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Retorica di Aristotele

Retorica I

Il libro I della Retorica è il libro dell’emittente del messaggio, il “libro dell’oratore”: vi si tratta
principalmente della concezione delle argomentazioni, nella misura in cui dipendono dall’oratore, del suo
adattarsi al pubblico, e questo secondo i tre generi riconosciuti del discorso.

La retorica è analoga alla dialettica : entrambe riguardano oggetti la cui conoscenza è in un certo qual modo
patrimonio comune di tutti gli uomini e che non appartengono a una scienza specifica. Da ciò segue che tutti
vi partecipano entro un certo limite, si impegnano a esaminare e sostenere un qualche argomento, o a
difendersi e ad accusare. Gli uomini, per la maggior parte, fanno tutto ciò o senza alcun metodo, o con una
familiarità che sorge da una disposizione acquisita. È possibile infatti esaminare la causa per cui raggiungono
il loro scopo tanto quelli che agiscono con familiarità quanto quelli che lo fanno per impulso spontaneo, e
tutti ammetteranno che questa sia la funzione di una tecnica.

Fino a oggi tuttavia quanti hanno composto una “Tecnica retorica” hanno lavorato solo su una piccola parte di
tale soggetto: infatti solo le argomentazioni rientrano nella tecnica, mentre gli altri elementi sono accessori,
e inoltre questi scrittori non dicono nulla a proposito degli entimemi, che costituiscono il nucleo
dell’argomentazione, mentre rivolgono la maggior parte della loro attenzione ad aspetti estranei al soggetto.

Il pregiudizio, la compassione, l’ira e simili emozioni dell’anima non sono in rapporto con il soggetto ma
sono dirette al giudice. Pertanto, se in tutti i processi ci si comportasse come attualmente ci si comporta in
alcune città, questi autori non avrebbero più nulla da dire; poiché tutti pensano che le leggi dovrebbero
imporre una simile condotta, o addirittura applicano tale principio e impediscono di parlare al di fuori del
soggetto , come accade nell’Areopago, perché non si deve distorcere il giudice conducendolo all’ira, all’odio
o alla compassione: ciò equivarrebbe a deformare lo strumento di cui ci si deve servire per una misurazione.

Il compito di chi sostiene una causa è limitato alla dimostrazione che il fatto in questione è vero oppure non
è vero, che è avvenuto oppure non è avvenuto; se esso sia importante o irrilevante, giusto o ingiusto (negli
aspetti, cioè, che il legislatore non ha definito), deve deciderlo il giudice stesso e non apprenderlo da chi
sostiene la causa.

Soprattutto, leggi formulate correttamente dovrebbero esse stesse definire, per quanto possibile, tutti i casi, e
lasciare quanto meno possibile alla discrezione dei giudici, in primo luogo perché uno o pochi uomini
assennati e in grado di legiferare e giudicare sono più facili a trovarsi che non molti; in secondo luogo le
legislazioni sono il risultato di riflessioni protratte nel tempo, mentre le sentenze vengono emesse sul
momento, e di conseguenza è difficile che i giudici possano stabilire correttamente ciò che è giusto e
opportuno.

Il “giudizio del legislatore” non è rivolto al caso particolare, ma riguarda il futuro e l’universale, mentre chi è
membro di un’assemblea popolare o giudice decide di questioni presenti e specifiche: costoro spesso sono
influenzati da amicizia, odio e interesse privato, sicchè non possono più vedere il vero in modo adeguato, ma
il loro giudizio è oscurato dal piacere e dal dolore personale. Quanto al resto, si deve abbandonare
all’autorità del giudice il minor numero possibile di questioni; quanto invece al fatto che una cosa sia
avvenuta o non sia avvenuta, che avverrà o non avverrà, che sia o non sia in un dato modo, è necessario
lasciarlo alla descrizione dei giudici, perché non è possibile che il legislatore preveda questi fattori.

Cosa debbano contenere il proemio e la narrazione e ciascuna delle altre parti del discorso sono aspetti
estranei al soggetto. Infatti, in queste trattazioni non si preoccupano di nient’altro che di come possano
mettere il giudice in questo o in quello stato d’animo, mentre non danno nessuna indicazione riguardo alle
argomentazioni tecniche, che sono invece quelle che rendono abili nell’uso degli entimemi.
Per questo motivo questi autori, sebbene il metodo relativo all’oratoria deliberativa e a quella giudiziaria sia
lo stesso, e sebbene sia più nobile e più degna di un cittadino la materia deliberativa di quella che riguarda le
transazioni tra privati, della prima non dicono nulla, mentre cercano tutti di stabilire una tecnica per parlare
in tribunale, perché nei discorsi pubblici vi è minore utilità a parlare di ciò che è estraneo all’oggetto, e
perché un’orazione pubblica, dal momento che è di interesse più generale, si presta meno alle astuzie di un
discorso forense. Nel primo caso, infatti, il giudice giudica di fatti che lo riguardano, sicchè l’oratore non
deve fare null’altro che dimostrare che le cose stanno come dice lui; ma nei discorsi giudiziari questo non
basta, ed è invece utile conciliarsi l’ascoltatore, perché la decisione riguarda interessi che sono estranei al
giudice, e pertanto, dal momento che questi non ha presente se non quello che lo riguarda e presta ascolto in
funzione del proprio piacere, cede ai contendenti più che giudicare.

Un metodo soggetto alle regole di una tecnica riguarda le argomentazioni, e che un’argomentazione è una
sorta di dimostrazione, e poiché una dimostrazione retorica è un entimema e questo è, per parlare in termini
generali, la più importante delle argomentazioni, e poiché l’entimema è una specie di sillogismo e analizzare
il sillogismo è compito della dialettica nel suo complesso, è evidente che chi è in grado di esaminare da quali
elementi e in che modo si formi un sillogismo potrà anche essere il più abile nell’uso degli entimemi, se a
questo accosta la conoscenza degli oggetti ai quali si applicano gli entimemi e delle differenze tra questi e i
sillogismi logici.

(L’entimema è un sillogismo retorico, svolto unicamente al livello del pubblico (nel senso di mettersi a
livello di qualcuno) a partire dal probabile, cioè a partire da quello che pensa il pubblico; è una deduzione il
cui valore è concreto, istituito in vista di una presentazione (è una specie di spettacolo accettabile), in
opposizione alla deduzione astratta, fatta unicamente per l’analisi; è un ragionamento pubblico, maneggiato
con facilità da uomini incolti).

Infatti è funzione della stessa facoltà scorgere il vero e ciò che è simile al vero.

La retorica è utile perché la verità e la giustizia sono per natura più forti dei loro contrari, sicchè se i giudizi
non sono formulati nel modo corretto, se ne deve concludere necessariamente che è per propria colpa che si
viene sconfitti. Inoltre anche se possedessimo la preparazione scientifica più accurata, non potremmo grazie
a essa parlare e convincere facilmente alcune persone. Il discorso scientifico, infatti, rientra nei compiti
dell’insegnamento, ma questo non può aver luogo, e le argomentazioni e i discorsi devono essere costituiti
attraverso le nozioni comuni.

Dovremmo inoltre essere in grado di sostenere in modo convincente tesi opposte (come accade anche
nell’uso dei sillogismi) non per poter fare effettivamente entrambe le cose, ma perché non sfugga l’essenza
della questione, e per essere noi stessi in grado di confutare un altro, qualora parli ingiustamente. Delle altre
tecniche, nessuna può provare tesi opposte: solo la dialettica e la retorica lo fanno, perché entrambe
riguardano gli opposti. I contenuti non sono indifferenti, ma, in senso generale, quelli veri e migliori sono
sempre per loro natura più adatti al sillogismo e più persuasivi.

La funzione della retorica non è persuadere ma individuare in ogni caso i mezzi appropriati di persuasione,
proprio come avviene per tutte le altre tecniche: non è infatti compito della medicina rendere sani, ma
procedere con la guarigione fin dove sia possibile, poiché si possono curare convenientemente anche coloro
che non sono in grado di recuperare la salute. Rientra nella medesima tecnica scorgere ciò che è persuasivo
e ciò che è apparente persuasivo, proprio come rientra nella dialettica riconoscere il sillogismo vero e il
sillogismo apparente. La sofistica dipende non dalla facoltà, ma dall’intenzione; ma con la differenza che nella
retorica un uomo sarà chiamato retore per la sua conoscenza o per il proposito, nella dialettica invece il
sofista sarà tale per il proposito, mentre il dialettico sarà tale non per il proposito ma per la sua facoltà. Il
sofista, dunque, è caratterizzato essenzialmente dall’intenzione (di usare argomenti ingannevoli), non dalla
facoltà. Mentre nella dialettica si distingue tra sofista e dialettico, nella retorica il sofista che usa falsi
argomenti viene indicato come retore (oratore), al pari di chi usa argomenti non ingannevoli.
La retorica può essere definita la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun
soggetto. Questo compito infatti non appartiene a nessun’altra tecnica, poiché ognuna di esse si prefigge di
insegnare e di persuadere in relazione alla materia che le è propria (per esempio la medicina intorno alla
salute e alla malattia, l’aritmetica intorno ai numeri). La retorica, invece, sembra essere in grado di scorgere
il mezzo di persuasione intorno a qualsiasi soggetto proposto.

