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Massimo Grasso

L’inconscio non abita più qui. (Riassunto libro)

Prefazione. L’illusione individualista e la marginalità della psicologia.


Dai giornali alla televisione, tutto il sistema mass mediologico italiano funziona come cassa di risonanza delle different
posizioni politche, accentuandone differenze e conflitti che, di fatto, non esistono se non per quanto concerne
l’interesse di singoli gruppi di potere. Tramite il falso conflitto spettacolare dei dibattit televisivi, tutti i problemi si
trasformano in agit emozionali, volt ad idealizzare o dannare l’uomo politco per eccellenza di questa fase
spettacolare: tutto sembra ruotare attorno all’antberlusconismo o al disaccordo sull’antberusconismo. Sono
scomparsi i problemi dei singoli e dei gruppi sociali, problemi aggravat dalla lunga, negatva congiuntura finanziaria;
tutto sembra ruotare attorno alle vicende del leader della destra che, con grande abilità comunicatva, riesce ad
attirare l’attenzione di tutti. Come direbbe Oscar Wilde, “parlate male di me, anche malissimo, purché ne parliate”.
Sembra quasi come se i temi, che dovrebbero essere d’importanza principale perché relatvi alla convivenza, come la
sanità, il lavoro, la scuola, la finanza, l’economia, siano passat in secondo piano e subiscano l’indifferenza di una
politca che ruota su se stessa. E gli psicologi? Sembrano del tutto marginali in questa come in altre evenienze.
Occupat, quelli accademici, a spartrsi le cattedre, e a suddividersi quel piccolo potere che un’università, sempre più
povera e trascurata, possa consentre. D’altro canto, quelli professionist, si occupano della marginalità sociale, che
viene vista quale area poco prestgiosa ove vivacchiare entro una professionalità scarsamente riconosciuta e mal
pagata. Lo psicologo dovrebbe essere capace di promuovere il “pensare emozioni”, e nella profonda crisi culturale in
cui siamo avviluppat, fatta di agit emozionali quotdiani, è proprio questo che latta. Per fare ciò, servirebbe una forte
presenza culturale ed un solido prestgio professionale, che in realtà è bassissimo. L’influenza degli psicologi sui gravi
problemi di convivenza che affliggono il nostro paese si è ridotta al minimo. La psicologia si è rifugiata entro un’ottica
individualista, ove lo psicologo, si è ripiegato in una professione che vuole imitare il “modello medico”, assumendo a
proprio oggetto di lavoro il singolo individuo “malato”, imitando a stent modelli di importazione nord-americana che
promuovono psicologia della salute o psicologia di comunità. I valori della vecchia Europa sono ben diversi, e i modelli
di sviluppo concernono sistemi di relazione, gruppi sociali, aree di appartenenza, modi di solidarietà ben più antchi
della “comunità” caratterizzante i sistemi sociali di formazione recente, attraversat da valori di successo compettvo
scarsamente radicat nella storia. Esistono un’infinità di considerazioni sconcertant circa l’evoluzione, che buona parte
della psicologia statunitense, per lungo tempo assunta a modello della psicologia italiana, ha subito negli ultmi anni,
grazie all’affermarsi prepotente dei modelli professionali di orientamento cognitvista. Quando, ad esempio, si studiano
i fattori che possono contribuire alla longevità, si dà per scontato che tutte le persone, indipendentemente dalla loro
esperienza di vita, dal contesto in cui vivono, dall’età o da altre connotazioni dell’esistenza quotdiana, desiderino
vivere il più a lungo possibile. Senza dire una parola sul come perseguire quelle condizioni che portano ad una vita più
lunga, si afferma che chi sorride, chi è felice, vive più a lungo. Niente di più banale e irrilevante, dunque.
Noi possiamo conoscere la morte solo come “assenza di vita” e quindi, sino a poco prima di morire, siamo ancora in
vita. Se la morte è cessazione di vita, chi muore non conosce la morte. La può conoscere solo come “paura”
paralizzante, una paura che può far morire psichicamente mentre si è ancora vivi. La morte è “vista” come morte solo
da chi è in vita, da chi vive la perdita e il lutto. La morte, nell’esperienza di ciascuno di noi, è vissuta non come assenza
di vita ma come Ananché (Destno), come necessità quale forza suprema, alla quale devono obbedire anche gli Dei.
Accettare la morte come destno certo; al contempo, accettare che sino a poco prima di morire si è ancora in vita;
queste due “accettazioni” fondano la valorizzazione della vita come risorsa e come esperienza costruttiva.

