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Parfide
21 agosto 2003. Quasi simultaneamente, la sede dell’Onu a Baghdad è
devastata da un attentato con un camion-bomba e un autobus esplode a
Gerusalemme. Fra questi due avvenimenti non c ’è alcun legame diretto,
eppure è difficile non pensarli insieme. [...]
Se queste terribili esplosioni hanno davvero un’origine comune, essa è fatta di
lucidità e disperazione. Contro questa miscela, il diluvio di fuoco e di denaro
che si è abbattuto sull’Iraq è impotente. I blindati, le esecuzioni selettive, la
costruzione di una prigione grande come un popolo, le menzogne israeliane
sono impotenti. Che la resistenza prenda spesso la forma di attentati suicidi
contro dei civili, che sia essenzialmente condotta da movimenti religiosi, tutto
ciò, certo, non può che addolorarci, ma cosa aspettano gli altri [ ...]
ad inventare nuove forme d ’azione?
Eric Hazon, Chronique de la guerre civile
Agli irregolari della guerra civile
Qui regna attualmente la più grande calma. Tutto è silenzioso come in una notte
d ’inverno avvolta nella nebbia. Solo un piccolo rumore misterioso e monotono, come
gocce che s’infrangono. Sono le rendite dei capitali che cadono nelle casseforti dei
capitalisti facendole quasi debordare. Si ode distintamente il continuo montare delle
ricchezze dei ricchi. Di tanto in tanto si mescola a questo sordo scrosciare qualche
singhiozzo emesso a bassa voce, il singhiozzo dell’indigenza.
Talvolta eccheggia un leggero suono metallico, come d'un coltello che s’ajfila.
H ein rich H ein e, 17 settem bre 1842
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Se si osserva con attenzione, si scorgerà che un filo sempre più evidente
lega le esplosioni sociali dell’Iraq, della Palestina, dell’Algeria ai movimenti
delle truppe — ideologiche e poliziesche — nei nostri quartieri. I dispositivi
di riassetto urbano e di repressione emanano un odore di paura di fronte alle
condizioni che il dominio stesso ha riunito. Di più, il conflitto penetra nelle
stesse sensibilità individuali, che le vecchie identità collettive (il lavoro, la
famiglia, l’appartenenza culturale) non riescono più a tenere insieme. Al pri
mo scossone, un profondo senso d’incertezza pervade gli animi aprendoli,
ancora una volta, a possibilità opposte: la paura di sé e degli altri, ma anche
una nuova disposizione affettiva a lasciarsi coinvolgere da ciò che è comune.
Il modello liberale dell’uomo d’affari sicuro di sé, imposto urbanisticamente
attraverso la privatizzazione degli spazi di vita, s’incrina nel quotidiano di
uomini deboli e indifesi. Il calcolo razionale pensa di governare tutto, come il
dominio crede di controllare le contraddizioni che genera, ma i tic nervosi
confessano ciò che i sorrisi di facciata tentano sempre più maldestramente di
mascherare.
Qual è lo spazio che lo scontro sociale, da Los Angeles a Gaza, da Quito a
Bassora, sta aprendo nella guerra civile mondiale?
Se qualcosa insegnano gli avvenimenti iracheni, illuminando d’un colpo
il tessuto dei rapporti sociali, è che nessuno — né il capitale, né l’islamismo,
né i rivoluzionari — sa governare il disporsi, l’allinearsi e il disperdersi delle
forze in campo. Il modello quantitativo della forza — esercito contro eserci
to, fronte contro fronte — sta andando letteralmente in frantumi assieme ai
piani di occupazione militare dei padroni del mondo. Lo spettacolo dei mu
scoli d’acciaio viene squarciato dalle fiamme di una rivolta attraverso congiu
re misteriose di eventi — una giungla mortale per l’occupante — , scatenate
da una resistenza le cui cause e le cui ragioni non hanno nulla di misterioso.
L’intelligenza dei rapporti di forza non è mai stata — per il dominio come
per i suoi più irriducibili nemici — così decisiva. Questa intelligenza rispec
chia per tanti versi le regole del gioco sovversivo, con le sue improvvise unio
ni e le sue separazioni altrettanto repentine.
Le saccenti analisi geopolitiche hanno ben poco da dirci. La polizia nella
metropolitana ci rivela quest’epoca al pari delle pubblicità, le guerriglie al
pari dei conflitti familiari. Quello che avviene nelle “periferie” si riflette al
“centro”, e viceversa. In questo senso, sono gli insorti iracheni a darci una
mano, indebolendo il dominio mondiale di cui siamo tutti sudditi. Se dopo
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l’i l settembre gli Stati Uniti avevano concepito un piano gigantesco per schiac
ciare sotto i loro cingolati le terre dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Siria e
dell’Arabia Saudita, le fiamme di Bassora, Nassiriyya e le altre stanno ferman
do le mire assassine della più grande potenza militare del mondo. Non sareb
be ora che gli irregolari della guerra civile occidentale le alimentassero?
Se la favola del diritto è messa a nudo dalle brutalità e dalle sevizie
trasmesse in mondovisione, ugualmente improponibile appare quel pacifi
smo che rivendica il rispetto della legalità e confina l’opposizione alla guer
ra nel solo spazio pubblico-pubblicitario della piazza, lontano, cioè, dagli
ingranaggi della macchina di sterminio capitalista. Eppure, come è emerso
in modo esemplare attraverso gli scioperi selvaggi dei ferrotranvieri e di
altri lavoratori, inceppare questa macchina, bloccare i movimenti delle sue
truppe è possibile.
Il vecchio slogan internazionalista «Portare la guerra nelle metropoli» è
stato finora messo in pratica non dai rivoluzionari attraverso l’attacco ai ne
mici comuni degli sfruttati, ma unicamente dai nemici di ogni attacco co
mune degli sfruttati: attraverso la violenza indiscriminata delle bombe di
Madrid. L’equazione “occidentale uguale imperialista” si sta diffondendo in
modo terribile tra i dannati della Terra, disperatamente soli nella loro resi
stenza. Per questo zone storicamente laiche come l’Iraq diventano, di fronte
ai massacri democratici, terre favorevoli per la “comunità” dell’Islam com
battente, realizzazione menzognera del bisogno reale di solidarietà e di riscat
to. Non è certo con gli appelli alla tolleranza e le lezioni di educazione civica
che si spezzerà quell’equazione, bensì portando qui la guerra sociale.
Gli stessi che ripetono — citando senza parsimonia Benjamin — che «lo
stato di eccezione nel quale viviamo è diventato la regola», barattano poi la
pratica dell’azione diretta, che se ne infischia sovranamente delle leggi, con la
rivendicazione dei loro illusori diritti. In un movimento che porta sempre
più pezzi di Palestina nelle nostre città, il capitale e le rivolte che questo
incontra spiegheranno a costoro cosa intendeva Benjamin quando parlava,
in un’epoca fin troppo simile alla nostra, della violenza rivoluzionaria come
«stato di eccezione effettivo» contro quello «fittizio» del Diritto, dispiegato
appieno dal fascismo.
Questo scarto fra la retorica dei volantini e l’impotenza della pratica —
come se noi stessi fossimo i primi a non prendere sul serio ciò che diciamo —
è dimostrato assai bene dai ricatti che il “movimento” riesce così stoicamente
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ad inghiottire. Appena fa qualche passo in avanti, subito si rimette sulla di
fensiva. La propaganda statale dopo l’11 settembre gli ha fatto dimenticare la
rivolta di Genova. La criminalizzazione della resistenza irachena gli ha fatto
dimenticare che quell’opposizione alla guerra, per cui erano scesi in piazza a
milioni, è proprio ciò che gli insorti in Iraq stanno ora dispiegando sul cam
po. Come si dice in uno dei testi che pubblichiamo, i mass media riescono a
far spostare le persone quando si tratta di protestare contro l’orrore di ciò che
le soggioga, ma le immobilizzano quando si tratta di dar man forte a ciò che
potrebbe liberarle.
Nelle pagine che seguono parliamo, rispetto alla rivolta irachena, di «guer
riglia sociale». Con questo vogliamo sottolineare che la resistenza all’occupa
zione e ai suoi governi d’accatto non ha ancora raggiunto la dimensione di
una vera e propria insurrezione, ma ha già scavalcato la sola guerriglia di
gruppi nazionalisti o islamisti. Gli stessi lavoratori che scioperano sono co
stretti, in un simile contesto, ad usare le armi. Crediamo che i testi raccolti
diano conto di questa —- approssimativa — definizione.
Le carte si mescolano rapidamente, le forze di epoche e di paesi apparen
temente così lontani s’incrociano in costellazioni di eventi insieme promet
tenti e terribili. La libertà ha bisogno della tempesta, ma nella tempesta è
difficile mantenere il senso della vita per cui ci si batte. In Iraq si gioca oggi
un pezzo importante di questa battaglia.
IO
Nota introduttiva
Questo libretto parla dell’Iraq in modo diverso dal solito. Non vi si elen
cano le ragioni statali e mercantili della guerra, non vi si approfondisce il
problema del petrolio in un’economia che non può farne a meno, non vi si
svelano movimenti e strategie delle truppe di occupazione. Si parla di come il
proletariato iracheno ha reagito e sta reagendo ai piani assassini del dominio
mondiale. I testi raccolti non hanno pretese di ricostruzione storica degli
avvenimenti trattati. Vanno letti come “note a caldo” sullo scontro di classe
del ’91 e su quello oggi in corso. Si tratta di scritti composti a ridosso degli
avvenimenti, quindi sicuramente carenti da un punto di vista di completezza
e organicità, in quanto interventi contingenti e “di battaglia”. Non è un libro
per specialisti e studiosi, insomma, bensì uno strumento di lotta per chi si
sente parte in causa.
Ci è parso urgente indagare la natura sociale della guerriglia in corso in
Iraq contro le truppe del capitale occidentale e contro le tragiche condizioni
che queste, fra bombardamenti, embargo e repressione, impongono da anni
alla popolazione locale.
Contemporaneamente, per cogliere meglio l’attuale situazione, stante la
generale mancanza di informazioni, ci è parso importante ricordare l’insurre
zione che scoppiò in Iraq nella primavera del 1991, dopo i massacri compiuti
dalla Coalizione occidentale nella sua crociata contro il nuovo Hitler “Satan
Hussein”. Un’insurrezione paragonabile, per estensione, alla rivoluzione ira
niana. Un’insurrezione che non ha eguali, per il grado di repressione e di
occultamento, nella storia moderna. Nulla meglio di quegli avvenimenti, in
fatti, dimostra, da un lato, lo spirito indomito degli sfruttati iracheni e, dal
l’altro, la solidarietà senza falle che unisce nel soffocamento delle rivolte so
ciali tutte le forze del potere e della classe dominante.
Come documentano i testi che pubblichiamo, pieno fu l’appoggio degli
Stati occidentali al regime del dittatore affinché stroncasse nel sangue quella
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gigantesca sommossa. Fu proprio la sua Guardia repubblicana, con la bene
dizione e il sostegno dei padroni di tutto il mondo, ad usare contro gli insorti
le tanto sbandierate “armi di distruzione di massa”, compresi i micidiali gas
chimici.
Si è trattato di uri autentica insurrezione sconosciuta, taciuta dalla stampa
asservita oppure mistificata sotto forma di rivolta nazionalista. In realtà, non
solo fu una sommossa generale — anticipata da uriondata di diserzioni che
ha ben pochi precedenti nella storia contemporanea, e coordinata da struttu
re autorganizzate (le shoras, ovvero Consigli) — , ma la sua avanzata fu repres
sa proprio con il concorso diretto, nel nord dell’Iraq, dei partiti nazionalisti
kurdi.
Fu l’estrema difficoltà nel controllare una tale esplosione che spinse la
Coalizione a riarmare i boia di Saddam Hussein e che sconsigliò agli Stati
Uniti e ai loro tirapiedi o concorrenti di occupare direttamente la regione. Il
rischio che l’Iraq diventasse la polveriera di tutto il Medio Oriente era mag
giore della certezza delle sue ricchezze da sfruttare. Solo dopo più di dieci
anni di embargo — costati almeno un milione di morti fra gli iracheni — e
dopo il lavaggio del cervello in nome della “guerra al terrorismo” i padroni
del mondo hanno deciso di ritentare l’impresa.
Ma, come dicevamo, i piani di “riordino” iracheno non sono così sempli
ci come sembrava a tavolino. Sul campo c’è sempre qualche variabile che
sfugge al freddo calcolo degli strateghi militari e degli staff delle multinazio
nali. Ci sono gli uomini, ad esempio. Cosa c’insegna, in tal senso, il compor
tamento degli sfruttati iracheni?
In un primo tempo essi hanno disatteso gli appelli alla resistenza della
propaganda nazionalista, rifiutandosi di farsi massacrare nella difesa dell’im
monda patria contro l’invasore e lasciando che le truppe anglo-americane
liberassero il paese dall’odiato regime baathista. Successivamente, hanno uti
lizzato le energie così conservate per dimostrare agli eserciti della Coalizione,
al nuovo governo provvisorio e alle sue novelle forze dell’ordine, quanto fos
sero rimasti soddisfatti da questa tanto sbandierata “liberazione”.
Questa riconoscenza nei confronti dei “liberatori” si è concretizzata attra
verso uno stillicidio di pratiche rii attacco la cui quotidianità, diffusione e
diversificazione dimostrano, contrariamente a quel che ci dicono i mass me
dia, la natura prevalentemente sociale dello scontro in atto. Nel valutare que
sta situazione, infatti, è importante tenere conto che, sia per “naturali” mec
canismi mediatici sia per precise volontà propagandistiche, quel che giornali
e televisioni ci propinano sono le notizie degli attentati più eclatanti e trucu
lenti, compiuti dalle organizzazioni più strutturate sia militarmente che ide
ologicamente, mentre quasi nessuna notizia trapela riguardo alle azioni più
spontanee compiute da una sorta di guerriglia diffusa che, per quanto meno
organizzata, è comunque in grado di colpire quotidianamente e di provocare
molti fastidi all’amministrazione della “nuova democrazia irachena”.
Contrariamente a quanto preteso dalla propaganda dominante, l’occupa
zione militare del 2003 è stata così rapida soprattutto perché migliaia di sol
dati iracheni hanno disertato l’esercito in massa, per nulla disposti a farsi
ammazzare per interessi che non erano i loro. Ma ancora una volta, come nel
1991, tenendosi le armi.
Quello che nessun esercito avrebbe potuto fare — e cioè mettere in diffi
coltà la più grande potenza militare del mondo — sta riuscendo ad una guer
riglia sociale. Dagli attentati contro i convogli militari a quelli contro le am
basciate e i quartier generali, dagli attacchi contro la nuova polizia irachena ai
sabotaggi di oleodotti e raffinerie, dai linciaggi dei marines agli scioperi di
massa, ormai nessuno può bersi la menzogna di una popolazione che ama i
soldati “liberatori e portatori di pace”. Nessuno che abbia un minimo di
lucidità può credere che una simile sollevazione possa essere opera unica
mente di gruppi islamisti. Tanto per fare un esempio, durante i saccheggi
seguiti al crollo del regime baathista, ai danni di tutto ciò che ricordasse
l’odiato potere e il suo partito, il Consiglio Supremo della Rivoluzione Isla
mica invitava, senza successo, a restituire il ben tolto al nuovo governo... La
sede di quello stesso Consiglio è stata poi attaccata al pari delle altre strutture
del dominio: covi blindati delle truppe d’occupazione, caserme della nuova
polizia. Recentemente un dirigente di tale organizzazione, pezzo da novanta
del governo provvisorio, è saltato in aria assieme alla sua scorta.
Certo, di fronte all’estremo isolamento in cui si trovano gli sfruttati
iracheni, stretti fra i massacri democratici e il racket integralista, le forze
islamiste, strumento della classe proprietaria, hanno buon gioco ad accre
scere il loro potere, in quanto unica forza organizzata in grado di rappre
sentare una “alternativa” allimperialismo occidentale. Ma il fatto che que
sta fazione della borghesia araba venga vista come la sola in grado di oppor
si all'american way oflife e alla conseguente rapina di risorse umane e ener
getiche di quelle regioni, dipende anche, e soprattutto, dall’assenza di una
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concreta prospettiva altra, di un discorso autenticamente di classe e con
cretamente internazionalista.
E questo dipende da noi. I proletari iracheni ci stanno dando un esempio
di indomita combattività, così come negli ultimi tempi lo stanno dando gli
sfruttati argentini, boliviani, algerini, palestinesi, coreani, eccetera. L’oriz
zonte di tutte queste generose battaglie è inevitabilmente legato a quello delle
lotte che sapranno costruire gli sfruttati dell’Europa e soprattutto degli Stati
Uniti. Finché, infatti, esse resteranno isolate non potranno che rifluire in
vicoli ciechi nazionalisti, religiosi o democratici, oppure essere stroncati da
una repressione di cui al più l’opinione pubblica occidentale leggerà un trafi
letto sui quotidiani.
Qui risiede il cuore pulsante dell’Economia e del suo apparato bellico che
consente lo sfruttamento delle risorse e la repressione delle regioni non di
sposte alla “pacificazione”. Oggi più che mai, la rivoluzione sociale sarà mon
diale o non sarà, non per astratto umanitarismo, ma per la dimensione plane
taria raggiunta dall’accumulazione capitalista e dunque dalla guerra sociale
foriera della sua distruzione.
La logica della guerra, con la sua violenza indiscriminata e dunque terro
rista, espone le popolazioni dei governi guerrafondai a terribili rappresaglie
(come le bombe di Madrid insegnano). Non si tratta più di uno spettacolo
televisivo.
C ’è un solo modo per uscire da questa spirale di morte: dimostrare nella
pratica che gli sfruttati occidentali non sono alleati dei propri padroni, bensì
complici dei propri fratelli iracheni che i bombardamenti e la repressione
non sono riusciti a domare. La situazione irachena dimostra che il capitali
smo gronda sangue, ma che non è invincibile. Ecco una lezione da cogliere
nella lotta contro i nemici di casa nostra. Lasciamo ai nazionalisti le lacrime
di circostanza per la vita dei mercenari italiani al soldo dei capitalisti, lacrime
mai versate per tutti i morti iracheni. Lasciamo agli ipocriti il pacifismo di
facciata che invoca l’Onu, cioè uno dei principali responsabili del massacro
iracheno. Lasciamo ai tardostalinisti il richiamo alle lotte di liberazione na
zionale, da sempre menzogna dei padroni in ascesa e strumento di una nuova
oppressione. Quella in corso a Baghdad, a Bassora o a Nassiriyya ha forme e
linguaggi diversi nonché grandi ostacoli, ma un vecchie} nome: lotta di classe.
