanti in termini di sviluppo economico e tecnologico, di educazione civica, di
progresso culturale e scientifico. Al tempo stesso, il rendimento di questo sistema
amministrativo era costantemente al centro di critiche: la popolazione continuava a
pensare al settore pubblico come ad un corpo distante e in larga misura inutile,
imputandogli gravi inefficienze. Gli attori impegnati sul versante del lavoro privato,
imprenditori ma anche dipendenti, rincaravano la dose contestando i benefici
immotivati presenti nel settore pubblico, che finivano per gravare sull’intera
economia. Tema cruciale in questa discussione era la questione della relazione tra
politica e amministrazione. Se la Costituzione aveva prescritto con chiarezza la
neutralità del sistema amministrativo, il consolidamento democratico era stato
progressivamente connotato dalla forte commistione tra politica e burocrazia,
attraverso la penetrazione all'interno di questa del modello del governo di partito,
favorito anche dalla mancanza di vere alternative nella guida politica del paese e,
quindi, dalla stabilità del ceto di governo. Tutti i partiti furono propensi ad ampliare il
settore delle amministrazioni parallele e delle aziende pubbliche, ai cui vertici
potevano essere nominati personaggi vicini al mondo politico. Un modello forse più
composito rispetto alle schematiche interpretazioni della clientela e della parentela,
ma pur tuttavia legato al ruolo dei partiti e al controllo politico sulla burocrazia, prese
dunque piede a poco a poco. Si soleva chiamare tale metodo “sottogoverno”, spesso
affiancandogli l'aggettivo “democristiano” Tuttavia, quando negli anni 70 emersero i
primi segni di declino del partito di maggioranza relativa, anche gli altri partiti che
avevano rafforzato il proprio rendimento elettorale e la propria presenza nella
macchina dello Stato (il Psi di Craxi ma anche il Pci) non si distanziano di molto da
questo tipo di gestione dei rapporti tra politica e burocrazia. Una tale situazione finì
per determinare un nuovo punto di equilibrio politico, quella spartizione, indicata per
primo da Giuliano Amato come una pericolosa deriva del governo di centro-sinistra,
che divenne una vera e propria regola di gestione di ampi settori
dell'amministrazione,ivi inclusa la televisione pubblica e i vertici delle imprese
partecipate. La spartizione avrebbe dato origine ad un grave distacco tra opinione
pubblica e politica e trascinato l'economia pubblica in una crisi di rendimento e di
competitività. Nel 1970 esordiva il Servizio sanitario nazionale, un sistema unico e
universalistico di assistenza pubblica che sostituiva le vecchie mutue, nella speranza
di garantire un’erogazione razionale dei servizi, ma che si rivelò presto la causa di
un’onerosa frammentazione amministrativa.
Il tentativo più importante di riforma amministrativa, dopo decenni di immobilismo, fu
sviluppato da un ministro tecnico come il professor Massimo Severo Giannini.
Giannini, nominato ministro per la Funzione pubblica nel governo Cossiga del 1979,
condusse immediatamente uno studio orientato alla radicale revisione del sistema
amministrativo. Il rapporto Giannini, tuttavia, non avrebbe convinto né i politici né
tantomeno i burocrati: il dipartimento per la Funzione pubblica non giunse nemmeno
alla stesura di un vero disegno di legge, limitandosi a suggerire piccoli interventi di
tipo congiunturale. Giannini stesso fu ben presto allontanato dal governo, mentre la
riforma dello Stato si ripropose senza troppo successo nella agenda e nei programmi
di futuri gabinetti.
Tre mutamenti toccavano il sistema amministrativo negli anni ‘80: 1- si tornò a
ritoccare la struttura ministeriale, per rispondere alle nuove sfide del policy making,
con l'introduzione dei ministeri dell'Ambiente e dell'università; 2- la riforma della
Presidenza del Consiglio permise una revisione sostanziale del nucleo centrale di
governo, dando nuove risorse al dipartimento della funzione pubblica; 3- la lunga
diatriba riguardo le responsabilità dei dirigenti nei vari livelli degli enti pubblici portò
ad alcuni importanti risultati in merito alla regolazione della struttura amministrativa
degli enti locali. Nonostante questi interventi, l'amministrazione italiana entrava
nell'ultimo decennio del XX secolo con tutti i suoi tradizioni problemi di dimensione,
organizzazione ed efficienza. Una macchina enorme, eppure, come sottolineava
Cassese, senza “corpo” perché formata da un personale male organizzato e poco
qualificato e senza “testa”, per l’assenza di una vera élite amministrativa.

Svuotamento dello Stato e ristrutturazione amministrativa


Gli interventi successivi al 1992 hanno toccato molti aspetti del sistema
amministrativo:
1. il cambiamento strutturale nell'amministrazione centrale, cioè nuova
organizzazione interna dei ministeri, degli uffici territoriali e delle agenzie. Un
mutamento decisivo è stato promosso nel 1999 da due decreti legislativi
inclusi nella riforma Bassanini, che riduceva drasticamente a 12 il numero dei
ministeri. Ma sia il governo Berlusconi del 2001 sia quello Prodi del 2006
hanno nuovamente aumentato ministeri. L'attuale configurazione basata su
14 unità ministeriali può essere definita come una struttura burocratica
relativamente ridotta per la tradizione repubblicana ma che rimane tuttavia
piuttosto complessa. La logica manageriale basata su progetti e valutazione
non ha dunque soppiantato la logica direttoriale, basata sulla verticalizzazione
burocratica, ma, piuttosto, si è aggiunta ad essa. Di conseguenza, la struttura
della pubblica amministrazione corrente mostra oggi un curioso adattamento
a geometria variabile, ovverosia un'elevata frammentazione interna alle varie
branche della pubblica amministrazione e la tendenza ad utilizzare, anche
all'interno della stessa istituzione, logiche di funzionamento diverse. I
cambiamenti maggiori degli ultimi decenni riguardano la crescita del
personale a livello regionale (soprattutto personale del servizio sanitario,
gestito dalle regioni) e la minore dimensione delle vecchie agenzie autonome
e degli enti pubblici non economici. Se invece consideriamo il complesso del
settore pubblico allargato, la riduzione degli enti autonomi e dell'azienda di
Stato, avviata grazie ai processi di privatizzazione e di semplificazione
amministrativa, ha costituito probabilmente l'evento più significativo della
riorganizzazione del settore pubblico italiano. Il processo di cambiamento
prese le mosse, nel 1992-1993, da due eventi cruciali come il primo
programma di privatizzazione delle banche pubbliche e l'abolizione, via
referendum, del ministero delle Partecipazioni statali. Dalla metà degli anni 90
la lista delle aziende pubbliche entrate nel libero mercato comprende: il
fornitore delle linee e maggiore gestore di servizi di telefonia (Telecom Italia),
la più grande compagnia petrolifera (Eni), l’Istituto nazionale delle
assicurazioni (Ina), il vecchio gestore energetico (Enel) e tutte le principali
banche. Al quadro delle imprese privatizzate vanno aggiunti altri enti che, pur
rimanendo parzialmente sotto il controllo del governo, hanno assunto una più
marcata dimensione di mercato, come le Poste Italiane e le Ferrovie dello
Stato;
2. la riforma delle funzioni amministrative e delle procedure. Meno drastiche
sono state le innovazioni dell'ultimo decennio riguardo le procedure e dei
controlli amministrativi. I nuovi cardini della procedura amministrativa furono
ispirati dai principi del new public management: trasparenza degli atti,
efficacia dell'azione di governo, controllo sulle spese e flessibilità delle
strutture amministrative. Questi principi hanno avuto una difficile trasposizione
in armi concrete e lo spirito del riforma è stato spesso tradito al momento
della loro implementazione nella pratica quotidiana;
3. nuovo sistema dei controlli amministrativi. Per quanto riguarda i controlli
amministrativi, gli anni 90 hanno visto un'applicazione della nozione del
management per obiettivi a tutti i livelli della pubblica amministrazione;
4. le reiterate riforme del processo di bilancio. Il primo intervento ha introdotto un
sistema di computo dei bilanci nuovo, passando dal vecchio modello
incrementale, a quello a base zero, non costruito a partire dalla “ripetizione”
delle allocazioni degli anni precedenti, che mette dunque in discussione ogni
singola voce di entrata e di spesa. La riforma ha dato l'opportunità di ridurre la
complessità presente nella struttura complessiva del bilancio dello Stato.;
5. la riforma del pubblico impiego. La privatizzazione del rapporto pubblico di
lavoro si riferisce alla ridefinizione di un complesso sistema di relazioni
all'interno della pubblica amministrazione, cominciata con un fondamentale
decreto legislativo del 1993 con il quale si cambiano le basi dei contratti del
pubblico impiego. Questa riforma ha determinato l’avvio di una serie di
interventi a cominciare dalla riforma delle carriere del pubblico impiego del
1998, che ha semplificato le traiettorie di promozione. Inoltre, il decreto definì
meglio la responsabilità dei dirigenti amministrativi che sovrintendono agli
uffici ed ai progetti delle loro rispettive amministrazioni.