Per questo si può dire che essa non possiede una tecnica che riguardi un genere particolare e definito di
soggetti. Ci sono delle argomentazioni “non tecniche” che non sono fornite da noi stessi, ma sono
preesistenti, come le testimonianze, le confessioni ottenute con la tortura; le argomentazioni “tecniche”
invece sono quelle che è possibile fornire grazie a un metodo e dipendono da noi. Delle prime ci si deve
servire, mentre le seconde è necessario inventarle.

Le prove “non tecniche” sono elementi che sfuggono al processo creativo dell’oratore, sono delle citazioni,
sono elementi costituiti del linguaggio sociale, che passano direttamente nel discorso, senza essere
trasformati da nessuna operazione tecnica dell’oratore. A queste prove “non tecniche” si contrappongono le
prove “tecniche”, quelle che fanno parte della pratica dell’oratore e da essa dipendono, e che si dividono
nelle due grandi categorie dell’entimema (deduzione) e dell’esempio (induzione).

Le argomentazioni offerte per mezzo del discorso sono di tre specie:

1. Argomentazioni che dipendono dal carattere dell’oratore

2. Argomentazioni che dipendono dalla possibilità di predisporre l’ascoltatore in un dato modo

3. Argomentazioni che dipendono dal discorso stesso, in quanto dimostra o sembra dimostrare qualcosa

La persuasione conosce due grandi vie, una logica, l’altra psicologica: convincere e commuovere.
Convincere richiede un apparato logico o pseudo-logico: attraverso il ragionamento, si tratta di fare una
giusta violenza allo spirito dell’ascoltatore, il cui carattere e disposizioni psicologiche non entrano ancora in
conto (le prove hanno una forza loro propria). Commuovere consiste, al contrario, nel pensare il messaggio
probatorio, non in sé, ma secondo la sua destinazione, l’umore di chi deve riceverlo, nel mobilitare le prove
soggettive, morali.

La persuasione si realizza per mezzo del carattere quando il discorso sia fatto in modo da rendere credibile
l’oratore. La persuasione si realizza tramite gli ascoltatori quando questi siano condotti dal discorso a
provare un’emozione: i giudizi non vengono emessi allo stesso modo se si è influenzati da sentimenti di
dolore o di gioia. Ed è a questo aspetto soltanto che gli attuali autori di trattati rivolgono la loro attenzione.

La persuasione si ottiene tramite i discorsi quando mostriamo il vero o ciò che appare tale attraverso i mezzi
di persuasione appropriati in ogni caso.

Poiché le argomentazioni dipendono da questi tre mezzi, è evidente che comprenderle è proprio di chi è in
grado di compiere ragionamenti logici e di riflettere intorno ai caratteri, alle virtù e intorno alle emozioni. Di
conseguenza, ne risulta che la retorica è una sorta di ramificazione della dialettica e della scienza etica, che è
giusto definire politica.

Quanto alla persuasione che si realizza attraverso la dimostrazione reale o apparente, proprio come nella
dialettica vi sono da un lato l’induzione, dall’altro il sillogismo e il sillogismo apparente, così accade anche
nella retorica. Tutti gli oratori costruiscono le loro argomentazioni dimostrando o attraverso gli esempi o
attraverso gli entimemi, e in nessun altro modo oltre a questi; di conseguenza, dal momento che, in senso
generale, è necessario dimostrare qualsiasi cosa per mezzo o del sillogismo o dell’induzione,
necessariamente ciascuno dei primi due deve corrispondere a ciascun degli altri due (dunque da un lato
entimema ed esempio, dall’altro sillogismo e induzione. Aristotele non intende dire che esiste una perfetta
identità tra sillogismo ed entimema che sono forme deduttive entrambe, da un lato e induzione ed esempio
dall’altro, poiché retorica e dialettica sono simili e complementari tra loro ma non identiche; soltanto a
grandi linee la stessa cosa).

Dei discorsi oratori, infatti, alcuni sono basati sugli esempi, altri sugli entimemi, e analogamente gli oratori
sono portati gli uni per gli esempi gli altri per gli entimemi. Dal momento che ciò che è persuasivo è
persuasivo in rapporto a qualcuno, ed è persuasivo e credibile immediatamente e di per sé, oppure grazie al
fatto di sembrare dimostrato per mezzo di elementi che sono tali, e dal momento che nessuna tecnica
considera il particolare; neppure la retorica analizzerà ciò che sembra probabile a livello particolare, a
Socrate o a Ippia, ad esempio, ma ciò che sembra tale a uomini di un dato genere, come succede anche per la
dialettica. Anche quest’ultima infatti non forma sillogismi partendo da premesse casuali, bensì da argomenti
che richiedono un ragionamento; la retorica, invece, forma entimemi a partire da cose che sembrano vere agli
uomini abituati a deliberare.

La sua funziona si esplica in relazione a oggetti intorno ai quali deliberiamo ma non possediamo delle
tecniche, e in presenza di ascoltatori che non sono in grado di comprendere con un solo sguardo numerosi
passaggi, e di seguire un lungo ragionamento.

È possibile formare sillogismi e trarre inferenze in parte da ciò che già in precedenza è stato dedotto tramite
sillogismo, in parte da ciò che non lo è stato, ma che lo esige per il fatto di non essere conforme all’opinione
comune. Tra questi, necessariamente i primi sono difficili da seguire a causa della loro lunghezza mentre gli
altri non sono persuasivi per il fatto di non derivare da premesse su cui esiste accordo e che rientrano
nell’opinione comune.

Pertanto, è necessario che l'entimema e l' esempio vertano su questioni che hanno per la massima parte la
possibilità di essere diverse da come sono (l'esempio essendo una forma di induzione e lentine ma una forma
di sillogismo) e siano tratti da proprie premesse, spesso meno numerose di quelle da cui si trae il primo
sillogismo perché se una di queste è nota non è necessario esprimerla in quanto è l'ascoltatore stesso ad
aggiungerla. Ad esempio per dimostrare che Dorieo ha vinto una gara che comporta la corona come premio
è sufficiente dire che ha vinto i giochi di Olimpia, e non c'è bisogno di aggiungere che il primo a Olimpia è
una corona, in quanto tutti lo sanno.

Dal momento che poche delle premesse dei sillogismi retorici sono necessarie, dal momento inoltre che i
fatti che accadono o sono possibili solo nella maggior parte dei casi o devono necessariamente essere dedotti
da altri fatti dello stesso tipo, e quelli necessari da proposizioni necessarie, è chiaro che le premesse degli
entimemi saranno talvolta necessarie, ma per la maggior parte soltanto genericamente possibili; gli entimemi
inoltre si ricavano dalle probabilità e dei segni, e di conseguenza è necessario che questi elementi
corrispondano rispettivamente a questi due tipi di proposizione (probabilità e segni, cioè, corrisponderebbero
rispettivamente alle proposizioni di carattere generalmente possibile e alle proposizioni necessariamente
vere).

Il probabile (è un'idea generale che riposa sul giudizio che gli uomini si sono fatti attraverso esperienze e
induzione imperfette) è quanto avviene nella maggior parte dei casi, non così semplicemente come alcuni lo
definiscono, ma quanto, tra ciò che potrebbe anche essere in un modo diverso, sta, relativamente a quello in
rapporto al quale è probabile in una relazione analoga a quella dell'universale nei confronti del particolare.

Di questi il segno necessario si chiama prova (il segno certo e incontrovertibile), mentre quello non
necessario non ha un nome che lo distingua. Chiamo "necessari" quelli dai quali può essere formato un
sillogismo.

Tra i segni alcuni sono nella stessa relazione del particolare rispetto all'universale. Altri tipi di segni
presentano invece la relazione del universale di fronte al particolare.

L'esempio quindi è una forma di induzione teorica: si procede da un particolare a un altro particolare per
l'anello implicito del generale; da un oggetto si inserisce la classe poi da questa classe si deduce un nuovo
oggetto. Esso non sta nè nella relazione della parte verso il tutto, nè del tutto verso la parte, nè del tutto verso
il tutto, ma in quella della parte verso la parte, del simile verso il simile (quando entrambi i termini rientrano
nello stesso genere ma uno sia più noto dell'altro, si ha appunto un esempio).