Se si guarda allo spessore della tradizione che fonda il pensiero sulla morte e alla rilevanza insita nella valorizzazione
della vita, ci si accorge di quanto possa essere irrilevante quella psicologia che pone valori quali il benessere, la felicità,
il sorridere, dimensioni da perseguire a priori.
Per quanto riguarda le modalità con le quali la psicologia interviene entro il contesto, si possono evidenziare due
modelli che, in varie versioni, connotano la prassi psicologica: la pratca di intervento volta a cambiare comportament
o strutture cognitve; la prassi che intende promuovere un pensiero emozionato, sosttutvo degli agit collusivi. Due
prospettive molto diverse tra loro, sia nella metodologia operatva che nelle premesse di analisi e di definizione della
realtà, che rispondono a due domande diverse del contesto.
Il cambiamento del comportamento è in coerenza con la valutazione dei comportament o dei processi cognitvi, e per
essere socialmente legittimato, deve fondarsi sulla diagnosi di un disturbo, sia esso mentale, psicologico, neurologico,
psichiatrico o medico in senso lato. Cambiare un comportamento o un assetto cognitvo, di fatto, sono atti che
comportano, sempre e indipendentemente dalle tecniche che a tale scopo vengono utlizzate, l’esercizio di un potere
nei confront della persona oggetto dell’intervento stesso.
Pensare emozioni, di contro, comporta, la sospensione dell’agito, entro una relazione che facilità l’emergere delle
fantasie e l’analisi delle stesse fantasie, secondo modelli interpretatvi che diano senso alla rielaborazione illusoria delle
emozioni. Il pensare emozioni, quindi, interrompe la sequenza: evento – simbolizzazione affettiva dell’evento. Noi tutti
siamo calat entro contest che viviamo quali sequenze di event che sollecitano le emozioni. L’intervento psicologico
clinico nasce dall’agito emozionale conseguente all’evento e dal vissuto di una sua problematcità o disfunzionalità. Nel
caso di un agito emozionale, conseguente al mancato pensare emozioni, non è possibile stabilire, dall’esterno e con
categorie diagnostche, se l’agito stesso sia disfunzionale o meno. Ci sono agit emozionali cercat, vissut da chi li mette
in atto come funzionali a specifici processi di adattamento. Nel caso del pensare emozioni, in altri termini, l’intervento
psicologico dipende dalla domanda che può essere rivolta allo psicologo. La domanda può nascere dal vissuto di
problematcità che l’agito emozionale, non pensato, può evocare in alcuni, capaci di trasformare tale vissuto di
problematcità in una domanda volta a costruire una relazione con lo psicologo. Lo stesso agito emozionale può
evocare, in altri casi, un vissuto gratficante di trionfo; può comportare esperienze di conflitto con il contesto, creare
disagio e motvare ad un’esperienza di comprensione dell’emozionalità con la quale si risponde agli event.
Il sistema sanitario non pone attenzione alla soggettività dei pazient e tanto meno dei familiari. Il sistema sanitario, in
altri termini, è in grado di curare soltanto se la relazione tra sanitari e pazient si declina entro una modalità che veda, i
pazient stessi, totalmente dipendent dalle decisioni, dagli interrogatvi, dalle azioni dei sanitari. Riprendendo le parole
di Fornari, a proposito delle funzioni che la medicina riveste nei confront del malato: il curare il male “altro” del quale
il paziente è portatore (funzione fallocentrica) e il prendersi cura del bene “proprio” del malato stesso (funzione onfalo
centrica, vista come una funzione materna ove il paziente è considerato quale bambino ancora non nato, contenuto
nell’utero materno, legato alla madre dall’ombelico, quale residuo del cordone ombelicale).
Citando, però, Guerra e Di Giulio, si può sottolineare come il sapere medico, molte volte non prenda in considerazione
il malato quale persona capace di una soggettività: “Ciò che provoca sofferenza non può essere oggetto di conoscenza
se non per un terzo estraneo problema: una conoscenza, comunque, che non ha nulla a che fare con la sofferenza in
sé. […] Il discorso medico – che è sviluppo di conoscenza – non sa dire nulla, sulla malattia, che possa aiutare il
paziente a vivere questo momento della sua vita”.
Il malato, per il sistema sanitario, è un essere privo di soggettività, capace solo di riconoscenza per quanto viene fatto
nel prendersi cura di lui. Dunque, lo psicologo che si propone, con il suo intervento, di cambiare il comportamento o il
sistema cognitvo del paziente, opera una relazione di tpo medico-sanitario, senza tener conto delle emozioni del
paziente. Lavorare con le emozioni entro la relazione, dare senso alle infinite modalità con le quali si può artcolare il
rapporto emozionale tra lo psicologo e le persone, i gruppi sociali, è difficile, impegnatvo (ciò spiegherebbe il fatto che
molt psicologi si rivolgano a “tecniche” che esimono da un difficile confronto emozionale. Vedi Pennebaker, ad
esempio, con la sua tecnica della scrittura, il cui effetto benefico potrebbe essere anche indirizzato allo psicologo, che
trova rifugio nel sottrarsi alla relazione emozionale con l’altro).
Introduzione. Illusioni senza avvenire. La società di massa e le opzioni culturali
della psicologia, con uno sguardo specifico al “caso italiano”
Il termine “apparenza” ha avuto nella storia della filosofia due significat simmetricamente oppost, essendo stato
inteso tanto come “nascondimento della realtà” quanto come “manifestazione o rivelazione della realtà stessa”. La
nozione abituale di “apparenza”, tuttavia, indica un’insufficienza o anche un’illusione. Nella Critica della ragion pura
Kant stabilisce una precisa distnzione concettuale tra “apparenza” e “fenomeno” vero e propri (tradizionalmente
identficato con l’apparenza sensibile che si contrappone alla realtà, della quale per altro può essere assunto come la
manifestazione). Il “Fenomeno” vero e proprio, secondo Kant, è l’oggetto della sensibilità, mentre l’apparenza è ciò
che risulta erroneamente, e corrisponde ad una parvenza o illusione. Si possono iniziare a comprendere le motvazioni
per cui l’implicita messa in discussione della razionalità kantana sia così importante alle origini della psicoanalisi.
Phaenomenon, dunque, per indicare ciò che è oggetto della sensibilità. Quantunque i fenomeni propriamente siano
apparenze di cose e non idee e non esprimano una qualità interna ed assoluta degli oggetti, nondimeno la loro
cognizione è verissima. In primo luogo infatti, essendo concetti sensoriali ossia apprensioni, i fenomeni in quanto
causat testmoniano della presenza dell’oggetto: e ciò vale contro l’idealismo. Kant, dunque, sostene fermamente una
distnzione tra il fenomeno, come oggetto della conoscenza in quanto condizionato dalle forme dell’intuizione spazio
temporale e dalle categorie dell’intelletto, e l’apparenza, come mera parvenza. Il fenomeno è l’oggetto indeterminato
di una intuizione empirica. Esso deve conformarsi alle forme pure dell’intuizione, rendendosi relatvo al nostro modo
universale di conoscere. Se sopprimessimo il nostro soggetto, tutta la natura, tutti i rapport spazio-temporali degli
oggetti, lo spazio e il tempo stessi sparirebbero: infatti, come fenomeni, non possono esistere in sé ma solo in noi. Ciò
non significa, tuttavia, che si tratta di mere apparenze illusive, perché i caratteri del fenomeno possono avere una loro
oggettività, ossia un’eguale validità per tutti i possibili soggetti conoscent. Con Kant, il concetto di apparenza perderà
il suo “carattere ingannevole”, grazie alla distnzione operata dal filosofo tra “apparenza” (fenomeno, inteso in senso
positvo) e apparenza (parvenza, illusione).
L’illusione è il prodotto spontaneo della mente, che in origine ha la funzione di costruire le premesse dell’esperienza
del mondo esterno (Winncott), l’illusione viene esaltate e distorta deliberatamente per essere utlizzata come
strumento del potere. Ed è certamente con i totalitarismi del XIX secolo che questa millenaria pratca di controllo
sociale assume il carattere di massa che le ideologie contemporanee hanno potuto utlizzare a proprio
vantaggio grazie alla nascita delle forme di comunicazione che appunto in tal modo sono state designate.
Per cercare di comprendere in che senso viene intesa la frase “società dell’illusione di massa”si può partre
dal sociologo tedesco Ulrich Beck, che ha enumerato cinque auto-illiusioni che caratterizzano la politca
attuale:
La prima relatva alla globalizzazione, è quella economico-finanziaria, che l’autore vede ben espressa dalla
formulazione “nessuno può fare politca contro i mercat”, come dire che la politca funziona solo a
condizione di negare se stessa e la propria capacità di condizionare i mercat. Ciò che è evidentemente un
paradosso finalizzato a giustficare l’incompetenza economica dei politci;
La seconda, l’illusione nazionale, si riferisce all’idea diffusa che la cessione di quote di sovranità degli Stat
ad aggregazioni sovra-nazionali, come tpicamente l’Unione Europea corrisponderebbe per quest stessi
Stat ad una deprivazione di quote di democrazia interna.
Le altre tre illusioni, la neo-liberista, la neo-marxista e la tecnocratica, delineano ulteriormente lo sfondo
ideologico di politche inconcludent, concorrendo a produrre quel diffuso sentmento di sfiducia e di
distacco dalla politca da parte dei cittadini, grazie al quale la politca sempre più opera senza rendere conto
dei risultat ottenut. “La conseguenza di tutto ciò”, conclude Beck, “è che la politca dell’impolitco non
funziona più in modo impolitco”.
L’impressione è quella che l’Italia, sia il laboratorio in cui queste nuove modalità di funzionamento della vita
pubblica vengano collaudate e perfezionate. Come sottrarsi a ciò?
C’è forse un solo caso autoctono, che non trova uguali se non in alcuni paesi del terzo mondo a regime
dittatoriale. Si tratta di una sesta illusione: quella sessuale. Questa illusione consiste nel dispositvo per il
quale il potere politco dissimula la propria incompetenza a dirigere la vita pubblica sfuggendo alla verifica
di risultat ostensibili. E ciò attraverso la costruzione di un mondo fantastco nel quale l’attore politco si
rappresenta come gratficato da un successo e da un godimento erotco grandioso e permanente: e verso
questa rappresentazione è costantemente sollecitata l’identficazione di massa.
A questo degrado, da quando esiste di fatto in Italia un vero e proprio gigantesco oligopolio del sistema
televisivo nelle mani di un unico gruppo di potere, ha dato un contributo decisivo la propaganda mediatca
di lifestyle basat da un lato sulla legittimazione quando non l’esaltazione paradossale di condotte illegali,
fino a legittimare una vera e propria criminalizzazione della politca con l’immissione di rappresentant della
delinquenza organizzata, neanche troppo camuffat, in ruoli di elevato profilo isttuzionale.
In Italia, bisogna prendere nota obbligatoriamente dell’illusione statuale. Lo stato è allo stesso tempo iper-
protettivo e vessatorio. Lo stato in Italia è onnipresente e introvabile.
Ma la psicologia si interroga forse su come questa falsificazione strutturale della funzione statuale
condiziona non tanto la vita quotdiana dei cittadini in senso concreto, quanto il loro modo di pensare?
Non sembra. Sembra, invece, che la psicologia italiana sia divenuta col tempo un’agenzia di promozione del
conformismo assai zelante: ne sono prova la subordinazione ai modelli metodologici e operatvi
dell’ingegneria gestonale nelle aziende e della medicina della sanità e ormai anche nella formazione
universitaria, o iniziatve depriment come “lo psicologo di quartere”, o “lo psicologo in farmacia”, oltre alle
innumerevoli offerte di servizi psicologici che popolano il web di frasi fatte, aforismi scopiazzat a sproposito,
citazioni infantli.
Tutti quest fenomeni illusionistci, nel loro insieme, segnano una trasformazione epocale della nostra
società. Naturalmente è il sistema dei media a trovarsi al centro di questo dispositvo di simbolizzazione
reificata. Lo spettacolo è la società stessa, metamorfosata fino al punto che anche il capitale è giunto “a un
tale grado di accumulazione da divenire immagine”. Molt avevano cercato di mettere in guardia la società
dalla pervasiva, insidiosa, penetrazione dell’informazione di massa nella vita sociale.
Il catalogo delle illusioni, però, potrebbe contnuare a lungo. L’illusione privacy: mentre le nostre vite sono
sempre più dettagliatamente monitorate nei loro più infinitesimali passaggi, si inaspriscono in modo
“surrealizzante”. Le compagnie telefoniche ci negano l’accesso ai nostri stessi tabulat e, quando ce li
forniscono, i numeri che noi stessi abbiamo chiamato appaiono parzialmente oscurat da una serie di “xxx”.
Per non parlare del sistema di intercettazione globale delle comunicazioni private da parte dei Servizi
Segret occidentali. C’è, dunque, la pura e semplice registrazione di ogni nostro passo che comport il più
banale utlizzo di tecnologie informatche.
Si potrebbe individuare, inoltre, l’illusione enciclopedica: ancora una volta i media, e più di tutti il web, ne
sono i diffusori. I motori di ricerca rispondono alle nostre curiosità con un eccesso informatvo che regala
solo la falsa impressione della completezza, ed il criterio di presentazione è basato semplicemente sul
numero di accessi, dal più frequente in giù.
Baudrillad aveva parlato di “Implosione del senso nei media” e di “implosione del sociale nelle masse”. Una
massa che simula semplicemente un oggetto che sfugge, ma la cui assenza e insopportabile. Allora lo
“produce” sottoforma di risposte antcipate, di segnali circolari che sembrano circoscrivere la sua esistenza
e testmoniare la sua volontà. Oggi potremmo parlare ulteriormente di “implosione della realtà nel virtuale”
e di “implosione della cultura nel fattuale”. Ci si sta avviando verso un genocidio professionale generazionale
degli under-30, i reddit familiari sono largamente diminuit. L’illusione di massa corrisponde in modo
pressoché lineare alla falsificazione dello stato delle cose: tanto più si enuncia un principio formale di
garanzia, tanto più si deve intendere che tale enunciazione corrisponda ad un sostanziale disattendi mento
dei diritti e degli interessi che a tale garanzia fanno riferimento e della cultura che ne costtuiva la base. Da
più di vent’anni in Italia, citando Carli e Paniccia, la partecipazione alla vita pubblica e la comunicazione
culturale sembrano, sistematcamente, ostacolate. Con il craxismo si era inaugurata una nuova e
problematca stagione politca caratterizzata dal binomio “governabilità e decisionismo”; a questa etchetta
andrebbe aggiunta, anche quella di “devastazione” delle isttuzioni, di ogni rapporto credibile tra governo e
forze politche, da un lato, organizzazioni pubbliche e private dall’altro; devastazione, in sintesi, della
credibilità dello Stato. Molto grave è stata l’influenza che gli uomini politci hanno preteso di esercitare,
grazie al potere loro conferito, su ogni atto della vita pubblica e privata italiana. In quell’epoca presero
piede, su vasta scala, le raccomandazioni e le designazioni fondate sull’appartenenza parttca, per ogni
incarico pubblico o privato; si falsarono i concorsi che volevano tutelare le scelte meritocratche,
dall’università alla pubblica amministrazione, dalle aziende alle forze armate, dagli ent pubblici alle
cooperatve di servizio: ogni posto di lavoro, ogni nomina ad incarichi important o marginali, ogni evento
pubblico o provato, nelle aziende a partecipazione statale o nelle aziende private, nella pubblica
amministrazione come nelle poste, nelle dogane, nelle ferrovie, nel trasporto aereo, nelle concessioni
governatve come nei permessi o nelle licenze commerciali, nelle telecomunicazioni come nelle concessioni
del comparto televisivo, ogni decisione doveva sottostare al potere di pochi uomini che volevano controllare
tutto e condizionare, con i loro tentacoli influent e spietat, ogni aspetto della vita lavoratva,
dell’amministrazione, della produzione, del commercio, della politca, più in generale della convivenza, in
Italia. Il fenomeno della “raccomandazione” raggiunse livelli e pervasività mai vist sino a quel momento, dal
dopoguerra in poi.
Una società architettata su relazioni deformate e falsificate, dunque. Ma la falsificazione più sconcertante
sembra riguardare l’area delle discipline psicologiche. Appare doveroso sottolineare il “silenzio” della
psicologia sui problemi emergent post alla società contemporanea dallo sviluppo tecnologico e dai processi
della cosiddetta globalizzazione e al “fondamentale” contributo che la psicologia, a partre dalla strategia di
conquista del cognitvismo americano, sta dando ormai da molt anni alla riproduzione di modelli di vita
conformistci. L’illusione cognitivista, dunque, il pensiero positvo con il suo ottimismo banalizzante, e le
ricerche che pongono al centro l’idea di felicità o quella di salute. Ma anche il compromesso ambiguo tra
quest piani realizzato dalla psicopatologia descrittiva dei DSM e degli ICD, con la loro presunzione di
codificare e classificare i disturbi, che di edizione in edizione si arricchisce di specifiche sempre più scisse da
ogni contesto; la psicoterapia cognitva e comportamentale, con la sua pretesa di “oggettivare”, misurare,
semplificare, correggere modelli di condotta trattat come deficit piuttosto che come espressioni adattive di
interpretare perché vengano compromesse ed elaborate: questa illusione è costtutva della psicologia.
Due passi indietro: 1992.
La sindrome di Haslemere.
Dipendenza, contro dipendenza, indipendenza dell’identità psicologico-clinica dal
modello psicoanalitico.