L’azione di riforma sulle ridondanti procedure della Pubblica Amministrazione italiana


è proseguita con il governo di centro-destra (2008-2011) e poi nella fase successiva.
Nel primo periodo, fu il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ad avviare
una complessa riforma che prevedeva mutamenti significativi nella disciplina del
rapporto di lavoro pubblico, lo sviluppo di un organismo centrale di valutazione della
pubblica amministrazione, tagli draconiani agli stipendi accessori ed agli enti risultati
inefficienti, nonché una serie di norme relative alla mobilità nazionale e
internazionale dei dirigenti amministrativi. Questa serie di interventi veniva celebrata
dai suoi sostenitori come una manovra ispirata al new public management, mentre i
suoi critici ne sottolineavano natura demagogica e dirigistica, parlando di svolta
centralistica in salsa federale. Dopo ulteriori tagli proposti con le manovre finanziarie
della fase più acuta di recessione, è stato il governo Renzi a proporre un nuovo
sostanziale ritocco del modello di pubblica amministrazione, nel 2015, che prevede
una serie di deleghe al Governo, orientate a semplificare la struttura di molte
amministrazioni centrali, ridurre il personale di vari enti e rilanciare il programma di
e-government (agenda digitale).

La crescita delle istituzioni regolative


La comparsa di organi autonomi di regolazione e controllo che operano a livello
nazionale senza alcuna forma di subordinazione gerarchica al governo, costituisce
un ulteriore elemento di cambiamento del sistema politico italiano e, in particolare
dei rapporti tra politica e burocrazia. Le “vere” autorità indipendenti vanno distinte da
un più ampio insieme di organi formalmente autonomi che detengono alcuni poteri
regolativi in settori specifici ma che sono direttamente subordinati al controllo
finanziario e alle strategie di un dato ministero. Il contesto istituzionale è stato reso
ancora più complesso dall'introduzione delle agenzie autonome (come l’Agenzia
delle entrate, presso il ministero dell’Economia), strutture dotate di una qualche
forma di autonomia organizzativa ma che di fatto costituiscono elementi organici
della burocrazia governativa. Tra le autorità indipendenti è importante ricordare le
seguenti:
- Banca d’Italia. Costituisce un esempio relativamente indipendente di banca
centrale che ha goduto di una notevole autonomia a partire dagli anni 80,
quando il “divorzio” dal Ministero del Tesoro le aveva garantito forte controllo
sulle scelte di politica monetaria. Tra le finalità istituzionali della Banca d'Italia
troviamo una pluralità di funzioni: la supervisione della politica monetaria, ora
delegata alla Banca centrale europea (Bce) e al Sistema europeo di banche
centrali (Sebc); poteri consultivi su una serie di scelte riguardanti le politiche
macroeconomiche e di welfare; la sorveglianza sulle transazioni economiche
e l’assetto del sistema bancario.
- Consob. Un’autorità con lo scopo di controllare i requisiti delle società che
intendono quotarsi in borsa e di vigilare sul regolare flusso degli scambi di
mercato azionario e che successivamente ha assunto, con l’ampliarsi del
mercato, più estesi poteri di regolazione volti a proteggere l’investitore, a
ridurre i rischi di insider trading, ecc.
- Autorità garante della concorrenza e del mercato. Nota anche con la
definizione inglese di Autorità Antitrust, è un ente dotato di un piccolo organo
esecutivo (un collegio di 5 persone) con il potere di giudicare il
comportamento di attori economici privati e di imporre sanzioni nel caso in cui
si fosse rilevato un comportamento distorsivo della concorrenza. I membri del
collegio devono essere nominati, inoltre, in base alla loro notoria
indipendenza da ogni tipo di vincolo politico ed economico;
- Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) e il Garante per la
protezione dei dati personali rappresentano due casi di autorità capaci di
mostrare un certo peso istituzionale, nonostante le limitate risorse
organizzative, proprio per l’uso che hanno fatto delle facoltà di sanzione
nell’ambito del proprio settore di intervento.

L’affermazione di poteri “alternativi” di controllo, negoziazioni e anche sanzione ha


rappresentato una svolta, obbligando il mondo politico e quello economico a
considerare con attenzione l'azione dell'autorità. Per quanto limitato numericamente,
il personale impiegato nelle autorità ha portato novità significative in termini di
competenze tecniche e “cultura amministrativa”. I poteri dell'autorità possono essere
classificati in poteri soft, come quelli che riguardano la regolazione di specifiche
materie e in alcuni casi la risoluzione di conflitti tra attori e istituzioni competenti, e
poteri più incisivi, come quelli di sanzione nei confronti degli attori che
contravvengono alle regole.
Capitolo 9. Le istituzioni dello stato di diritto:
conflitto con la politica e legalità

Politica e magistratura nella fase prerepubblicana


Sotto lo Statuto albertino la magistratura non era un corpo davvero indipendente, ma
un segmento dell’amministrazione. Lentamente il corpo giudiziario avrebbe acquisito
un’identità professionale ed una maggiore indipendenza dall’esecutivo. Questo
processo si arrestò con l’avvento del fascismo; proprio negli ultimi anni prima
dell’instaurazione del regime autoritario nacque il Consiglio superiore della
magistratura, un istituzione che avrebbe dovuto acquisire alcune funzioni di governo
dell’apparato giudiziario sino ad allora gestite dal ministro della Giustizia. Il fascismo
interruppe il processo incrementale di sviluppo , segnando un drastico ritorno
dell’interferenza governativa nell’attività giudiziaria. Il regime propose un’intensa
azione di penetrazione politica; tuttavia non si può parlare di una effettiva
“fascistizzazione” della magistratura.

La Costituzione del 1948


L’Assemblea costituente scelse di dare carattere di rigidità alla Costituzione affinché
venga sottratta alla maggioranza semplice la possibilità di mutare principi e regole
della legge fondamentale del sistema politico. Ne consegue che anche i contenuti
nomativi del testo assumono una dignità superiore rispetto alla normale contingenza
politica. Le innovazioni in materia di istituzioni giurisdizionali sono: l’introduzione nel
testo costituzionale di un dettagliato Bill of Rights, cioè un elenco di diritti civili,
politici ed economici che sono la base per la difesa giurisdizionale del cittadino nei
confronti del potere politico, economico e sociale. L’istituzione della Corte
costituzionale, cioè un istituzione rivolta a garantire l’attuazione dei principi
costituzionali sia nell’attività legislativa che nei rapporti tra i poteri pubblici. Infine,
l’apparato giudiziario diventa l’oggetto di un’estesa e dettagliata normativa
costituzionale finalizzata ad innalzare il rango del potere giudiziario al livello degli
altri poteri dello stato e a meglio garantirne l’indipendenza. L'enunciazione di queste
novità nel testo costituzionale non ha però condotto alla loro piena attuazione e solo
dopo un certo numero di anni questa potrà dirsi completa.