Tra gli entimemi la differenza più grande è la stessa che, nel metodo dialettico, esiste tra i sillogismi. Alcuni
di essi, infatti, sono formulati secondo il metodo della retorica, così come alcuni sillogismi sono formulati
secondo quello della dialettica; mentre altri si accordano con altre tecniche e altre facoltà, alcune delle quali
già esistenti, altre non ancora stabilite. Per questo sfuggono agli ascoltatori, e, quanto più sono trattati in
modo specifico, tanto più escono dai limiti della retorica e della dialettica. Il senso complessivo del fatto è
che poichè la retorica non possiede contenuti propri che vengono ricavati da altre scienze, tanto più gli
entimemi si specializzano nel presentare il contenuto specifico di un'altra dottrina, tanto più perdono il loro
carattere specificamente retorico.

Sono sillogismi dialettici e retorici quelli che i quali possiamo parlare di luoghi, che possono essere applicati
in comune a questioni riguardanti la giustizia, la fisica, la politica e molte scienze che differiscono per
specie, come il luogo relativo al più o al meno. Da questo si potrà trarre un sillogismo, non meno che
formulare un entitema, sulla giustizia, o sulla fisica o su qualunque argomento, sebbene questi soggetti
differiscono per specie. “Luoghi specifici” invece sono quelli che derivano da proposizioni che sono relative
a ogni particolare specie o genere di scienza. I “luoghi comuni” non renderanno esperti in nessun genere
particolare di soggetti: infatti, non riguardano nessun argomento specifico. Per quanto riguarda i luoghi
specifici, quanto migliore sarà la scelta delle proposizioni, tanto più si realizzerà, pur senza dare
l’impressione, una scienza diversa dalla dialettica e dalla retorica, perché, se si incontrano i principi primi,
non si tratterà più di dialettica né di retorica, ma di quella scienza della quale si posseggono i principi.

I luoghi comuni dunque non sono propri di nessuna scienza in particolare ma sono strutture forme di
pensiero applicabili a qualunque soggetto. I luoghi specifici sono invece caratteristici delle singole specie.
Tanto più l'oratore si allontanerà dal terreno dei luoghi comuni per addentrarsi in quello dei luoghi specifici
tanto più si allontanerà dalla retorica e dalla dialettica (che non possiedono un loro contenuto specifico)
avvicinandosi a una particolare disciplina.

Degli entimemi bisogna distinguere tra la specie ei luoghi da cui devono essere tratti. Con specie si intende
le proposizioni specifiche di ciascun genere particolare di scienza, con luoghi quelle comuni in ugual modo
a tutti i generi.

Per Aristotele i luoghi non sono dei contenuti espressi in una forma stereotipa, ma delle strutture formali che
in quanto luoghi comuni, generali, possono essere comuni a tutti i soggetti. Dice Aristotele, per ricordarsi
delle cose basta ricordarsi i luoghi in cui essi si trovano; il luogo è quindi un elemento di un'associazione di
idee, di un condizionamento, di un addestramento, di una mnemonica); i luoghi non sono quindi gli
argomenti in sè ma gli scomparti nei quali vengono disposti.

Per Aristotele i luoghi comuni sono in tutto tre:


– possibile/ impossibile;
– esistente/non esistente;
– più/meno.

I generi della retorica sono tre di numero: altrettante sono infatti le specie di coloro che ascoltano i discorsi.
Il discorso consta di tre elementi: colui che parla, colui di cui si parla, colui al quale si parla. Il fine del
discorso è diretto a costui, cioè all'ascoltatore. Necessariamente l'ascoltatore è uno spettatore o uno che
decide, ed è uno che decide rispetto agli avvenimenti passati o a quelli futuri. In rapporto agli avvenimenti
futuri è il membro dell'Assemblea a decidere, riguardo a quelli passati il giudice di tribunale, riguardo
all'abilità dell'oratore lo spettatore.

Pertanto saranno necessariamente tre i generi di discorsi retorici:

• Oratoria deliberativa: fanno parte tanto l'esortazione quanto la dissuasione,


poiché tanto quelli che danno consigli a livello privato quanto quelli che
parlano pubblicamente fanno sempre o l'una o l'altra di queste due cose.

• Giudiziario: in un processo abbiamo da un lato l'accusa dall'altro la difesa: le


parti in causa devono di necessità sostenere o l'uno o l'altro di questi due ruoli.

• Epidittico: rientrano la lode e il biasimo.

Ognuno di questi generi ha un suo tempo specifico: il futuro per chi consiglia (esortando o dissuadendo a
proposito di avvenimenti futuri); il passato per chi sostiene una causa (è sempre in relazione ad avvenimenti
trascorsi che uno accusa e l'altro si difende); per l'oratore epidittico il tempo più appropriato è il presente
(tutti infatti lodano o biasimano ciò che esiste), ma spesso egli si avvale anche di altro rievocando il passato
e prefigurando il futuro.

Inoltre, ognuno di questi generi ha un fine differente ed essendo tre i generi 3 sono quindi anche i fini: per
chi consiglia, l'utile o il nocivo - chi esorta infatti lo fa come se consigliasse per il meglio, chi sconsiglia,
come se dissuadesse dal peggio, mentre il resto (il giusto o l'ingiusto, il bello o il brutto) costituisce
un'aggiunta; per chi sostiene una causa, il giusto e l'ingiusto - e anche costoro che aggiungono il resto; per
chi loda o biasima, il bello e il brutto - e anche in questo caso a essi sono riferite le altre considerazioni.

Chi sostiene una causa può non contestare che ho fatto sia accaduto o abbia provocato un danno ma non
ammetterebbe mai di aver commesso ingiustizia: non ci sarebbe infatti bisogno di un processo.
Analogamente chi consiglia spesso tralascia il resto ma non potrebbe ammettere di dare consigli svantaggiosi
o di dissuadere da cose utili mentre spesso non si preoccupa per nulla del fatto che sia ingiusto ridurre in
schiavitù i vicini o chi non ha commesso alcun torto. Nello stesso modo chi loda biasima non prendo in
considerazione il fatto che uno abbia compiuto azioni utili o dannosi spesso tuttavia si può anche lodare
qualcuno perché tenendo in scarso contro il proprio vantaggio ha fatto qualcosa di bello come ad esempio si
loda Achille perché venne in soccorso all'amico Patroclo, pur sapendo di dovere così morire.

È evidente da quanto si è detto che è necessario in primo luogo essere in possesso delle premesse relative a
questi tre soggetti, ovvero il giusto, l'utile e il bello.

Riassumendo: prove, probabilità e segni sono le premesse proprie della retorica. In generale, il sillogismo
viene tratto dalle premesse, e l'entimema è un sillogismo che consiste nelle suddette premesse.

Poiché ciò che è impossibile non può verificarsi nè essersi verificato, ma solo ciò che è possibile, e poiché
quanto non ha avuto o non avrà luogo non può nè essersi verificato nè verificarsi, è indispensabile per
l'oratore deliberativo, giudiziario o epidittico possedere premesse relative al possibile e all' impossibile, e
alla questione se il fatto ha avuto o avrà luogo oppure no. Inoltre, dal momento che, tutti quando lodano o
biasimano, esortano o sconsigliano, accusano o si difendono, cercano di dimostrare non solo quanto è stato
detto, ma anche che il bene e il male, il bello o il brutto, il giusto o l'ingiusto sono grandi oppure piccoli,
considerandoli di per sè o ponendoli a confronto gli uni con gli altri, è evidente che sarà necessario essere in
possesso anche delle premesse relativa alla grandezza e alla piccolezza, e al più e al meno, tanto a livello
dell'universale che del particolare.
Lo stesso relativamente ai luoghi comuni, a tutti e tre i generi della retorica: essi sono dunque possibile/
impossibile, esistente/non esistente, grande/piccolo.

Innanzitutto si deve comprendere in relazione a quale genere di bene o di male l'oratore deliberativo dà i suoi
consigli; poiché questo non lo fa in relazione a tutto, ma solo a quanto può avvenire o non avvenire; invece,
in rapporto a quanto inevitabilmente è o sarà o è impossibile che sia o che sia stato non può esistere
consiglio. E nemmeno può esistere consiglio in relazione a tutte le cose possibili. Infatti, vi sono alcuni beni,
tra quelli che possono accadere o meno, che si realizzano naturalmente o per caso: in rapporto a questi, non
c'è alcun vantaggio a dare consigli.

È invece evidente quali siano i soggetti deliberare: sono le cose che, per loro natura, dipendono da noi stessi,
e delle quali è in noi l'origine; il nostro esame si limita infatti a scoprire se per noi tali cose sono possibili e
impossibili da compiere.

I più importanti soggetti intorno ai quali tutti uomini prendono decisioni, e intorno ai quali gli oratori
deliberativi tengono i loro discorsi, sono nel complesso cinque:
- le finanze
- la guerra e la pace
- la difesa del paese
- le importazioni e le esportazioni
- la legislazione.