1.Sulla modellistica ideologica dell’identità psicologico-clinica in Italia

La psicologia clinica si presenta come un’area all’interno si sta sempre più accentuando una dinamica di
cambiamento: la sua progressiva autonomizzazione dalla psichiatria, la sua tendenziale astrazione dalle
teorie autoreferent e dalle pratche psicoterapeutche settoriali e “di scuola” sembrano essere i vettori più
significatvi di questa dinamica. Enormi sono i rischi connessi alla mancata risoluzione del conflitto interno
alla nostra comunità: la compresenza del modello medico-psichiatrico e del modello psicoanalitco. I due
modelli, per different motvi, sono inadeguat a sostenere e promuovere una problematca centrale della
psicologia clinica: quella dell’ analisi della domanda. Il modello medico-psichiatrico, infatti, tende ad una
diagnosi netta e univoca, alla designazione contrattuale di obiettivi quantficabili in termini di modificazione
del comportamento, alla garanzia preventva dell’efficacia dell’intervento, impedendo ogni definizione certa
di un prodotto della prestazione clinica e finendo per qualificare come contratto ciò che non è altro che un
pronunciamento deontologico, pro promessa al paziente di prendersi cura di lui con il massimo impegno
soggettivamente esperibile. Siamo di fronte ad un adeguamento della domanda alla struttura etca
dell’offerta.
Entrambi i modelli attraversano da molt anni una fase di crisi/ristrutturazione, segnata da dubbi,
lacerazioni, pentment: e tuttavia, la comunità psicologico-clinica italiana non riesce a maturarne, nel suo
insieme, un distacco. E’ constatazione comune che la psicoanalisi sia stata, e in parte sia tuttora, il referente
ideologico più forte degli psicologi clinici italiani. E’ stato ed è ancora oggi difficile assumere un’identtà
psicologico-clinica indipendente dal modello psicoanalitco. Tuttavia, anche l’identtà psicoanalitca conosce
da qualche decennio una profonda crisi/ristrutturazione.

2.Lo sviluppo storico dell’identità psicoanalitica: tra fede, prassi, tautologia e dissenso

Il tema della propria peculiare identtà scientfico-professionale attraversa tutta la storia del movimento
psicoanalitco ed è stato oggetto nei decenni di un ampio dibattito.
Il Simposio internazionale di Haslemere del Febbraio 1976 costtuisce il momento apicale di questo
processo di auto-interrogazione e di confronto. Vi parteciparono quarantatré eminent personalità della
psicoanalisi internazionale, provenient da tutto il mondo. Gli atti del Simposio non sono mai stat oggetto di
grande diffusione. Cremerius, noto studioso, osserva che in quell’occasione il Presidente dell’Internatonal
Psychoanalytc Associaton, E.D. Joseph, non è più riuscito a definire l’identà dello psicoanalista in accordo
con i paradigmi di Freud. Egli constatava che attualmente, a seguito della non chiarezza dei principi e della
prassi della psicoanalisi, non si potrebbe determinare in modo chiaro e univoco questa identtà. Con
notevole spregiudicatezza H. Thomas, nelle conclusioni del suo intervento al Simposio, si interrogava su
quali aspetti del paradigma freudiano sarebbero stat in futuro ancora considerat “costtutvi del pensiero e
dell’azione degli psicoanalist”. Citando Meerwein, Cremerius, ricapitola le conclusioni del Simposio
evidenziando come l’identtà dello psicoanalista non può essere univocamente determinata né dallo scopo
della ricerca né da quello del trattamento. La determinazione delle funzioni sociali e del ruolo dell’analista
porta a tali e tante contraddizioni da non essere sufficiente alla determinazione dell’identtà analitca. Come
emerge chiaramente dai risultat complessivi di quell’incontro internazionale, così come dalla ricca
produzione psicoanalitca “ufficiale” sulla materia, il polo identficatvo degli psicoanalist è comunque, in un
modo che alla prova dei fatti si rivela alla lettera “esclusivo”, la comunità psicoanalitca in quanto tale.
Gitelson aveva sostenuto, in un suo celebre discorso, che la psicoanalisi era invischiata in un conflitto di
identtà con la psichiatria. Cremerius si è spinto a dire che in determinate fasi del suo sviluppo la comunità
psicoanalitca si è comportata come una comunità di fedeli piuttosto che come una comunità scientfica o
anche soltanto professionale pragmatca. Giudizio già espresso da Fine quando sosteneva che il paragone
non era per nulla inappropriato, in quanto la psicoanalisi è stata dominata da una lunga sequenza di figure
carismatche proprio come le sette religiose. Mentre Bettelheim ha sottolineato il carattere “politco-
militare” dell’impostazione data da Ernest Jones alle strutture del movimento, la tesi di un modello implicito
a carattere monastco, religioco-comunitario nell’organizzazione degli Isttut psicoanalitci è stata ripresa in
considerazione anche da Kernberg.