La nuova carta dei diritti


Nella nuova Costituzione la prima, e piuttosto lunga, parte del testo è dedicata a
un’enumerazione dettagliata dei diritti dei cittadini. Ai classici diritti civili e politici
della tradizione liberale (diritto di parola, di stampa, di associazione, di voto, ecc.) si
affiancano altri diritti sociali (diritto all’istruzione, al lavoro, alla salute, i diritti della
famiglia, ecc.), basati sul principio di uguaglianza, emersi a partire dal dopoguerra
grazie all’influenza congiunta della sinistra marxista e del cattolicesimo sociale. In
campo economico la Costituzione menziona la libertà di impresa ma è
particolarmente attenta a riconoscere i diritti dei lavoratori e gli obblighi dello Stato
nel garantire la giustizia sociale. L’attuazione e la tutela dei diritti enumerati in
Costituzione hanno subito un’evoluzione significativa nel tempo.
In un primo periodo, caratterizzato soprattutto da una maggiore prossimità con la
fase autoritaria e poi dall’asprezza della competizione politica tra blocco comunista e
anticomunista, la protezione dei diritti politici personali e alcuni diritti sociali è stata
soggetta a maggiori limitazioni. Le autorità amministrative e di polizia e la
magistratura potevano giustificarsi con le esigenze non infondate del mantenimento
dell’ordine pubblico. Un cambiamento importante, ma graduale, avvenne con
l’attuazione della Corte Costituzionale, che si sarebbe posta il problema di sottoporre
al vaglio la legislazione esistente non conforme alla Costituzione. A partire dalla fine
degli anni ’60, la magistratura si mostrò più propensa a dare applicazione ai diritti
sanciti nella carta.

La corte Costituzionale. Il disegno istituzionale


Le corti costituzionali si sono diffuse nei regimi democratici a partire dalla Seconda
guerra mondiale e traggono ispirazione dall’esempio americano della Corte
suprema. Si tratta di organismi che non fanno parte dell’ordine giudiziario in senso
stretto, a causa della loro specifica missione, ma condividono con esso alcuni
importanti elementi. Sono, in genere, istituzioni dotate di accentuati elementi di
politicità, costituendo un genere misto che combina in misura variabile logica politica
e logica giurisdizionale. In Italia la Corte costituzionale fu introdotta su proposta della
Dc e degli altri partiti centristi contro l’opposizione della sinistra, sospettosa di
qualsiasi istituzione che potesse in qualche modo limitare la piena affermazione
della sovranità popolare espressa attraverso il parlamento. A favore di questa
istituzione militava l’intento di affermare la superiorità della Costituzione sopra le
leggi ordinarie, di assicurare l’attuazione dei diritti della carta e di predisporre un
meccanismo per la soluzione dei possibili conflitti tra poteri e istituzioni dello Stato.
Questa scelta corrisponde ad una concezione della democrazia basata sul principio
liberale della separazione dei poteri piuttosto che su quello della sovranità elettorale
e parlamentare. I poteri fondamentali attribuiti dalla Costituzione alla Corte
costituzionale sono: 1) il giudizio sulla costituzionalità delle leggi (nazionali e
regionali); 2) il giudizio in materia di conflitti tra poteri dello Stato, tra Stato e regioni e
tra regioni; 3) la funzione di giudice in caso di messa in stato d’accusa del capo dello
Stato. Successivamente è stato introdotto un quarto potere, quello di decidere
sull’ammissibilità delle proposte di referendum. Per quel che riguarda la
composizione i costituenti scelsero di privilegiarla competenza tecnico-giuridica, ma
allo stesso tempo di assicurare un legame significativo tra questa istituzione e il
processo democratico-rappresentativo. Inoltre cercarono di assicurare il carattere
non partigiano dei giudici. Per assicurare queste distinte esigenze fu stabilito che dei
15 membri del collegio un terzo fosse nominato dal capo dello Stato, un terzo dal
Parlamento in sessione comune e un terzo dai gradi più elevati dell’ordine giudiziario
(3 dalla Cassazione, 1 dal Consiglio di Stato e 1 dalla Corte dei Conti). La norma
prescrive inoltre che i componenti della Corte debbano avere un’elevata
preparazione giuridica, quindi essere professori universitari di discipline giuridiche, o
avvocati con almeno vent’anni di esperienza professionale, oppure magistrati ai
livelli più alti della carriera. Nell’applicazione pratica queste norme si sono tradotte in
una spartizione proporzionale delle posizioni tra le forze parlamentari. Quando deve
essere eletto un giudice, a seconda che questi spetti alla maggioranza o
all’opposizione, la parte politica interessata raggiunge prima un accordo interno sulla
personalità da nominare, che poi sottopone all’altro campo. Per assicurare continuità
al lavoro della Corte e una maggiore autonomia ai giudici costituzionali la durata del
mandato è stata fissata in 9 anni ed è esclusa la rieleggibilità. I giudici eleggono tra
loro un presidente per una durata rinnovabile di tre anni.

Funzionalità
Bisognerà aspettare il 1956 perché la Corte costituzionale venga istituiti e cominci ad
operare. A ciò si aggiunge che, trattandosi di un’istituzione nuova, dovette partire da
zero, inventandosi il suo modus operandi e conquistandosi lentamente il proprio
posto all’interno del complesso sistema istituzionale italiano. Da un lato c’era il
problema del rapporto con il potere giudiziario e con la Corte di cassazione che, nei
primi anni della repubblica, era intervenuta sulla questione della legittimità
costituzionale delle leggi del passato regime; dall’altro, quello con le istituzioni
decisionali – parlamento e governo – che dovevano adattarsi al fato che un’altra
istituzione pubblica potesse annullare i loro atti. Sin dal suo inizio la Corte è stata
generalmente composta da figure di elevato prestigio accademico o giudiziario e ha
acquisito notevole autorevolezza. Con l’andare del tempo la sua attività si è estesa
notevolmente, concentrandosi sulle decisioni concernenti la costituzionalità delle
leggi. L’accesso alla Corte costituzionale è stato regolato in maniera tale che
soltanto dall’interno di un procedimento giudiziario una delle parti in causa possa
chiedere al giudice di portare di fronte alla Corte la questione della costituzionalità di
articoli di legge rilevanti per il processo: 1. se la questione sollevata non è
“manifestamente infondata” il giudice deve trasmetterla alla Corte; 2. si può però
avere anche un accesso diretto quando il governo chiede che una legge regionale
sia esaminata per stabilire la sua compatibilità con i principi costituzionali. In
entrambi i casi spetta alla Corte cost. decidere se la richiesta di giudizio sottopostale
possa essere ammessa o meno. Il secondo campo nel quale la Corte ha svolto un
ruolo significativo è quello dei conflitti di competenza tra i poteri dello Stato e ancor
più tra Stato centrale e le regioni o tra regioni. A partire dagli anni ’70 si è poi
sviluppata l’importante funzione riguardo il giudizio di ammissibilità del referendum.
La Corte non si è solo preoccupata di attuare la regola costituzionale che prevede
l’esclusione di certe materie dal referendum, ma con una certa liberà di
interpretazione ha esteso la sua prerogativa bocciando anche referendum in altre
materie laddove una decisione popolare avrebbe potuto mettere a rischio il
funzionamento delle istituzioni democratiche.