Non sappiamo qual è il grado di autonomia degli sfruttati verso le diverse
forze della classe dominante, così come ignoriamo quali siano le strutture
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organizzative di cui si dotano nella loro resistenza. 1 ripetuti scioperi dei lavo
ratori del petrolio, opportunamente taciuti dalla propaganda, suggeriscono
una capacità di offensiva di classe come sfondo alla stessa guerriglia.
I testi che seguono raccolgono, oltre alle pagine scritte ex novo, alcuni fra
i pochi contributi usciti con un taglio simile. Purtroppo, infatti, quasi tutti i
rivoluzionari si sono lanciati, in modo più raffazzonato o più approfondito,
in grandi interpretazioni geopolitiche o diplomatico-militari sulle cause della
guerra in Iraq, sulla concorrenza fra le compagnie petrolifere o le diverse
cricche statali, senza porsi l’unica questione che davvero conti in una pro
spettiva sovversiva: come stanno reagendo gli sfruttati iracheni? Se le infor
mazioni sono poche (e già questo la dice lunga sull’effettivo internazionali
smo oggi esistente, anche nel senso più modesto di pochi e significativi con
tatti), l’estrema diffusione e diversificazione nelle pratiche di attacco e di
guerriglia suggerisce la loro natura sociale e di classe.
Varie testimonianze sull’insurrezione del 1991 dimostrano che, fuori da
ogni beata visione di attesa della rivoluzione mondiale e della sua spontaneità
salvifica..., le sommosse sono l’incontro per tanti versi misterioso fra l’azione
di minoranze di rivoltosi e una determinata situazione sociale. Il rapporto fra
gli attacchi armati di piccoli gruppi, la sollevazione generale e la nascita delle
shoras, ad esempio a Sulaimaniyya, offre in tal senso più di un suggerimento.
Contrariamente alle pretese degli ingenui e dei politicanti, la solidarietà
verso la guerriglia sociale in Iraq non è certo subordinata alla presenza laggiù
di qualche gruppuscolo di questa o quella tendenza in cui i militanti di qui
dovrebbero identificarsi. Lasciamo questo a chi è interessato alla reclame del
la propria bottega più che allo sviluppo di quel movimento collettivo di libe
razione individuale dal quale potrà nascere, sulle rovine di ogni potere, una
vita diversa.
Se spetta agli sfruttati degli altri paesi contribuire a sottrarre la guerriglia
irachena alla morsa dei racket integralisti o panarabisti, facendola uscire dal
terribile isolamento in cui la stanno confinando il dominio e i suoi organi di
falsificazione, una responsabilità particolare ricade sui rivoluzionari che abi
tano negli Stati direttamente coinvolti nel mattatoio iracheno. Sulla brutale
repressione a cui sono sottoposti gli sfruttati iracheni — dalle rappresaglie ai
rastrellamenti, dalla fame alle torture sui prigionieri — non ci sono dubbi.
Persino la stampa asservita ha rivelato di recente gli stupri contro molte dete
nute commessi congiuntamente dai soldati alleati e dalla nuova polizia ira
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chena. A un disperato appello di alcune di loro che invitava a porre fine, con
qualsiasi mezzo, a quelle terribili violenze, la guerriglia ha risposto con dispe
rati assalti alle prigioni durante i quali sono purtroppo morte anche numero
se detenute. Le immagini delle torture, anche per gli interessi opposti delle
varie fazioni capitaliste e delle relative agenzie stampa, hanno fatto il giro del
mondo. Ciò che nessun giornalista però dice è che questa è la norma di tutti
gli eserciti del mondo, e che la tortura è praticata, in gradi diversi, nei com
missariati di ogni latitudine.
Se è importante smascherare gli stermini e le nefandezze commessi dagli
Stati Uniti nell’esportazione della loro democrazia, non dobbiamo dimenti
care i padroni di casa nostra, quelli che massacrano in nostro nome.
Questo libretto è un modesto contributo da discutere, migliorare e, so
prattutto, utilizzare praticamente. Lo completa un piccolo elenco di ditte
direttamente coinvolte negli sporchi affari condotti sulla pelle dei nostri fra
telli in Iraq.
maggio 2004
Le fo n ti
“Bassora, Nassiriyya e le altre” è una rielaborazione dell’articolo “Di alcune considerazioni
sugli avvenimenti che scuotono attualmente l’Iraq”, apparso sulla rivista del G ruppo Com uni
sta Internazionalista Communisme, n. 55, del febbraio 2004. Diversi testi della rivista sono
consultabili, in più lingue, su http://www.geocities.com/Paris/6368
“Breve storia di una rivolta” è una rapida ricostruzione della sollevazione che attraversò l’Iraq
alla fine della “prima guerra del Golfo”, basata principalmente su informazioni tratte dal libro
di Ilario Saiucci, A l Wathbah (Il salto) - Movimento comunista e lotta di classe in Iraq (1924-
2003), Milano 2003 e, soprattutto, da un volantino — dal titolo “I dieci giorni che sconvolse
ro l’Iraq” — distribuito a Glasgow alla fine della guerra del Golfo del 1991, al cui fondo era
riportato: «Questo volantino è stato scritto da rivoluzionari inglesi e iracheni. [...] BM CAT,
London W C 1N 3XX, UK, o PO BOX 3305, Oakland, CA 94609, USA.»
“Note a caldo su di un’occultazione moderna” è una libera traduzione di un articolo della
Bibioth'eque des émeutes, pubblicato in Francia sul numero 3 dell’omonima rivista, nel 1992.
Diversi articoli della rivista sono consultabili sul sito www.teleologie.org
“Le shoras tra rivoluzione e controrivoluzione" e “Gli avvoltoi dell’umanitarismo” sono basati
su informazioni tratte dalla rivista Communisme, n. 36, giugno 1992.
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Babilonia brucia
Bassora, Nassiriyya e le altre
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le bussa con tutta la sua forza alla porta della Storia, tutte le cricche di sfrut
tatori scelgono di dimenticare — per un periodo di tempo, naturalmente —
i loro interessi immediati e si schierano dietro la fazione più capace e attrez
zata per difendere il capitalismo. Lo Stato mondiale è proprio questo proces
so in movimento, sempre in gestazione, che si dissolve e si afferma sempre
più potentemente, esprimendo l’organizzazione del capitale in forza domi-
natrice, in forza di sfruttamento che ha sempre più bisogno di imporre in
ogni parte del mondo il suo ordine sociale, monopolizzando la violenza e
conservandola nelle mani della classe dominante. La maggiore preoccupazio
ne dello Stato mondiale del capitale è che la catastrofe permanente che esso
genera provoca immancabilmente delle reazioni violente, armate, incontrol
late... che deve continuamente tentare di soffocare per mantenere il suo do
minio. È evidente, in tale situazione, la difficoltà di ragionare in termini di
singoli paesi, perché la realtà di questo processo supera spesso la divisione
comunemente ammessa tra gli Stati. Oggi, in seno allo Stato chiamato Usa
così come nelle sue strutture — ad esempio il Dipartimento di Stato, il Pen
tagono, la Cia, l’US Airforce, l’esercito — , si afferma la fazione più decisa a
giocare il ruolo di gendarme mondiale ed in questo trova il sostegno di tutte
le altre, anche di quelle con le quali è in concorrenza all’interno degli stessi
Stati Uniti. Durante la guerra Iran-Iraq, malgrado l’esistenza di due blocchi,
tutte le classi dirigenti del pianeta, anche quelle che si dichiaravano allora
nemiche, hanno temporaneamente messo da parte le loro differenze per fron
teggiare insieme un proletariato che, non dimentichiamolo, aveva appena
abbattuto uno dei governi più potenti del pianeta: il regime dello Scià.
La durata di questa carneficina senza nome che si è prolungata per una
buona decina d’anni — e che ricorda per diversi aspetti il mattatoio umano
del 1914-’18 — ha generato la sua contraddizione. Diserzioni, rifiuto di
combattere, scioperi e rivolte si sono diffusi come un’epidemia sociale che ha
spronato gli sfruttati in uniforme ad unirsi, a fraternizzare per fronteggiare i
due eserciti, come è successo nelle paludi intorno alla penisola di Fao, dalle
parti di Bassora, e sulle montagne del nord-est dell’Iraq, nella regione di
Halabja. La risposta del potere è stata all’altezza del rifiuto dei proletari di
andare a sacrificarsi per una causa che non era e non è la loro. Repressione,
arresti, sparatorie, sequestri e bombardamenti chimici: ecco quello che ha
offerto quest’epoca moribonda a coloro che non hanno più voluto sottomet
tersi ai suoi bisogni antropofagi.
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Questa situazione non sarebbe potuta durare in eterno. La pace tra i bel
ligeranti è stata necessaria per calmare gli sfruttati ai due lati della frontiera,
ma l’epicentro del malcontento si sarebbe spostato, da allora in poi, dall’Iran
verso l’Iraq. Lì, il regime di Saddam Hussein aveva sempre maggiore difficol
tà a contenere la collera che cresceva contro di lui e contro i sacrifici che
l’ignobile patria, da più di dieci anni, aveva preteso da proletari ormai esan
gui. La soluzione per mantenere questa rabbia al di fuori dello scontro socia
le, però, fu subito trovata: sviare questo eccesso d’ira e di miseria verso uno
dei ricchi paesi vicini, lasciare che i miserabili saziassero il loro odio contro i
padroni e la loro guerra partecipando come mercenari al saccheggio del ricco
Kuwait. Il seguito è noto. Invasione irachena dell’Emirato con la benedizione
degli Stati Uniti, che parallelamente si preparavano a rimettere in riga il pro
letariato assemblando la più formidabile coalizione organizzata dopo la Se
conda guerra mondiale. Questo era il prezzo da pagare per il ripristino del
l’ordine in quella regione. L’obiettivo numero uno era di farla finita una volta
per sempre con tutti coloro che, armi in pugno, sfidavano da ormai troppo
tempo l’autorità degli sfruttatori; il secondo era sbarazzarsi di Saddam Hus
sein e dei suoi sostenitori, incapaci di assumersi pienamente questo ruolo.
Nonostante i 500.000 soldati armati fino ai denti e la gigantesca armata na
vale e aerea, la Coalizione non potè impadronirsi di Baghdad. I proletari
riprendevano ancora una volta il loro cammino e rivolgevano le armi contro
i propri ufficiali. Bassora, Baghdad, Soulaimaniyya e altre città insorgevano,
facendo nascere degli organi di autorganizzazione battezzati shoras (Consi
gli), bloccando in un colpo solo tutti i sogni del dominio e mandando al
l’aria, provvisoriamente, i suoi piani guerrafondai. Incapace di farlo da sé, la
Coalizione lasciava ai nazionalisti kurdi, al nord, e a Saddam Hussein nel
resto dell’Iraq, il lavoro sporco di reprimere questa insurrezione generalizza
ta. La Guardia Repubblicana, che era stata miracolosamente risparmiata dai
bombardamenti aerei, si mise a massacrare gli insorti sotto l’occhio attento
della Coalizione.
Nella storia delle lotte sociali non esistono né caso né miracoli. Se gli aerei
della Coalizione non hanno riversato le loro tonnellate di bombe assassine su
questo corpo specializzato nel mantenimento dell’ordine sociale, è stato per
ché avrebbe potuto essere ancora utile per qualche compito in questa o quella
situazione, in caso di... L’insurrezione generalizzata è stata quel caso. Questo
scenario era stato certamente prefigurato dal dominio mondiale nei suoi dif
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ferenti piani. Chi sostiene che i nostri nemici siano stupidi? Sfortunatamente
per noi conoscono i propri interessi generali e capita loro sovente di ragiona
re in termini di classe. Di fronte a questa insurrezione non potevano fare
altro che lasciare Saddam Hussein al governo e rimandare i sanguinari piani
di conquista stabiliti dal Pentagono e dall’Onu.
Gli sfruttati avrebbero pagato molto caro il fatto di aver osato prendere le
armi e impedito alla fazione più decisa dei padroni del mondo di ristabilire
l’ordine sotto la maschera della Coalizione in Iraq. Dopo il milione di morti
della guerra Iran-Iraq e un altro milione di morti dovuti alla guerra, ai bom
bardamenti aerei e alla repressione del 1991, i dieci anni che ne sono seguiti
non sono stati più teneri per la popolazione irachena. Un gigantesco embar
go, decretato da quella cricca di predoni che è l’Onu, ha ucciso a fuoco lento
migliaia di bambini. In totale, un altro milione di morti ha invaso i cimiteri.
Parallelamente a questo embargo, i bombardamenti militari effettuati con la
copertura dell’aiuto umanitario non sono cessati. Giorno dopo giorno, l’em
bargo è stato aggravato dall’aviazione anglo-americana che ha rovesciato sul
l’Iraq, a partire dal 1991, quasi tante bombe quante in Germania durante la
Seconda guerra mondiale. Questo ha permesso a Saddam Hussein e alla sua
cricca di consolidare la loro morsa sugli sfruttati, che potevano mangiare
soltanto ciò che il governo iracheno, con l’aiuto delle carogne dell’Onu, di
stribuiva sotto forma di razioni (il mercato nero era totalmente inabbordabi
le). La fame è un’arma terribile nelle mani del potere ed è stata usata ed
abusata per distruggere e sottomettere i proletari in lotta in questa regione.
Nel nord del paese, dove i nazionalisti kurdi e gli islamisti si sono dati una
mano per schiacciare i ribelli, la politica che consiste nella consegna delle
armi in cambio di cibo è stata sistematicamente organizzata con la benedizio
ne dell’Onu, degli Usa e di tutte le Organizzazioni Non Governative presenti
sul posto. Questa politica ha messo alle strette ogni proletario, ponendolo di
fronte al dilemma di decidere se lasciare il fucile per mangiare — come gli
consigliavano abilmente tutti gli umanitaristi e i sostenitori dei diritti del
l’uomo presenti sul posto — o utilizzarlo per impossessarsi con la forza di ciò
di cui aveva bisogno per sé e per i suoi figli.
Dopo aver affamato e bombardato gli sfruttati per anni interi e senza trop
po rumore sui mass media, all’indomani dell’11 settembre del 2001 gli strate
ghi del Pentagono dichiaravano che era giunto il momento di farla finita con
questo ascesso. Una nuova invasione, sulla scia di quella in Afghanistan, veni
22
I
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ed eliminare i loro avversari in una corsa folle; ricorda fin troppo le operazio
ni di polizia tanto comuni nella città di Sao Paulo, dove i giovani proletari
che vivono nelle strade vengono battezzati delinquenti affinché gli squadroni
della morte finanziati dai ricchi commercianti possano ucciderli più facil
mente. Come i poliziotti di Rio de Janeiro, i militari americani sono chiama
ti a ripristinare l’ordine a un livello superiore in una regione dove l’instabilità
sociale è diventata troppo profonda. Ecco dunque, al di là dei differenti ap
procci sul modo di procedere, l’obiettivo che lo Stato mondiale si prefigge.
Alcuni, sicuri della loro forza, ci sono andati senza obblighi legati alle risolu
zioni dell’Onu, altri avrebbero voluto recarsi sul posto sotto la bandiera blu
dell’umanitarismo e dei diritti dell’uomo, sperando così di evitare il sorgere
di una guerriglia destabilizzante per l’intera regione, una guerriglia che, in
caso di vittoria sulle truppe di invasione, rischiava decisamente di provocare
uno sconvolgimento sociale nel mondo intero. Ecco perché oggi, Chirac come
Schròeder, Putin come Annan, fanno blocco dietro la squadra di Bush spe
rando segretamente di vedere i repubblicani americani mangiare la polvere
ed essere rimandati all’opposizione nelle prossime elezioni presidenziali. La
loro speranza è che un democratico, ad esempio il generale Wesley Clark, ex
Q u e s t io n e d i s t il e
24
capo della Nato, diventi presidente e chiuda la partita con l’Iraq, ma questa
volta sotto la bandiera dell’Onu.
Fatto sta che questa volta i militari e gli umanitaristi non si sono sbagliati.
L’operazione di polizia è stata condotta risolutamente, le quattro settimane
di conflitto sono state una vera passeggiata nonostante gli ostacoli incontrati
e i 55.000 civili uccisi — ignobilmente definiti «danni collaterali». Le truppe
americane non si sono astenute dallo sparare su tutto ciò che si muoveva.
Dall’alto gli ordini erano stati chiari: prima sparare e poi verificare.
L’esercito iracheno e le sue forze speciali sono immediatamente spariti dal
campo di battaglia lasciando via libera alle truppe anglo-americane per entra
re in Baghdad. La relativa facilità con la quale le truppe di invasione hanno
attraversato quasi senza ostacoli tutto il paese, da sud a nord, prova una sola
cosa: che i proletari mobilitati in Iraq, arruolati, addestrati nelle caserme e
mandati al fronte a sacrificare la loro vita sull’altare della patria si sono rifiu
tati di farlo. Come durante la guerra Iraq-Iran degli anni Ottanta e nella
prima guerra del Golfo, ancora una volta gli sfruttati iracheni hanno dato
l’esempio ai loro fratelli del mondo intero rifiutandosi di combattere in favo
re dei propri oppressori. Questa ammirevole attitudine non è stata presa in
considerazione da nessuno dei testi che abbiamo avuto l’occasione di leggere
su questi avvenimenti. Questo piccolo dettaglio la dice più lunga di qualsiasi
analisi sullo stato d’animo dei proletari in quel momento. Ecco perché Sad
dam Hussein ha perduto la guerra: non per i tradimenti veri o supposti dei
suoi sostenitori e dei suoi complici, ma semplicemente perché la carne da
cannone, normalmente così docile, si è rifiutata di combattere e morire per
degli interessi altrui. Intere unità dell’esercito si sono autodissolte in qualche
minuto sui bordi delle strade abbandonando insegne, uniformi, ufficiali, scar
pe, veicoli e blindati per tornare tra i civili, conservando però le proprie armi.
Così i proletari hanno disertato e sono ritornati a casa, armati, aspettando di
vedere cosa sarebbe successo.