3.Analisi laica, analisi “non medica”, analisi didattica, analisi “selvaggia”

Il dibattito sull’analisi laica e le profonde lacerazioni che ha comportato nel movimento psicoanalitco fin dal
1926, costtuiscono un altro grande, indiretto, contributo alla definizione d’una possibile identtà clinica
indipendente da ogni identtà medica.
Nel 1925, al Congresso di Amburgo, viene sollevato il problema del rapporto tra psicoanalisi e medicina. Nel
1927 il Congresso di Innsbruck si divide in due front, facent capo uno alla Società americana, l’altro alla
Società ungherese: la prima decisamente ostle ai non medici, l’altra nettamente orientata a considerare
irrilevante il problema della formazione medica degli analist. Le posizioni avanzate in quell’occasione erano:
a. solo i medici possono pratcare la psicoanalisi; b. la provenienza medica non è rilevante ai fini della
formazione e della pratca psicoanalitca (Freud); c. è auspicabile che la maggior parte degli analist siano
medici, ma non è necessario escludere i non medici, a condizione di selezionarli con molta attenzione. Di
fatto, era impossibile all’epoca la pura esclusione dei non medici. Nel 1938 però gli americani, in una
situazione politca ed economica che andava rapidamente degenerando, presero una posizione unilaterale,
di netta opposizione all’analisi non medica: a Theodor Reick, immigrato come molt altri negli USA per
sfuggire al nazismo, fu respinta la domanda d’iscrizione nonostante il personale interessamento di Freud.
Contestualmente, inizia in quegli anni quel progressivo assoggettamento della psicoanalisi alla psichiatria di
cui Essler aveva avvertto il pericolo: un vero e proprio asservimento alla medicina, secondo le peggiori
preoccupazioni dello stesso Freud. Il momento culminante della battaglia degli psicologi americani contro
l’esclusione degli Isttut psicoanalitci “ortodossi” si è avuto nella seconda metà degli anni ’80, quando un
gruppo di essi ha citato in giudizio l’American Psychoanalytc Associaton per limitazione del mercato in
violazione della legge ant-trust: azione, come è noto, coronata nell’ottobre 1988 da un ampio successo.
Freud aveva inteso con l’aggettivo “laica”, una teoria e una prassi psicoanalitca non assoggettate ad alcun
sistema di sapere medico, e di sapere extra-analitco in generale. Come nota Schneider, l’identficazione di
“laico” con “non medico” denuncia una visione riduttiva del problema. Inoltre gli americani aggiunsero
confusione alla riduzione, assimilando “laico” a “selvaggio”. Ancora una volta, qui la posizione di Freud è
misconosciuta, o meglio travisata.

4.Considerazioni conclusive
Gli psicologi clinici italiani non sembrano tuttora aver maturato né un preciso concetto di sé, né un forte
sentmento di identtà. Questo ritardo storico può essere addebitato in larga misura proprio al costante,
confuso e comunque non strategico riferimento al modello medico-psichiatrico e a quello psicoanalitco,
piuttosto che alla scienza psicologica come fonte primaria della legittimazione professionale e come area
quadro di appartenenza tecnica, tanto più in assenza di altre, complementari font di legittimazione
isttuzionale. Il quadro culturale e organizzatvo d’insieme offerto attualmente da alcune scuole italiane di
psicoterapia sembra confermare l’idea hegeliana che la storia si ripete sempre due volte, di cui la prima in
forma tragica e la seconda in forma umoristca.
Esistono oggi in Italia le condizioni perché gli psicologi si rendano liberi della “Sindrome di Haslemere”:
l’illusione ideologica che alla qualificazione dell’identtà professionale possa bastare l’appartenenza “di
scuola”. Ma perché queste condizioni, imposte dall’ordinamento della professione di psicologo, possano
svilupparsi fino a consentre l’isttuirsi della professionalità psicologica e psicologico-clinica su basi nuove e
autonome, occorrerà ancora promuovere un processo di integrazione e di verifica che comunque, a
giudicare dai fatti e dalle posizioni politco-culturali che corrono il campo, non si prospetta allo stato attuale
né semplice né alieno da partecipazioni improprie e da pressioni di parte.
Un passo avanti: 2006. Chiodi, unghie e martelli: annotazioni sparse sull’oggi della
psicologia clinica.

Ciò che concerne la Psicologia Clinica è diventato, nel tempo, un filo sempre più aggrovigliato e sciogliere i
suoi nodi è un esercizio che richiede sforzo e impegno. Molte sono le aree di critcità che bisognerebbe
affrontare. Tre, in partcolare, sembrano molto attuali: la necessità di una contestualizzazione delle tecniche,
la quale implica un recupero anche delle tecniche in quanto tali; l’opportunità di un approfondimento
teorico-metodologico del rapporto psicologia clinica/psicoterapia; l’esigenza di ripensare il problema della
verifica, trattato in maniera piuttosto insoddisfacente. A quest si potrebbe aggiungere, nella prospettiva
dell’oggi, la progressiva ambiguità ed incertezza della dimensione formatva. Si ha la sensazione di
un’accozzaglia di modelli e diverse rappresentazioni della psicologia clinica, e sembrerebbe dunque
necessario e doveroso, anche se ad una stretta minoranza, un processo di integrazione. L’alternatva a ciò
potrebbe essere il silente procedere in parallelo di culture diverse e modelli a volte reciprocamente oppost,
senza magari darsi troppo fastdio. Maslow, avverte però che “è una sensazione troppo forte, avendo un
solo martello, non trattare ogni cosa come un chiodo”, e dunque il rischio che si corre, portando avant tale
situazione, è ciascuno con il suo martello a battere sui suoi chiodi.
Per fare un quadro della situazione in cui ci troviamo oggi, si può partre dalla definizione di psicologia
clinica estratta dal regolamento del collegio dei docent universitari di psicologia clinica. Nel documento si
afferma, da un lato, che la psicologia clinica alimenta una pluralità di modelli scaturent da presuppost
epistemologici e teorico-metodologici, i quali presentano delle differenze irrinunciabili che non vengono
avvertte come problematche, ma invece come apportatrici di evoluzione a livello scientfico e culturale.
Dall’altro si sottolinea che come strumento centrale per la prassi psicologico-clinica si debba considerare il
sistema soggettivo dello psicologo clinico, costruito attraverso la formazione e la clinica. Ciò significa che,
dovendo sia la formazione che la clinica necessariamente riferirsi ad un modello, ed essendo i modelli
irrinunciabilmente diversi tra loro, l’esito non potrà che essere quello di attendersi nuove generazioni di
psicologi clinici portatori di quelle differenze di tpo epistemologico e teorico-metodologico. Il risultato,
quindi, è che gli psicologi clinici universitari, sono giunt alla conclusione che non solo è possibile proporsi
un obiettivo di integrazione, ma che in fondo esso non è nemmeno auspicabile.
A questo punto, le alternatve riguardo agli esit sono due:
-L’affermazione, o la lotta per l’affermazione, di un modello, o di un’oligarchia di modelli che sancisca la
supremazia sugli altri e ne garantsca l’egemonia;
-Il procedere ognuno all’interno del proprio modello di riferimento, cercando modi di integrazione e di
progresso compatbili con le caratteristche del modello stesso, e lo stmolare, con qualche regolarità, una
dimensione di incontro tra le diverse prospettive in terreni possibilmente neutri in cui, con pari dignità, ci si
notfichi per reciproca informazione e aggiornamento i risultat conseguit e le possibilità di sviluppo.
E non è detto che una prospettiva escluda l’altra. Sembrerebbe, dunque, più adeguato parlare non tanto di
psicologia clinica ma di psicologie cliniche.
La psicoterapia nelle sue different strategie e metodiche costtuisce l’ambito applicatvo che più caratterizza
la psicologia clinica, come punto di massima convergenza tra domanda, conoscenze psicologiche disponibili,
fenomeni indagat e metodi utlizzabili. Ma parlare di psicoterapia genericamente, non ha troppo senso sia
dal punto di vista storico che da quello della concreta operatvità clinica. E’ più corretto parlare di modelli di
psicoterapia esistent e di quelli che vengono contnuamente individuat o che potranno anche nel futuro,
essere propost. La psicologia clinica è, sostanzialmente, psicoterapia e, dato che per quanto attiene la
psicoterapia è necessario riconoscere legittimità, dal punto di vista sia teorico che applicatvo, della
presenza di modelli teorici e conseguent approcci operatvi diversi, allora è giocoforza sottolinearne il
parallelo diritto all’esistenza, affermando che la diversità dei presuppost epistemologici e teorico-
metodologici alimenta proficuamente il progresso della psicologia clinica come disciplina. Ogni modello di
psicoterapia ha, o ritene di avere, troppo da perdere nel perseguire un qualsivoglia obiettivo di integrazione
che riguardi la fondazione di una teoria della tecnica psicologico-clinica: ciascuno con il suo martello a
battere sui suoi chiodi. E, forse, a forza di battere si corre il rischio di schiacciarsi anche qualche unghia. La
riduzione della psicologia clinica a psicoterapia, comportando da un lato la giustficazione della equivalenza,
da un punto di vista teorico e metodologico, dei diversi modelli di psicoterapia, sta comunque esitando,
dall’altro, nell’affermazione egemonica di alcuni modelli e conseguent metodologie di verifica, quelli più
compatbili con impostazioni ingenuamente dicotomiche, alimentando la tentazione di rinunciare al
confronto e al collegamento con le proprie ipotesi fondant in nome di una adesione spesso acritca a
semplificazioni. La riduzione operata su concetti complessi è questone corrente, e ormai governa tant
aspetti della vita sociale, politca e culturale, alimentata dal progressivo disfacimento culturale generale e
dall’impoverimento specifico che si registra sul piano della formazione di base dei giovani, stretti tra carenze
di risorse e di progetto e mancanza di interesse rispetto ai valori socialmente vigent.
Si ha una marcata sensazione di decadimento generale nell’ambito formatvo, ma la gran parte di coloro che
si formano, stordit, al pari dei loro docent, dal valzer irriflessivo di riforme e controriforme che li individua
non come referent privilegiat, ma piuttosto come vittime sacrificali, sembrano divorat dal demone del fare
e del “far presto” piuttosto che del “far bene”, in vista di traguardi di cui spesso sono imprecise le definizioni
in termini sia professionali che scientfici. Sembra che alcune tematche ciclicamente si ripropongano, che
alcune conflittualità tendano a riprodursi, come se quanto si è detto, fatto, scritto al proposito non abbia
lasciato alcuna traccia, non abbia portato alcuna dimensione integrata o, quanto meno, non abbia prodotto
alcuna memoria. E’ un po’ come scavare una buca nella sabbia: basta poco, il vuoto viene colmato dalla
sabbia che è stata tolta e accatastata da un lato e tutto torna come prima. E magari si ricomincia a scavare.
D’altra parte questa alternanza di maree e la conseguente sensazione di stagnazione non riguardano solo la
psicologia clinica, ma anche il più vasto campo sociale, culturale, politco. Che convenga “cambiare aria”,
emigrare, come pure autorevolmente sostene qualcuno di quest tempi?
1.Diagnosi psichiatrica e modelli di salute mentale: osservazioni su alcune
metodologiche per la ricerca in psicoterapia.