La nuova visione del rapporto politica-magistratura


Alcuni principi fondamentali di regolazione del sistema giudiziario sono fissati nella
legge fondamentale, acquisendo così una dignità particolare. I principali elementi di
novità sono: 1) la posizione della pubblica accusa come componente dell’ordine
giudiziario; 2) l’affermazione dell’indipendenza del giudiziario rispetto agli altri poteri
dello Stato; 3) la creazione di un organismo speciale con rango costituzionale diretto
a garantirne l’autonomia e l’autogoverno.
I componenti della magistratura, sia nella sua branca giudicante sia in quella
requirente, vengono selezionati attraverso un concorso nazionale e la loro carriera è
definita dalla legge. Non è prevista quindi la figura del giudice o del pubblico
ministero elettivo come succede in altri paesi. Gli unici elementi esterni a questo
corpo professionale sono i membri delle giurie popolari delle corti d’assise e i giudici
di non professione (giudici di pace e giudici onorari), ai quali sono affidati solo casi di
minore importanza. Il nostro ordinamento ha conservato la grande divisione tra
“diritto ordinario” (“civile” e “penale”), riconosciuto dalla Costituzione come un “ordine
autonomo, indipendente dagli altri poteri dello Stato” (art.104), e “diritto
amministrativo”, e parallelamente ha mantenuto in piedi la distinzione tra
“magistratura ordinaria” e “magistratura amministrativa”. A queste vanno aggiunte la
magistratura contabile, che ha nella Corte dei Conti il suo organismo centrale, e una
magistratura militare. Il corpo giudiziario ordinario si articola nelle due branche della
giustizia civile e della giustizia penale. Nel campo della giustizia penale ha grande
rilievo la distinzione tra organi dell’accusa e organi giudicanti. Nel sistema italiano gli
uffici e il personale responsabile delle due funzioni, requirente (l’accusa) e
giudicante, sono separati ma i magistrati provengono tutti da una stessa comune
carriera e sino alle recenti riforme potevano spostarsi dall’una all’altra senza ostacoli.
I pubblici ministeri condividono con i giudici lo stesso reclutamento e godono della
stessa indipendenza, cosa che li pone in una posizione piuttosto diversa rispetto
quella di molti altri paesi democratici, dove i magistrati di accusa sono meri
funzionari amministrativi dipendenti dall’esecutivo nazionale o subnazionale oppure
elettivi.

L’organizzazione del giudiziario


I tribunali, presenti in ogni provincia, sono le corti di prima istanza, quelle cioè dove
si svolge il primo stadio del processo; le corti d’appello, con un ambito di
competenza regionale, intervengono quando il giudizio formulato al primo livello
viene contestato da una o più parti; al vertice, con competenza nazionale, c’è la
Corte di cassazione, che è stata concepita come giudice di legittimità e non di
merito. Qualora la Cassazione approvi il ricorso il caso viene restituito ad una corte
di livello inferiore per essere nuovamente giudicato nel merito. A seconda della
natura dei casi la Cassazione opera attraverso una delle sue sezioni o, invece, a
sezioni unite, cioè con l’intero corpo. Per ogni livello del processo penale a un
organo giudicante corrisponde un organo dell’accusa. Di particolare rilevanza sono
le trasformazioni che hanno subito gli uffici dell’accusa: la componente requirente ha
in buona misura soppiantato l’esecutivo, cioè i ministeri dell’Interno e della Giustizia,
nella guida dell’azione di polizia contro la criminalità; l’iniziativa individuale dei
pubblici ministeri ha assunto un ruolo sempre più importante nel coordinamento delle
indagini.

Reclutamento e carriera dei magistrati


Per i magistrati il reclutamento è stato caratterizzato in entrata da meccanismo di
tipo meritocratico: un concorso nazionale molto competitivo e di natura
prevalentemente teorica è la porta di ingresso alla professione. L’unica eccezione è
per la Corte di Cassazione, la Costituzione prevede la possibilità di un reclutamento
esterno direttamente dal mondo accademico (campo studi giuridici) o dalla
professione legale. In origine l’avanzamento lungo una carriera strutturata in maniera
piramidale, dai posti più bassi di pretura sino al ristretto vertice della Corte di
cassazione, si svolgeva attraverso un sistema di valutazioni interne. I gradi più alti
del giudiziario e in certa misura il ministro della Giustizia avevano un peso
determinante nel decidere le promozioni. Questo meccanismo contribuiva a
rafforzare il carattere gerarchico del corpo giudiziario e la preminenza dei magistrati
di Cassazione. Il prestigio di questo rango superiore di magistrati era messo in
evidenza da molti aspetti simbolici e materiali (stipendio). Dalla fine degli anni ’60
una serie di riforme ha progressivamente smantellato questo sistema. Nel nome del
principio di uguaglianza e con l’obiettivo di accrescere l’autonomia della magistratura
dalle influenze del potere politico, che si riteneva fossero più facilmente esercitati
attraverso gli alti gradi del giudiziario, sono stati aboliti gli esami intermedi e la
progressione di carriera è stata basata unicamente sull’anzianità. Di conseguenza
tutti i magistrati raggiungono, entro un certo numero di anni, i gradi più elevati sino a
quello massimo di magistrato di Cassazione. Per quel che riguarda l’assegnazione
delle specifiche posizioni la responsabilità è stata attribuita al Consiglio superiore
della magistratura (Csm). E’ questa istituzione, o meglio, una delle sue commissioni
interne, a decidere sull’attribuzione di tutte le posizioni dell’ordine giudiziario sulla
base di una valutazione comparativa delle qualifiche professionali dei differenti
candidati per ciascun posto. Data la natura “politica” di questo organismo, queste
decisioni sono probabilmente influenzate dall’affiliazione dei magistrati alle diverse
correnti.

Consiglio superiore della magistratura e sviluppo del corpo


giudiziario
Il Csm è l’organismo al quale la Costituzione ha assegnato il “governo” dei giudici.
Strettamente connesso allo sviluppo di questa istituzione è il fenomeno della
mobilitazione dei magistrati attraverso la loro associazione professionale
(l’Associazione nazionale magistrati, Anm) e le sue fazioni interne. Il Csm era stato
concepito come uno strumento per regolare e disciplinare il funzionamento interno
del giudiziario. In particolare, gli era stato attribuito il potere di nominare i magistrati
alle diverse posizioni, di promuoverli o di rimuoverli dal loro posto e di punirli per
motivi disciplinari. Grazie a questa istituzione il giudiziario sarebbe stato protetto da
interventi esterni che potessero minacciare la sua autonomia. Il potere del ministro
della Giustizia nei confronti dei magistrati si riduceva alla sola funzione di
promuovere l’azione disciplinare. Nel disegno costituzionale il Csm è stato pensato
come un corpo misto, composto per una parte maggioritaria dai rappresentanti dei
magistrati, ma anche con una componente minoritaria legata alle istituzioni
rappresentative democratiche. Ci sono alcuni componenti “laici” eletti da parlamento,
questi ultimi hanno tradizionalmente rappresentato in maniera proporzionale
maggioranza e opposizione e sono stati in genere caratterizzati da un’esperienza
politica oltre che dalla qualificazione tecnico-giuridica. Il Csm è presieduto dal
presidente della repubblica ma la sua presidenza è assicurata in pratica dal
vicepresidente, scelto da tutti i membri del plenum, tradizionalmente tra i membri
laici. Questa figura si è trovata negli ultimi anni in una posizione delicata, dovendo
mediare tra il giudiziario e il mondo politico in un contesto di crescente conflittualità.
Nei primi anni della sua vita, il Csm fu dominato dai magistrati della Corte di
cassazione, piuttosto vicini al ministro della Giustizia e al governo. E così, dati i
poteri di nomina e promozione e l’originario meccanismo di carriera dei giudici
basato su concorsi e valutazioni, il Consiglio tendeva a riprodurre l’equilibrio
esistenze nel corpo giudiziario. La sua capacità di mantenere lo status quo è stata
erosa man mano che l’immissione di nuove leve di magistrati formati a una cultura
diversa e meno inclini a questo conservatorismo, si è combinata con un significativo
processo di politicizzazione della magistratura. I magistrati di più alto livello sono
rimasti sempre più isolati e la loro associazione, l’Unione dei magistrati italiani (Umi),
non è riuscita a far fronte alla concorrenza dell’Anm. All’interno dell’Anm si sono
sviluppate correnti caratterizzate da diversi orientamenti politici (sinistra, centro,
destra), ma anche da concezioni differenti riguardo il ruolo del potere giudiziario e
dei magistrati nella società e nell’organizzazione interna della magistratura. Questi
“partiti giudiziari” sono diventati gli attori protagonisti del Csm, introducendo nei suoi
lavori una logica quasi parlamentare. La dialettica destra-sinistra tra le correnti, e per
molti anni in particolare tra la Magistratura democratica (Md), di sinistra, e
Magistratura indipendente, più conservatrice, ha avuto una parte importante nel
definire le politiche del Consiglio.