Tutti, più o meno, presi sia ognuno individualmente sia nell' insieme, hanno uno scopo, mirando al quale
scelgono o rifiutano ogni cosa. E questo, per parlare per sommi capi, consiste nella felicità, e nelle parti di
cui si compone. Si definisce felicità una condotta positiva di vita unita alla virtù, o all'autosufficienza nella
vita, o la vita più piacevole unita alla sicurezza, o l'abbondanza di beni e di schiavi insieme alla possibilità di
salvaguardarli e di servirsene: tutti, più o meno, sono d'accordo sul fatto che la felicità consiste in una o più
di queste cose.

Un uomo sarà autosufficiente al massimo grado se possiederà tutti i beni interiori ed esteriori, perché non ve
ne sono altri oltre a questi. I beni interiori sono quelli relativi all'anima e quelli che dipendono dal corpo,
mentre quelli esteriori sono la nobiltà di nascita, gli amici, le ricchezze e l'onore. Le virtù spirituali di un
giovane sono la temperanza e il coraggio.

Per quanto riguarda il bene e l'utile è dagli elementi che costituiscono e vengono considerati dagli uomini il
bene e l'utile, che si devono trarre le argomentazioni.

Poiché spesso le parti, pur trovandosi d'accordo sul fatto che due cose sono utili, disputano su quale sia utile
in misura maggiore, si dovrà qui di seguito parlare del bene maggiore e dell'utile maggiore.

Il mezzo più importante e più efficace tra tutti per potere convincere e consigliare bene è conoscere tutte le
forme di governo, e distinguere le usanze, le leggi e gli interessi di ciascuna, poiché tutti vengono convinti
in base a ciò che è vantaggioso, e salvare le istituzioni è vantaggioso. Inoltre, le decisioni dell'autorità
posseggono autorità, e le forme di autorità si distinguono in base alle forme di governo: tante sono le forme
di autorità quante sono le forme di governo. Le forme di governo, poi, sono quattro: democrazia, oligarchia,
aristocrazia e monarchia, sicchè l'autorità suprema e che decide sempre è costituita o da una parte di queste
o dalla loro totalità.

Il fine di ciascuna forma di governo non deve essere trascurato, perché gli uomini scelgono ciò che è rivolto
a un fine. Della democrazia il fine è la libertà, dell'oligarchia la ricchezza, dell'aristocrazia ciò che riguarda
l'educazione e le norme, della tirannide la sicurezza personale.

Poiché le argomentazioni sono prodotte non solo per mezzo di un discorso epidittico ma anche di un discorso
etico dovremmo conoscere il carattere di ciascuna forma di governo, poiché, il rapporto ognuna di queste, è
inevitabile che il carattere che le è proprio sia il più persuasivo. Un discorso, cioè, che metta in luce un dato
carattere nell'oratore, che dovrà pertanto tenere conto se il destinatario cui si rivolge è democratico,
aristocratico, e così via, in modo da accattivarsene le simpatie, mostrando propensioni analoghe.

Quindi sono tutti questi gli obiettivi presenti e futuri che devono tendere gli oratori nelle loro esortazioni e
quali elementi devono trarre le argomentazioni che si riferiscono all' utile, e inoltre quali mezzi e quale modo
potremo essere in grado di trattare dei caratteri e delle norme relative alla forma di governo, soprattutto nelle
argomentazioni nella politica.

Gli obiettivi di chi biasima e di chi loda sono virtù e vizio, bello e turbe. L'elogio trae origine dalle azioni, ed
è proprio di un uomo ammirevole agire in base a un proposito, si deve cercare di dimostrare che chi agisce lo
sta facendo in questo modo, ed è utile che sembri essersi comportato così molte volte. La lode è un discorso
che pone in evidenza la grandezza della virtù. Si deve dunque dimostrare che le azioni sono virtuose.
L'encomio, invece, riguarda le opere (le circostanze, come la nobiltà di natali e l'educazione, possono
contribuire alla persuasione, poiché è probabile che da buoni genitori nascano buoni figli, e che chi viene
cresciuto in un dato modo riesca nello stesso modo).

La lode e i consigli hanno un comune aspetto, perché quanto si potrebbe consigliare diventa in coma se si
modifica la forma dell'espressione. Dal momento che sappiamo che cosa si deve fare cosa si dovrebbe
essere, dobbiamo modificare la forma delle frasi e volgerle, presentandole come suggerimenti. Di
conseguenza, quando vuoi lodare, considera ciò che consiglieresti, e quando vuoi consigliare, considera
quello che loderesti. La forma dell'elocuzione sarà necessariamente opposta quando un'espressione che
contiene una proibizione sia mutata in un'espressione che non la contiene. Bisogna anche utilizzare molti dei
mezzi dell'amplificazione che consiste in un accrescimento dell'effetto retorico e dell'importanza di
un'affermazione raggiunto per mezzo dell' ingrandimento di uno o più dati.
L'amplificazione è una delle forme di elogio poichè consiste in una condizione di superiorità e quest'ultima
fa parte delle cose belle. Nel complesso, tra le forme comuni a tutti i generi oratori l'amplificazione è la più
adatta ai discorsi epidittici (poiché essi prendono in considerazione azioni sulle quali tutti sono d'accordo al
punto che non resta che conferire loro bellezza e grandezza), gli esempi lo sono per i discorsi deliberativi
(poiché è in base agli avvenimenti trascorsi che possiamo congetturare quelli futuri) e gli entimemi per i
discorsi giudiziari (poiché un avvenimento passato, per la sua incertezza, richiede soprattutto una causa e una
dimostrazione).

Questi sono dunque gli elementi dai quali si formano più o meno tutti i discorsi di lode e di biasimo che si
debbono tener d'occhio nello dare nel biasimare, e dai quali nascono gli encomi e le invettive. Se si è in
possesso di questi elementi, risultano evidenti quelli contrari a questi, poiché il biasimo deriva dai contrari.

A proposito dell'accusa e della difesa gli elementi che si devono tenere in considerazione sono: in primo
luogo, per quali e quanti motivi si commette un'ingiustizia; in secondo luogo, con quale disposizione
d'animo; e in terzo luogo nei confronti di quali persone e la disposizione di quest'ultime.

Aristotele definisce commettere ingiustizia come il danneggiare volontariamente contrariamente alla legge.
La legge può essere particolare o comune. Per legge particolare si intende una legge scritta in base alla quale
si amministra uno Stato; per legge comune quelle leggi che pur non essendo scritte sembrano essere
riconosciute da tutti.

I motivi per cui ci si propone di fare del male o di commettere azioni spregevoli sono la malvagità e la
dissolutezza. Tutte le azioni che si compiono senza eccezioni si devono compiere necessariamente per 7
cause per casa per natura per costrizione, per abitudine per ragionamento, per ira, per desiderio.
Sia i giusti che gli ingiusti, sia gli altri che si dice agiscano in base alla propria disposizione morale, agiranno
per questi motivi: o per ragionamento o per emozione. Ma alcuni agiscono in base a carattere ed emozioni
positivi, altri in base a quelli opposti.

Gli uomini commettono ingiustizie quando pensano che sia possibile - e che sia possibile anche per loro -
commetterla, e pensano che, una volta commessa l'ingiustizia, non saranno scoperti, o, se saranno scoperti,
non subiranno una punizione, oppure pensano che la subiranno, ma la pena sarà inferiore al guadagno per
loro o per i loro cari.

Quindi ci sono due tipi di azioni giuste e ingiuste (alcune sono infatti fissate per iscritto nelle leggi altre non
sono scritte). Di quelle non scritte ci sono due tipi: e cioè alcune caratterizzate da un estremo di virtù o di
vizi, alle quali si indirizzano biasimo, lode, infamia, onore, ricompense, altre che rappresentano dei punti
tralasciati dalla specifica legge scritta. Ciò che è equo sembra giusto, e l'equità è una forma di giustizia che
va al di là delle leggi scritte.

Quando si usano le leggi per esortare o dissuadere per accusare o per difendere, è lampante che qualora le
leggi scritte risulti contraria la causa, ci si deve servire della legge comune e dei criteri di equità in quanto
più giusti.

Per quanto riguarda le testimonianze, chi non dispone di testimoni da produrre dovrà argomentare
affermando che è necessario giudicare in base alle probabilità, ed è questo il significato dell'espressione "con
la miglior facoltà di giudizio", che le probabilità non possono ingannare per denaro, e che le probabilità non
possono essere accusate di fornire false testimonianze; chi invece dispone di testimoni e affronta un
avversario che ne è sprovvisto, dovrà dire che la probabilità non rientra nella legge e che non ci sarebbe
affatto bisogno di testimonianze, se bastasse giudicare in base ai ragionamenti.

Le testimonianze riguardano in parte l'oratore, in parte il suo avversario, e sono in rapporto in parte con i
fatti, in parte con il carattere: è di conseguenza evidente che non sarà mai possibile mancare di una
testimonianza vantaggiosa. Infatti, se non disporremo di una testimonianza che riguardi il fatto, o che sia in
accordo con la nostra posizione o contraria a quella dell'avversario, ne troveremo sempre una relativa al
carattere, per mostrare o la nostra equità, o la disonestà dell'avversario.
Per quel che riguarda i contratti (leggi private e particolari), il discorso non può servire ad altro che ad
amplificare o sminuire la loro importanza, a renderli credibili oppure no: credibili e validi se sono favorevoli
all'oratore, il contrario, se tornano a vantaggio dell'avversario.