1.Chi ha slegato Rogger Rabbit?

Addentrarsi nel mondo della follia è un po’ come addentrarsi in Cartoonia, il territorio della fantasia. E’
difficilie, e di scarsa comprensione, proprio come assistere ad uno di quegli incident surreali da cui Bunny o
Willcoyote si risollevano incolumi. I cartoni, invece, sembrano convivere abbastanza bene nel mondo degli
esseri umani, e lo stesso vale per la follia: spunt marginali di essa, infatti, sono contnuamente present
nella nostra vita quotdiana. Ma come si fa a comprendere fino a che punto quest sprazzi di follia siano
tollerabili? E allo stesso tempo, quali indicatori scegliamo per affermare che una persona emotvamente
sofferente, interiormente disarmonica, mal integrata in una rete di relazioni interpersonali, “sta meglio” o
addirittura “guarisce”? Non si può esser cert che la psicologia clinica e la psicoterapia possano tollerare le
stesse regole di funzionamento delle scienze naturali e delle prassi che ad esse corrispondono.

2.Alcune considerazioni critiche sul concetto di salute mentale

G.E. Vaillant prende in considerazione sei diversi approcci empirici sulla salute mentale, per l’autore,
partcolarmente meritevoli di attenzione. Tra quest l’approccio della “psicologia positva”, supportata anche
dal suo esponente più rappresentatvo, Seligman. Secondo tale approccio, la salute mentale si fonda sulla
possibilità di implementare alcuni “punt di forza” che sono identficat nell’amore, nella temperanza, nella
saggezza e conoscenza, nel coraggio, nella giustizia, nella trascendenza. In partcolare viene data
importanza all’ottimismo che, per una buona salute mentale, dipende dal pensare le cose positve come
pervasive e duratve, mentre quelle negatve come limitate. Una sorta di locus of control che si modifica, al
variare delle situazioni. Naturalmente ciò è impossibile. Bast considerare:
-l’impermeabilità di una tale visione del mondo a qualsiasi riflessione critca e quindi a qualsiasi possibile
percorso psicoterapeutco;
-la singolare vicinanza di una simile affermazione ad una prospettiva che si avvicina molto alla tradizionale
nomenclatura psicopatologica, paranoidea.
Vaillant individua, inoltre, nella concettualizzazione della “salute mentale come benessere soggettivo” un
modello cui prestare partcolare attenzione per l’influenza che ha avuto, rammaricandosi tuttavia
dell’enorme scetticismo degli europei nei confront dell’interesse americano per la felicità. Egli sottolinea
come questo termine present un’ambiguità di significato che ha prodotto non poche confusioni nel passato
e che gli fa preferire l’espressione “benessere soggettivo”, evidenziando (fortunatamente) negli anni a
seguire come i parametri scientfici di tale espressione fossero vaghi. Una definizione del 1967 suggeriva che
una persona felice dovesse essere “giovane, sana, ben educata, ben pagata, estroversa, ottimista, senza
preoccupazioni, religiosa, sposata, con un’autostma elevata, un buon lavoro, senso morale e ambizioni
modeste”. La ricerca, seria e documentata, ha dimostrato che solo “religiosa, sposata, con autostma elevata
e un buon lavoro” possono essere mantenute. Ed è qui che trova spazio uno studio condotto su 180 suore, e
volto a confermare come la felicità possa far vivere più a lungo. Vaillant sottolinea che tale ricerca mette in
luce il legame tra felicità soggettiva e salute, evidenziando come però il benessere soggettivo (o felicità che
dir si voglia) non sia possibile guadagnarselo, ma sia ampiamente ereditario e relatvamente indipendente
dalle variabili demografiche. Naturalmente lo scetticismo, di cui egli ha rimproverato gli Europei, cresce a
dismisura. Il concetto di salute mentale “in positvo” appare sempre più una semplificazione pericolosa.
Sembra quasi che le affermazioni di Vaillant, e altre fatte a seguito di ricerche successive (astronaut scelt
per il basso punteggio di nevrotcismo), abbiano come riferimento principale più obiettivi di controllo
sociale che non obiettivi “puramente” scientfici come si pretenderebbe di far credere.

3.Alcune considerazioni critiche sul concetto di disturbo mentale

Se la definizione di salute mentale naviga in acque agitate, anche quella complementare di disturbo mentale
non sembra avere miglior sorte. J.C. Wakefield, assieme a Vaillant, affermano che le diagnosi di disturbo
mentale siano semplicemente giudizi di valore relatvi a categorie socialmente costruite di un
comportamento disapprovato, giudizi che consentono di esercitare il potere medico, con scopi di controllo
sociale, su condizioni che in realtà non consistono in disturbi. Ma il rimedio individuato da Wakefield non
sembra molto migliore. L’assunzione da parte dell’autore di un modello che, egli stesso, definisce “ibrido”,
che nella formulazione di base cerca di mettere d’accordo prospettive bio-mediche e socio-politche,
rapidamente si arena nelle secche di una visione che non può che declinare il comportamento umano e i
processi mentali se non come un’invariante avulsa dalla processualità storica e sociale. Il concetto che ne
deriva, di disturbo come “disfunzione dannosa”, scontenta necessariamente l’una e l’altra prospettiva. La
sua definizione è stata infatti da alcuni identficata come espressione di un “riduzionismo biologico” che non
prende in considerazione la dimensione della complessità. Wakefield cerca di difendere a spada a tratta la
psichiatria dagli antpsichiatri che sostengono l’inesistenza del disturbo mentale, ma i suoi concetti
sembrano partcolarmente deboli e intrinsecamente contraddittori risultando, così, piatti e privi di
connotazioni.

4.Alcune considerazioni critiche sulle metodologie di ricerca in psicoterapia

La ricerca clinica indirizzata all’efficacia della psicoterapia intende registrare e misurare i “progressi del
paziente”, ma sembra necessario chiedersi verso quali modelli di “normalità psicologica” o di “salute
mentale” sono orientat tali progressi. La radice del problema sta nell’uso, altrettanto comune quando
improprio, in psicologia dei paradigmi scientfici su cui poggia la medicina.
In medicina la distnzione tra “normalità” in senso statstco ed in senso clinico è oggetto di una letteratura
ormai consolidata e chiara nella sua struttura piramidale di concetti gerarchicamente ordinat. E’ impossibile
applicare alla psicologia lo stesso quadro epistemologico di tale disciplina. Non c’è nulla, nella vita mentale,
che si prest ad essere gerarchizzato, ordinato, studiato e meno che mai modificato secondo un
procedimento logico e lineare. La psicoterapia, in quanto intervento psicologico entro una relazione, non
può adottare la stessa modellistca che si utlizza per un trattamento farmacologico. Inoltre, non bisogna
dimentcare anche la questone dell’autovalutazione da parte del paziente della “normalità” e/o “salute
mentale” a cui spesso si fa affidamento. Esistono numerosi e diversificat punt di vista (per esempio,
McWilliams quando parla dei limit della soggettività simili e non peggiori di quelli dell’oggettività;
L’autocritca di Hathaway, ideatore con McKinley dell’MMPI, che dopo una carriera segnata dal successo
ammetteva di non riuscire ad immaginare nulla di meglio, per una valutazione di personalità, che un
colloquio clinico condotto con un professionista esperto). Si arriva così ad una sorta di impasse o, per dirla
come Luborsky, al cosiddetto paradosso dell’equivalenza tra i vari modelli di psicoterapia. Non è facile
stabilire un primato di uno o più modelli rispetto ad altri. Tutti alla pari, dunque, sembrano in grado di
conseguire un successo e quindi tutti degni di stma ed apprezzamento (Verdetto di Dodo = Hanno tutti
vinto e tutti debbono ricevere un premio). Il verdetto di Dodo non solo descrive in maniera realistca la
paradossale conseguenza di un’incredibile mole di ricerche diverse, ma soprattutto segnala la povertà di
contenut teorici che ha caratterizzato, in partcolare, la prima fase della ricerca sull’efficacia della
psicoterapia. Quest’ultma configura un’esperienza da valutarsi all’interno del processo che realizza; e per
questo deve ritenersi scorretto considerarla come un intervento di cui si debbano validare i “risultat”: la
psicoterapia, e in partcolare a orientamento psicoanalitco è l’andare, non la strada per la quale vai (un po’
come l’apologo dei porcospini, citato da Freud ed evidenziato da Carli).
2. Metodi quantitativi ed epistemologia della ricerca in psicoterapia: una
prospettiva critica

1… Siamo proprio sicuri di “non essere più in Kansas”?