Un secondo avvenimento interessante — sempre per uscire dalle peripe
zie militari e politiche del tutto secondarie e senza interesse nell’ambito di
questa analisi — è stato senza dubbio la maniera con la quale gli sfruttati
iracheni hanno accolto coloro che si sono pomposamente autoproclamati
«liberatori del nuovo Iraq». Non è stata la grande esplosione di gioia che
l’Europa occidentale ha conosciuto durante il passaggio delle truppe anglo-
americane dopo la ritirata di quelle tedesche nel 1945. Malgrado il lavaggio
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1
del cervello fatto ai soldati americani, i “liberatori” hanno trovato ben poca
esultanza al loro arrivo. È con enorme diffidenza che i proletari del posto li
hanno accolti, ricordandosi ancora bene che per decenni quelli che oggi veni
vano a “liberarli” avevano sostenuto Saddam Hussein e che nel 1991, dopo
averli incoraggiati a sollevarsi contro Saddam, li avevano lasciati massacrare
dalle forze repressive dello stesso dittatore. Non appena le truppe di invasio
ne si sono sbarazzate delle ultime sacche di resistenza, i proletari si sono river
sati nelle strade a centinaia di migliaia, non per applaudire i loro “liberatori”
ma per saccheggiare tutto ciò che da vicino o da lontano rappresentava il
detestato potere del partito Baath e di Saddam Hussein. I dannati della Terra
non si sono fermati a metà di questo buon sentiero: tutto è stato saccheggia
to, dai palazzi presidenziali alle caserme passando per i ministeri, fino alle
residenze dei quartieri ricchi e le moschee. Ne prendiamo come prova un
appello ampiamente diffuso dal Consiglio Supremo della Rivoluzione Isla
mica, che raggruppa la maggior parte degli imam, il quale chiedeva «umil
mente ai fedeli di riportare tutto quello che era stato preso». Gli imam hanno
definito questi avvenimenti come «un momento di smarrimento» da parte
dei fedeli. Hanno dimenticato, questi venditori d oppio ideologico, che nel
1991 gli insorti di Najaf e di Karbala avevano pisciato in quei bordelli che
costoro si ostinano a chiamare «luoghi santi». Questo dimostra tutta la con
siderazione che gli sfruttati in collera hanno per simili venditori di paradisi
Il B aath
Il Baath (Partito socialista della rivoluzione araba) è nato dalla fusione, n el 1953,
tra Al-Baas Ai-Arabi (Resurrezione araba) e il Partito socialista arabo. Inseritosi
a ll’interno della corrente nazionalista panaraba degli anni 1950-60, il Baath so
stiene che ip o p o li arabi formano un’unica nazione avente la “m issione storica" di
unirsi in uno Stato socialista libero da qualunque dominio straniero. Inesorabile
conseguenza di tale discorso ideologico m istificatore e della relativa pratica, il
Baath sarà all'origine di numerosi colpi di stato (in Siria e in Iraq particolarmen
te) e fornirà dal 1963 ai nazionalistipalestin esi di A l Fatah l'aiuto indispensabile
p er costituire uno Stato palestinese. A l potere in Siria e in Iraq, il Baath, grazie
alle sue riforme “sociali", sarà il p iù fedele servitore degli in teressi capitalisti
nella regione e farà subire ai proletari le conseguenze del ruolo che g li è proprio:
quello di cane da guardia della schiavitù salariata e del dispotism o statale.
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artificiali. Nonostante la scarsità di informazioni che filtrano oggi da questa
regione, si può affermare che pochissimi degli oggetti saccheggiati siano stati
restituiti, dimostrazione supplementare dei limiti attuali dell’autorità che gli
islamisti esercitano sul proletariato in Iraq.
Le truppe d’occupazione hanno lasciato fare, sperando evidentemente che
la rabbia degli sfruttati si calmasse e, in generale, hanno difeso dai saccheggi
solo il famoso ministero del Petrolio e tutto quanto ad esso collegato: pozzi,
oleodotti, raffinerie, piattaforme, depositi, camion da trasporto, eccetera. La
fazione raggruppata intorno a Bush si è incaricata di fare il lavoro sporco per
conto del capitale nel suo insieme ma non ha certo dimenticato i suoi interes
si particolari, legati al petrolio e agli armamenti. Questo ha innervosito mol
to i suoi concorrenti, che ricordano continuamente alla squadra presidenzia
le i propri interessi. È solo su questo punto che si articolano i dissensi, iper-
analizzati da tutta una serie di gruppi che si dichiarano per la rivoluzione
sociale, tra i padroni di Halliburton e BP (British Petroleum), quelli di Total-
Elf-Fina e le società russe e cinesi che prima della guerra avevano raggiunto
degli accordi in esclusiva sullo sfruttamento del sottosuolo iracheno. È dietro
la maschera del rispetto della proprietà privata, dei diritti dei popoli e di altre
fandonie giuridiche, che Chirac e la sua combriccola hanno ricordato alle
truppe occupanti che non potevano lasciare che gli sfruttati se la prendessero
impunemente con i ricchi e le loro proprietà. Qualcosa di simile all’ordine,
allora, è stato ristabilito a colpi di mitraglietta; quando ciò non è stato suffi
ciente, è a colpi di cannone che le truppe di occupazione hanno ricordato di
essere ormai padrone del paese. Ma l’arroganza dei dirigenti americani è stata
tale da non dotarsi di mezzi efficaci per controllare una situazione che sfuggi
va loro di mano già qualche giorno dopo la conquista di Baghdad. Eccitato
da una vittoria così facile, Donald Rumsfeld — contro l’opinione stessa di
molti specialisti della pacificazione sociale come Bernard Kouchner, pronto a
«sostenere gli americani» e «mettersi al servizio dell’Iraq libero» — ha sciolto
per decreto non solo il partito Baath e il governo di Saddam Hussein, ma
anche l’esercito iracheno e la stessa polizia. Ha provocato, in questo modo,
un gigantesco caos, mentre i saccheggi e le occupazioni di edifìci istituzionali
da parte di centinaia di famiglie senza denaro continuavano a generalizzarsi.
Per le buone coscienze occidentali che avevano creduto ai discorsi ufficiali
degli occupanti sul «nuovo Iraq», sulla «fine della dittatura», sulla «democra
zia»... la disillusione è stata enorme.
27
Sicure di una vittoria facile e disponendo di una forza d’urto tanto colos
sale, le truppe Usa non hanno potuto immaginare che qualcuno tentasse di
alzare la testa. Al Pentagono, i problemi che i saccheggi e il caos originavano
erano considerati come degli epifenomeni che sarebbero presto rientrati nel
l’ordine — non appena la potenza dell’esercito americano avesse deciso di
porvi fine. È anche per questo che il dopoguerra non era stato pianificato
dagli strateghi che avevano deciso l’invasione. Pensavano che dopo la batosta
che l’esercito di Saddam Hussein stava per ricevere tutti si sarebbero sotto
messi in silenzio. Questo modo di agire, di nuovo, non ha tenuto in alcuna
considerazione la determinazione dei proletari a non lasciarsi usare. Molto
presto, in estate, manifestazioni che si trasformavano in rivolte scoppiavano
un po’ dappertutto: a Bassora, il 10 e 1 11 agosto del 2003, diversi soldati
britannici sono stati massacrati dalla folla esasperata dal nuovo giogo e da
una situazione di miseria che non smetteva di crescere. Le stesse cause hanno
prodotto gli stessi effetti: migliaia di proletari sono scesi in piazza a Falluja, a
Ramadi, a Mossoul e hanno cominciato a percorrere le strade domandando
alle forze occupanti il ripristino dell’energia elettrica, dell’acqua, delle strade
e... cibo. Insomma, di tutto il necessario per sopravvivere dopo una guerra.
L’arroganza delle truppe anglo-americane, cosi come gli arresti e la dispersio
ne dei rivoltosi a colpi di fucile automatico, è stata la sola risposta dei “libera
tori”, anche se alcuni comandanti regionali più furbi si sono messi all’opera
per rimettere in piedi un minimo di infrastrutture. Da subito, le truppe di
occupazione hanno ammesso di aver imprigionato più di 10.000 persone per
“turbativa dell’ordine civile”. E gli avvenimenti sono ben lungi dal calmarsi
visto che dall’inizio del 2004 sempre più disoccupati si sono organizzati per
manifestare in tutto il paese. Così, durante il fine settimana del 10 e 11 gen
naio 2004 ad Amarah migliaia di proletari hanno manifestato per domanda
re migliori condizioni di vita e hanno finito per trasformare la loro sfilata in
sommossa, prendendosela con i responsabili della loro miserabile situazione:
il municipio e il quartier generale del 1° battaglione di fanteria leggera bri
tannica. I poliziotti iracheni e le truppe inglesi non sono andati per il sottile,
sparando nel mucchio. Il bilancio è stato pesante: almeno 6 morti e decine di
feriti.
Se la propaganda ufficiale del “nuovo Iraq” sostiene che tutte le disgrazie
e tutti i mali di cui soffriva l’iracheno erano dovuti alla cupidigia del regime
di Saddam, oggi la realtà che vive ogni sfruttato locale è peggiore rispetto agli
28
anni della dittatura baathista. Spesso manca il cibo, e ciò malgrado l’enorme
flusso di merci che si riversano sui marciapiedi delle grandi città da quando le
frontiere sono state riaperte al commercio. Lavoro e salari sono inesistenti,
aumentando la miseria in cui vive gran parte della popolazione ormai da
decenni. Ufficialmente il tasso di disoccupazione raggiunge il 70% della po
polazione attiva. Lo scioglimento dell’esercito ha accelerato la pauperizzazio-
ne, interrompendo le entrate per migliaia di famiglie, senza parlare delle in
frastrutture distrutte e delle privatizzazioni che spingono un numero sempre
crescente di lavoratori nella disoccupazione e nella miseria. Non stupisce
quindi che numerosi iracheni prendano le armi contro le truppe anglo-ame
ricane e si mettano a praticare la guerriglia o il furto su larga scala per soprav
vivere. Sabotaggi, assalti e saccheggi di convogli, di oleodotti, attentati con
tro militari di pattuglia, contro le raffinerie, si sono rapidamente diffusi pro
vocando rappresaglie condotte con sempre maggiore violenza e arroganza da
parte delle truppe Usa. Questa situazione ha provocato a sua volta uno scon
tento e una reazione di rifiuto verso le truppe di occupazione sempre più
generalizzati. Gli obiettivi testimoniano il rifiuto dei proletari a lasciarsi ri
chiamare docilmente all’ordine. Su questo vale la pena soffermarsi un istante,
per meglio cogliere quello che sta realmente succedendo in Iraq.
Non passa giorno senza l’annuncio di un soldato americano saltato su
una mina o sorpreso in un’imboscata. Lo stesso vale per i poliziotti iracheni
del “nuovo Iraq”, che vedono spesso i loro edifici presi di mira, e preferibil
mente nei giorni di paga, allorché si trovano tutti riuniti. Ma se qui l’obietti
vo è perfettamente comprensibile, lo stesso vale per altri attacchi contro ciò
che da vicino o da lontano può contribuire a mettere in riga i proletari della
regione. Ricordiamo che uno dei primi attacchi che ha avuto luogo è stato
compiuto contro l’ambasciata di Giordania il 7 agosto. Si è saputo solo più
tardi, nel corso del mese di ottobre 2003, che lo Stato giordano, con l’aiuto
discreto dei servizi segreti francesi, aveva ricevuto, nella divisione internazio
nale del lavoro di stabilizzazione della regione, l’ingrato compito di addestra
re 30.000 poliziotti attraverso otto settimane di formazione; non stupisce
dunque che questi edifici siano stati bersaglio di un attentato. Il 19 agosto, è
il quartier generale dell’Onu ad essere preso di mira, con l’uccisione del capo
della missione Sergio Vieira de Mello e della maggior parte dei suoi collabo
ratori. C ’è bisogno di ricordare l’odio dei proletari verso questa istituzione
mondiale che ha organizzato la carestia durante questi anni, e che partecipa
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attualmente con tutte le sue forze all’instaurazione dell’ordine in Iraq? Dieci
giorni più tardi è il turno del dirigente del Consiglio Supremo della Rivolu
zione Islamica in Iraq, l’ayatollah Al Hakim, di morire in un attentato a
Najaf. Il 2 settembre, un nuovo attentato contro il quartier generale della
polizia di Baghdad danneggia l’ufficio del suo capo Hassan Ali, mentre il 20
settembre viene ucciso Akita Al Hachimi, membro dell’autorità provvisoria
irachena nominato dagli Usa il 2 settembre e, precedentemente, noto baathi-
sta collaboratore di Tarek Aziz al ministero degli Affari Esteri. Il 18 settem
bre, un nuovo attacco contro la raffineria di Baiji, la più grande del paese,
blocca per diversi giorni l’esportazione di petrolio. Il 23 settembre, un altro
attentato squarcia il quartier generale dell’Onu che, malgrado Kofi Annan
avesse annunciato il ritiro dei suoi uomini dopo il primo attentato, aveva
ancora più di 4.000 funzionari sul posto, in gran parte di origine irachena,
per continuare il loro sporco lavoro di pacificatori. Il 10 ottobre, viene ucciso
José Antonio Bernal, sergente capo dell’aeronautica militare spagnola ma in
realtà agente del servizio d’intelligence iberico (Cni). Altri sette agenti del-
l’intelligence saranno uccisi qualche settimana più tardi, il 29 novembre, co
stringendo il governo di Aznar a chiudere la sua ambasciata e a rimpatriare
tutta una serie di civili e diplomatici aneli essi impegnati nella pacificazione
del paese. Il 12 ottobre, un’autobomba esplode davanti all’Hotel Baghdad
che ospita principalmente membri della Cia, del governo provvisorio irache
no, insieme a tutta una serie di affaristi e di imprenditori americani venuti a
far soldi sulle spalle di una popolazione stremata. Il 23 ottobre, nel momento
stesso in cui il Pentagono vuole chiamare l’esercito turco a domare la ribellio
ne in Iraq, un’autobomba esplode davanti all’ambasciata della Turchia. Il 27
ottobre è Paul Wolfowitz, numero due del Pentagono dopo Donald Rum-
sfeld, a sfuggire di poco alla morte: diversi razzi sono andati a schiantarsi
sulla facciata dell’Hotel Al Rachid dove soggiornava. Il 3 novembre, tre esplo
sioni colpiscono il quartier generale dell’esercito americano a Baghdad. Il 12
novembre, esplode un ordigno di fronte al Tribunale di Rassafa, ad est di
Baghdad. In seguito, diversi giudici verranno assassinati. Il 21 novembre,
vengono attaccati a colpi di razzi il ministero del Petrolio e l’Hotel Sheraton
dove un civile americano impiegato di Halliburton viene gravemente ferito.
In dicembre, abbiamo appreso che Paul Bremer, il maggior responsabile della
pacificazione sociale in Iraq, è scampato fino a quel momento a due attentati;
venerdì 19 dicembre è il turno di Ali Al-Zalimi, alto dirigente del Partito
30
I
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Gli sfruttati che si oppongono così chiaramente a tutte le fazioni mon
diali del capitalismo avranno la forza di non sprofondare nell’islamismo
radicale o nel panarabismo? I nostri fratelli in Iraq avranno la forza di non
impantanarsi in una guerra popolare di liberazione nazionale? È su questi
quesiti che, nei prossimi mesi, si giocherà tutto. La risposta, però, non potrà
venire dai soli iracheni che, finché resteranno così drammaticamente isolati,
ben difficilmente riusciranno a sfuggire all’abbraccio mortifero dell’una o
dell’altra fazione della classe dominante. Tutto dipenderà in primo luogo
dal rapporto di forza tra le classi a livello mondiale, e in particolare nei paesi
A differenza di quel che è accaduto in Vietnam, l'esercito degli S tati Uniti a ll’o pe
ra oggi in Iraq è un esercito professionale composto da soldati che hanno “scelto"
di battersi. Una scelta del tutto relativa dal momento che è una diretta conse
guenza, p e r la maggior parte d i coloro che s i arruolano, della loro condizione
sociale. I reclutatoli d i carne da cannone sanno da sem pre che un proletario
affamato e senza prospettive sarà p iù incline ad accettare le gratificazioni che la
patria riserva a coloro che la servono militarmente. Un salario, un pezzo di terra
una borsa di studio, un perm esso d i soggiorno o un pugno d i dollari: sono presso
ché infinite le possibilità di cooptare i poveri nella difesa della nazione.
Ben consapevole di ciò, p er la sua campagna d i reclutamento il Pentagono ha
deciso di prendere d i mira soprattutto i proletari latinos - quelli provenienti, cioè,
dall'America Latina e m particolare dal Messico. S i tratta di una comunità com
posta principalmente da uomini in età di combattere e la cui popolazione è in
crescita rapida e permanente negli S tati Uniti. Ma la ra0one principale di questa
scelta è che questi proletari dispongono di m ezzi di sostentam ento molto esigui e
hanno poche o nulle prospettive di lavoro o di studio. La faccenda è proprio così
sem plice e così cinica Quindi, l ’o biettivo dichiarato del Pentagono è d i raddop
piare la percentuale di latinos presen ti n ell’e sercito americano. Alcune recenti
statistich e dimostrano che già oggi costoro sono utilizzati nelle operazioni di
combattimento più pericolose, e questo in maniera sproporzionata rispetto alloro
numero in seno all'esercito. Mentre non raggiungono ancora il 10% dell’insiem e
delle forze armate Usa fa loro presenza nelle azioni di guerra ammonta al 17,7%.
In Iraq, il prim o soldato morto non è stato un cittadino americano, ma un guatel-
mateco: José Cutierrez.
Sono qu esti dunque i soldati che dovrebbero costituire le prim e linee d i fuoco
dell'esercito nord-americano e servire da materiale umano p er le guerre presenti
e future. Eppure, queste prospettive di reclutamento includono ugualmente di
verse decine d i migliaia di persone entrate illegalm ente negli S ta ti Uniti alle
32
da cui provengono le truppe d’occupazione. E questo purtroppo non è a
nostro favore, anche se qua e là delle boccate d’ossigeno ci arrivano dalla
Bolivia, dal Perù... La responsabilità degli sfruttati negli Usa, come negli
altri Stati che prendono parte direttamente o indirettamente all’occupazio
ne dell’Iraq, va una volta di più a incidere sulla bilancia con tutto il suo
peso. Affinché questo massacro abbia fine e i proletari in Iraq si rendano
autonomi in maniera più marcata dalla trappola dell’islamismo e del nazio
nalismo panarabo, bisognerebbe che gli sfruttati nel mondo — e in partico
lare negli Usa, in Inghilterra, in Polonia, in Spagna, in Italia — reagiscano,
33
si attivino, si organizzino e comincino a rifiutare di continuare a servire da
carne da cannone, trasformando questa guerra in guerra sociale contro i
padroni di casa propria.