Il giudiziario protagonista del rinnovamento e del conflitto politico


La crescente autonomia e l’attivismo dei singoli magistrati sono stati tra le
precondizioni di Mani pulite. Nel 1992 la magistratura con alla testa un gruppo di
pubblici ministeri milanesi, ha portato alla luce sia un diffuso sistema di
finanziamento illegale dei partiti, sia la pervasiva presenza di fenomeni di corruzione
negli appalti di opere pubbliche e nelle commesse statali. Mentre in passato singoli
magistrati avevano accusato singoli politici, questa volta si è trattato di un gruppo di
pubblici ministeri che, coordinando la loro azione, hanno messo sotto inchiesta
un’intera classe dirigente. Il ruolo dei media e dell’opinione pubblica nel dare
sostegno all’azione del giudiziario è stato sicuramente di primaria importanza, ma è
stato anche all’origine di alcuni problemi derivati. Alcuni pubblici ministeri
responsabili di questi casi giudiziari sono diventati improvvisamente delle star
televisive. Ricorrendo a misure giudiziarie straordinarie, quali la carcerazione
preventiva, hanno ottenuto confessioni e il riconoscimento del ruolo pubblico di
“riformatori sociali” che ha sicuramente favorito anche la loro entrata nell’arena
politica. Negli anni seguenti la linea di confine tra “azione giudiziaria” e “politica” è
diventata molto più incerta. La vittoria di Berlusconi nel 1994 aveva aperto una
nuova fase delle relazioni tra giudiziario e istituzioni rappresentative. Inizialmente, il
nuovo leader si era dissociato dalla vecchia élite attaccata dai magistrati di Mani
Pulite, presentandosi come un politico nuovo, ben diverso dai vecchi professionisti di
partito, cavalcando l’onda dell’antipolitica e dell’antipartitismo di quegli anni. Tuttavia,
i suoi stretti legami con i vertici di governo della tarda Prima repubblica (Craxi per il
Psi e Forlani per la Dc) sarebbero entrati presto in alcune inchieste. Inoltre,
Berlusconi aveva mostrato una certa propensione a sfuggire dalle tasse con una
varietà di mezzi ai limiti della legalità. Dopo aver perseguito i politici della Prima
repubblica, i magistrati si trovavano di fronte come presidente del Consiglio una
persona che combinava le due posizioni di politico e imprenditore, dando quindi
adito a duplici sospetti. Va ricordato anche il tentativo di Berlusconi di giungere a
tacito accordo con la magistratura più attivista, con l’offerta ad Antonio Di Pietro di
un posto di ministro nel suo governo. Tuttavia il suo progetto non decollò e i pubblici
ministeri cominciarono presto a mettere sotto esame l’impero finanziario del capo del
governo, riscontrando un buon numero di operazioni di dubbia legalità condotte in
passato dai suoi collaboratori (se non da lui stesso). Le inchieste e le sentenze che
hanno coinvolto il leader di Forza Italia e le sue società hanno creato una sorta di
“guerra giudiziaria” che ha inevitabilmente assunto anche i toni di un conflitto politico
e istituzionale. Da un lato gli accusatori erano convinti di poter addurre prove
rilevanti di comportamenti illeciti di Berlusconi e del suo entourage, dall’altro il leader
politico li accusava di un accanimento discriminatorio contro la sua persona motivato
dai loro orientamenti ideologici, ottenendo, a differenza dei protagonisti perdenti di
Tangentopoli, quale vittoria e, soprattutto, un consenso formidabile per moltissimo
tempo. La condanna definitiva di Silvio Berlusconi del 1 agosto 2013 per i reati fiscali
attribuitogli nel processo Mediaset, dalla quale è derivata l’invalidazione della sua
elezione al Senato, è un evento fondamentale. Da quel momento, al già evidente
declino elettorale del suo partito si affiancava la crisi della sua leadership, sfidata da
una parte da Angelino Alfano, fondatore del Nuovo centro destra. Paradossalmente,
la sua ineleggibilità veniva sancita dalla legge Severino (governo Monti, ministro
della Giustizia) per far fronte alle reiterate richieste di legittimità contro l’impunità di
molti politici che riuscivano a mantenere cariche e benefici di vario genere
nonostante il fatto di essere passati in giudicato per vari tipi di reato.

L’azione dei governi nel settore della giustizia


Dopo gli anni caldi di Mani pulite l’idea che il giudiziario richiedesse riforme profonde
era largamente diffusa nella classe politica. Durante il secondo gabinetto Berlusconi
il ministro della giustizia Castelli (Lega Nord) propose una riforma del giudiziario che
metteva a repentaglio molti degli sviluppi degli ultimi decenni. La riforma, fortemente
avversata dai magistrati che all’epoca organizzarono il primo sciopero della storia
repubblicana, e oggetto anche di una richiesta di modifica dall’allora presidente della
Repubblica Ciampi, vide la luce nel luglio 2005: essa proponeva la separazione delle
carriere tra pubblici ministeri e giudici, nuovi poteri al ministro della Giustizia
(ricorrere contro le decisioni del Csm o di avviare un procedimento disciplinare nei
confronti di un magistrato), l’introduzione di un sistema di valuta professionale degli
stessi magistrati e di speciali requisiti di esperienza per la progressione di carriera e
la promozione agli uffici giudiziari più elevati. Nel 2006 il nuovo governo di centro-
sinistra si proponeva di correggere alcuni punti importanti della riforma; con i
magistrati di nuovo sul piede di guerra, il ministro Mastella riuscì a giungere ad un
compromesso (l.n.111/2007): la separazione delle carriere venne cancellata,
inserendo tuttavia un limite minimo di servizio di 5 anni e un limite massimo di
quattro passaggi tra magistratura inquirente e giudicante. Veniva ristabilito il ruolo di
arbitro del Csm nel derimere i contrasti interni alle procure, mentre erano ridotte le
prerogative del ministro competente in merito all’azione disciplinare. Nel 2008, con il
ritorno al governo di Berlusconi, il conflitto si riaccese e emersero nuove proposte.
Alcune di esse, con ogni probabilità destinate ad incidere processi nei quali il
premier era coinvolto (leggi ad personam) hanno in realtà determinato effetti bizzarri,
sia pure di portata limitata. Si pensi alla legge che ha cancellato il reato di falso in
bilancio. La riforma della giustizia, presentata nel 2011 dall’allora ministro della
Giustizia, Alfano, prevedeva: una completa separazione tra magistratura requirente
e giudicante, distinte nelle carriere e governate da due specifici consigli superiori.
Inoltre, il potere delle procure sulla polizia giudiziaria sarebbe stato ridimensionato,
mentre come principio cardine del sistema processuale sarebbe stata
progressivamente introdotta la responsabilità civile per i magistrati per le loro
pronunce. La crisi del governo Berlusconi IV ha impedito alla riforma di Alfano di
vedere la luce, ma i problemi della giustizia non sono scomparsi. Con Andrea
Orlando, ministro della giustizia del governo Renzi, si è messo mano ad un
imponente pacchetto di riforme: ci si è soffermati su alcune norme necessarie
dall’emergenza legalità, come una legge antiriciclaggio e nuove misure per
combattere la corruzione; si è dato avvio ad un’ampia riforma del processo civile,
ricorrendo all’innovazione tecnologica e introducendo il processo civile telematico
per abbattere i tempi troppo lunghi della giustizia italiana.

