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Mi parve, quel primo libro di Campanile, un gustosissimo assieme di spunti e di trovate cucite
più o meno abilmente, e ch'egli vi si affaticasse attorno come un legatore di gemme per
formarne un tutto. Allora seguitando questo artista a scrivere ed io a leggerlo attentamente, le
cose sono cambiate a segno che l’esempio del riso coi fegatini non calza più.
Campanile ha conquistato una scrittura sua, una frase personalissima per mezzo della quale
espone una originale visione della vita e del mondo in una struttura omogenea e compatta.
Via via sviluppandosi, egli è pervenuto ad essere sotto i nostri occhi una vera e propria
maschera, una maschera tragica attraverso la quale la comune o banale vita borghese che ci
circonda, si ritorce, si dibatte e si divincola col suo esile corpo nell'impossibilità di sostenerla, o
l'assume e ne fa pompa con una naturalezza altrettanto sproporzionata, per cui ora ti pare di
vedere depositare un baule o un sacco di carbone nelle braccia o sulle spalle di una
gentildonna in abito da ballo, ora di vedere eleganti giovinotti pavoneggiarsi fieri e sicuri d'una
rosa o d'una gardenia all'occhiello mentre non ci hanno che un mazzo di carote o di cipolle, o di
vedere uno che creda di avere in testa un cimiero o una corona da re e non ci abbia che una
padella sudicia, o il cimiero e la corona siano di foglio.
E' questo del Campanile, l'umorismo tragico e tipico del tempo nostro in un campione dei più
genuini ed intensi, che sviluppandosi ed evolvendosi sempre più invade e corrode il campo del
dramma di cui conserva ancora, in fondo alla risata, un senso di amarezza.