Per il momento non si vede muoversi granché da questo lato. Il proleta
riato degli Stati Uniti non è tuttavia imbrigliato solamente da un fervente
patriottismo condensato nel famoso slogan «sostieni i nostri ragazzi», o per i
più critici da una crociata pecorona che reclama il pacifismo più beato. Oc
corre sottolineare in questo contesto, e in opposizione a questo ambiente,
alcune reazioni interessanti che hanno avuto luogo sulla costa occidentale
degli Stati Uniti, al momento dello scoppio della guerra, come la manifesta
zione di San Francisco del marzo 2003. Qualche migliaio di «comunisti e
anarchici» (secondo la nota di polizia) si sono dati appuntamento nel centro
della città. Dopo aver bloccato le principali strade di accesso con dei cartelli
di lavori in corso, i manifestanti si sono scontrati con la polizia. Da qui è nata
una vera e propria sommossa, con decine di azioni dirette ai danni di banche,
multinazionali e altri luoghi del potere. Contemporaneamente, dall’altro lato
della baia, alcune migliaia di manifestanti occupavano l’università di Berke
ley, dove la sbirraglia arrestava 1350 persone. Sempre in occasione di queste
manifestazioni, alcuni proletari hanno brandito fieramente uno striscione
che recitava: «Sosteniamo le nostre truppe, ma quando sparano sui propri
ufficiali». Superbo sberleffo allo slogan ufficiale del governo: «Sosteniamo le
nostre truppe». Ma se questo rovesciamento di senso risulta simpatico e indi
ca la via da seguire nella lotta, dobbiamo constatare che il disfattismo rivolu
zionario resta purtroppo una posizione isolata, in una palude in cui il pacifi
smo affianca il terzomondismo più piatto.
Anche tra le associazioni dei parenti dei soldati, all’apice della lotta contro
la guerra in Iraq, tutti puntano oggi più sull’arrivo di una équipe democrati
ca alle prossime elezioni presidenziali — per «riportare i nostri ragazzi a casa»
— piuttosto che su di una azione diretta contro l’esercito che li manda a
«spezzare le reni all’arabo». In seno all’esercito Usa sono ancora pochi coloro
che rinunciano al proprio ruolo di mercenari, anche se si fa ogni giorno più
forte la contraddizione tra la formazione per il mestiere di soldato e la prosai
ca realtà: quella di essere solo degli sbirri inviati per il mondo a reprimere
altri sfruttati. Non sono i trenta disertori attuali che faranno pendere la bi
lancia a nostro favore. Ricordiamo che durante la guerra del Vietnam erano
ufficialmente più di 200.000! Non sono nemmeno le dichiarazioni coraggio
34
se — nel clima di isteria patriottarda che regna negli Stati Uniti dall’11 set
tembre — del caporale dei marines Stephen Funk che dall’alto dei suoi 20
anni di servizio rifiuta oggi di continuare a uccidere dei civili e si dichiara
obiettore di coscienza, che faranno granché cambiare la situazione di cata
strofica sottomissione nella quale si trova oggi il proletariato negli Usa. Lo
stesso vale per gli altri Stati, i quali non incontrano, al momento, quasi nessuna
opposizione concreta all’invio delle truppe in Iraq.
Ma, possiamo starne certi, l’occupazione sanguinosa dell’Iraq non è fini
ta, le truppe americane e alleate dovranno ancora restarvi per lungo tempo e
questo pantano, che comincia ad assomigliare a quello del Vietnam, costrin
gerà sicuramente il Pentagono a inviare sempre più truppe per far fronte al
numero crescente di attacchi.
«Ci mancano i mezzi per misurare se stiamo vincendo o perdendo la battaglia
mondiale contro il terrorismo. La mia impressione e chefinora non abbiamo fiatto
dei progressi decisivi.» (Estratto dal Memorandum di Donald Rumsfeld al
Congresso degli Usa, 14 novembre 2003)
Le ultime cifre in nostro possesso [febbraio 2004] parlano di più di 500
americani morti dall’inizio del conflitto, senza neanche contare quelli che si
trovano in missione segreta e quelli seppelliti senza clamore nel deserto —
diverse tombe sono state scoperte recentemente. I feriti superano a tutt’oggi
il numero di 10.000, nonostante le protezioni che indossa la gran parte dei
soldati e la cura immediata dei feriti da parte di équipe specializzate. Ciò
significa più di dieci feriti al giorno, la maggior parte dei quali in modo
grave. Come segnala il giornale neo-conservatore americano The New Repu-
blic: «[...] i media hanno sempre trattato il numero dei morti in combattimento
come la misura più affidabile dei progressi compiuti sul campo di battaglia, ma è
il numero dei feriti a rivelare la situazione sul terreno».
Mai, dopo il Vietnam, l’esercito americano ha dovuto far fronte a un così
grande numero di feriti che rimpatria negli Stati Uniti su aerei cargo e prefe
ribilmente di notte per evitare le telecamere e la demoralizzazione delle trup
pe rimaste a casa. I suicidi tra le truppe arruolate raggiungono attualmente il
numero di 13 e la cifra dei soldati rimpatriati per «problemi di salute menta
le» ammonta a 478, alla data del 25 settembre. Ricordiamo anche che il nu
mero degli attacchi quotidiani contro le truppe dell’ordine si avvicina oggi
alla trentina, e che la gran parte di queste saranno presto sul posto da più di
un anno. La cosa comincia a farsi lunga e scontenta gli uomini delle truppe
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che «non comprendono più perché sono là». Aggiungiamo a ciò l’incapacità
del Pentagono di rimpiazzarli per mancanza di effettivi, ed ecco un cocktail
che diventa sempre più esplosivo per chi si vuole affermare come l’incontra
stato gendarme mondiale.
Dobbiamo vedere in tutto ciò i segnali forieri di una possibile breccia
nell’unità nazionale, una breccia che 40 anni fa, durante la guerra del Viet
nam, aveva provocato una gigantesca crepa nel cuore stesso della società ame
ricana? All’epoca, l’unica maniera per evitare di farsi orribilmente ferire o
uccidere era per un soldato quella di opporsi con ogni mezzo al proprio coin
volgimento nella guerra. E tali mezzi, di una semplicità elementare, consiste
vano in primo luogo nell’evitare ogni scontro con il nemico. Praticando il
fragging (letteralmente «frammentiamo gli ufficiali!»), che consisteva nel lan
cio di granate sugli ufficiali, i soldati contrari alla guerra provocavano un
vero e proprio terrore tra i propri superiori, spingendoli a perdere progressi
vamente il controllo delle loro truppe. Nel 1970, il Pentagono pubblicava la
cifra di 65.643 disertori, ossia l’equivalente di 4 divisioni di fanteria! Altre
cifre interessanti: l’esistenza di più di 300 giornali clandestini contro la guer
ra redatti direttamente da soldati e che hanno contribuito largamente a rom
pere l’isolamento, generalizzando allo stesso tempo l’opposizione alla guerra.
Con le manifestazioni quotidiane negli Usa, i sabotaggi, gli scioperi e le oc
cupazioni che impedivano concretamente la continuazione della guerra, il
governo americano dovette fermare, all’inizio degli anni Settanta, il suo im
pegno in Vietnam e ritirare poco a poco le sue truppe. È richiamando alcuni
di questi fatti significativi dell’orribile incubo vissuto allora dalla classe do
minante che possiamo non soltanto misurare l’enorme abisso che ci separa
oggi da quel periodo di lotta, ma anche indicare l’unica via che può porre
fine all’attuale carneficina.
36
La tempesta sociale
tra il Tigri e l’Eufrate
Come nel 1991, seppur in condizioni per certi aspetti molto diverse, le
forze della Coalizione si trovano oggi in Iraq di fronte alla realizzazione dei
loro peggiori incubi: l’attuale resistenza sta mandando in frantumi tutti i
loro progetti di pacificazione del paese. A più di un anno dalla presa di
Baghdad, i continui attentati, i sabotaggi, gli incendi degli stabilimenti e
degli oleodotti, gli agguati e i rapimenti ai danni degli uomini reclutati per
la sicurezza — un vero e proprio esercito privato formato da circa 15.000
mercenari, con un fatturato di decine di miliardi di dollari — , non rappre
sentano certo il terreno ottimale per gli affari delle multinazionali. «Manca
la sicurezza, il prim o requisito per la ricostruzione e per gli investimenti»,
dichiara un dirigente di una multinazionale petrolifera prima di fare le
valigie, esprimendo la preoccupazione comune ai vari sciacalli venuti a ruota
dopo i bombardamenti per depredare le risorse di una popolazione già ri
dotta alla miseria da dieci anni di embargo firmato Onu. Diverse multina
zionali della “ricostruzione” sono così costrette ad abbandonare l’Iraq, non
senza lasciarci un po’ di cadaveri dei propri mercenari: la Kbr ad esempio,
filiale della Halliburton, ha dichiarato che è stato ucciso il 30% del suo
personale.
Un altro incubo che da sempre non fa dormire sonni tranquilli agli Stati
Uniti e ai loro alleati è quello di veder tornare in patria i propri “ragazzi” imbu
stati dentro dei sacchi neri. Sono più di ottocento i militari americani uccisi
dall’inizio della guerra, e più di cento soltanto nel mese di aprile 2004, dallo
scoppio della cosiddetta rivolta sciita. Inoltre - esclusi i fanatici che non man
cano altrove, figuriamoci nella U.S. Army - nelle truppe di stanza oggi in Iraq
è forte la presenza di proletari e immigrati arruolatisi non certo per convinzio
ne patriottica quanto per difficoltà economiche; costoro non saranno propria-
37
mente entusiasti di crepare come mosche per le strade polverose di Falluja o
nelle periferie di Baghdad, dove non sanno neanche bene che cosa siano stati
mandati a fare. Sono decine i soldati che si suicidano, numerosi quelli che
disertano, mentre tutti gli altri vengono imbottiti quotidianamente di droghe e
psicofarmaci. Se allora, come sembrerebbe, il morale delle truppe non è alle
stelle, e anche il “fronte interno” comincia a scricchiolare davanti alle bare di
ritorno e ai sacrifici economici che il prolungarsi della guerra richiede, l’ammi-
nistrazione Usa ha effettivamente di che preoccuparsi.
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A ciò si aggiunge il fatto che la politica adottata dagli Stati Uniti negli
ultimi decenni di operazioni di polizia internazionale — quella di utilizza
re partigianerie locali per risparmiare i propri uomini e far massacrare gli
altri tra di loro per i propri interessi — sembra non essere così affidabile,
come hanno già dimostrato illustri esempi passati, da Bin Laden a Saddam
Hussein. Ora, nell’attuale sommovimento sociale, stanno emergendo se
gnali di alleanze, seppur momentanee e ancora non generalizzate, tra sciiti,
sunniti, kurdi nella guerriglia contro gli occupanti, segnali che andrebbero
a vanificare proprio il progetto di “balcanizzazione” della regione e di “et-
nicizzazione” del conflitto. Lo spettro di una guerra civile, che vedrebbe
contrapporsi in un massacro etnico-religioso sciiti, sunniti, curdi, turco-
manni, è creato ad arte dalle stesse forze che lo utilizzano come argomento
per giustificare la propria presenza in Iraq al fine di scongiurare questa
possibilità. Come a dire: se abbandonassimo il paese gli iracheni si scanne
rebbero tra di loro. Peccato però che non solo non c’è mai stata nella storia
alcuna guerra etnica tra sciiti e sunniti o curdi, ma gli iracheni stanno oggi
dimostrando una solida unità contro i tentativi di divisione. Un esempio è
la strage di sciiti che gli Usa hanno attribuito ad Al Qaeda, la quale invece
ha negato ogni responsabilità accusando direttamente gli occupanti. Inol
tre, in seguito a questi attentati, forte è stata la solidarietà da parte dei
sunniti e di tutti gli iracheni, i quali hanno sfilato in manifestazioni i cui
slogan erano «Abbasso l’America, abbasso il terrorismo!» e la percezione
diffusa era che queste stragi di civili fossero da addebitare alla presenza
americana e che loro fossero i principali ispiratori di questi tentativi di
divisione e guerra civile fratricida.
Un’altra notizia è indice delle difficoltà che la Coalizione occidentale si
trova ad affrontare in questi mesi: la nomina di Jassim Mohammed Saleh a
capo delle truppe incaricate di riportare l’ordine a Falluja, epicentro della
rivolta cosiddetta sciita che dall’inizio dell’aprile 2004 dilaga in tutto l’Iraq.
In questa città si trova asserragliato Moqtada Al Sadr, che gli Usa hanno
dichiarato di voler prendere “vivo o morto” perché presunto leader e ispirato
re della sommossa. Saleh è un generale dell’ex regime di Saddam, veterano
della Guardia repubblicana, già attivo durante la repressione dell’insurrezio
ne generalizzata seguita alla prima guerra del Golfo. Questo episodio rivela
innanzitutto come democrazie e dittature, con i relativi funzionari, non sia
no affatto in sostanziale contrapposizione; di fronte alla minaccia proletaria
39
non esitano a serrare i ranghi di classe per contrastare ciò che potrebbe met
tere in pericolo la loro comune ragion d’essere: l’organizzazione sociale fon
data sul dominio e sullo sfruttamento. Il fatto, poi, che Saleh sia stato giudi
cato inaffidabile e silurato nel giro di pochi giorni dimostra quanto l’esplo
sione sociale seguita all’invasione sia ancora più profonda e ingovernabile di
quella del 1991 : se allora Bush senior delegò a Saddam Hussein lo sterminio
degli insorti, ora Bush junior non può più fidarsi di nessuno ed è costretto ad
agire in prima persona.
Premessa indispensabile a qualunque discorso sullo scontro sociale che
sta divampando nell’Iraq del dopoguerra è ammettere la difficoltà nel
reperire informazioni che non siano una semplice eco della propaganda.
Mai come oggi, nell’era dell’informazione in tempo reale, dell’onnipre
senza delle immagini, di internet, dei satelliti e del digitale, siamo espro
priati della capacità di comunicare in modo non mediato, sempre più
dipendenti dalle veline degli stati maggiori e di reporter “arruolati”. Tra
le righe della propaganda dunque, quel che emerge nitidamente anche ad
uno sguardo superficiale, è la complessità che caratterizza il movimento
che si oppone all’occupazione occidentale. Non si intravede affatto una
direzione politica o militare in grado di “rappresentare” e monopolizzare
l’insieme della resistenza. Fonti vicine agli Stati Uniti parlano di resisten
za faceless (senza volto) data l’impossibilità di trovare un leader o un rap
presentante riconosciuto.
Nei primi mesi successivi all’invasione, la propaganda americana cercava
di attribuire la paternità delle azioni armate quasi esclusivamente alle forze
residue del partito Baath, per poi parlare, successivamente, della presenza di
gruppi legati ad Al Qaeda, infiltratisi dall’estero per portare nel paese la stra
tegia del “terrorismo internazionale”.
Oggi, di fronte al dilagare delle sollevazioni, diventa impossibile na
scondere che la realtà, evidentemente, è molto più variegata. Alcuni nume
ri rendono bene l’idea: nel dicembre 2003, su 12.000 sospetti arrestati da
gli Stati Uniti in Iraq, meno di 500 erano stranieri, di questi solo 25 erano
sospettati di legami con Al Qaeda, e i maggiori sospetti gravano su appena
5 persone.
Ciò è confermato anche dalle dichiarazioni dei testimoni iracheni, guerri
glieri o semplici “civili ”, che descrivono un arcipelago estremamente diversi
ficato nel quale convivono gruppi, pratiche e motivazioni profondamente
40
diversi, e dove si alternano alleanze più che altro tattiche e contingenti al
l’azione autonoma. Da un punto di vista di classe, il dato più interessante che
emerge — e che fa da sfondo all’attività dei gruppi e delle fazioni — è il clima
generalizzato di rabbia contro gli occupanti, che va aumentando di fronte
alle condizioni disastrose in cui costoro hanno ridotto il paese. Quel che è
certo è che accanto ai gruppi più organizzati c’è una enorme massa di scon
tenti composta da proletari che non sono né fanatici islamisti né nostalgici
della dittatura di Saddam, ma principalmente disoccupati che non vedono,
dopo decenni di privazioni, nessuna prospettiva di miglioramento, come
promesso loro dai “liberatori”. Tra costoro sono presenti sicuramente le mi
gliaia di contadini gettati improvvisamente nell’insicurezza del libero merca
to, depredati anche di quel poco che era garantito dall’economia pianificata
del precedente regime, le schiere di soldati privati di uno stipendio che, nella
disoccupazione regnante, rappresentava una pur minima sicurezza, così come
le migliaia di disoccupati delle periferie delle metropoli — questi dannati
della Terra che, in ogni angolo del pianeta, sono condannati dalla società
capitalista a essere perennemente un esubero indesiderato. Accanto ad essi, e
ad essi sovrapponendosi, si aggiunge l’insieme di coloro che vengono scara
ventati nella lotta dal semplice odio portato dalle violenze spesso indiscrimi
nate delle forze occupanti.
L’esempio di Samarra non ha nulla di eccezionale e proprio per questo
vale la pena di descriverlo brevemente, in quanto paradigmatico dei mecca
nismi dilaganti. In questa cittadina a nord di Baghdad, che pur trovandosi
nel cosiddetto triangolo sunnita non era affatto un feudo Baath, gli scontri
più violenti cominciano in seguito ad una festa di matrimonio. Gli spari di
gioia si trasformano in una confusa sparatoria che lascia a terra almeno quat
tro morti; immediati gli scontri al checkpoint locale e l’aumento del numero
di coloro che vanno all’attacco degli americani per vendicare un familiare
ucciso. I soldati sono costretti a ritirarsi da due dei tre avamposti che avevano
in città. Pochi giorni dopo, un trasporto di banconote scortato dalle truppe
occupanti — che per l’occasione mobilitano otto carri armati, quattro mezzi
corazzati, sei gipponi e 93 uomini — viene attaccato: lo scontro sarà deva
stante, con più di 50 morti tra i ribelli e una decina tra gli altri. Sembra un
colpo decisivo inferto agli insorti, ma nelle settimane successive gli attacchi si
intensificheranno, insieme ai rastrellamenti e alle rappresaglie contro i civili
“vicini” alla guerriglia, in una spirale che si autoalimenta.