Legittimità e legalità: problemi persistenti


Il rapporto tra poteri neutrali e politica rimane conflittuale per motivi che vanno ben
oltre il problema Berlusconi e, in generale, l’ingerenza dei magistrati nei confronti dei
titolari del governo. Riepiloghiamo i nodi irrisolti della giustizia italiana che incidono
sulla lentezza di tale processo di riforma e che toccano i temi del reclutamento, della
valutazione e delle responsabilità dei magistrati:
1) Sebbene il giudiziario continui ad avere una certa credibilità molto più alta
rispetto alla classe politica, la basse performance delle giustizia italiana non
sfugge all’opinione pubblica. Quello della giustizia giusta non è solo un
problema di ordine morale ma anche un freno allo sviluppo economico e
sociale del paese, poiché amplifica la mancanza di fiducia delle imprese
internazionali ad operare in Italia;
2) la giustizia italiana si trova a dover rispondere al bisogno di sicurezza,
sicuramente crescente (che alimenta anche sentimenti xenofobi, data
l’inevitabile correlazione statistica tra alcuni reati e presenza di immigrati) e al
tempo stesso far fronte ad un evidente problema di violazione dei diritti umani,
per il quale l’Italia è stata spesso oggetto delle reprimenda dell’Unione
Europea. Sullo stato disastroso dell’ordinamento penitenziario tutti i governi
hanno speso molte parole, ma poche risorse finanziare da destinarvi.
3) per tutta la durata della Seconda repubblica, l’Italia è rimasta un paese “ad
alto rischio” corruzione. L’elemento di maggior continuità rispetto ai tempi di
Tangentopoli risiede nella tendenza centrifuga di queste pratiche, ovvero nella
capacità dei registi della corruzione di ampliare il network, istituzionalizzando
una serie di “professionisti del malaffare” sia sulla sponda politico-
amministrativa sia su quelle imprenditoriale. Il vecchio cassiere di partito
protagonista degli episodi di finanziamento illecito ai tempi di Mani pulite,
sarebbe stato soppiantato da una serie di business politicians, capaci non
solo di massimizzare i profitti ma anche di diventare una sorta di “modello” per
tanti politici locali pronti a loro volta ad interpretare il proprio mandato pubblico
reiterando comportamenti illegali o, comunque, moralmente riprovevoli.
4) Infine, l’opacità del comportamento di troppi amministratori locali e la
tendenza a considerare il mandato pubblico, anche in assenza di eventi
corruttivi o di altri reati, in modo autoreferenziale contribuiscono ad aumentare
la distanza tra classe politica e magistratura. I tanti eventi degli ultimi anni
continuano a dimostrare, anche in tempi di crisi, l’utilizzo scriteriato di una
serie di benefici sui quali si sono avventati sia i giudici (laddove vi siano stati
elementi di perseguibilità) sia i pubblicisti impegnati a castigare il vizio dei
politici (e non solo di loro) di spendere troppo e male e di non saper tagliare le
spese inutili se non con qualche simbolica “sforbiciatina”. A monte del
problema degli strumenti per combattere la corruzione e favorire una nuova
moralità nella politica rimane l’oramai antico tema del conflitto di interessi.
Non vi è infatti ancora un accordo forte e condiviso su una legge capace di
regolare la possibilità di competere per coloro che, per le proprie posizioni
proprietarie o per altre situazioni di vantaggio, si pongano come portatori di
conflitti di interesse. La questione si è trascinata in parallelo con la traiettoria
di Berlusconi e con lo svolgimento della transizione italiana: dopo aver
cercato un’intesa, il centro-sinistra non è riuscito a regolare il tema, mentre il
centro-destra aveva introdotto una legge (nel 2004) considerata però del tutto
insufficiente dalla coalizione avversaria.
Capitolo 10. Il cambiamento del sistema politico
italiano: le interpretazioni

Una “democrazia del pubblico”. Disimpegno, nazionalizzazione del


voto, nuove fratture sociali
Negli anni si sono verificati alcuni cambiamenti nei rapporti che legano la comunità
all’autorità politica, tuttavia il tasso di apatia nei confronti della politica è rimasto
significativo e la sfiducia nei confronti delle istituzioni centrali sembra anche
aumentata. Si sono registrati fenomeni di coinvolgimento innovativi, dai referendum
alle stesse manifestazioni di varia natura oggi classificate nella categoria dell’
“antipolitica”. Tuttavia, il livello generale di interesse non si è spostato rispetto alla
misura registrata alla metà degli anni ’80, quando la quota di italiani interessati alla
politica aveva raggiunto il livello di 1/3. Dopo il forte coinvolgimento sull’onda della
crisi degli anni ’90, la successiva stagnazione dell’interesse per la politica rende
difficile una spiegazione basata solo sulla teoria per cui la crisi della politica
tradizionale e l’avanzamento dei livelli medi di istruzione determinerebbero un
maggiore impulso ad occuparsi di politica (teoria della mobilitazione cognitiva). Lo
studio di Segatti sviluppa alcune argomentazioni complementari: le giovani
generazioni non costituirebbero, almeno in Italia, il protagonista principale delle
nuove forme di mobilitazione, secondo i sondaggi sono più interessate alla politica le
generazioni attorno ai cinquant’anni; le forme di mobilitazione successive agli anni
della Guerra fredda hanno avuto un impatto assai inferiore rispetto alle precedenti,
pur diventando rilevanti nell’orientare politicamente alcune significative minoranze di
italiani.
Le forme tradizionali di collateralismo tra interessi e partiti, e quindi la correlazione
tra appartenenza socio-occupazionale e comportamento politico diventano sempre
meno rilevanti. L’instabilità della domanda politica ha colpito anche un altro
tradizionale carattere del sistema politico: le differenze territoriali usualmente
connesse alla persistenza di alcune subculture politico-territoriali. Le elezioni del
2013, e anche quelle parziali successive, hanno evidenziato i vari elementi che
hanno ridimensionato la tradizionale regolarità del voto territoriale: l’impensabile
successo in tutto il paese del M5S, la tendenza ad un voto più omogeneo del centro-
sinistra, la marcia della Lega Nord verso il Sud. Gli elettori avrebbero, insomma,
spiccato un “salto nel voto” (Diamanti, 2013). Le interpretazioni riguardo i nuovi attori
della politica hanno preso varie direzioni:
1) da un alto si è immediatamente rubricato il successo del M5S come una delle
espressioni del populismo italico, certamente non una categoria nuova;
2) dall’altro, tuttavia, si tratta di una forma molto diversa, e per certi versi
opposta, di populismo, rispetto a quelle del disimpegno degli anni ’80,
dell’apatia amplificata dagli scandali del decennio dopo e anche del
persistente allontanamento della politica di questi anni. I sommovimenti
recenti sul piano della domanda politica sono stati analizzati anche in
relazione a due fondamentali elementi di dinamismo, tra loro connessi: la
diversa visione della politica delle generazioni di oggi chiamate a votare e
l’uso dei nuovi mezzi di comunicazione sociale. E’ stato fatto notare che gli
elementi di innovazione che sembrano così improvvisi sono, da un lato, da
verificare nel tempo, poiché la situazione sociale degli ultimi anni ha
effettivamente creato i presupposti per una serie di comportamenti impulsivi e
non necessariamente stabili; dall’altro, non si può sottovalutare l’impatto di
medio periodo di queste dinamiche. In particolare, ci si chiede quale possa
essere il comportamento futuro delle generazioni più giovani, colpite in questi
anni da elevatissimi tassi di disoccupazione ed esposte ad una significativa
riduzione delle protezioni sociali a cui il paese era abituato.