Retorica II

Il libro II della Retorica è il libro del ricevente del messaggio, il libro del pubblico: vi si tratta delle
emozioni (delle passioni) e di nuovo delle argomentazioni, ma questa volta in quanto sono recepite e non più
come prima concepite.

Dal momento che la retorica esiste in funzione di un giudizio (infatti, le deliberazioni sono oggetto di
giudizio, e una sentenza costituisce un giudizio), si dovrà non solo prendere in considerazione il discorso,
perché risulti efficace nella dimostrazione e persuasivo, ma anche, necessariamente, mostrare se stessi in un
dato modo e porre colui che giudica in una data disposizione d'animo. Comporta infatti una notevole
differenza, in rapporto alla persuasione (soprattutto nell'oratoria deliberativa, ma anche in quella giudiziaria),
il fatto che l'oratore si mostri con certe qualità, e che gli ascoltatori pensino che lui è disposto in un dato
modo nei loro confronti, e inoltre che anch'essi si trovino in una certa disposizione d'animo verso di lui.

Il fatto che l'oratore appaia in un dato modo è più utile nell' oratoria deliberativa, il fatto che l'oratore si trovi
in una data disposizione, invece, in quella giudiziaria, in quanto le cose non sembrano uguali per chi prova
sentimenti di amicizia o di odio, per chi è incollerito o tranquillo, ma sembrano completamente diverse, o
diverse in quanto a importanza: se il giudice prova sentimenti di amicizia nei confronti di colui che deve
giudicare, penserà che questi non ha commesso alcuna ingiustizia, o che ne abbia commessa una rilevante, se
invece, gli è ostile crederà il contrario.

Tre sono gli elementi responsabili del fatto che gli oratori risultino persuasivi, perché altrettanti sono gli
elementi che determinano la persuasione, a parte le dimostrazioni logiche (qualità di colui che delibera bene,
che pensa bene il pro e il contro, una saggezza obiettiva; ostentazione di una franchezza che non teme le
proprie conseguenze, improntato a una lealtà teatrale; non urtare, non provocare, essere gradevole). Essi
sono: l'assennatezza, la virtù e la benevolenza.

Gli oratori cadono in errore, nei discorsi che pronunciano o nelle deliberazioni che propongono, o per tutti
questi elementi, o per uno di essi: o non si formano opinioni corrette per mancanza di assennatezza, oppure,
pur formandosi opinioni corrette, non dicono quello che pensano per malvagità, oppure sono assennati e
onesti, ma non sono benevoli, perché è possibile non consigliare per il meglio pur conoscendolo. Non vi è
nient'altro oltre a questi elementi, e dunque chi sembrerà possederli tutti risulterà immancabilmente
persuasivo per gli ascoltatori. I mezzi per sembrare assennati e seri devono essere ricavati dalla
classificazione delle virtù, perché è in base agli stessi elementi che un uomo potrà porre se stesso o un'altra
persona in una determinata luce.

Le emozioni sono i fattori in base ai quali gli uomini, mutando opinione, differiscono in rapporto ai giudizi,
e sono accompagnate dal dolore o piacere: ad esempio l'ira, la pietà, la paura e tutte le altre simili o contrarie
a queste. A proposito dell'ira, Aristotele spiega in quale disposizione d'animo si è portati all'ira, con quali
persone si è soliti adirarsi, e in quali circostanze, perché se si conosce solo uno o due di questi elementi sarà
impossibile destare l'ira.

Aristotele presenta le "passioni", le "emozioni" di colui che ascolta. Ogni "passione" è caratterizzata secondo
il suo habitus (le disposizioni generali che la favoriscono), il suo oggetto (per cui essa viene provata) e le
circostanze che suscitano la "cristallizzazione" (collera/calma, odio/amicizia, timore/fiducia, invidia/
emulazione, ingratitudine/obbligo, ecc.). Tutte queste passioni sono volontariamente prese nella loro
banalità: la collera è ciò che tutti pensano della collera. La psicologia retorica è tutto il contrario di una
psicologia riduttrice, che tenti di vedere cosa sta dietro a quel che le persone dicono. Per Aristotele,
l'opinione del pubblico è il dato primo e ultimo; non c'è in lui nessuna idea ermeneutica; per lui le passioni
sono pezzi di linguaggio già fatti, che l'oratore deve semplicemente conoscere bene; di qui l'idea di una
griglia delle passioni, non come una collezione di essenze, ma come una raccolta di opinioni.
A proposito dell'ira, l'oratore, per mezzo del suo discorso, dovrà porre gli ascoltatori nella disposizione
d'animo di chi è incline all'ira, e dipingere gli avversari come responsabili di azioni che suscitano ira, e come
un genere di persone con il quale ci si adira. Poiché l'adirarsi è l'opposto del "diventare miti", e l'ira lo è
della mitezza, Aristotele stabilisce con quale disposizione d'animo e nei confronti di quali persone gli uomini
siano miti, e con quali mezzi diventino tali. Si definisce il "diventare miti" una repressione e un abbandono
dell'ira.

Gli oratori che vogliono rendere miti gli ascoltatori devono ricavare le argomentazioni dai luoghi descritti da
Aristotele e devono produrre il loro un tale stato d'animo facendogli apparire le persone con le quali sono
adirate come persone temibili, o degne di rispetto, o che hanno reso grandi favori, o che hanno agito
involontariamente o che soffrono per quello che hanno fatto.

Aristotele definisce "essere amici" il desiderare per qualcuno ciò che si ritiene un bene, per lui e non per se
stessi, ed essere pronti a realizzarlo, per quanto è possibile. Aristotele in seguito descrive quali siano le
persone che si amano e che si odiano e per quale motivo.

È possibile sia dimostrare che date persone sono amici o nemici, se lo sono realmente, sia farle apparire
come tali, se non lo sono, sia confutare quelli che affermano di esserlo, sia condurre dalla parte che si
desideri coloro che, per ira o per inimicizia, stanno dalla parte opposta.

Aristotele definisce timore come una forma di sofferenza o uno sconvolgimento che deriva dalla
prefigurazione di un male imminente che causa rovina o dolore, in quanto non si temono tutti i mali, ma solo
quelli che possono comportare grandi sofferenze o rovina, e anche questi ultimi solo nel caso in cui non
appaiono remoti, ma imminenti, tanto da sembrare sul punto di verificarsi.

Quando sia preferibile che gli ascoltatori provino paura, è necessario porli nella disposizione d'animo di
credere di essere soggetti a soffrire, e dimostrare che persone simili a loro stanno soffrendo o hanno sofferto,
a causa di uomini da parte dei quali non lo pensavano, e in cose e in circostanze in cui non lo credevano. Il
coraggio è il contrario della paura, e ciò che ispira coraggio è il contrario di ciò che incute timore, e di
conseguenza la speranza della salvezza si accompagna all'immaginazione che essa sia prossima, mentre le
cose temibili o non esistono o sono remote.

È evidente dalle descrizioni di Aristotele di ogni passione, emozione (vergogna, impudenza, favore, pietà,
compassione, sdegno, invidia) per quale genere di uomini si deve godere o essere indifferenti di fronte alla
loro infelicità, alle loro sventure, e ai loro insuccessi, in quanto da quel che Aristotele dice risulta chiaro i
contrari; per esempio: se il discorso è in grado di porre i giudizi in una disposizione d'animo e di mostrare
che colore che proclamano di essere degni di compassione non sono invece degni di ottenerla e al contrario
non la meritano, è impossibile che nasca la compassione.

Aristotele inoltre descrive i caratteri, quali essi siano in rapporto alle emozioni, alle disposizioni interiori
(virtù e vizi), all’età e ai casi della fortuna (nobiltà di nascita, ricchezza, potere, e condizioni contrarie, buona
e cattiva sorte).

I giovani, per quel che riguarda il carattere, sono inclini ai desideri, e portati a fare ciò che desiderano. Tra i
desideri fisici sono inclini a seguire soprattutto quello sessuale. Sono incostanti e volubili nei loro desideri, il
loro desiderio è intenso ma viene meno rapidamente, in quanto la loro volontà è acuta più che forte. Sono
passionali, impulsivi e pronti ad abbandonarsi alla collera. La loro indole non è cattiva ma buona, perché non
hanno ancora assistito a molte azioni malvagie; si fidano facilmente; sono pieni di speranza. I giovani
preferiscono compiere azioni belle piuttosto che vantaggiose, in quanto vivono più guidati dal carattere che
dal calcolo, ed è il calcolo che mira all’utile, mentre la virtù tende al bello. Compiono errori sempre per
eccesso e per troppo ardore; compiono ingiustizie per arroganza, non per cattiveria; sono portati a provare
compassione, perché credono tutti gli uomini onesti e migliori di quanto non siano; amano il riso e per
questo motivo sono anche molto spiritosi.