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Di fronte a un clima generalizzato di ostilità che diventa tanto veloce
mente ribellione armata, il tentativo della Coalizione occupante è quello di
trovare un qualche leader con cui rapportarsi, e sembrano averlo trovato in
Moqtada Al Sadr.
L’ascesa di questo giovane islamista radicale e del suo «esercito del Ma-
dhi» è, anch’essa, esemplare per quanto riguarda i meccanismi della sua
affermazione sia reale che mediatica. I suoi seguaci sono per la maggior
parte giovani poveri e disoccupati provenienti dalle periferie di Baghdad, e
in particolare da Sadr City. Sadr City, una volta A l Tawra (la Rivoluzione),
doveva essere, dopo il crollo della monarchia, il quartiere modello ispirato
a M anhattan dove avrebbero trovato casa le migliaia di senzatetto, ma de
cuplicò presto i suoi abitanti e si trasformò in una delle tante disperate
s c io p e r o !
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baraccopoli di cui è pieno il mondo. Qui Al Sadr svolge un ruolo di assi
stenza e indottrinamento, consentito anche dalle grandi ricchezze ereditate
dal padre attraverso le fondazioni caritatevoli sciite che reinvestono i con
tributi dei fedeli nelle scuole coraniche, negli ambulatori rionali, nel soste
gno ai poveri e nell’amministrazione del quartiere. Un’organizzazione ca
pillare assai simile a quella messa in piedi dal partito sciita libanese Amai,
dagli Hezbollah ed in Palestina da Hamas. Le forze di Al Sadr svolgono nel
quartiere un ruolo simile a quello dei pasdaran iraniani e, con un occhio
all’islamismo e uno al portafoglio, attaccano i cinema, i negozi di video e i
negozi di alcolici quando questi non pagano il pizzo alle moschee. Oltre a
questo, però, si incaricano di garantire l’ordine anche assumendosi compiti
da vigili urbani o da spazzini; garantiscono i servizi di base, dalla raccolta
dei rifiuti alla fornitura delle bombole del gas, alla gestione degli ambulato
ri, al controllo degli ospedali. Spesso gli scontri che ci vengono descritti
come lotte tra moderati e radicali non sono altro che faide per il controllo
di quella sorta di 8 per mille che consente alle diverse fondazioni di ayatol
lah la presenza e il controllo sul territorio. Durante l’ondata di saccheggi
seguita all’invasione occidentale, sono stati proprio i miliziani di Al Sadr
ad intercettare i saccheggiatori e a requisire loro il bentolto: «La proprietà
privata e un diritto divino e non si tocca. Le restituiremo [le mercanzie seque
strate] ai legittimi proprietari, se si faranno vivi. Altrim enti le ridistribuiremo
ai bisognosi».
L’esercito di Moqtada Al Sadr, dunque, è una mafia che unisce nello stes
so tempo intransigenza religiosa, potere economico e una buona dose di pa
ternalismo. Non c’è da meravigliarsi che — in particolar modo dopo la cac
cia all’uomo scatenata dagli Usa contro Al Sadr — molti proletari si siano
schierati in sua difesa, convinti di trovarvi l’unica opposizione radicale e con
temporaneamente bene organizzata all’aggressione yankee.
Una cronologia, o anche soltanto una panoramica, della resistenza ira
chena sarebbe sterminata. Basti pensare che gli attacchi nei confronti delle
truppe di occupazione sono in media 35 al giorno, ed estremamente diffe
renti tra loro.
Quasi tutte le fonti militari americane del resto hanno tardivamente
ammesso quello che era evidente a chiunque, e cioè che una guerriglia di
tale portata e diffusione non potrebbe aver luogo senza un consistente ap
poggio popolare. Se in un primo tempo l’esercito Usa parlava soltanto di
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sparuti gruppi di baathisti o terroristi, e addirittura dopo la cattura di Sad
dam di una resistenza headless ——decapitata — che aveva i giorni contati,
l’attuale riconoscimento di essere di fronte a una vera e propria guerriglia
lo ha portato ad adottare su larga scala le tattiche classiche della contro-
guerriglia. Queste prevedono l’abbandono di una linea difensiva e la presa
dell’iniziativa da parte degli occupanti, con una offensiva continua e pre
ventiva contro la resistenza.
Fino al giugno del 2003, l’impegno principale dei circa 125.000 soldati
Usa consisteva nella protezione delle basi. L’assunzione del comando da parte
del generale Abizaid, in sostituzione del generale Franks, è corrisposto anche
al cambio di strategia imposto da una classic guerrilla-type campaign, che por
ta ad «attaccarli, mantenere l ’offensiva, smantellarne le cellule, uccidere chi cerca
di uccidere ed essere molto aggressivi» ——come ha dichiarato lo stesso Abizaid.
In una escalation di prove di forza e di esibizione della propria potenza di
fuoco per distruggere e demoralizzare il nemico, si è arrivati all’operazione
Iron Hammer (Martello d’acciaio) di novembre, con bombardamenti d’arti
glieria e attacchi aerei (in una sola settimana 12.000 pattugliamenti, 230 raid
mirati, 1200 prigionieri e 50 combattenti uccisi).
Se nelFimmediato questa strategia ha portato ad un calo numerico degli
attacchi e delle vittime Usa, nel corso dell \escalation si è assistito ad una più
che prevedibile parallela riorganizzazione dei ribelli, che hanno modificato
le proprie tattiche in rapporto a quelle del nemico. Così, se prima si limita
vano a sparare da lontano e a fuggire, da quel momento in poi hanno co
minciato ad accettare lo scontro utilizzando lanciagranate portatili e piaz
zando mine — rudimentali prima e più efficaci in seguito — , per arrivare
all’impiego abituale di mortai e razzi con cui vengono colpite a distanza le
basi e abbattuti gli elicotteri. Nel mirino dei ribelli, ormai, non ci sono più
soltanto i Delta Kiowa Warrior e i Black Hawk, ma anche gli Apache d’at
tacco e i C-5, i più grandi mezzi aerei da trasporto del mondo. Le strade
sono diventate delle trappole per gli occupanti, che quando sono costretti a
spostarsi vanno al massimo della velocità, generalmente al centro della stra
da e bloccando il traffico civile. I bulldozer, intanto, hanno sradicato la
vegetazione a lato delle principali arterie di comunicazione, nel disperato
tentativo di renderle più sicure.
Colpo su colpo, i fucili d’assalto e di precisione, le mitragliatrici leggere e
pesanti, i lanciarazzi anticarro, i mortai, i cannoni, i razzi d’artiglieria e diver-
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se mine anticarro e antiuomo non risparmiano collaborazionisti e poliziotti
iracheni, i quali ormai sono talmente odiati dalla popolazione da dover ope
rare a volto coperto.
La strategia antiguerriglia degli occupanti ha prodotto anche, come ine
vitabile effetto secondario, un crollo verticale di quel poco di consenso e di
aspettative che la popolazione poteva nutrire nei “liberatori”. Gli uomini
della Coalizione arrivano a circondare i villaggi “sospetti” con il filo spina
to, a demolire le case di guerriglieri e ad arrestarne i parenti, a compiere
quegli omicidi mirati resi celebri dall’esercito israeliano. In effetti, israelia
ni sono molti degli specialisti e dei consulenti della US Army direttamente
I “ no str i r a g a z z i” a N a s s ir iy y a
La favoletta degli italiani brava gente venuti sulle rive del Tigri a regalare pace,
democrazia e caramelle ai bambini, ha fatto in fretta a tramontare.
Già le cifre parlavano chiaro: su i 220 milioni di euro stanziati dal Governo p er il
finanziamento della m issione "Antica Babilonia", 209 sono destinati al personale
militare e 11 ai cosiddetti interventi umanitari.
Inoltre, tanto p er rinnovare l'abitudine, uno dei pnm i com piti dei “n ostri ragazzi" a
N assiriyya è stata l ’irruzione nella sede del Partito Operaio Comunista delTIraq e
l'arresto di diversi suoi militanti. Non mancano d'altronde g li scontri con la popo
lazionelocale, le perquisizioni, i rastrellamenti, i sequestri di armi, oltre all’a dde
stramento dell'odiata polizia collaborazionista. Tutto concorre a creare il clima in
cui arriva il “regalo" del 12 novembre 2003, quando l ’a ccoglienza di N assiriyya
p er i nostri m iliti s i esprim e in tutto il suo calore, facendone saltare la caserma e
uccidendone diciannove.
Da allora il clima è sem pre più infuocato: dalla battaglia su l Tigri, in cui le raffi
che italiane sulla folla degli insorti che occupavano il ponte hanno falcidiato
anche dorme e bambini, s i è arrivati al m ese di maggio, quando i carabinieri s i
sono ritirati dalla città, attaccati dai guerriglieri che n e hanno espugnato le p o
stazioni dopo giorni di scontri.
Ma come m ai proprio N assiriyya? La ragione p er cui agli italiani è toccata que
sta zona è molto sem plice e tutt'altro che casuale: lì s i trovano i giacim enti di
petrolio che l ’E ni aveva in concessione dal precedente regime e su i quali c ’è già
un'ipotesi di accordo con i nuovi padroni.
N ei dintom i inoltre ci sono i giacim enti di Halfaya, dove negli anni Settanta
l ’A gip aveva compiuto delle perforazioni e quelli di Rumayla, dove J'Eni sembra
essere intenzionata ad allargarsi.
Tutto combinato quindi... tranne l'accoglienza dei proletari iracheni!
45
attivi in Iraq. Questo deja vu indica con precisione quello che si sta prepa
rando per gli sfruttati iracheni e che cosa intende l’amministrazione Usa
quando parla di «esportare la democrazia» nel Medio Oriente: la costruzio
ne di un campo di concentramento per una intera popolazione. Ciò ag
giunge alla resistenza, anche suo malgrado, il compito di avamposto di
opposizione al progetto concentrazionario del Medio Oriente. E i ribelli
iracheni sembrano proprio avere l’intenzione e le armi a sufficienza per
reggere a lungo, mentre gli Stati Uniti non hanno più uomini da impiegare
in Iraq perché non possono scoprirsi in altre aree del mondo né mandare
sul posto tutte le riserve (di questi tempi non si sa mai, anche in patria...).
Se è vero — come ha fatto capire la stessa amministrazione Usa — che
l’Iraq avrebbe dovuto essere soltanto la prima pedina mediorientale, gli
insorti iracheni stanno davvero mettendo sotto scacco l’imperialismo più
forte del pianeta e i suoi piani.
Lo slogan dei giovani algerini insorti in Cabilia nel 2001, «non potete
ucciderci, siamo già morti!», ha espresso chiaramente quel misto di lucidità e
disperazione che ormai caratterizza ogni rivolta dei dannati del tempo pre
sente, e contro il quale qualsiasi esercito non può che trovarsi spiazzato. Niente
può fermare chi non ha più nulla da perdere.
Nell’isolamento anche le lotte più generose vanno in corto circuito, preda
di racket d’ogni sorta. Soltanto dilagando, l’incendio che brucia la Mesopo-
tamia potrà dispiegarsi chiaramente per ciò che già è, una guerra di classe, e
questo non dipende che dai suoi complici occidentali.
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Iraq 1991
l’insurrezione sconosciuta
Breve storia di una rivolta
Nel 1991, la guerra del Golfo non si è conclusa con la vittoria militare
della coalizione guidata dagli Stati Uniti d’America. Essa è terminata con la
diserzione di massa di migliaia di soldati iracheni. Smentendo tutte le previ
sioni, il rifiuto di combattere per difendere lo Stato iracheno è stato così
schiacciante che non un solo soldato alleato fu ucciso dal fuoco nemico du
rante l’offensiva finale di terra per la riconquista del Kuwait.
Una diserzione di simili dimensioni è probabilmente senza precedenti
nella moderna storia militare.
Già prima della guerra non mancavano i segnali di una insubordinazione
diffusa che sarebbe poi sfociata nell’esplosione sociale del marzo, le cui radici
affondavano nel malcontento popolare dovuto alla crisi in cui versava il paese
dalla fine della guerra contro l’Iran. Tra questi segnali c’era stata l’inedita
manifestazione studentesca antigovernativa che aveva attraversato le strade di
Baghdad nel novembre 1990, preceduta dalla distribuzione di volantini ma
noscritti. Del resto, la situazione a Baghdad era percepita come talmente
esplosiva da indurre il regime a pianificare l’evacuazione di due milioni dei
suoi abitanti (ne furono effettivamente evacuati quasi un milione). Vi era
inoltre un flusso crescente di disertori, tanto che numerose divisioni del
l’esercito di stanza in Kuwait vennero circondate da campi minati, non a loro
protezione ma per evitare che andassero via dal fronte; venne anche decretato
che le mogli, i figli e i parenti dei disertori fossero soggetti ad arresto. Anche
tra coloro che non avevano disertato, l’opposizione alla guerra era tale che nel
giro di due mesi, secondo un rapporto del 1990, Saddam Hussein avrebbe
fatto fucilare 600 ufficiali.
Alla fine della guerra, il 28 febbraio 1991, tre giorni prima della firma
ufficiale del «cessate il fuoco», nel caos della ritirata e della carneficina com
piuta dalle forze alleate sull’«autostrada della morte» di Al-Mutla, nella di
sgregazione dell’esercito e nella perdita di controllo della situazione da parte
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dei servizi di sicurezza, scoppia l’insurrezione, spontanea e di massa, nel Sud
dell’Iraq. L’elemento scatenante sono i soldati e gli ufficiali in ritirata, a cui si
unisce la popolazione locale. Queste truppe insubordinate non fuggivano
semplicemente; molti soldati rivoltarono i loro fucili contro lo Stato irache
no, facendo esplodere una sollevazione simultanea che non incendiò soltanto
il Sud dell’Iraq (direttamente attraversato dalla ritirata dei soldati), ma anche
il Kurdistan, a Nord.
Soltanto la regione centrale dell’Iraq, intorno a Baghdad, rimase in quelle
settimane strettamente nelle mani dello Stato, e ciò per diverse ragioni, tra
cui la concentrazione nella capitale delle truppe scelte, la precedente evacua
zione di un milione di abitanti, la lentezza e la deformazione delle informa
zioni, l’assenza di una qualche struttura organizzativa in grado di dare stimo
lo e sostegno alla rivolta.
Sin dall’inizio i media occidentali hanno grossolanamente rappresentato
in modo distorto queste insurrezioni. La sollevazione del Sud, che aveva come
capitale Bassora, fu descritta come una rivolta musulmana sciita. Mentre quella
del Nord fu riportata come un’insurrezione esclusivamente nazionalista kur-
da che chiedeva poco più che la formazione di una regione autonoma all’in
terno dello Stato iracheno. Ma la verità è che le insurrezioni, nel Nord come
nel Sud del paese, erano insurrezioni proletarie.
Il movimento insurrezionale ebbe inizio con delle manifestazioni di mas
sa contro il regime di Saddam Hussein e contro il partito Baath, manifesta
zioni che sfociarono presto in assalti agli uffici del sindaco, alle sedi baathiste,
agli stabili dove operava la polizia segreta, alle prigioni e — dove erano
presenti — alle guarnigioni militari. Le prime scintille si accesero il 28 feb
braio nelle città sunnite di Abu’l Khasib e Zubair, a 60-70 chilometri a sud di
Bassora. L’insurrezione dilagò in tutto il Sud nel giro di poche ore, talmente
spontanea e priva di coordinamento che spesso non solo ogni città non era al
corrente di quel che accadeva nella città vicina, ma addirittura non vi erano
informazioni da un quartiere all’altro della stessa città.
Quella che segue è la testimonianza di un disertore: «Eravamo ansiosi di
ritirarci, farla fin ita con questa avventura da pazzi; quando Saddam ha ordina
to il ritiro in 24 ore — ma senza nessun formale accordo con gli alleati per la
sicurezza delle forze che si ritiravano — allora abbiamo capito che voleva che gli
alleati ci annientassero; aveva già fatto ritirare in tutta sicurezza la Guardia
repubblicana. Dovevamo abbandonare carri armati e veicoli per evitare attacchi
50
aerei. Abbiamo camminato per 100 chilometri verso il territorio iracheno, affa
mati, assetati ed esausti. A Zubair abbiamo deciso di farla fin ita con Saddam e il
suo regime. Abbiamo sparato sui manifesti di Saddam. Centinaia di soldati che
si stavano ritirando sono arrivati in città e si sono uniti alla rivolta: il pomeriggio
eravamo migliaia. I civili ci appoggiavano e sono iniziate le manifestazioni. Ab
biamo attaccato il palazzo del Partito e il Quartier generale della Sicurezza. Nel
giro di poche ore la rivolta era arrivata a Bassora, esattamente alle tre del mattino
del primo marzo».
Proprio a Bassora, una delle prime azioni degli insorti sarà la liberazione
delle centinaia di detenuti rinchiusi in una prigione segreta, scoperta sotto
una fabbrica di scarpe.
Nel Sud la ribellione si trova ad affrontare, oltre agli attacchi della Guar
dia repubblicana, le manovre del Consiglio Supremo per la Rivoluzione Isla
mica in Iraq, organizzazione sciita filoiraniana che con la parola d’ordine del
«potere sciita» cerca di egemonizzare la sollevazione e di annientare coloro
che non condividono la sua linea politica. A questo proposito, bisogna ricor
dare che Bassora è una delle zone più laiche del Medio Oriente. Quasi nessu
no in questa città frequenta le moschee. Le tradizioni radicali di quell’area
non sono quelle del fondamentalismo islamico, ma piuttosto quelle del na
zionalismo arabo e dello stalinismo del Partito Comunista Iracheno, la sola
forza borghese con una qualche influenza significativa nella regione. Le città
di Bassora, Nassiriyya e Hilah sono da sempre conosciute come zona del
Partito Comunista e hanno una lunga storia di aperta ribellione sia contro la
religione sia contro lo Stato.
L’esercito di Saddam inizia la riconquista del Sud l’8 marzo, con la presa
di Bassora, e la concluderà il 17 marzo, grazie all’attiva collaborazione delle
truppe statunitensi ed alleate.