Nuovi canali di comunicazione e bisogno di leadership


L’interesse effettivamente dimostrato da molti cittadini e la volontà di una serie di
soggetti sociali di influenzare i processi politici non sono seguiti da un’autentica
presa di coscienza rispetto ai problemi. Due fenomeni studiati nell’ultima fase storica
in tutte le democrazie possono fornire un utile quadro teorico per spiegare quanto
accaduto nel sistema italiano. Il primo fenomeno è quello della prevalenza di un
sistema di comunicazione politica mediatizzato ma non per questo sufficientemente
approfondito. Il modello pluralista-polarizzato di giornalismo, nel quale il caso italiano
si è sempre riconosciuto, è entrato in crisi in questa fase storica, proprio per la
natura precaria delle organizzazioni partitiche che un tempo controllavano molti
giornali e ne influenzavano altri. In un tale contesto, il discorso pubblico si rende
forse più libero dai condizionamenti ideologici ma non necessariamente più elevato e
attendo ai bisogni reali. Al contrario, il prodotto dl sistema mediatizzato di
comunicazione politica si è infarcito di volgarità gratuite, di sensazionalismo, di
un’informazione spesso inattendibile e di contrapposizioni volutamente “gonfiate” a
fini di audience. Si tratta di ingredienti perfetti per il successo sui media con un
discorso a metà tra serio e faceto: il ruolo attivo in un ambiente mediale fatto di
gossip e immagini private ha infatti segnato il successo di molti leader, a partire da
Berlusconi, e ha alimentato il dibattito tra osservatori divisi sulla natura virtuosa o
viziosa della politica pop.
Il secondo fenomeno rilevante nella ricerca di fattori che spiegano l’imperfetta
capacità di formare opinioni solide e durature, è quello solitamente indicato come
personalizzazione della politica, può definirsi semplicemente effetto-leader. Se è il
leader che conta, gli orientamenti degli elettori e anche le azioni di articolazione delle
domande e pressione istituzionale promosse da gruppi e movimenti sarebbero
inevitabilmente concentrate sulla ricerca di un possibile vincitore. Nuove e
interessanti ipotesi sono state avanzate in prospettiva comparata sull’impatto
esercitato dalla democrazia del pubblico: i regimi democratici tenderebbero, in
questa fase storica, a sviluppare la stabilità politica in presenza di elevate capacità di
comunicazione mediatica e di gradimento da parte di leader costantemente alle
prese con un tipo di dinamica politica definita campagna elettorale permanente.
Tuttavia, per arrivare a questo tipo di leader sembra necessario cristallizzare
qualche minima “regola del gioco” e un sistema di competizione partitica, se non
stabile, quantomeno non schizofrenico. Le ricerche hanno sin qui dimostrato una
maggiore “aspettativa di leadership” nel centro-destro, mentre nel centro-sinistra si è
notato una più blanda domanda di leadership, bilanciata da un’effettiva minore
attenzione all’ “immagine performativa”.
Si potrebbe obiettare che l’esempio della leadership di Renzi, primo esponente del
centro-sinistre a fondere i ruoli di capo del partito di maggioranza e di capo
dell’esecutivo, smentisce questi giudizi, andando nella direzione esattamente
opposta. Ma è anche vero che la storia recente del Pd mostra tutti i limiti di una
personalizzazione indotta e non gradita da molti militanti e dirigenti, limiti che hanno,
da un lato, allargato il consenso potenziale del partito ma, dall’altro, anche creato
tensioni e messo più volte in fuorigioco la forza dominante della XVII legislatura
repubblicana. In fondo il caso italiano si è proposto piuttosto tardi come un esempio
rilevante di leaderizzazione, proprio per la scarsa visibilità goduta dai leader nella
Prima repubblica.

Presidenzializzazione e delegittimazione strisciante


Un aspetto della personalizzazione politica che invade la sfera istituzionale è quello
definito della presidenzializzazione del governo parlamentare. Rimane da capire
quanto l’enfasi sulla figura e sul valore aggiunto garantito da un dato leader diventi
una componente decisiva del rapporto tra pubblico e politica anche oltre il momento
elettorale. Ma quanto è diversa allora la democrazia parlamentare italiana di oggi
rispetto ai decenni della Prima repubblica? Su una cosa non vi sono dubbi: gli italiani
continuano ad essere scontenti circa il rendimento delle proprie istituzioni politiche,
specie al cospetto del giudizio sugli altri paesi. Questo è dunque ancora uno
stereotipo del nostro pubblico. Ciò che colpisce dell’ultima fase storica è il fatto che
la sfiducia sembra aver colpito in modo virale anche quelle istituzioni che secondo il
pubblico italiano sembravano essere comunque affidabili. Gli attori tipicamente
sostenuti dal pubblico, il capo dello Stato, la magistratura, i comuni, le regioni e
l’Unione Europea hanno subito un tracollo di popolarità, mentre parlamento,
governo, partiti e sindacati rimangono ai minimi storici. I problemi di stabilità
istituzionale e di governo riemersi dopo lo stallo del 2013 si legano alla capacità di
interazione tra le forze politiche (sulla quale gioca un ruolo non indifferente il sistema
elettorale). Altro punto, è quello relativo al futuro incerto della forma partito e il
problema dell’evidente crisi di legittimazione della classe politica espressione di
questi partiti. I partiti italiani hanno massimizzato le risorse senza saper mantenere
le promesse. Questo ha ulteriormente ritardato la rinascita di un modello di party
government, pur se diverso dal passato, ma non ci ha fatto dimenticare
l’imprescindibilità del binomio partiti-democrazia in un sistema come quello italiano.

Grande riforma o adattamento incrementale?


Davanti al deficit di efficienza del sistema istituzionale, i tentativi di riforma sono stati
tanti; è vero che, per la maggior parte, si è trattato di “false partenze” o riforme senza
risultati apprezzabili. Tuttavia, la riforma del Titolo V del 2001 ha costituito, con i suoi
limiti, un passaggio rilevante. Non sarebbe onesto non riconoscere, al di là del
giudizio politico sui singolo interventi, una precisa volontà, una tenacia delle riforme,
che ha contraddistinto molti attori politici e sociali in questi anni. Certamente, lo stile
di policy e anche i suoi strumenti utilizzati sono assai diversi: Berlusconi, e alcuni
suoi ministri, optarono per un approccio decisionista (il maggior elemento di
similitudine con Renzi) e la spinta di una riforma costituzionale complessiva, di
impianto (tendenzialmente) presidenzialista, che ricorda la piattaforma del suo
maestro, Bettino Craxi. Insomma, la tenacia delle riforme di destra, di sinistra e
tecnocratiche si è sempre scontrata con l’inerzia delle istituzioni e con le resistenze
di una serie di attori.