Nelle comunità scientfico-professionali dilaga una sorta di repulsione verso le component ed i prodotti del
pensiero non immediatamente quantficabili, in favore di un riduzionismo oggettivante che iper-valorizza la
tecnologia, i servomeccanismi, le scorciatoie, gli schematsmi. La soggettività diventa rumore e per meglio
farla fuori, senza essere costretti a riconoscerlo, la si traduce in numeri. E di favoleggia di “fatti” osservabili
al di qua di ogni interpretazione. Non è più dio che è morto, ma Nietzsche.
L’illusione cambia nome, ma è sempre la stessa.
La riflessione sul lavoro clinico in psicologia e in modo partcolare sugli esit dell’intervento psicologico-
clinico e psicoterapeutco, e sulle dinamiche iscritte nei relatvi processi, va assumendo in quest anni
un’importanza crescente; ma all’interno di tale riflessione l’aspetto meno trattato sembra essere proprio
quello che più di altri può darle un senso: la sua cornice metodologica. Molte volte, la ricerca in psicologia
clinica e psicoterapia sembra essere stata alimentata da facili entusiasmi e dubbie esaltazioni per soluzioni
apparentemente semplici e brillant a problemi complessi.

2. 3. Frammenti clinici (per esemplificare gli errori in cui spesso cadono sia la medicina che la psicologia)

La psicologia non è la pattumiera della medicina, non è detto che tutto ciò che la medicina non spiega
debba necessariamente avere “natura” psicologica. A volte, semplicemente, la medicina non dispone di
concetti sufficientemente elaborati per comprendere la natura di un problema. Oppure il medico sbaglia,
e accade che lo psicologo lo segua acriticamente, perfezionando e completando definitivamente l’errore.
La sostanza è che la fonte dell’errore risiede nella sospensione del pensiero critco, e nella ricerca di forme
concrete a interpretazioni semplificatorie e decontestualizzate di problemi complessi.

4.Alcune (indispensabili) considerazioni di metodo

4.1. Ancora sul concetto di salute mentale

Avvicinandoci ai giorni nostri e supponendo di far riferimento a criteri più artcolat e scientficamente
fondat si scopre che, ancora oggi, prendendo ad esempio in considerazione il rapporto tra white e black
americans , i neri confrontandosi con le isttuzioni deputate al counseling e alla psicoterapia sia quello di
non sentrsi ascoltat e di sentrsi trattat da “pazzi”; e tuttavia sembra proprio che gli psicologi tendano
proprio a fare così nei loro confront. Questa visione del problema appare ingenua e riduttiva, perché non si
tengono conto di variabili contestuali di estrema importanza che riguardano il rapporto, così come è venuto
storicamente a determinarsi, tra bianchi e neri d’America.
Sembra di trovarsi di fronte ad una sorta di empirismo ingenuo, figlio diretto di un obsoleto paradigma di
semplificazione. In questa prospettiva, il mondo è in sé compiuto, governato da meccanismi lineari in cui
sono distnguibili con precisione le categorie di causa ed effetto. Un paradigma, cioè, in cui si assume che la
realtà sia caratterizzata dall’ordine, dalla stabilità e dalla regolarità dei fenomeni. I processi di isolamento,
disgiunzione e quantficazione richiest dal tradizionale metodo sperimentale sono logicamente ammissibili
solo all’interno di un paradigma in cui la realtà è descritta come un insieme organico e regolare, in cu gli
oggetti hanno caratteristche proprie, indipendent sia dall’osservatore sia da contesto in cui si collocano.
Nello specifico psicologico e psicologico clinico, nel momento in cui viene a cadere l’idea di una realtà
permanente ed indipendente dall’osservatore e si colloca quest’ultmo in una complessa rete di
interdipendenza con il fenomeno osservato, risulta inevitabile dichiarare la stretta dipendenza
dell’osservazione delle teorie di chi osserva. Contrariamente a quanto affermava l’epistemologia empirista
sottesa al paradigma di semplificazione, le teorie scientfiche sembrano quindi elaborate non tanto a partre
dai dat sensibili, ma dalle convinzioni che si possono avere nei confront dei fenomeni che si intende
studiare. Il concetto di semplificazione è stato da tempo sosttuito da quello di complessità e dal
conseguente paradigma di complessità, in cui l’oggetto dell’interesse scientfico è riconosciuto nella totalità
degli element che lo compongono e nelle interazioni che quest intrattengono con l’ambiente in cui sono
situat. Oggi però si assiste ad una sorta di “semplificazione del concetto di complessità”.
Il modello del paradigma indiziario rappresenterebbe il più idoneo alla spiegazione e all’interpretazione in
psicologia clinica. Esso è basato sull’evidenza: nessuna “auto-eviedenza” , ma l’evidenza che discende da un
uso appropriato della procedura denominata “abduzione”. E’ ben noto che nel corso del ‘900 la logica
prevalente della ricerca scientfica ha progressivamente virato nel senso di modelli ipotetco-deduttivi, entro
i quali il punto di partenza di un esperimento relatvo ad un fenomeno è la ricerca pregressa sulla stessa
classe di fenomeni e le teorie di riferimento che vi corrispondono: formula l’ipotesi, l’osservazione verrà
utlizzata per la sua verifica. Come è stato osservato da più part, il limite di quest metodo è psicologico.
Gangemi, ad esempio, sottolinea come ogni ricercatore si legga tant libri di ricerca o di riflessione teorica,
formuli una sua teoria più o meno credibile, più o meno importante, e poi tenda a cercare dei dat che
confermino la sua teoria. Normalmente lo fa cercando i dat in cui più è facile trovare conferma invece di
seguire l’indicazione di Popper secondo cui le teorie devono essere messe alla prova cercando prove
contrarie e non a favore.
Nel modello dell’abduzione, formulato per la prima volta da C.S. Peirce nel 1878, il processo di raccolta dei
dat, formulazione e valutazione dell’ipotesi segue un percorso che consente di “aggiustare il tro” in corso
d’opera: le ipotesi vengono formulate, accolte o scartate, riformulate a seconda che soddisfino o meno un
criterio di massima plausibilità rispetto al fenomeno osservato. Il paradigma indiziario che supporta il
ragionamento abduttivo, notava C. Ginzburg, proponeva una marcata discontnuità, rispetto al paradigma
scientfico tradizionale, ma al tempo stesso dava conto di un modo di procedere empirico e insieme rigoroso
e fonte di ragionevoli certezze che era stato da sempre proprio dell’umanità, a partre dall’esercizio della
caccia presso gli uomini primitvi, passando per la scrittura della storia, lo studio filologico delle lingue
antche, la sedimentazione dell’esperienza clinica nella medicina. I dat su cui si basa il ragionamento
abduttivo sono evidenze empiriche: ma è l’osservatore stesso che conferisce ad alcuni dat tale statuto.
L’impostazione di Peirce dei tre diversi procediment è Deduzione (Sillogismo Aristotelico), Induzione e
Abduzione. L’abduzione, sottolinea Peirce, non diversamente dalla deduzione e dall’induzione, è un modo
di funzionare spontaneo della mente, ma si distngue per il suo carattere concreto: serve a prendere
decisioni in presenza di dat parziali, poiché potremmo non averne mai a disposizione di sufficientemente
complet. Il problema di criteri che in qualche modo garantscano l’affidabilità degli intervent psicologici
investe l’interesse e il diritto dei client/pazient. Problema che è stato definito da Klerman, a partre dalla
discussione del “caso Osheroff” (bisogna sperimentare approcci innovatvi ai disturbi mentali o fornire ai
pazient ragionevoli garanzie di risultat positvi che riducano la sintomatologia anche solo attraverso l’uso di
farmaci?) ha definito con l’espressione “sfida dell’efficacia”. Alla sfida proposta da Klerman, Stone opponeva
l’importanza che una respectable minority della comunità scientfico-professionale abbia la possibilità di
mettere in pratca modelli di valutazione clinica e di intervento terapeutco sottratti al più rassicurante
conformismo delle linee-guida, degli standard e dei protocolli di diagnosi-cura. La psicologia non deve esser
vista come ancilla medicinae, costretta come tale ad accettare l’illusione ideologica di un paradigma
biologico impropriamente applicato alla vita mentale.
Il problema della natura scientfica della psicoanalisi si è posto fin dalle sue origini, quando appunto il
giovane Freud veniva accusato dai medici viennesi di baloccarsi con metodi da ciarlatano, e ha occupato
alcune migliaia di pagine nel corso del ‘900 e in questo primo scorcio del terzo millennio. Roudinesco
sostene con fervore che se “la psicoanalisi si è potuta salvare dal nazismo grazie all’emigrazione massiccia
dei freudiani europei verso il contnente americano, tra il 1930 ed il 1940, ciò è accaduto al prezzo di una
trasformazione radicale dei suoi ideali, della sua pratca e della sua teoria. Estremamente pragmatci, i
terapeut americani fecero proprie con ardore le idee freudiane. Ma cercarono subito di misurare l’energia
sessuale di dimostrare l’efficacia delle cure moltplicando le statstche e di indagare per sapere se i concetti
fossero applicabili empiricamente ai problemi concret degli individui. […] In tali condizioni, la psicoanalisi
divenne oltre Atlantco, indipendentemente dalle tendenze, lo strumento di un adattamento dell’uomo ad
un’utopia della felicità”.
La nostra epoca è attraversata da molteplici illusioni ideologiche, il cui massimo comune denominatore
sembra essere una fantasia diffusa di produrre sicurezza e benessere mediante l’impiego di “tecniche”
basate su idee semplici, contestuali o meta contestuali, di valore generale.