Nel frattempo l’incendio divampa al Nord del paese: dal 5 marzo, nel
giro di un paio di settimane, tutto il Kurdistan è strappato al controllo del
regime di Saddam. Nei centri urbani kurdi sembra sia stata la popolazione
civile a scendere per prima in strada, scontrandosi con esercito e forze di
sicurezza, per essere in un secondo tempo raggiunta dalle schiere di diserto
ri (50.000 soldati avevano abbandonato le loro unità senza combattere)
che passano in forze dalla parte dei ribelli. Gli scontri attorno ai centri di
potere, dei servizi di sicurezza e del Baath sono durissimi, in particolare a
Kirkuk e a Sulaimaniyya (qui muoiono 150 rivoltosi, mentre 600 agenti di
51
sicurezza vengono giustiziati). L’esplosione sociale organizza le sue forze:
ovunque, nei quartieri, nei posti di lavoro, sorgono decine di shoras (consi
gli, assemblee), espressione diretta della classe in lotta, di tutte le sue forze,
debolezze e contraddizioni.
Da Raniah a Sulaimaniyya e Kut, e al suo apice rischiando di diffondersi
oltre il Kurdistan in direzione della capitale, lo scopo originario dell’insurre
zione in quella zona fu sintetizzato nella parola d’ordine: «Celebreremo il
nuovo anno con gli arabi a Baghdad!».
Alla fine di marzo comincia la controffensiva del regime. L’aperta minac
cia di utilizzare le armi chimiche, in una regione in cui il ricordo della strage
di Halabja è ancora fresca, crea una situazione di panico diffuso nella popo
lazione. Ai primi di aprile, dopo che tutte le città sono riconquistate, l’ordine
regna anche a Sulaimaniyya, ultima città a cadere.
La sconfitta di questa ribellione viene garantita non solo grazie alla com
plicità delle potenze occidentali con lo Stato iracheno, ma anche dai nazio
nalisti kurdi. Il loro ruolo nel soffocamento della sollevazione è stato rile
vante nonostante la diffusa ostilità per i partiti nazionalisti — il Partito
Democratico Kurdo e l’Unione Patriottica Kurda — e i loro peshmerga
(guerriglieri), dovuta ai ripetuti fallimenti e ai loro compromessi con lo
Stato iracheno. In particolare gli abitanti di Sulaimaniyya sono particolar
mente ostili ai nazionalisti sin dal massacro di Halabja. In quell’occasione,
il 13 marzo del 1988, questa città fu quasi completamente distrutta dalle
forze armate irachene con l’uso delle armi chimiche. Circa 8.000 persone
morirono subito e molte altre migliaia nelle settimane successive per le
lesioni riportate. Halabja non fu scelta arbitrariamente come luogo del
massacro: era la città in cui c’erano state le maggiori lotte contro la guerra
Iran-Irak. In ogni casa c’era almeno un disertore, quando non quattro o
cinque. Dopo l’attacco chimico da parte dell’aviazione irachena, i guerri
glieri nazionalisti kurdi inizialmente impedirono alla gente di emigrare e
poi passarono a saccheggiare e stuprare coloro che erano sopravvissuti al
massacro. Così molti abitanti dei villaggi da allora si rifiutano di approvvi
gionare o dare nascondiglio ai guerriglieri nazionalisti kurdi. Qui come al
sud, è più popolare il Partito Comunista e i suoi peshmerga.
La rivolta del Nord non fu affatto nazionalista. Nelle prime fasi i funzio
nari del partito baathista e della polizia segreta furono giustiziati, gli schedari
della polizia furono distrutti e le prigioni assaltate. La gente era apertamente
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ostile alle politiche dei nazionalisti kurdi. A Sulaimaniyya, fu sbarrato ai guer
riglieri nazionalisti l’accesso in città, e al leader esiliato dell’Unione Patriotti
ca del Kurdistan (Upk), Jalal Talabani, fu impedito di tornare nella sua città
natale. Quando il dirigente del Partito Democratico Kurdo (Pdk), Massoud
Barzani, si recò a Chamcharnal, vicino a Sulaimaniyya, fu attaccato e due sue
guardie del corpo furono uccise.
Come tutti i movimenti nazionalisti, i kurdi difendono gli interessi delle
classi proprietarie. Molti dei leader kurdi provengono da ricche famiglie. Per
esempio, Talabani proviene da una dinastia che originariamente costruì in
joint-venture con gli inglesi degli hotel di lusso in Gran Bretagna. La fonda
zione del Pdk è significativa: esso fu creato da ricchi esiliati che erano scappa
ti dal Kurdistan durante l’insurrezione del 1958, quando centinaia di pro
prietari terrieri e capitalisti furono impiccati. Costoro in seguito a questi
incresciosi avvenimenti organizzarono delle riunioni di borghesi esiliati a
Razaeia, in Iran, in cui vennero fondati degli squadroni della morte per ucci
dere i militanti operai nel Kurdistan iracheno. Più tardi si distinsero per le
loro esecuzioni razziste di arabi. Durante la guerra Iran-Iraq ben pochi diser
tori si unirono ai nazionalisti, e all’Upk fu garantita l’amnistia dallo Stato
iracheno in cambio della repressione dei disertori.
Questi kurdi nazionalisti, esattamente come il dominio internazionale,
riconoscono la necessità di uno Stato iracheno forte, al fine di garantire
l’accumulazione del capitale contro un proletariato indomito. Tant’è vero,
infatti, che essi chiedevano solamente che all’Iraq kurdo fosse riconosciuto
lo status di regione autonoma all’interno dello Stato centrale. Nell’insurre
zione essi fecero del proprio meglio per difendere lo Stato iracheno. Inter
vennero attivamente per impedire la distruzione dei documenti della poli
zia e delle proprietà dello Stato, incluse le basi militari. Impedirono ai di
sertori arabi di unirsi all’insurrezione “kurda”, disarmandoli e spedendoli
poi a Baghdad per essere arrestati. Fecero tutto ciò che era nelle loro possi
bilità per impedire che l’insurrezione si allargasse oltre i “confini” kurdi,
che era poi l’unica condizione per assicurarne il successo. Quando lo Stato
iracheno cominciò a concentrare la propria attenzione sull’insurrezione
kurda, la radio dei nazionalisti kurdi non incoraggiò (né coordinò) la resi
stenza, ma invece esagerò la minaccia rappresentata dalle demoralizzate trup
pe irachene ancora leali al governo e invitò il popolo a fuggire sulle monta
gne; cosa che poi avvenne.
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Benché, come abbiamo visto, ci fosse parecchia ostilità verso i nazionalisti
kurdi, essi furono in grado di guadagnare il controllo del territorio e fermare
l’insurrezione in Kurdistan grazie alla loro organizzazione e alle più consi
stenti risorse materiali. Essendo stati per lungo tempo sostenuti dall’Occi
dente — il Pdk dagli Usa e l’Upk dalla Gran Bretagna — questi partiti furo
no in grado di controllare l’approvvigionamento di viveri e l’informazione,
cosa che risultò decisiva dopo anni di privazioni, esacerbate dalla guerra, in
cui la ricerca di cibo veniva prima di tutto il resto.
Ma, nazionalisti a parte, come reagirono i potenti? Di fronte a queste
insurrezioni sociali, le varie fazioni capitaliste della regione dovettero sospen
dere le loro ostilità e unirsi per sopprimere gli insorti. Era risaputo che l’Oc
cidente, guidato dagli Usa, aveva per lungo tempo sostenuto il regime brutale
di Saddam Hussein, ad esempio nella guerra contro l’Iran.
Sostenendo Saddam, la classe dominante occidentale riconobbe anche
che il Partito Baath, partito fascista con base di massa, era la sola forza in
Iraq sufficientemente capace e crudele per reprimere il proletariato che pro
duceva petrolio. Tuttavia, la strategia fondamentale di Saddam per mante
nere la pace sociale, una tendenza alla guerra permanente e alla militarizza
zione della società, poteva condurre soltanto a una più profonda crisi eco
nomica e all’intensificazione degli antagonismi di classe. Nella primavera
del 1990 questa contraddizione divenne evidente. L’economia era rovinata
da otto anni di guerra con l’Iran. La produzione di petrolio, la risorsa prin
cipale di valuta forte, si era ridimensionata, e allo stesso tempo i prezzi del
greggio erano, in quel periodo, relativamente bassi. Saddam pensò di risol
vere questa impasse con il balzo audace dell’annessione del Kuwait e dei suoi
ricchi campi petroliferi.
Ciò diede all’America l’opportunità di riaffermare la sua egemonia politi
ca, non solo in Medio Oriente ma anche a livello mondiale. Con la speranza
di esorcizzare lo spettro del Vietnam, il regime di Bush si gettò in una guerra
globale, sperando di ottenere una vittoria rapida e decisiva che avrebbe sfrat
tato l’Iraq dal Kuwait ma allo stesso tempo avrebbe lasciato il regime irache
no intatto. Tuttavia, per mobilitare il suo fronte interno, Bush doveva para
gonare Saddam a Hitler e così fu costretto sempre di più a sostenere pubbli
camente di voler rovesciare il leader iracheno.
In questo quadro il governo americano cercava di imporre una sconfitta
militare che avrebbe obbligato il partito baathista a sostituire Saddam con
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qualcun altro. Tuttavia le diserzioni di massa dei coscritti iracheni e la conse
guente insurrezione defraudarono il governo americano di tale comoda vit
toria. Esso si trovò invece di fronte alla prospettiva di un’insurrezione che
rischiava di trasformarsi in una rivoluzione sociale su larga scala, con tutte le
temibili conseguenze che avrebbe avuto per l’accumulazione di capitale nel
Medio Oriente.
L’ultima cosa che il governo americano voleva, era quella di essere trasci
nato in una occupazione militare prolungata dell’Iraq per sopprimere delle
insurrezioni. Era molto più facile sostenere lo Stato che già esisteva, e così
non ci fu più tempo per insistere sulla rimozione di Saddam Hussein. Quasi
d’un tratto, l’ostilità di Bush per il macellaio di Baghdad si dissolse e i due
macellai rivali ridiventarono soci.
Il loro primo obiettivo fu quello di schiacciare la rivolta del Sud che si
stava ingrossando di enormi colonne di disertori che rifluivano dal Nord del
Kuwait. Anche se i coscritti che fuggivano dal Kuwait non rappresentavano
alcuna diretta minaccia militare per le truppe alleate, la guerra fu prolungata
quel tanto da permettere alla Royal Air Force e alla United States Air Force di
bombardare a tappeto la strada che portava a Bassora. Questo massacro a
sangue freddo non aveva altro scopo che quello di proteggere il regime di
Saddam.
Dopo questo massacro le forze di terra alleate, che avevano “ripulito” le
zone circostanti la frontiera del Kuwait, si fermarono fuori Bassora e lasciaro
no agire liberamente la Guardia repubblicana — le truppe scelte leali al regi
me iracheno — nella repressione degli insorti. Tutti i propositi di infliggere
una sconfitta decisiva alla Guardia repubblicana o di procedere verso Ba
ghdad per rovesciare Saddam finirono rapidamente dimenticati.
Lo spettro della rivoluzione sociale, minacciando la stabilità del Medio
Oriente, ricordò ai rivali capi di Stato il loro comune e prioritario interesse di
classe.
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Le sh o ra s tra rivoluzione e
controrivoluzione
Come sempre, appena gli sfruttati si mettono a lottare tentano di dare delle
risposte alla necessità di coordinare le proprie forze. Attraverso le lotte, speri
mentano forme organizzative più o meno consapevoli, a seconda del livello di
autonomia e di appropriazione delle precedenti esperienze rivoluzionarie.
In Iraq, durante le sommosse del 1991, sono sorte le shoras (letteralmente,
«consigli»). La ripresa di questo nome fa riferimento alla storia immediata
del proletariato nella regione. Ancora forte, infatti, era il ricordo delle lotte
in Iran degli anni ’78 e ’79 — di quella gigantesca insurrezione che spezzò il
regime dello Scià e venne poi strangolata dalla controrivoluzione khomeini-
sta — durante le quali nacquero centinaia di shoras che vissero le stesse con
traddizioni che ha conosciuto questo tipo di raggruppamento elementare dei
proletari in lotta nella storia (come i Soviet in Russia nel 1905 e poi nel ’17,
o i Consigli in Germania nel 1918 e in Ungheria nel ’56).
In Iran, le shoras sparirono sotto i colpi combinati del democratismo e del
racket islamista. Ma il nome «shora» restò non di meno associato a quella
violenta ondata di lotte che vide gli insorti disfare uno degli eserciti più po
tenti del mondo. Fu del tutto naturale che i proletari in lotta in Iraq ripren
dessero il testimone di quell’insurrezione.
Come sempre, è nel fuoco dell’azione che sorgono le barricate di classe
all interno stesso delle organizzazioni insurrezionali. Più che fermarsi alla forma
e ai vessilli, come rischia di fare l’ideologia consiliarista, si tratta di compren
dere il punto in cui si trova il proletariato rivoluzionario e come risponde ai
bisogni pratici dello scontro. In tal senso le shoras hanno concretizzato un
importante livello di lotta rispetto alla situazione mondiale degli spossessati,
ma hanno espresso allo stesso tempo confusione e debolezze enormi. Molte
di queste strutture autorganizzate, infatti, sono poi cadute piuttosto in fretta
nelle braccia del nazionalismo kurdo.
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Le shoras sono stati organismi nati dalla lotta e organizzati su base di quar
tiere e di fabbrica. Rispondevano innanzitutto alla necessità di coordinare la
distribuzione dei viveri espropriati o recuperati, contro i pescecani bottegai e
nazionalisti che li trasformavano in mercato a dispetto dei bisogni del movi
mento. Abbondano gli esempi di camion dell’esercito, letti d’ospedale o im
pianti elettrici presi e rivenduti in Iran, mentre gli insorti ne avevano dispera
tamente bisogno per la battaglia.
Certe shoras assicurarono anche, durante la loro effìmera esistenza,
l’organizzazione di vari livelli di resistenza contro lo Stato, ad esempio
garantendo militarmente la protezione dei disertori presi di mira dai na
zionalisti.
Le shoras vissero il tempo delle insurrezioni di marzo e scomparvero da sé
una volta che la loro relativa istituzionalizzazione appesantì lo sviluppo della
lotta. Oggi [1992] queste strutture non esistono più, ma i loro elementi più
combattivi si sono riuniti in piccoli gruppi per tentare di trarre alcuni inse
gnamenti e resistere al disarmo organizzato dal dominio mondiale.
Attraversati da tutti i limiti attuali della lotta di classe (mancanza di rottu
ra con la democrazia, incapacità di scalzare nella pratica lo Stato, sindacali
smo, eccetera), questi Consigli subirono influenze così diverse e opposte come
quella dei nazionalisti kurdi da una parte e quella dei gruppi internazionalisti
dall’altra. Si potevano trovare così delle shoras sotto la direzione dei controri
voluzionari del Fronte kurdo e sotto quella, altrettanto antiproletaria, del
Partito “Comunista” Iracheno. Viceversa, alcune organizzazioni più radicali
hanno espresso gli interessi proletari in seno a certi Consigli.
Gli slogan seguenti rendono bene l’idea dello scontro fra democrazia e
rivoluzione sociale all’interno delle shoras:
—Pane, lavoro, libertà; governo delle shoras\
—Viva il potere delle shorasl
—La sola alternativa al regime baathista, sono le shoras\
—Libertà di parola, d’opinione e d’organizzazione!
—Libertà politica incondizionata!
—Diritti uguali per gli uomini e le donne!
—Noi domandiamo i consigli operai, non la democrazia parlamentare!
—Per la settimana di 35 ore!
—Alzati e combatti! Spezza l’istituzione della paura!
—Viva l’autodeterminazione della nazione kurda!
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—Viva la solidarietà con tutte le shoras operaie!
—Tutti gli organi amministrativi devono essere eletti democraticamente!
—No alla ricostruzione degli edifici della polizia dei clan e delle milizie
pubbliche!
Quello che colpisce in alcuni di questi slogan, a parte quelli manifesta
mente nazionalisti o democratici, è l’assoluto scarto fra certe rivendicazioni e
quello che gli insorti stavano già realizzando nella pratica. Si tratta in realtà di
una costante. Anche durante l’insurrezione ungherese del ’56, tanto per fare
un esempio, a fronte di una rivolta che stava mettendo in ginocchio il potere
stalinista, gli insorti chiedevano... salari più alti! In Iraq, con intere città in
mano all’insurrezione e il lavoro salariato sospeso se non soppresso, alcuni
chiedevano ciò che chiedono gli operai quando sfilano tranquillamente in
una qualsiasi manifestazione sindacale: le 35 ore. La verità è che c’è sempre
un divario profondo fra la pratica della lotta e la rivendicazione che dovrebbe
esprimerla; e questo sia perché la lotta chiarisce ciò che le dichiarazioni com
plicano, sia perché nelle “assemblee sovrane” a parlare sono per lo più i vari
marpioni politici e sindacali. Si tratta, se si vuole, dell’eterno conflitto fra
rivoluzione di fatto e politica dei decreti. Questo per dire che, dalle lotte
parziali fino allo scontro insurrezionale, prende abbagli chiunque giudichi la
natura dello scontro a partire dalle rivendicazioni e non dai rapporti sociali
stessi che nascono nel fuoco dell’azione.
Durante tutto il mese di febbraio 1991, mentre s’intensificano i bombar
damenti della Coalizione, i disertori ritornano dal sud e fanno circolare le
informazioni sulle insurrezioni in corso a Kut, Ammara, Nassiriyya, Samawa
e Hella. Alla fine dello stesso mese, i proletari del nord apprendono che la
città di Bassora è caduta nelle mani degli insorti e che intere unità dell’eserci
to si sono unite al movimento con armi e carri armati. Alcuni quartieri di
Baghdad, come quello di Al Tawra, insorgono. Di fronte a queste informa
zioni, i capi dei clan (o Jash, sorta di mafia ligia al governo e allo stesso tempo
portatrice di interessi e valori propri) invitano alla calma con il pretesto che
qualsiasi azione insurrezionale implica l’arrivo della Guardia repubblicana, il
che equivale ad un gioco al massacro.
Il 5 marzo 1991, subito prima della sollevazione di Sulaimaniyya, alcuni
capi clan si riuniscono con i rappresentanti locali del partito Baath. Questi
ultimi danno carta bianca ai leader clanici per reprimere chiunque sia impli
cato nell’insurrezione. Ma nulla fermerà lo scatenamento dei proletari armati
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nella maggior parte dei quartieri della città. Nel giro di sette ore, la città è
conquistata e le shoras crescono dappertutto come funghi. Nello stesso gior
no, è il turno di Ranya, nel nord, di insorgere, mentre l’indomani toccherà a
Chwar Korna.