I vecchi e gli uomini per i quali è iniziato il declino hanno per la massima parte caratteri pressochè opposti ai
giovani.

Di conseguenza non è difficile scorgere in quale modo gli oratori si dovranno servire dei discorsi per
apparire, sia essi stessi che i loro discorsi, di un certo carattere.

Gli uomini nel pieno della maturità si troveranno, per quel che riguarda il carattere, a metà strada tra gli
altri due, essendo privi dell'eccesso di entrambi, e non saranno nè eccessivamente audaci né troppo timorosi,
ma avranno una giusta disposizione nei confronti di entrambi gli atteggiamenti, senza credere a tutti e senza
diffidare di tutti, ma giudicando piuttosto secondo il vero. Essi non vivono solo in funzione del bello, nè solo
in funzione dell'utile, ma di entrambi. Per parlare in termini generali, gli uomini maturi possiedono unite le
qualità positive che la giovinezza e la vecchiaia si spartiscono, e hanno in misura equilibrata tutto quello che
negli altri è in eccesso o in difetto.

Dal momento che: l'impiego dei discorsi persuasivi è diretto a un giudizio; sì ha giudizio anche se qualcuno,
rivolgendosi a un singolo individuo per mezzo di un discorso, lo esorta o lo dissuade, come fanno ad
esempio le persone che danno consigli o cercano di persuadere (il singolo individuo e in egual misura un
giudice, perché un giudice è, per così dire, un uomo che deve essere persuaso); non c'è differenza se si parla
contro degli avversari o contro una qualche proposizione (è necessario servirsi del discorso distruggere gli
argomenti contrari contro i quali è rivolto il discorso come se fossero concreti avversari), e lo stesso vale nei
discorsi epidittici (il discorso è composto per lo spettatore come se questi fosse un giudice); è importante
definire come e attraverso quali mezzi si debbano rendere i discorsi conformi ai caratteri.

Tutti gli oratori devono necessariamente servirsi nei loro discorsi, oltre al resto, anche del "luogo" del
possibile e dell'impossibile e alcuni dovranno tentare di dimostrare che una cosa accadrà (oratori del genere
deliberativo), altri che è avvenuta (del genere giudiziario).

Il luogo relativo alla grandezza è comune a tutti i tipi di discorso, poichè tutti si servono della diminuzione e
dell'amplificazione sia nei discorsi deliberativi, sia in quelli di lode o di biasimo, sia nei discorsi di accusa o
di difesa. Dei luoghi comuni, l'amplificazione è più appropriato ai discorsi epidittici, il passato ai discorsi
giudiziari, il possibile e il futuro a quelli deliberativi.

Le argomentazioni comuni a tutti i generi di discorsi sono di due generi: l'esempio e l'entimema. Due sono le
specie di esempi:

1. esempi storici: consiste nel parlare di fatti avvenuti in precedenza


2. esempi fittizi: consiste nel inventarli noi stessi. Comprendono:
• similitudine
• favole: esopiche o libiche (animali come protagonisti)

Le favole si adattano bene ai discorsi deliberativi e hanno il pregio che, mentre è


difficile trovare avvenimenti simili realmente verificatisi, è facile inventare favole:
esse devono essere fatte come le comparazioni, sempre che uno sia capace di cogliere
l'analogia, e questo è facile grazie agli Studi Filosofici. È più facile procurarsi
argomenti per mezzo delle favole, ma per l'oratoria deliberativa risultano più utili
quelli tratti dagli avvenimenti reali, poiché gli eventi futuri per lo più sono simili a
quelli del passato.

Si devono utilizzare come dimostrazione gli esempi se non si dispone di entimemi; se al contrario si dispone
degli entimemi, gli esempi devono essere utilizzati come testimonianze, come conclusione degli entimemi,
poiché, se vengono poste all'inizio, si crea un'apparenza di induzione, e l'induzione non si addice ai discorsi
retorici, a parte pochi casi; posti invece in conclusione sembrano testimonianze, e una testimonianza e in
ogni caso persuasiva. E di conseguenza se gli esempi vengono posti in principio è necessario produrne molti,
mentre in conclusione anche uno solo è sufficiente, perché anche una sola testimonianza credibile è valida.

La massima è parte dell'entimema. La massima è un'affermazione che non riguarda il particolare ma è di


carattere universale, e che non concerne tutti gli universali, ma solo ciò che è in rapporto con le azioni e che
può essere scelto o evitato in funzione di esse. Di conseguenza, poiché l'entimema è come un sillogismo su
argomenti del genere, le conclusioni e le premesse degli entimemi, una volta eliminato il sillogismo, sono
all'incirca delle massime.

Le massime devono esistere necessariamente 4 specie, perché esse saranno o con epilogo o senza epilogo.
Hanno bisogno di una dimostrazione tutte quelle che esprimono un concetto imprevisto o controverso; quelle
che invece non esprimono nessun concetto imprevisto possono restare senza epilogo. Di queste ultime
alcune necessariamente non avranno bisogno di epilogo, per il fatto di essere già note. Le quattro specie di
massime saranno dunque: quelle già accettate in partenza e che non richiedono spiegazioni; quelle che sono
comprensibili e accettabili anche senza bisogno di spiegazioni; quelle che sono parte di un entimema; quelle
che non sono in senso proprio un entimema ma sono di carattere entimematico.

Pronunciare massime si adatta agli uomini di età più avanzata, ed è adatto a soggetti dei quali si ha
esperienza: di conseguenza, parlare per massime senza avere un'età di questo genere è sconveniente, come
anche raccontare favole, mentre parlare di ciò di cui si è inesperti è indice di stoltezza e ignoranza.

Parlare in termini universali di quel che non è universale è in modo particolare adatto alle lamentazioni e
all'indignazione, e, in tali casi, sia in principio sia dopo la dimostrazione. È necessario servirsi anche di
massime abusate e comuni quando si rivelino utili, perché per il fatto di essere comuni sembrano essere
veritiere, in quanto tutti sono d'accordo.

Inoltre, alcuni proverbi sono anche massime. Si devono utilizzare le massime anche contro l'opinione
corrente, sia quando il carattere dell'oratore debba apparire migliore, sia quando la massima sia espressa con
emozione. Il proposito deve essere reso evidente dall'impiego del linguaggio o altrimenti si deve aggiungere
la causa. Le massime sono di grande aiuto nei discorsi a causa dell'ignoranza degli ascoltatori, poiché questi
provano piacere se qualcuno, parlando in termini generali, s'imbatte nelle opinioni che essi già hanno in
relazione a oggetti particolari.

Di conseguenza si deve mirare a comprendere quali siano le loro opinioni preconcette e parlare quindi in
termini generali riguardo a esse. Questo è uno dei vantaggi dell'impiego delle massime, e ve n'è uno
maggiore: esso rende etici i discorsi. Tutte le massime ottengono quest'effetto, perché chi pronuncia una
massima parla in generale dei propositi morali, e di conseguenza, se le massime sono moralmente buone,
fanno apparire buono anche il carattere dell'oratore.

Mentre la dialettica deve sviluppare tutti gli argomenti, la retorica deve limitarsi a una forma più concisa di
esposizione, eliminando i passaggi logici che renderebbero più difficile la comprensione da parte del
pubblico. Non si deve parlare sulla base di tutte le opinioni, ma solo di alcune determinate, quelle, ad
esempio, ammesse dai giudici o da coloro il cui giudizio è accolto dagli uomini, e ciò perché in questo modo
sembrerà evidente a tutti, o alla maggior parte delle persone. E non si debbono trarre conclusioni soltanto
dalle premesse necessarie, ma anche da quelle generalmente valide.

In primo luogo, si deve comprendere che a proposito di ciò di cui si deve parlare e ragionare, è necessario
conoscere gli elementi relativi a quel soggetto, o tutti o alcuni, poichè, se non se ne conosce neppure uno,
non si avrà nulla in base a cui trarre le conclusioni. Tutti gli oratori costruiscono i loro encomi sulla base di
fatti che sono o sembrano essere gloriosi. Nello stesso modo, essi fondono il loro biasimo sulle azioni
contrarie, esaminando se hanno commesso, o sembrano aver commesso, un'offesa. Analogamente, chi
pronuncia sia un discorso d'accusa sia un discorso di difesa lo fa sulla base di un esame delle circostanze
concrete.

Quanto più numerosi sono gli argomenti di cui si dispone, tanto più facile è la dimostrazione, quanto più essi
sono connessi con il soggetto, tanto meno essi sono comuni.