3.Caratteristche e peculiarità della formazione in psicologia clinica e in psicoterapia


1.”Aprite cari piccini”. Chi avrà abbastanza paura del lupo?

Non sempre la concretezza e la coerenza di un quadro indiziario consentono di abbassare la guardia e di


consegnarsi, con cieca fiducia, ai fatti (favola del lupo e dei sette capretti).
La distnzione tradizionale tra segno e sintomo, fondata sui caratteri di artficialità, volontarietà e
convenzionalità del primo, e su quelli di naturalità, involontarietà e motvazione del secondo, non appare
del tutto soddisfacente, soprattutto in quei casi che rientrano nella simulazione, cioè nella produzione
volontaria di sintomi. Spesso ciò che viene ignorato è il contesto, gli psicologi sono sempre più portat a
diagnostcare un disturbo (alla pari di un medico) anziché valutare la relazione in atto e dunque fare
un’analisi della domanda.
L’analisi della domanda non rappresenta di per sé la soluzione; essa però permette allo psicologo di
interrogarsi, di avere meno certezze, di isttuire una relazione meno basata su di un semplice meccanismo
on/off, in favore di un atteggiamento maggiormente interrogatvo, più attento agli indizi e quindi anche alla
loro eventuale ingannevolezza. Certamente, per uno psicologo clinico o uno psicoterapeuta è più utle,
anziché essere formato a fare diagnosi, essere addestrato a pensare le proprie e le altrui emozioni e ad
utlizzarle per promuovere cambiamento e sviluppo all’interno di una relazione culturalmente definita di
consulenza psicologica. Naturalmente, anche una prospettiva come quella dell’analisi della domanda ha
necessità di rispondere ad un costante riferimento al contesto in cui si colloca. Una formazione ispirata ai
principi dell’analisi della domanda non si configura come addestramento al possesso di un contenuto e, a
rigor di termini, nemmeno come addestramento all’uso di una tecnica, ma piuttosto come acquisizione di
una competenza metodologica utile a leggere le relazioni e a lavorare con e su di esse.
Ogni processo formatvo poggia su tre element base:
1.il processo formatvo stesso con le sue caratteristche e peculiarità, la sua metodologia, la sua filosofia di
azione;
2.l’utlizzo della formazione ottenuta nello specifico dominio cui si applica;
3.la verifica della formazione.
Una formazione non spendibile sul piano delle concrete evenienze della vita, risulta inefficace o addirittura,
come accade, ad esempio nella favola dei sette capretti, dannosa. Oltre a ciò per comprendere la relazione
bisogna tenere conto anche della dimensione storico-narratva.
I presuppost fondamentali per la formazione in ambito psicologico e psicologico-clinico sono:
1.La necessità dell’ancoraggio della formazione alla professione, per accrescere il valore ed il significato
delle esperienze già compiute, per non rischiare di disperdere una mole in potenza molto grande di
esperienze future nei rivoli della semplificazione, che alimenta facili entusiasmi e sostene la tendenza a
ridurre ogni complessità a element semplici, discret, misurabili in modo lineare;
2.Il movimento in atto da una logica formatva fondata sul passaggio, puro e semplice, di conoscenze date e
stabilite una volta per tutte e a prescindere dall’evento formatvo medesimo, ad una logica formatva situata
e contestualizzata, co-costruita tra formatori e formandi, e che consenta di orientarsi maggiormente
all’interno della rapida realizzazione e demolizione di conoscenze che il mondo attuale ci impone, attraverso
l’implementazione di competenze che siano in grado di consentre l’interpretazione dei contest e la
valutazione del cambiamento. In tale prospettiva gli aspetti rilevant sono la caratterizzazione del prodotto
della formazione più in senso metodologico che non di contenuto; e soprattutto, la peculiarità del Setting
formativo, che si caratterizza principalmente come delimitazione di un ambiente e/o un contenitore avente
la funzione di dispositvo facilitante la formazione medesima. Ciò in ragione del fatto che la domanda
formatva diventa essa stessa oggetto della formazione;
3.L’importanza di una verifica della formazione, da attuarsi non tanto e non solo all’interno dello stesso
percorso formatvo, quanto soprattutto all’esterno delle agenzie formatve attraverso un confronto tra il
prodotto conseguito della formazione e le richieste e le attese della domanda sociale;
4.I rischi di una prospettiva riduzionista che, reificando i costrutti psicologici, proponga una formazione in
cui l’insidia del pensiero concreto finisca per disattivare la stessa attitudine a pensare. Se il modello di
intervento psicologico proposto, ad esempio, non guarda all’oggetto cui si applica, cui lo psicologo si
rapporta nello sviluppare il proprio intervento, all’interno della rete di relazioni in cui è collocato e che
concorre egli stesso a qualificare, il rischio della semplificazione è molto forte;
5.Il riconoscimento dell’importanza di alcune attività introdotte, o meglio, rese possibili dalle disposizioni
legislatve che hanno modificato gli ordinament dei corsi di Laurea in Psicologia. Ad esempio, esperienze di
laboratori e del trocinio, con le connesse attività di resocontazione e discussione dei resocont: tali attività
possono rappresentare un luogo ideale di saldatura e integrazione tra teoria e prassi, moment di
negoziazione, quindi, apert alla trasformazione tra teoria e cambiamento. Di grande importanza, infatti, è la
forza formatrice esercitata dall’esperienza;
6.La riflessione sulla qualità e le caratteristche di una tale esperienza e sul pensiero che debba informarla
perché anch’essa non divenga reificazione assolutzzata;
7.La necessità di controllare quella che potremmo chiamare la lusinga dell’autoreferenzialità, che con la sua
capacità di conferire certezze, appigli, appartenenza, rischia di vanificare il potere strutturante delle
esperienze. Tanto da far parzialmente rigettare il noto postulato di Bion: nulla si apprende direttamente
dall’esperienza, ma solo dal pensiero sull’esperienza;
8.La consapevolezza della “debolezza” della tecnica psicologica a confronto con la “forza”, o per meglio dire,
la “pregnanza” del contesto. La dimensione dell’autoriflessività viene così ritenuta utle per connettere
critcamente modelli teorici e tecniche con le richieste ambientali specifiche, in rapporto alle quali si
esprime l’identtà professionale;
9.Il convincimento che la stessa formazione clinica sia un fatto clinico. La formazione in ambito psicologico-
clinico non viene intesa semplicemente come propedeutca alla clinica, ma diventa essa stessa un
intervento clinico con il quale ed entro il quale si misurano gli attori coinvolt. Questo comporta un
partcolare impegno sia da parte dei formatori che dei formandi, soprattutto di elaborazione di quanto
accade nell’hic et nunc della formazione, ma anche di interrogazione contnua, di accettazione della
problematcità degli event con i quali ci si confronta e della mancanza di risposte univoche e rassicurant e
soprattutto pre-definite nei confront di tale problematcità. Un impegno rivolto alla co-costruzione dei
contenut della formazione.
L’impressione di fondo è che anche l’ambito della formazione in psicologia di trovi al momento sospeso tra
due diverse concezioni riferentesi a due diverse epistemologie. Da un lato quella appoggiata al cosiddetto
paradigma di semplificazione, che si fonda sulle dimensioni dell’ordine e della regolarità degli event;
dall’altro un’epistemologia che si riferisce al paradigma di complessità in cui l’interazione tra fenomeno,
osservatore, metodi e strument diviene l’oggetto privilegiato dell’atto del conoscere, d’altronde il termine
complesso deriva dal latno cum plexum, che significa tessuto insieme.

4.Idee per una semiotica della psicologia clinica


1.Qualche spunto metodologico per (non) confondere le idee a chi studia la nostra disciplina

L’idea degli Isttut di formazione privat di possedere un proprio modello di psicoterapia, costruito quale
elaborazione di uno o più matrici teoriche e tecniche di “scuola”, ha avuto un’incidenza, alquanto pesante,
nella costtuzione di una mentalità fortemente in controtendenza rispetto all’esigenza obiettiva e ovvia della
costruzione di una comunità scientfico-professionale degli psicologi clinici e degli psicoterapeut.
La mentalità “di scuola” o meglio “di micro-scuola”, attraverso la quale numerosi Isttut hanno scimmiottato
a modo loro la storia del movimento psicoanalitco, anche non condividendone in alcun modo né i
riferiment teorici, né le prassi, ha reso a volte grottesca la rigidità delle loro vicissitudini non meno che dello
loro attività promozionali.

2.Nomi /cose: trappole e trucchi del pensiero concreto

L’illusione dell’apprendimento ostensivo.