Racconterà un compagno di Sulaimaniyya: «Io compresi che si stava prepa
rando l ’insurrezione due giorni prima, quando un compagno rivoluzionario mi
G li a n n i n o v a n t a
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diede delle precise istruzioni: dovevofarm i trovare in un luogo particolarefra le 7
e le 8 del mattino, armato al meglio di quanto m i era possibile. Quando arrivai
all’appuntamento eravamo solo in sette. In quel momento tra me e me pensai che
non avremmo vinto. Più tardi ho sentito dire che la maggioranza dei membri dei
comitati [si tratta di organismi creati da rivoluzionari qualche tempo prima
allo scopo di armarsi e di invitare alla creazione delle shoras] pensavano anche
guerra tra le due prin cipali form azioni n azionaliste fa 2-3.000 m orti tra il
1994 e il 1997, m entre s i succedono p e r tu tto il decennio incursioni repressi
ve dell'esercito turco e di quello iraniano e le sanguinose azioni d i agenti al
servizio di Baghdad, che procedono a num erose azioni terroristiche contro la
popolazione. La situazione è infernale: m ancanza d i cibo, carenza d ’acqua,
violento deterioram ento del livello d i igiene. Il tim ore dei saccheggi scatena
una guerra tra alcune fazioni dell'Upk e i gruppi islam isti.
Guerre locali, embarghi, fame e terrorismo di Stato sono le principali prospettive
che il capitalismo continua ad offrire in quella regione. Tutti i gruppi d i potere,
che siano islamisti, nazionalisti o baathisti, invitano la popolazione a non tocca
re i camion che provengono dalla Turchia carichi e attraversavano il Kurdistan
tu tti i giorni in direzione di Baghdad. Ma fortunatamente ci sono sem pre proletari
che se ne fottono di tali ordini e s i battono contro rinviolabile proprietà privata.
Gli attacchi ai camion, ai depositi di cibo e altre forme d i saccheggio, insiem e alle
esplosioni sociali, agli attacchi ai funzionari locali, all'espropriazione delle orga
nizzazioni umanitarie, agli scioperi e alle violente manifestazioni sono qualcosa
di consueto ancora oggi [1999], Ci sono anche piccoli gruppi armati che in ogni
zona attaccano le proprietà borghesi nella regione.
Il Baath a l potere vede la sua base sociale scomparire, deve far fronte a uno
stillicidio di tentati colpi di Stato, e s i affida sem pre più alle strutture tradizionali
della società irachena resuscitando tribù e capi tribali (che ben poco hanno a
che vedere con quelli dell'Iraq coloniale, e sono in genere qualificati come «capi
tribali ÌAaàe in Taiwan»,! delegando loro sem pre più poteri statali. La repressione
rimane uno degli elem enti chiave p er la sopravvivenza del regime: oltre alle
iniziative contro i guerriglieri delle paludi e p er schiacciare la rivolta del febbra
io-marzo 1999, il regime lancia nell'autunno del 1997 una campagna di “p u lizia’’
delle carceri. N el giro d i un anno vengono assassinati 2.500prigionieri politici, e
queste esecuzioni continuano imperterrite negli armi successivi. Dalla fine del
1998 l'Iraq è suddiviso in quattro governatorati, con alla testa dei m ilitari che
hanno pien i poteri. Un’altra attività in cui il regime spende risorse e tempo è il
progetto d i arabizzazione di Kirkuk, da cui sono sta ti espulsi 100.000 kurdi m
quest'ultimo decennio.
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loro che non avremmo trionfato, ma che in ogni caso si trattava di un importante
passo in avanti nella lotta per l ’autonomia delproletariato. Subito dopo apparve
ro due compagni di Rawti (Prospettiva Comunista) e ci chiesero di prepararci
all’insurrezione. Distribuirono alcune granate. Insieme girammo per le vie circo
stanti incitando alla lotta e in poco tempo raggruppammo 50-60persone. Quin
di giunsero due peshmerga [guerriglieri kurdi] bene armati. Gli insorti chiesero
a costoro di unirsi alla lotta ma essi rifiutarono. Malgrado fossimo un piccolo
gruppo totalmente inferiore dal punto di vista militare, attaccammo la caserma
locale, ma essa era troppo ben protetta. Fuggimmo, fum m o respinti e inseguiti. Il
compagno Bakery Kassab, un militante di Prospettiva Comunista, mori durante
questo attacco. Noi ci disperdemmo confusamente e corremmo più rapidamente
che potemmo. I nostri nemici, meglio armati, ci inseguirono e ci circondarono
fino a che arrivammo sulla strada principale. Ma quando vi giungemmo, ci
attendeva una grande sorpresa: l ’insurrezione aveva guadagnato terreno e ora
erano i baathisti che si stavano ritirando.»
Questi fatti, insieme a quelli riportati da molti altri compagni e orga
nizzazioni di lotta, ci fanno affermare che, malgrado l’esistenza di questi
comitati insurrezionali, che erano riusciti a spostare delle forze, poi a
coordinarle attraverso le strutture delle shoras, l’organizzazione fu comun
que molto relativa. C ’era parecchio caos e molti proletari si riversarono
nelle strade con quello che avevano per le mani, senza alcuna base orga
nizzativa che non fosse quella che incontravano “spontaneamente” nelle
strade, senza alcuna istruzione che non fosse quella di qualche amico che
diceva loro di andare in questo o quel luogo. Gruppi di proletari armati
si formavano molto rapidamente per portare avanti alcune azioni e poi si
disperdevano ancora: spesso compagni della stessa parte della barricata,
che non si erano mai conosciuti prima, forgiarono stretti legami e dopo
l’insurrezione giunsero a mettere in piedi strutture organizzative. Fra tu t
ti questi gruppi eterogenei che partecipavano a diverse azioni non ci sono
due persone che abbiano partecipato agli avvenimenti che li abbiano per
cepiti politicamente allo stesso modo. Così, per esempio, alcuni sottoli
neavano l’autonom ia operativa di piccoli gruppi organizzati in diverse
strutture combattive come un elemento decisivo dell’insurrezione, m en
tre altri insistevano di più sulla forza dei 30.000 proletari (solo una mi
noranza dei quali erano armati) che avevano risposto all’appello delle sho
ras e che avevano il proprio “quartier generale” nella scuola Awat. Secon
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do qualcuno fu l’assemblea la prova decisiva nell’intero processo di lotta
perché da li proseguirono per vincere importanti battaglie. Per dare un’idea
della coscienza che muoveva questi insorti riproduciamo qui alcuni slo
gan largamente espressi nelle assemblee:
—La coscienza di classe è un’arma di libertà!
—Sono qui i nostri quartier generali, nella base dei consigli operai!
—Fare delle shoras la nostra base per una lotta di lunga durata!
—Create i vostri consigli!
—Prendete i beni e i cibi espropriati, noi li distribuiremo qui!
—Gente sfruttata, rivoluzionari, date il vostro sangue per il successo della
rivoluzione! Avanti! Non disperdiamoci!
Malgrado le contraddizioni, l’insurrezione continuò a imporsi e le forze
repressive subirono molte perdite. Nel tentativo di salvarsi la pelle, i nemici si
concentrarono in un famoso «edificio rosso» e nelle caserme che erano ormai
accerchiate, il che diede l’avvio a una gigantesca battaglia, con perdite impor
tanti da entrambi i fronti. Gli insorti attaccavano senza alcun progetto co
mune, sparavano in tutte le direzioni, uccidendo e ferendo anche numerosi
combattenti nelle proprie file.
Le forze di sicurezza erano coscienti che arrendersi avrebbe significato morire.
Sapevano che, pur essendo armati fino ai denti, il loro compito sarebbe stato
difficile da assolvere. Fino all ultimo momento restarono in comunicazione per
manente con Baghdad, che aveva promesso l’imminente arrivo di rinforzi. Co
munque la collera e la determinazione dei ribelli erano tali che alla fine le forze
della reazione furono schiacciate e gli insorti presero nelle loro mani l’intera città.
Passo dopo passo, 1'«edificio rosso», tutte le caserme e le case della zona militare
furono conquistati. Su tutte le facciate dei palazzi i buchi e i segni dei proiettili
lasciarono la testimonianza della guerra di classe. I soldati del regime sopravvissu
ti furono tirati fuori uno per uno e giustiziati. Oggi alcuni compagni stimano che
furono fucilati 600 soldati, ma senza dubbio queste cifre includono altre vendette
che avvennero in quei giorni in varie parti della città.
È importante comprendere che nel momento dell’azione, nel momento
in cui gli sfruttati realizzano questi atti esemplari, si esprime in quella lotta
l’autonomia del movimento. In effetti, malgrado il fatto che in tutta questa
fase i nazionalisti non parteciparono alle azioni in modo organizzato, gli in
sorti non si rivoltarono contro di essi come chiedevano apertamente i rivolu
zionari. Fu cosi, ad esempio, che alcuni combattenti proletari si “consultaro
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no” con i boss dell’Unione Patriottica del Kurdistan (Upk) sulle montagne, a
proposito di cosa bisognava fare con i soldati e i torturatori catturati. Tutto
ciò chiaramente riflette ed esprime le contraddizioni del movimento e l’am
bivalenza delle shoras.
Noshirwan, il capo militare dell’Upk, insistette che i nemici non andava
no giustiziati, affermando che «li potremo usare più tardi». La mancanza di
fiducia dei proletari in sé stessi li portò a domandare ai loro peggiori nemici
di prendere delle decisioni e dirigere le operazioni. Importanti settori di in
sorti, ignari della loro forza, cercavano una sponda nell’opposizione ufficiale
perché sembrava loro di far qualcosa di serio ed efficace. Altri membri delle
shoras presero una posizione esattamente opposta: essi volevano uccidere i
soldati e trascinare i loro corpi per le vie in modo che tutti sapessero «il tipo di
torture che questi mostri sanguinari erano capaci di infliggere ai proletari». Infi
ne, a eccezione di qualche torturatore che fu fatto a pezzi dagli insorti per la
sua crudeltà, la pura e semplice liquidazione si impose, ma non senza proble
mi e violente discussioni sul fatto che questo o quel soggetto meritasse o no
di morire. In effetti, in molte altre città del Kurdistan, le forze di repressione
baathista vivevano fortemente concentrate in alcuni distretti: era li che tortu
ravano e uccidevano, mentre a poche centinaia di metri le loro famiglie dor
mivano e vivevano. Essi erano così odiati che non potevano vivere in altro
modo. Anche perché la maggioranza delle famiglie dei torturatori (in parti
colare le donne) partecipavano alle torture. Gli edifici (la struttura centrale,
le stanze degli interrogatori, le case delle famiglie, i centri di tortura) erano
costruiti in tal modo che era difficile immaginare che qualcuno potesse vive
re senza partecipare in un modo o in un altro alle torture e alle uccisioni dei
prigionieri. Quando gli insorti entrarono in quei luoghi, non persero tempo
in discussioni o a fare processi, l’odio di classe era tale che in alcuni casi
giustiziarono tutti coloro che trovarono all’interno, senza alcun criterio par
ticolare. Ma, nella maggioranza dei casi, furono imposti dei criteri più rivo
luzionari e di classe. Così a Sulaimaniyya, tutti i bambini nonché le donne
che non avevano partecipato alle torture e alle esecuzioni vennero risparmia
ti. L’insurrezione si accese come una traccia di polvere nera a cui si dà fuoco,
con continue rivolte che esplodevano vittoriose in altre città. A Irbil furono
costituite 42 shoras e, in sole tre ore di lotta, i proletari armati misero sotto il
proprio controllo la situazione. Poi fu la volta di Kalar, Koya, Shaqlawa,
Akria, Duhok, Zakho...
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Soffermiamoci brevemente sul Kudistan (nord dell’Iraq). Se il livello di
coscienza e di organizzazione del proletariato era stato sufficiente per far trion
fare l’insurrezione, la stessa cosa non si può dire dal punto di vista dell’essen
za stessa della rivoluzione, della sua capacità di sovvertire la vita quotidiana
per liberarla dallo Stato e dal capitale. Come in altre circostanze storiche, in
Kurdistan le forze del vecchio mondo riuscirono a liquidare l’autonomia del
proletariato e a espropriarla trasformandola in “rivoluzione” esclusivamente
G l i a w o l t o i d e l l ’u m a n i t a r i s m o
65
■
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Poco a poco, i nazionalisti prendevano il potere in città (invocando
l’intervento delle forze del dominio mondiale), ma non avevano ancora
distrutto le shoras; cercavano anzi di inserire i loro militanti al loro inter
no e di imporre una direzione statalista. Le shoras in cui si raccoglievano
nazionalisti, socialdemocratici, populisti e sostenitori del grande Fronte
Popolare contro Saddam Hussein iniziarono a comparire allora. Dal mo
mento in cui furono accettati i negoziati con i nazionalisti, due elementi
decisivi della liquidazione dell’autonomia e degli interessi del proletaria
to si imposero. Il primo, quello di considerare Saddam il nemico princi
pale; il secondo, la necessità di eliminare il caos e di imporre l’ordine.
Ovviamente, la resistenza proletaria e le stesse espropriazioni necessarie
alla sopravvivenza vennero considerate come una forma di caos e i nazio
nalisti furono in grado di presentarsi (e di essere percepiti) come i soli che
erano in grado di garantire l’ordine (statale). Immediatamente i guerri
glieri nazionalisti cominciarono a far rispettare l’ordine capitalista e la
proprietà borghese. Iniziarono ad arrestare poveri che avevano “rubato”
un sacco di riso per mangiare, e discretamente disarmarono i proletari
isolati (allora i peshmerga non avevano ancora l’intenzione di scontrarsi
con i gruppi internazionalisti).
Qui è necessario fare un’importante digressione a proposito della guerra che
si svolse a Kirkuk. Sin dall’inizio dell’insurrezione a Sulaimaniyya, i nazionali
sti penetrarono in forza nella shora centrale, non semplicemente per sottomet
terla, ma per prenderne formalmente la leadership e ovviamente per utilizzare i
proletari che si sarebbero sottomessi ai loro ordini come carne da cannone.
Lavorando su queste basi era del tutto logico che gli insorti cercassero di esten
dere la rivolta e la solidarietà alle shoras di Kirkuk che si erano da poco formate,
mentre i nazionalisti perseguivano ben altri obiettivi. Essi volevano sottomette
re gli insorti a una “guerra strutturata”, attaccando le posizioni baathiste in una
città dove avevano le forze migliori dal punto di vista militare, e parzialmente
di assumere un ruolo strategico di potere, occupando i centri petroliferi più
importanti, affermando che ciò avrebbe accresciuto le loro possibilità di nego
ziare sia a livello nazionale che internazionale. Questo fu il momento decisivo
in cui si trasformò la guerra di classe in guerra imperialista. Per la presa di Kirkuk
i nazionalisti negoziarono apertamente con i baathisti, sotto l’occhio benevolo
delle forze della Coalizione. Per la prima volta essi furono riconosciuti come
forza credibile non solo perché erano riusciti a controllare territorialmente un
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centro capitalista importante come Kirkuk, ma anche perché mostravano fi
nalmente di essere in grado di mettere in discussione il controllo proletario
della situazione nelle città insorte; dimostrarono di essere una fazione reale
dell’ordine capitalista internazionale, e cioè di saper affrontare la principale
preoccupazione della Coalizione alla fine della guerra: la repressione della som
mossa generalizzata e l’imposizione dell’ordine.
68
Note a caldo
su di un’occultazione moderna
69
dei Khmer rossi avrebbe fatto 700.000 morti, cioè in quattro anni quello che
è accaduto nell’insurrezione irachena in quattro settimane. Solo una gigante
sca opera di occultazione ha potuto assicurare a una simile repressione la
totale indifferenza.
70
grado d’intensità, insieme con la sua velocità, ha terrorizzato tutti coloro che
ne hanno preso coscienza e che combattono la rivoluzione iraniana nel mon
do. Costoro non sono molti e sono rimasti più che discreti, taciturni. Con
trariamente alla Comune di Parigi, la cui repressione fu sorprendentemente
cruenta, opera di un vincitore di guerra che delimita i confini del campo di
battaglia, l’insurrezione irachena sembra essere passata del tutto inosservata e
gli insorti non hanno trovato la minima eco, anche tra coloro che per princi
pio simpatizzano con tutti i rivoltosi. Questo prodigio, che svergogna tali
simpatizzanti, si spiega qui di seguito.
71
altro giovani come ovunque nel mondo. L’amore e il coraggio si sono certo
dati degli appuntamenti fulminei. L’urgenza, è vero, non è necessariamente
propizia allo sviluppo in profondità dell’intelligenza critica; tuttavia, poiché
nulla prova che quella nuoccia a questa, prendiamo semplicemente atto che è
un peccato che il discorso su questa insurrezione, (ancora) troppo breve per
diventare una rivoluzione, ci sia arrivato ancor meno del discorso sulla rivo
luzione iraniana.
Infine la paura, con cui il regime ha ininterrottamente irrigato l’insurre
zione, è in ugual modo straripata e ha sommerso l’altro campo, come testi
monia l’incredibile durata della repressione. Ma sappiamo anche che la per
dita delle illusioni relative al sostegno dei vincitori della guerra statale non si
è trasformata in rassegnazione, quanto in odio inestinguibile; e che i soprav
vissuti sanno di non avere amici al mondo. Quando la morte è cosi diffusa, e
quando la si è vista colpire coloro che sembravano al sicuro, le persone inof
fensive e quelle che godono di buona posizione, la paura della morte cessa di
essere la peggiore delle paure.
La rapidità e l’estensione della sconfìtta irachena hanno manifestamente
sorpreso tutti quanti, salvo, probabilmente, lo stato maggiore americano. Il
governo di Saddam Hussein, il Baath iracheno, la Guardia repubblicana e la
polizia segreta paiono un paniere di granchi che hanno da poco capito che
non potranno sopravvivere tutti. Ma il discorso di propaganda è ancora quel
lo, trionfalista e orwelliano, di una comparsa che da sopra il piedistallo dà del
tu al pubblico. Saddam Hussein, che incarna tale contraddizione, si manife
sta adesso dittatore accorto. All’esterno, cede a tutte le esigenze dei vincitori,
all’interno si ripiega su Baghdad e conta rapidamente le proprie forze. Assai
presto ha compreso che le guerriglie kurde non attaccheranno mai Baghdad,
che sono incapaci di impadronirsi dello Stato iracheno, e che anzi costitui
scono un bastione poliziesco e militare contro un’insurrezione nelle città del
Nord. Egli abbandona loro quindi tutto il Kurdistan e con tutte le sue forze
lancia un’offensiva contro gli insorti del Sud; nello stesso tempo, espelle la
stampa occidentale, senza dubbio con la complicità americana. Verso il 7 o
l’8 marzo 1991 (quinto o sesto giorno dell’insurrezione), argina il contagio;
al più tardi il 10, sa che ha ristabilito le sue possibilità; il 16 marzo, al mo
mento del suo discorso televisivo, sa che ha vinto e cosa gli resta da fare.