Due sono le specie di entimemi:


1. entimemi dimostrativi: dimostrativo del fatto che qualcosa è o non è
2. entimemi confutativi
L'entimema dimostrativo consiste nel trarre conclusioni da premesse sulle quali esiste accordo, quello
confutativo trae conclusioni non accolte dall'avversario. Sia l'entimema dimostrativo, in altre parole, che
quello confutativo devono trarre le loro conclusioni a partire da fatti o idee che sono ammessi anche
dall'avversario e che costituiscono l'equivalente delle premesse maggiori del sillogismo; ma mente il primo
deve soltanto affermare qualcosa, l'entimema confutativo deve raggiungere una posizione opposta a quella
dell'avversario.

La differenza tra entimemi dimostrativi e confutativi è la stessa che esiste nella dialettica tra confutazione e
sillogismo.

Aristotele elenca 28 “luoghi”, strategie argomentative comune a tutti e tre i generi retorici, e che si
oppongono pertanto ai luoghi particolari di ciascun genere.

1. Un “luogo” degli entimemi dimostrativi è quello che si basa sui contrari: si


deve considerare se il predicato posto è vero per un contrario, confutando
l'argomento se non lo è, confermandolo se lo è, affermando, ad esempio, che
essere temperanti è un bene, poiché l'intemperanza è dannosa.

2. Un altro luogo è quello che deriva da forme grammaticali simili: lo stesso


predicato deve o non deve essere vero allo stesso modo.

3. Un altro luogo è quello che deriva da termini in rapporto reciproco: ad


esempio, se aver compiuto un'azione bene e giustamente può essere proprio di
uno dei due termini, allora può essere proprio dell'altro averne subita una bene
e giustamente, se è proprio di uno comandare, allora è proprio di un altro
eseguire.

4. Un altro luogo è quello che deriva dal più e del meno.

5. Un altro luogo è quello che deriva dalla considerazione del tempo.

6. Un altro luogo consiste nel volgere contro l'avversario quel che è stato detto
contro di noi.

7. …

Gli entimemi confutativi riscuotono più successo di quelli dimostrativi in quanto


l'entimema confutativo consiste in uno stretto accostamento di opposti, e quando sono
l'uno accanto all'altro essi per l'ascoltatore risultano evidenti. Tra tutti gli entimemi
sia confutativi che dimostrativi vengono applauditi in modo particolare quelli che gli
ascoltatori fin dall'inizio riescono a prevedere senza che siano superficiali
(nell'anticipare le conclusioni essi si compiacciono di se stessi) e quelli per
comprendere i quali essi devono attendere tanto quanto basta perché siano
pronunciati.

L'entimema potrà essere reale o apparente, dal momento che l'entimema è una forma
di sillogismo. Esistono dei luoghi degli entimemi apparenti, uno dei quali riguarda lo
stile, e di esso una forma, come nella dialettica, consiste nel fare un enunciato in
forma di conclusione senza che vi sia stata la deduzione sillogistica - non è nè così
nè così, di necessità è così o così -; per quel che riguarda gli entimemi,
un'espressione concisa e antitetica ha l'apparenza di un entimema, poiché
un'elocuzione di questo genere è il regno dell'entimema, e sembra che questa qualità
derivi dalla forma dello stile. Per creare attraverso lo stile l'impressione di un
ragionamento sillogistico è utile pronunciare i punti essenziali di numerosi sillogismi;
per esempio: ogni affermazioni di una frase è stata dimostrata da altri argomenti, ma
messi insieme sembrano dare origine a qualcosa di nuovo.
Un altro luogo consiste nell'argomentare combinando ciò che è suddiviso o
suddividendo ciò che è combinato. Poiché spesso una cosa sembra essere la stessa
rispetto ad un'altra pur non essendo tale, occorre presentarla nel modo più utile.</p>

L'altra forma consiste nell'uso dell'omonimia.

Un altro luogo consiste nel costruire nel demolire un argomento per mezzo
dell'esagerazione. Questo si verifica quando l'oratore amplifica l'azione, senza aver
dimostrato che è stata o non è stata compiuta: ciò fa infatti apparire o che l'accusato
non ha commesso il fatto, quando egli stesso amplifica l'accusa, o che lo ha
commesso, quando ad amplificare è l'accusatore. Non si tratta di un entimema, perché
l'ascoltatore conclude erroneamente che l'accusato ha o non ha commesso il fatto,
senza che ciò sia stato dimostrato.

Altri luoghi derivano dal segno, da quello che è accaduto casualmente, dalla
consequenzialità, proporre come causa ciò che non è causa, nell'omissione del
quando e del come. Inoltre come accade nelle argomentazioni eristiche, un sillogismo
apparente nasce dal confondere ciò che è assoluto e ciò che non è assoluto ma solo un
caso particolare, così anche nella retorica un entimema apparente si basa su ciò che
non è verosimile in senso assoluto ma è verosimile in un caso particolare: e ciò non
è universale. Accade anche ciò che è contrario al verosimile, di conseguenza è
verosimile anche ciò che è contrario al verosimile. E se è così l'inverosimile è
verosimile. Ma non in senso assoluto: come nel caso delle dispute eristiche, il fatto di
non aggiungere la circostanza, il rapporto e il modo crea l'inganno, e così succede
anche qui, perché il verosimile non è assoluto ma solo particolare.

Confutare significa proporre un sillogismo contrario o avanzare un'obiezione. è possibile formare un


sillogismo contrario a partire dagli stessi luoghi, poiché i sillogismi derivano dalle opinioni comuni e molte
opinioni sono opposte le une alle altre. Le obiezioni possono essere formulate in quattro modi:

1. dall'argomento stesso: se, ad esempio, a proposito dell'amore, l'entimema


fosse che esso è un bene, l'obiezione potrebbe essere fatta in due modi, dicendo
o, in senso generale, che ogni condizione di necessità è un male, o,
considerando, un particolare, che non si parlerebbe di "amore di
Cauno" (incestuoso) se non esistessero anche forme d'amore cattive.

2. dall’argomento simile: se l'entimema, ad esempio, fosse che gli uomini che


hanno ricevuto del male odiano sempre, si potrebbe dire che però quelli che
hanno ricevuto del bene non sempre amano.

3. dall'argomento contrario

4. dall'argomento che è stato giudicato vero

Dal momento che gli entimemi possono essere tratti da 4 luoghi (il verosimile, l'esempio, la prova e il segno)
e poichè gli entimemi sono tratti dal verosimile quando sono basati su ciò che comunemente è o sembra
essere, dall'esempio quando sono risultato di induzione da uno o da più casi simili, ogni volta che, preso in
considerazione l'universale, si conclude il particolare, dalla prova quando sono basati su ciò che è necessario
e sempre esistente, dai segni quando riguardano l'universale o il particolare, sia esso vero o no; e dal
momento che il verosimile non è ciò che è sempre, ma solo ciò che è che per lo più, è evidente che gli
entimemi di questo genere possono essere sempre confutati sollevando un'obiezione, ma che la confutazione
può essere apparente e non sempre vera. Chi solleva l'obiezione confuta mostrando non che l'argomento non
è verosimile, ma che non è necessario. Di conseguenza grazie a questo paralogismo chi si difende ha sempre
un vantaggio sull'accusatore; dal momento che questi dimostra attraverso il verosimile, e che non è la stessa
cosa confutare dimostrando che un argomento non è verosimile o che non è necessario, e ciò che è vero
"per lo più" si presta sempre all'obiezione, allora quando la confutazione avviene in questo modo, il giudice
pensa o che l'argomento non è verosimile, o che non sta a lui giudicare, ragionando erroneamente, poiché
egli non deve giudicare soltanto in base agli argomenti necessari, ma anche a quelli verosimili, e dunque non
basta confutare un argomento perché non è necessario, ma si deve confutarlo perché non è verosimile.
Questo accadrà qualora l'obiezione si è basata soprattutto su ciò che si verifica per lo più: essa può risultare
tale in due modi, in considerazione o del tempo o dei fatti, ma nel modo più efficace se accade in
considerazione di entrambi, perché una cosa è tanto più verosimile quanto più grande o più frequente è il
numero dei casi simili. I segni e gli entimemi formulati in base al segno possono essere confutati anche se
veri. La confutazione degli entimemi basati sugli esempi è la stessa di quella delle probabilità, poiché, se
abbiamo un solo fatto che non si accorda, l'argomento è confutato in quanto non è necessario, anche se la
maggior parte degli esempi è vera o più frequentemente vera; ma se gli esempi sono così per la maggior
parte o con la maggior frequenza, lì si deve combattere affermando o che il presente caso non è simile, o
non è nello stesso modo, o che ha una qualche differenza. Le prove e gli entimemi formulati in base alle
prove non possono invece essere confutati in quanto non sillogistici, e non resta altra possibilità che
dimostrare che il fatto non sussiste. Ma se è palese che sussiste e che è una prova, l'argomento diviene
inconfutabile, perché la dimostrazione diventa evidente in ogni suo elemento.