Tale apprendimento è basato esclusivamente sul mostrare, indicare, evocare attraverso la significazione
generica dell’oggetto: all’ostensione si può ben accompagnare la denominazione generica,
decontestualizzata, un memorandum puramente tecnico.
Il repertorio degli “Esercizi di stle” di Raymond Queneau mostra con geniale umorismo quanto si possa
arzigogolare sulla più banale delle osservazioni, se questa non abbia una freccia direzionale, un obiettivo di
significazione che ne orient l’intenzionalità.
Il dibattito filosofico sul tema è antco e vasto, ma per quanto concerne il tema dei metodi di insegnamento
e della loro congruenza relatva ai concetti teorici, teorico-tecnici e operatvi della psicologia clinica e della
psicoterapia , A. Musgrave ci offre una visione a dir poco interessante. Egli sostene che “ciò che rende
possibile il vedere è la precedente comprensione dei concetti o del linguaggio. E’ il linguaggio che ci
permette di vedere-che (o più in generale, di percepire-che) le cose stanno proprio così, e quindi di
formulare enunciat osservat”. Chi fa un’esperienza non disponendo di categorie di rappresentazione di
quell’esperienza, non può trasformarla in un enunciato osservatvo. La mancanza di categorie contestuali
all’esperienza non consente alcuna riflessione sulla stessa, e nel contempo, la formazione di tali categorie
non può che derivare dalla riflessione sulle connessioni tra esperienze diverse e aspetti diversi di ognuna di
esse. Il divario fra esperienza e resocont osservat, un divario colmato dal linguaggio o dai concetti, è
un’importante fonte di fallibilità dei resocont osservat.
Nello sviluppo del pensiero attraverso il tempo, dall’apprendimento dei rudiment del lessico fino alla piena
disponibilità di concetti astratti operazionali, forme più complesse si sovrappongono a quelle precedent, ma
nessuna “scompare”. I due registri del “concreto” e del “simbolico” si ritrovano così a funzionare come due
dimensioni complementari e non come due poli contrappost di un asse ideale del pensiero. Concreto,
dunque, non più versus simbolico. Tutto sta nel saper guardare oltre la siepe, azione questa che non
abolisce la siepe.
Come ha scritto E. Gellner “Wittgenstein fu per tutta la vita uno sei Savi di Lagado”: dall’idea del Tractatus
che le parole siano “specchi” o “simulacri” delle cose, nelle Ricerche giunse a definirle come mosse di giochi
linguistci, che come i Savi di Lagado gli oggetti, noi tutti ci portamo dietro quali “abitudini discorsive”. Sono
proprio queste abitudini, proprio perché largamente inconsapevoli, e prodotte a partre da isttuzioni del
discorso che non hanno nulla di “naturale”, che costtuiscono le insidie del pensiero concreto.
L’abitudine, come il linguaggio e i suoi modi di funzionare, è certo un campo di indagine pertnente per la
psicologia. Wittgenstein si proclamò sempre “discepolo e seguace di Freud” ma al tempo stesso, essendone
critco severo, nelle Ricerche sembra pervenire ad un esito sostanzialmente behaviorista. La sua idea
fondamentale è che gli esseri umani impieghino una varietà di giochi linguistci, “attività concrete in contest
concret, governate da varie regole contngent” (scrive Gellner). Ogni tanto accade che si faccia una mossa
incoerente al gioco, come per esempio porre una domanda a cui il gioco non può dare una risposta perché
privo di una procedura adeguata: la terapia per questa “malattia” consisterà nel riportare il gioco al suo
corretto funzionamento; proprio alle metodiche di questa terapia, un fare ripartvo che si ripromette di
ripulire i linguaggi-gioco dall’errore, sono appunto dedicate le Ricerche.
Questa parte di filosofia di Wittgenstein perviene così allo scacco di qualsiasi forma superiore di pensiero
sul pensiero, e alla riproposizione della concretezza dei linguaggi come limite invalicabile al pensiero stesso.
Nel rapporto di insegnamento/apprendimento ostensivo non mancano certo le parole: ma parole e cose
funzionano come se fossero tutt’uno, senza differenza, come se quella specifica parola potesse designare
inequivocabilmente quella specifica cosa, e nessun’altra. Il problema è che, nella mancata artcolazione di
una differenza, sembra che indifferentemente la parola ponga la cosa, o la cosa la parola. La storia della
professione psicologica in Italia è segnata da questa categoria di equivoci.
I Savi di Lagado rappresentano una divertente metafora di quella forma del pensiero che Piaget ha definito
“concreto”. Esso consente un’interpretazione dei dat di realtà che non impegna alcuna dimensione di
contesto. Piaget intende per “concreto” il fatto che le operazioni mentali del bambino siano applicate a
qualche aspetto della realtà esterna o presente fisicamente o rappresentata mentalmente. Egli sostene,
sulla base delle sue affermazioni, che nel caso ad esempio delle operazioni logico-formali elementari, la
capacità di ragionamento fra i 7-8 e gli 11-12 anni è caratterizzata dalla costruzione dei raggruppament
operatori di ordine logico e dei gruppi numerici, ma su piano essenzialmente concreto, cioè relatvo a degli
oggetti manipolabili, rappresentabili nel dettaglio dei loro rapport reali. In questa direzione si può affermare
che le operazioni di attribuzione di senso dell’adulto basate sul pensiero concreto sono letteralmente
regressive. La dominanza della dimensione concreta del pensiero genera forme specifiche di confusione,
che come tali possono venire modellate e ricondotte alla loro matrice primaria – il pensiero concreto,
appunto – per essere lì riconsegnate e lasciate al loro posto, in modo che non interferiscano più che tanto, si
spera, con i processi di elaborazione che la psicologia clinica pone al centro della propria operatvità.

5.Corsi, ricorsi, “nuovi corsi” nel rapporto tra psicologia e società

1.Le Roi est mort, vive le Roi!


Come lo spectator che fruisce della fotografia, il professor Grasso mette in luce determinat argoment
assumendo un atteggiamento che può essere definito più del punctum, anziché dello studium (cioè
dell’interessamento all’immagine senza una partcolare intensità), e dunque ponendo sotto i nostri occhi ciò
che lo ha “punto” maggiormente: facendo riferimento a dimensioni emotve, e sperando che si possa
riuscire a generare e proporre delle nuove narrazioni.

2.A proposito della definizione di “dimensioni invarianti” in ambito psicologico clinico

Ultmamente abbondano interessant ed important studi americani relatvi ad un tema, che si potrebbe
definire “spinoso”: la felicità. Gli Europei sono stat storicamente scettici rispetto all’interesse americano per
la felicità. Freund, ad esempio, sottolinea le debolezze metodologiche della ricerca psicologica
sull’argomento, mette in guardia dal rischio di far assurgere a dignità di scienza la declinazione dell’ovvio:
ad esempio, che la felicità è quando la gente dice di essere felice. E lo dice, secondo Freund, nella immensa
mole di lavori sul tema costruit attraverso l’utlizzazione su larga scala di strument self-report, troppo fragili
metodologicamente per essere presi sul serio, dove le risposte rischiano di essere indirizzate in prevalenza
verso valutazioni positve per motvi di desiderabilità sociale e sono spesso fornite al di fuori di ogni
apprezzabile determinazione della dimensione di interazione tra intervistatore ed intervistato. Dunque,
secondo Freund, l’esperienza soggettiva del benessere, considerata come base per una misura psicologica
della felicità, viene ritenuta assai povera di senso.
Come possiamo essere sicuri di essere o non essere felici?
Due studi, di cui è pressoché indubbia la loro veridicità, metterebbero in luce gli ingredient indispensabili
per assicurarsi una vita longeva. Essere felici, evitare stress, rabbia e depressione, sembrerebbero quelli
propost da Diener; essere coscienziosi, al limite dell’ossessività, evitare spensieratezza, impegnarsi
fortemente nel lavoro, anche al di là dei limit del pensionamento, mantenere lo stress e la pressione della
responsabilità, sembrerebbero quelli propost da Friedman e Martn. Tali studi conducono a conclusioni
contrastant, che non possono in alcun modo alimentare delle discussioni serie al riguardo.
Chi svolge l’attività professionale di psicologo clinico e psicoterapeuta, spesso si è imbattuto in pazient che
chiedono di guarire, quasi si trovassero di fronte ad un santo capace di fare miracoli. Molte sono le richieste
assurde, del tpo “non voglio più avere pensieri”, che vengono pensate plausibili proprio a causa della
semplificazione culturale e l’impoverimento del rapporto con le dimensioni emozionali, che gli studi citat
pocanzi comportano. Fonte di notevole preoccupazione, inoltre, è anche il fatto che agli occhi di molt
psicologi tutto ciò appare verosimile. Ancor più, suscita sgomento il fatto che l’inconciliabilità tra la pretesa
di invarianza attribuita a costrutti psicologici indefinit ed indefinibili, e la contemporanea, paradossale,
spinta all’acquisizione di comportament che li significhino, non fa esplodere l’evidente contraddizione. Tutto
questo avviene per il semplice motvo che l’epistemologia del paradigma della semplificazione, di cui tale
contraddizione si alimenta, è basata su un’esperienza interessata unicamente ad una prospettiva cumulatva
dell’acquisizione di conoscenze, del fare senza costrutto e senza progetto purché si faccia.

3.A proposito di formazione, università, Facoltà di Medicina e Psicologia

La fiducia decontestualizzata negli “strument” psicologici di diagnosi ed assessment genera una domanda di
formazione orientata quasi esclusivamente alle tecniche senza teoria, per dirla con Carli, perché sono
queste tecniche a fornire (illusoria) identtà professionale, mettendo al riparo dall’implicazione emozionale
nella relazione, dalla complessa valutazione del ruolo della soggettività nel conoscere e nell’intervenire.
Il problema è prima di tutto culturale. Bisognerebbe, dunque, contnuare a lavorare per promuovere e
rafforzare un modello teorico e di intervento squisitamente e precipuamente psicologico, cercando di
contrastare la possibile subordinazione a modelli più fort, come ad esempio, quello medico.

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