È assai poco probabile che un simile successo potesse essere ottenuto sen
za l’aiuto attivo del mondo intero. Inizialmente, gli Stati Uniti hanno ferma
72
to la guerra prima di aver distrutto l’esercito iracheno che volevano solo in
debolire. Il loro comportamento nel Sud dell’Iraq è stato di respingere quelli
che fuggivano la repressione verso l’esercito che li reprimeva. Se il governo
americano, come è stato affermato, temeva uno smembramento dell’Iraq (uno
Stato kurdo e uno Stato sciita ad esempio), tale paura non aveva molto senso.
Quel che realmente era da temere, e che il governo americano è stato obbliga
to a prendere in considerazione, era la fine dello Stato in quanto tale in Iraq,
e quindi una rivoluzione capace di abolire le frontiere, kuwaitiane innanzi
tutto, ma anche turche, iraniane, giordane, poi siriane e perché no saudite.
L’ampiezza e la brutalità delle distruzioni americane avvenute durante la guerra
devono rimanere nascoste, almeno fino alle prossime elezioni presidenziali.
Ci sono due modi per ottenere ciò: un lungo e distruttivo disordine all’inter
no dell’Iraq, cui potrà essere attribuita una parte delle distruzioni compiute
dall’aviazione americana, e la vittoria di Saddam Hussein, il quale, al contra
rio di una qualsiasi insurrezione vittoriosa, non farebbe nessuna pubblicità.
Infine, l’amministrazione americana conosce Saddam Hussein, lo tiene sal
damente in pugno e lo sa manipolare. Essa preferisce interlocutori conosciuti
a quelli sconosciuti, e quelli vinti in una guerra ai vincitori di un’insurrezio
ne. Durante tutto il marzo 1991, gli Stati Uniti hanno abbattuto due aerei
iracheni (che probabilmente erano stati pilotati da alcuni insorti) e hanno
consentito a tutti gli altri di bombardare i rivoltosi (con napalm, fosforo,
acido solforico). Ben pochi osservatori si sono interrogati sul riarmo e sul
finanziamento, avvenuto in qualche giorno, di un esercito in rotta, i cui resti
miserabili erano in gran parte finiti all’insurrezione. Se le truppe d’élite del
Baath hanno potuto non solo mangiare, ma anche camminare e sparare, dif
ficilmente ciò poteva accadere senza l’aiuto straniero che là non poteva che
essere americano. Interessi tanto forti sono evidentemente in contrasto con il
discorso morale che il governo americano è obbligato a fare. Ed è per questo
che le fonti ufficiali americane, costrette a far buon uso di tali interessi e
discorsi, sono paradossalmente le più moderate e quindi le più deboli riguar
do a questa rivolta.
Le fonti più numerose su di essa sono state quelle iraniane. Lo Stato
iraniano ha visto nella rivolta irachena il più grottesco degli incubi. Si trat
ta dell’espressione di una lunga e pericolosa lotta contro una rivoluzione
che, tredici anni prima, assomigliava sotto molti aspetti a questa improvvi
sa rivolta alle sue porte. È per il fatto che lo Stato iraniano è il più intimo
73
nemico di questa rivolta, quello che la conosce meglio per averla combattu
ta e soggiogata nel corso degli anni, che esso ha sempre vissuto con la paura
di non averla completamente annientata; ed è per il fatto che tra il suo
pubblico vivono ancora numerosi attori che hanno l’esperienza di ciò che
comincia a Bassora che esso è obbligato a parlarne di più. Il neoislamismo
iraniano non sopporta le rivolte più di quanto le tollerassero i bolscevichi e
i giacobini al loro tempo. E siccome il neoislamismo — non più dei bolsce
vichi o dei giacobini — non ha mai intrapreso una rivolta, ciò che accade in
Iraq nel marzo 1991 ne è l’esatta contraddizione. È per ciò che esso accetta
volentieri nei suoi campi i fuggiaschi della rivolta; gliene si può affidare il
controllo. Se c’è uno che la rivolta la sa maneggiare, trattenere e nuocerle,
questo esperto è proprio lui.
Gli Stati vicini al Sud dell’Iraq hanno scelto di diventare vassalli degli
Stati Uniti ancor prima della guerra. Il Kuwait è una nuvola nera, dove regna
la xenofobia e dove, sull’esempio dell’esercito americano, si chiudono le fron
tiere a tutti i fuggiaschi iracheni; lo stesso vale per l’Arabia Saudita. Al Nord,
Siria, Turchia e Iran non vogliono nemmeno rischiare un’autonomia kurda
in Iraq, che la minima insurrezione scavalcherebbe. La radicalità dell’insurre
zione irachena, d’altra parte, se è sfuggita agli specialisti europei in rivoluzio
ni, ha messo su un’intransigente difensiva le polizie che controllano queste
prime frontiere che essa minaccia di abbattere. Come gli Stati Uniti hanno
fatto sapere, e tutti gli altri Stati hanno accettato, il colpo di Stato militare,
vale a dire un Hussein Saddam, è l’unica alternativa a un Saddam Hussein.
74
persone per far posto allo spettacolo di una guerra tra Stati, è altrettanto
facile nascondere loro le rivolte che potrebbero liberarle. Così, la scissione
fìlo-Saddam nelfinformazione araba scopre di aver essenzialmente raffor
zato l’informazione occidentale.
Quest’ultima ha sostenuto la guerra attraverso una messinscena di portata
finora senza eguali, testimoniando la sua recente potenza. Dopo essersi ac
contentata di dare a questa guerra più forma che sostanza, essa venne facil
mente messa a tacere, di fronte ad un’insurrezione così minacciosa, dagli
eserciti americano e iracheno, alleati nell’impresa. Alla prima eco della rivolta
di Bassora, quaranta giornalisti lasciarono il Kuwait alla volta dell’Iraq, sen
tendosi già al sicuro. Vennero arrestati e scomparvero. Il 6 marzo il governo
iracheno concedette quarantott’ore di tempo a tutti i giornalisti per lasciare il
paese; i quaranta arrestati riapparvero, e vennero espulsi. Questa doppia vio
lenza irachena contro la santa stampa non poteva darsi che con l’accordo del
governo americano, perché gli Stati Uniti non volevano pubblicità sull’Iraq.
L’informazione occidentale non sfidò più l’avvertimento.
75
compito di sostituire la loro versione dei fatti ai fatti reali. Si trattava per loro
di un compito facile: non avrebbero rischiato di essere tacciati di bugiardi.
Anche quando la realtà li contraddiceva in maniera flagrante, vennero giusti
ficati dalle “difficili circostanze”, dalle voci più folli e, certamente, dal loro
interesse che li rende parziali. In quest’ambiente è ben lecito mentire per la
propria causa.
D ic h ia r a z io n e della sh o r a
76
Esiste una grossa differenza tra la zona del recupero sciita e quella kurda. I
dirigenti islamici non hanno mai potuto farsi filmare sul campo in armi, al
contrario dei kurdi, per i quali il fatto di farsi filmare era stata una delle prime
disposizioni prese. L’opposizione sciita è palesemente rimasta in esilio, e la sua
appropriazione a distanza dell’insurrezione può riuscire solo se si mantiene la
quantità d’informazione al più basso livello. Gli sciiti iracheni non hanno guer-
77
riglie, non hanno polizia costituita nel Sud dell’Iraq. La loro influenza è pertan
to limitata alla necessità che tutti i partiti del vecchio mondo hanno di inventa
re dei capi a questa insurrezione. Le guerriglie kurde, al contrario, che non
avevano preparato nulla, hanno rapidamente conquistato le città del Kurdistan
insorte spontaneamente, e vi hanno garantito l’ordine (salvo apparentemente a
Mossul, principale città del Nord dove l’insurrezione viene segnalata a inter
mittenza dopo l’arrivo delle guerriglie kurde). Ovunque l’insurrezione si ferma
con l’arrivo della guerriglia. E lo spettacolo occidentale kurdo comincia quan
do tale guerriglia viene di nuovo attaccata dall’esercito iracheno. Perché, in quel
momento, si tratta di una nuova guerra classica tra partiti statalisti che viene a
sostituirsi all’iniziale insurrezione urbana.
A B asso ra e altrove
Bassora, seconda città dell’Iraq, costituisce il punto di partenza e il centro
della rivolta. I primi insorti sembrano essere giovani (in età premilitare) ben
presto raggiunti da moltissimi disertori, probabilmente meno radicali. Non
sappiamo con certezza di nessuna città che sia stata liberata per almeno qua-
rantott’ore, cosa che sembra essere avvenuta a Bassora, il 3 e il 4 marzo. È
probabilmente questo fatto che ha propagato il movimento in tutto l’Iraq. Il
5 le principali città kurde sono insorte. Il 6 il movimento sembra aver rag
giunto la sua massima estensione, dato il numero delle città insorte simulta
neamente. Le diserzioni vanno moltiplicandosi. Solo a Baghdad, ogni volta
che la rivolta conquista una periferia (come nel primo giorno dell’insurrezio
ne, il 2 marzo), il fuoco non divampa o, piuttosto, brucia i rivoltosi. Fino a
quel momento l’organizzazione sembra orizzontale. La repressione si è presa
cura di impedire le comunicazioni tra gli insorti, e tra insorti e mondo ester
no. Anche in tale occasione, la complicità americana è tanto discreta quanto
efficace. L’informazione occidentale rivela il grado di sovversione di questa
prima settimana attraverso l’incoscienza della sua disinvoltura e attraverso il
modo con cui essa è stata messa da parte dall’avvenimento, troppo importan
te per lasciare questi irresponsabili nel ruolo di protagonisti.
Dal 7 al 14 tutti trattengono il respiro. È allora che si gioca la battaglia.
Non esiste più informazione precisa sui luoghi, non esiste più bilancio di
vittime dopo quello, del giorno 7, dell’opposizione irachena in esilio: 30.000
morti! Il 7 le guerriglie kurde cominciano a riconquistare le città del Nord in
mano agli insorti. Apparentemente Najaf e Karbala sono diventate campi di
78
battaglia permanenti, a fianco di Bassora. Ma forse si tratta di un effetto
pubblicitario perché queste due città sono le città sante sciite, per cui lo Stato
iraniano punta i suoi riflettori su di esse, al fine di trasferire lì il centro di
gravità e moralizzare l’insurrezione (Saddam Hussein non è più un volgare
dittatore, bensì un volgare miscredente che bombarda le città sante). Il 13
sembrava che ci fosse stata una seconda e decisiva sconfitta dell’insurrezione
a Baghdad.
Adesso l’aviazione irachena decolla e bombarda massicciamente, con l’uf
ficioso permesso degli Stati Uniti. Il 15 un ribelle “stato maggiore” sciita (ma
potrebbe trattarsi dell’opposizione sciita in esilio) si esprime attraverso l’agenzia
di stampa iraniana. È l’unica volta che si sente parlare di una struttura orga
nizzata nata dall’insurrezione. Il 16 l’insurrezione di Mossul, durata quattro
giorni, termina. Sempre il 16, Saddam Hussein si sente sufficientemente ras
sicurato per comparire in televisione. Il 17, per la prima volta dal giorno 2, i
combattimenti sono forse cessati a Bassora. Il 18, le guerriglie kurde prendo
no Kirkuk.
Nelle città riconquistate, la repressione è all’altezza del terrore diffuso dal
governo iracheno. Ma nel momento in cui una città viene ripulita e la Guar
dia repubblicana si sposta in quella successiva, l’altra si solleva di nuovo, così
come, in particolare, è accaduto a Najaf e soprattutto a Karbala. Bassora,
pacificata durante il giorno sotto gli elicotteri (che non sono mai comparsi
nella guerra del Golfo!), insorge durante la notte. Siccome i fuggiaschi sono
presi nella morsa tra l’esercito americano a Sud, la Guardia repubblicana a
Nord e la carestia dappertutto, si battono nuovamente fin’anche a Baghdad,
dove l’informazione iraniana segnala una violenta repressione avvenuta il 23.
A fine marzo, e durante il mese di aprile, gli incendi si riaccendono ovunque,
sempre più deboli, sempre più silenziosi ma sbalorditivamente tenaci. Ecco
quei sopravvissuti il cui odio non si spegnerà mai.
Lo S P E T T A C O L O D E L L A “ T R A G E D IA C U R D A ”
79
Il meccanismo di tale spettacolo è semplice: le guerriglie kurde, attraverso
i loro esiliati carrieristi, corteggiano da decenni l’informazione occidentale.
Queste canaglie, quasi tutte staliniste, praticano l’imbonimento dei mendi
canti: è necessario far piangere e non far riflettere, poiché sono il lacrimogeno
e la morale ad essere venduti dall’informazione occidentale. Esse hanno dun
que preso l’abitudine di esagerare i loro malesseri, speculando, e non comple
tamente a torto, sul fatto che dipingendo molto sangue, un qualsiasi giornale
ne farà trasudare una goccia.
Questa volta non è stato difficile pregare l’informazione occidentale, tan
to essa stessa aveva bisogno di ritornare sul terreno. E le guerriglie kurde
glielo hanno preparato. Una settimana dopo che le città kurde erano state
riconquistate dall’esercito iracheno, ne scappavano più fuggiaschi che prima
del suo arrivo. Vale a dire che essi partivano dopo l’arrivo e con il permesso
dell’esercito che si supponeva dovesse massacrarli!
Non è che i kurdi non avessero alcun motivo di fuggire dalle città
irachene. La repressione dell’insurrezione sociale non era ignorata, ed essa
era tale che c’era poco da sperare dall’esercito che marciava verso il Nord.
L’estensione della repressione irachena, laddove le guerriglie kurde non
esercitavano il controllo, era possibile solo attraverso l’occultazione di
ciò che essa reprimeva. Ma da quando l’informazione occidentale si è
paracadutata sul Kurdistan, non è stata riferita testimonianza alcuna di
una simile repressione. Se l’esercito di Saddam Hussein, confidando nella
guerriglia e in questa informazione, avesse torto un solo capello a un
civile kurdo, se ne sarebbe venuti a conoscenza. La repressione dei kurdi
che fuggivano verso i campi televisivi e gli orrori dello spettacolo è quin
di stata solo condizionale!
La carestia rappresenta l’altra causa che ha fatto fuggire i kurdi verso i
campi allestiti dal vecchio mondo liberal-umanitario. Anche lì appare la par
zialità senza limiti delfinformazione: gli iracheni fuggivano verso l’Iran e la
Turchia; tra coloro che fuggivano, una minoranza era kurda; e tra i kurdi,
una minoranza fuggiva verso la Turchia. È nei confronti di questa minoranza
della minoranza che si è rivolto tutto lo spettacolo che ha comunicato un’im
pressione contraria alla realtà: i kurdi che fuggivano in Iran apparivano una
frangia di coloro che giungevano alla frontiera turca; e i non kurdi, essendo
fuggiti in Iran o nei pantani nel Sud dell’Iraq tra il martello di Saddam Hus
sein e l’incudine dell’esercito americano di occupazione, che impediva loro
80
di oltrepassare le sue linee, non sono neanche una frangia di questa frangia:
semplicemente, non esistono.
In Turchia come in Iraq, i kurdi sono divisi in moderni poveri e guerri
glieri nazionalisti. I moderni poveri si mostrano come nemici spontanei del
mondo mercantile e dello Stato, qualunque esso sia; i guerriglieri nazionalisti
sostengono il mondo mercantile, aspirano all’unità di un popolo kurdo che
avrebbe il diritto dei popoli di disporre di sé stessi, vale a dire che loro avreb
bero il diritto di disporre di questo popolo per mezzo di uno Stato kurdo. La
differenza tra queste due posizioni è quella che c’è tra il 5 e il 7 marzo 1991.
Il 5 le città di Arbil e di Sulaimaniyya, con una popolazione ritenuta “kurda”,
sono insorte. Il 6 le rivolte hanno conquistato Kirkuk e Raniyah. La guerri
glia kurda si è presa particolarmente cura di riscrivere, sulla stampa occiden
tale, la storia della sollevazione “kurda”, durante lo spettacolo kurdo. Questa
sollevazione ha inizio, invariabilmente, il 7 marzo con l’arrivo della guerri
glia kurda a Raniyah.
L’informazione occidentale ha quindi ritrovato con estasi nel Kurdistan lo
specchio che le dice che è lei la più bella, attraverso la verifica del suo eccezio
nale potere di illusione. Essa ha creato uno spettacolo patetico e morale, di
fronte al quale sa che il suo pubblico è da molto tempo disarmato. Con la
complicità di guerriglie carrieriste, ha montato un esodo tragico e assassino,
senz’altra utilità e funzione di quella di far credere a una repressione immagi
naria dei soli kurdi, nel momento in cui essa taceva una reale repressione dei
pezzenti dell’Iraq, kurdi e non.
81
L’avvenimento che abbiamo descritto non riguarda una guerra locale den
sa di insegnamenti. È una critica del nostro mondo e della nostra epoca. In
Iraq ha avuto luogo quella che probabilmente è stata la più sanguinosa insur
rezione spontanea di tutti i tempi, con il fine di dissolvere lo Stato e iniziare
un dibattito nonostante il muro del silenzio. Qualcuno forse prenderà tutto
ciò per operato dei padroni, ma lo Stato siamo noi, il muro del silenzio siamo
noi. Il massacro e la censura sono la nostra tolleranza e la nostra ignoranza, i
nostri paraocchi di poveri sottomessi.
La quarantena si è stabilita attorno all’Iraq. Vi si brucia l’erba cattiva.
Difformi, mostruose, quanto ad ormoni e a ideologia, le radici di questa
cattiva erba sono trasportate dal vento e crescono lontano dalla loro mandra
gola d’origine. Essa cresce nelle strade di Saint Denis, Bamako, Kwangju,
Washington, Delhi, Algeri.
L’ignoranza reciproca tra i poveri del mondo ha permesso di strangolare,
soffocare e uccidere l’insurrezione irachena contro la cappa di silenzio del
l’epoca che comincia. La vendetta contro tale perdita appartiene a coloro che
sapranno abolire questa ignoranza.
82
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