La dinamica del regime democratico: crisi, transizione, “Terza


repubblica”
Gianfranco Pasquino ha rilanciato una ricostruzione ispirata al tradizionale schema
eastoniano del sistema politico: la crisi italiana (anni ’90) avrebbe avuto corso nel
momento in cui le componenti essenziali del sistema – comunità, regime e autorità –
venivano messe contestualmente in discussione. Ulteriori letture hanno recuperato
elementi propri di altre teorie esplicative, ponendo l’accento sulle responsabilità della
classe politica e dei partiti: nel suo Il cambiamento politico in Italia, Pietro Grilli di
Cortona indica nel terremoto organizzativo dei partiti e nelle nuove dimensioni del
sistema partitico le determinazioni decisive alla transizione, ricollegandosi alle tesi
sulla peculiare applicazione italiana del governo di partito. L’idea di transizione
evocava un regime democratico nuovo, che però è rimasto sospeso tra mito del
cambiamento e realtà di una sperimentazione comunque importante, basti pensare
alla grande novità dell’alternanza di coalizioni tra 1996 e 2001, dopo un
cinquantennio di governo della Democrazia Cristiana.
Una democrazia diversa ma non maggioritaria
Leonardo Morlino riparte dalla classica tipologia polare tra modello maggioritario e
modello consensuale di democrazia. Seguendo la logica della tipologia di Lijphart, il
sistema consensuale (cioè ad alto tasso di dispersione del potere) della Prima
repubblica avrebbe lasciato il posto ad un nuovo sistema consensuale, nel quale
alcuni elementi (frammentazione partitica, dispersione del potere) accentuano il
preesistente carattere di consensus democracy, mentre su altre dimensioni
sarebbero emerse prestazioni diverse, senza però uscire mai dai connotati
fondamentali di quel modello originario. Oggi il grado di dispersione del potere
potrebbe essere addirittura superiore a quello pre-1992, anche se, come sostiene
l’autore, almeno due elementi rendono questo tipo di democrazia assai diverso
rispetto al modello della Prima repubblica: 1) l’affermazione di una forma di
bipolarismo; 2) la diversa composizione del nucleo istituzionale che partecipa al
power-sharing (ovvero il processo di dispersione del potere) oggi molto più orientato
a premiare una serie di istituzioni sub e sovranazionali (regioni, enti locali e Unione
Europea).
Il venir meno o l’attenuarsi delle procedure del bicameralismo ridondante
assegnerebbe certamente un punto importante alle capacità decisionali del governo,
ma rimarrebbero intatti tutti i contrappesi tipici del sistema consensuale, che anzi,
per certi versi, si rafforza con il completamento di una riforma improntata al
federalismo cooperativo.

Fattori endogeni: la ricerca di nuovi equilibri istituzionali il


potenziamento della qualità democratica
Molti hanno indicato nel doppio processo di riequilibrio tra i poteri dello stato e tra i
livelli territoriali che connotano il sistema, la via maestra per superare i problemi
emersi già ai tempi della biforcazione nel rapporto partiti-società, quando la crisi del
party government veniva anticipata dalla perdurante (ma poco notata dai media)
incapacità della classe politica di fornire adeguante risposte in termini di policy
making. In quegli stessi anni, guarda caso, anche la frattura territoriale Nord-Sud era
riemersa nella sua drammatica attualità. Ma quale è stata, sinora, la dinamica del
doppio processo appena menzionato? Quanto al primo dei due processi, bisogna far
riferimento al rapporto politica-magistratura, che ha toccato negli anni di
Tangentopoli il suo punto più critico. Tutto il rapporto politica-amministrazione si
mostra ancora in movimento a seguito degli sconvolgimenti dell’ultimo quindicennio.
La stessa cosa si potrebbe asserire per quanto riguarda un altro fondamentale
rapporto tra poteri, quello tra politica e sistema dei media, un tema che continua a
rimanere di vitale importanza per la democrazia italiana, anche al tramonto
dell’esperienza politica di Berlusconi. Quanto al secondo processo relativo alla
redistribuzione dei compiti tra i livelli di governo, il modello di federalismo oggi
raggiunto e il sistema di enti locali forti descritto, hanno sinora costituito la storia di
maggiore successo del cambiamento politico italiano recente. Tuttavia si tratta
soltanto di un successo di tappa, perché la ricerca dell’equilibrio è ancora in corso e
non mancano problemi di inefficacia e inefficienza di rendimento, anche nelle
istituzioni del governo territoriale.
Evidentemente, il riequilibrio tra i poteri e quello tra centro e periferia dovrebbe
costituire la principale garanzia per la credibilità del sistema politico di domani. Ma è
anche vero che un terzo fattore endogeno, indipendente rispetto a quelli citati, è
costituito dalla capacità della classe politica di rappresentare bene le domande di
una nazione che in questi anni ha dovuto affrontare prove difficili. Diventa cruciale
una spinta dall’interno della classe politica stessa per rimuove ogni forma di freno
alla modernizzazione di quella figura di professionista politico che appare ancora
necessaria ma che deve tuttavia autoriformarsi per non diventare davvero una casta;
cioè per superare quei deficit di sobrietà, trasparenza e responsabilità che
connotano le carriere dei politici agli occhi dei media e dei governanti.

Fattori esogeni: il nuovo ordine internazionale e l’europeizzazione


L’azione esercitata da alcuni fattori esterni al sistema politico è stata decisiva per
stimolare e incanalare molte delle recenti trasformazioni. La depolarizzazione
ideologica e la fine di un controllo quasi monopolistico sul voto cattolico da parte di
un unico partito di centro sono probabilmente gli elementi più rilevanti e da collegare
direttamente alla fine della Guerra fredda. Il nuovo ordine internazionale ha favorito
altri effetti di lungo periodo sul sistema politico italiano, a cominciare dalla maggiore
profondità con la quale alcune pratiche di governo e alcuni modelli istituzionali hanno
dovuto adattarsi alle esigenze di un mondo più veloce, reso permeabile alla
tecnologia, ai media e alla globalizzazione economica. Le più evidenti influenze di
riforma riconducibili alle buone pratiche dell’esperienza internazionale consistono
probabilmente nell’applicazione, sia pure parziale, di un modello di new public
management nel sistema amministrativo, e nel ricorso sempre più frequente ad
autorità regolative, esterne alla burocrazia tradizionale. Tra i tanti fattori esogeni che
si possono individuare alla base del mutamento, il più importante è l’allineamento
delle azioni politiche nell’arena domestica alle norme generate da quella particolare
sfera sovranazionale che va sotto il nome di Unione Europea. Il fenomeno
dell’europeizzazione è stato studiato soprattutto in relazione a vari settori del policy
making, valutando quindi l’impatto della dimensione sovranazionale sulle diverse
politiche pubbliche. L’europeizzazione della politics (attori e istituzioni di governo)
italiana può essere sintetizzata come un processo che incide sia sui processi di
rappresentanza politica e territoriale sia sulle istituzioni formali poste al cuore del
sistema stesso, le quali hanno mostrato fasi e gradi diversi di esposizione al
cambiamento. L’insieme di questi fenomeni ha reso lo scenario politico italiano più
consono a quella compatibilità virtuosa richiamata dai teorici dell’europeizzazione
come uno strumento fondamentale per trarre profitto dalla partecipazione al sistema
di governance sovranazionale. Soprattutto tali cambiamenti hanno potuto
determinare una metamorfosi complessiva nel funzionamento della politica
domestica, non certo cancellata ma comunque “arricchita” dalla dimensione
europea. Il percorso di salvataggio operato in settori cruciali del policy making e
nell’adattamento di molte procedure non rappresenta di per sé un progetto
istituzionale, e quindi non costituisce un elemento sufficiente per identificare
soluzioni stabili. Un sistema politico come il nostro, abbastanza grande per rivestire
una certa centralità in Europa e nel Mediterraneo, ma troppo piccolo per pensare di
risolvere da solo i problemi, sembra ancorato all’evoluzione di due particolari fattori:
1) la globalizzazione dei mercati che ha rischiato di mettere in ginocchio il
sistema politico italiano incidendo, pesantemente, sulle sue procedure
istituzionali. Oggi i rischi e le opportunità che vengono da questa dimensione
si chiamano stabilità dei mercati, capacità di penetrazione nei confronti di
nuove aree commerciali e nuove potenze extraeuropee (da qui l’importanza
strategica di eventi come l’Expo di Milano del 2015), credibilità della
leadership politica ma anche dell’élite finanziaria e culturale di un paese che è
pur sempre un luogo importante della cultura europea;
2) l’attrattività che il paese ancora riveste deve fare i conti con i problemi di
sicurezza, di convivenza interculturale e di sostenibilità dei flussi migratori che
affliggono il Mediterraneo e l’Europa. L’Italia è infatti al centro di un complesso
flusso di migrazioni che riguarda i continenti a est e a sud del Mare nostrum.
Può giocare un ruolo importantissimo per risolvere i nodi sopra menzionati,
migliorando la vivibilità e la prosperità economica dell’intera area. Ma può
anche pagare costi elevatissimi se tali soluzioni non venissero individuate per
tempo.

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