Retorica III

Il libro III della Retorica è il libro del messaggio. Non basta possedere gli argomenti che si devono esporre
ma è anche necessario esporli nel modo appropriato e questo contribuisce ampiamente a fare apparire
discorso di un certo tipo.

Aristotele esamina la recitazione, poiché l'intera attività della retorica riguarda l'opinione si deve prestare
attenzione alla recitazione non perché sia giusto ma perché necessario dal momento che per un discorso
giusto consiste solo nel evitare di offenderlo di divertire. Il giusto infatti consisterebbe nel dibattere in base ai
soldi fatti e di conseguenza tutto ciò che è estraneo alla dimostrazione sarebbe superfluo.

La recitazione riguarda la voce e il modo in cui essa deve essere usata per esprimere ciascuna emozione, e il
modo in cui ci si deve servire dei doni e quali ritmi devono essere seguiti in ogni caso. Tre sono gli obiettivi
cui si deve mirare: essi sono il volume, l' armonia e il ritmo.

La recitazione tuttavia possiede grande efficacia a causa della corruzione dell'uditorio. La cura dello stile
comunque occupa necessariamente un qualche minimo spazio in ogni forma di insegnamento, poiché parlare
in questo o in quel modo rappresenta una reale differenza in vista dell'esposizione, per quanto non una
grande differenza: ma tutti questi elementi rappresentano un’apparenza esteriore e sono rivolti all'ascoltatore;
e di conseguenza nessuno insegna la geometria in questo modo. L’abilità nella recitazione è un dono di
natura che non dipende da una tecnica, mentre quel che riguarda lo stile è un prodotto della tecnica. Di
conseguenza, coloro che risultano abili sotto questo aspetto ottengono i premi, proprio come gli oratori che
sono abili nella recitazione. I discorsi scritti devono infatti la loro efficacia più allo stile che al pensiero.

A dare impulso allo studio dello stile inizialmente furono i poeti, i quali, pur raccontando cose senza senso
sembravano acquisire reputazione grazie allo stile; nacque così lo stile poetico, ancora oggi la maggior parte
delle persone incolte ritiene che siano gli oratori di questo genere a parlare meglio mentre non è così.

Aristotele definisce qualità dello stile, la chiarezza. Essa non deve essere né umile nè troppo elevata ma
adatta al soggetto. Lo stile poetico non è umile. Tra i nomi e i verbi, determinano chiarezza quelli usati in
senso proprio, mentre gli altri termini, rendono lo stile ornato piuttosto che umile, poiché la deviazione
dell'uso prevalente lo fa apparire più solenne.
Gli uomini infatti provano di fronte allo stile la stessa sensazione che provano di fronte agli stranieri e ai
concittadini: si deve di conseguenza rendere esotico il linguaggio (nel senso di estraneo all'uso normale e
familiare del linguaggio) poiché gli uomini ammirano ciò che è lontano, e ciò che provoca meraviglia è
piacevole.

Si deve dare l'impressione di parlare non artificialmente ma naturalmente, perché quest'ultimo modo è
persuasivo, mentre l'altro ottiene l'effetto contrario, in quanto gli uomini accusano l'oratore, come se tendesse
loro delle insidie, nello stesso modo in cui accusano chi adultera il vino.

Poiché il discorso è formato di nomi e verbi; di questi si devono utilizzare raramente in pochi passi le glosse,
i composti e i neologismi. La parola usata in senso proprio e comune e la metafora sono le uniche a essere
utili per lo stile dei discorsi in prosa. Ne è prova il fatto che è soltanto di queste che tutti si servono: tutti
infatti parlano per mezzo di metafore e di parole usate in senso proprio e comune, e di conseguenza è
evidente che se un oratore compone bene vi sarà un che di esotico nello stile, ma l'arte non sarà notata e vi
sarà chiarezza. È questa la virtù del discorso retorico. Tra i nomi per i sofisti sono utili gli omonimi (parole di
significato ambiguo), per il poeta i sinonimi. Per parole usate in senso proprio e sinonimi Aristotele intende,
ad esempio, andare e camminare, poiché entrambe queste parole sono utilizzate in senso proprio e sono
reciprocamente sinonimi.

Nel discorso in prosa l'oratore deve dedicarvi la massima cura, nella misura in cui la prosa dispone di minori
risorse rispetto al verso. La metafora, in particolare, possiede chiarezza, piacevolezza e un qualcosa di
esotico, e non si può apprendere il suo uso da qualcun altro. Si dovranno pronunciare epiteti e metafore
appropriati, e questo deriverà dall'analogia. In caso contrario, l'espressione apparirà inadeguata perché gli
opposti sono evidenti soprattutto quando messi in contrapposizione. È necessario esaminare, nello stesso
modo in cui a un giovane si adatta una veste rossa, che cosa si adatti a un uomo anziano, poiché la stessa
veste non va bene a entrambi.

Se si vuole abbellire si deve trarre la metafora da una specie migliore che appartenga allo stesso genere, e se
si vuole biasimare da una specie peggiore. Inoltre nel dare un nome a qualcosa che privo di un termine
proprio la metafora deve essere ricavata non da lontano, ma da cose dello stesso genere e della stessa specie,
in modo che sia chiaro che il termine è dello stesso genere. In senso generale, è possibile trarre metafore
appropriate da enigmi ben formulati, poiché le metafore sono una sorta di enigma, ed è di conseguenza
evidente che una metafora tratta da un enigma è ben tratta. Possono anche derivare dal bello, e la bellezza di
una parola, consiste nel suo suono o nel suo significato, e lo stesso vale per la sua bruttezza.

Esiste un terzo elemento, che confuta il discorso sofistico, poiché non è vero, che nessuno usa il linguaggio
sconveniente, se, dicendo questa parola al posto di quell'altra, il significato è lo stesso; questo è falso, poiché
un termine è più appropriato di un altro, più simile all'oggetto rappresentato e più adatto a porre la questione
"davanti agli occhi". Inoltre, questa o quella parola non esprimono un significato nello stesso modo, e di
conseguenza anche in questo senso, si deve ritenere una parola più bella o più sconveniente di un'altra:
entrambe esprimono il bello o il brutto, ma non come una cosa sia bella o come sia brutta; o se lo fanno,
avviene in grado maggiore o minore.

Le metafore devono essere ricavate da ciò che è bello per suono, per effetto, per efficacia visiva o per
qualche altra impressione.

Per quel che riguarda gli epiteti, essi possono essere creati dal brutto e dal turbe, ma è possibile crearli anche
dal meglio. È possibile anche l'uso del diminutivo. Il diminutivo è ciò che è in grado di diminuire tanto il
cattivo quanto il buono. Si deve però stare attenti e curare in entrambi i casi la giusta misura.

La freddezza nello stile si produce in quattro modi:

1. per mezzo delle parole composte: appaiono poetiche

2. l'uso di glosse: si intende una parola consueta in una sfera linguistica diversa
dalla propria, nella quale risulta invece oscura, e quindi una parola straniera o
dialettale o una parola rara e desueta

3. l’uso di epiteti lunghi, inopportuni o frequenti: nella prosa gli epiteti sono in
parte sconvenienti, in parte, se usati a sazietà, rendono palese il fatto che si
tratta di poesia: perché è a volte necessario servirsene (eliminano infatti
l'ordinarietà e rendono esotico lo stile) ma bisogna mirare alla giusta misura,
poiché in caso contrario si crea un male peggiore del parlare a caso; in
quest'ultimo caso non si ha merito, mentre nell'altro si cade nel vizio.
Di conseguenza, utilizzando in modo inappropriato un linguaggio poetico,
rendono lo stile ridicolo e freddo, e anche oscuro a causa della loro verbosità,
poiché, quando si accumulano parole su parole di fronte a chi già comprende,
si demolisce la chiarezza oscurandola.

4. metafore: esistono anche metafore inappropriate, in parte perché ridicole


(anche i poeti comici si servono di metafore), in parte perché eccessivamente
solenni e tragiche; ed esistono anche metafore oscure, quando siano tratte
troppo da lontano. Sono poco persuasive.

L'uso dei composti è particolarmente adatto ai ditirambografi (poiché costoro amano il clamore); quello delle
grosse ai poeti epici (sono infatti alteri e solenni); la metafora ai poeti giambici (essi oggi se ne servono).

Anche la similitudine è una forma di metafora: la differenza infatti piccola. La similitudine è utile anche
nella prosa, ma occasionalmente, perché è poetica. Le similitudini devono essere introdotte come le
metafore, poiché di metafore si tratta.

Metafora è l'imposizione di una parola estranea, o da genere a specie, o da specie a genere, o da specie a
specie, o per analogia - copre una gamma di significati più ampi di quello che si intende oggi per metafora,
che corrisponde a quello che il filosofo definisce per analogia (mentre i primi due casi rappresentano la
sineddoche e il terzo la metonimia)-. Per analogia si intende quando si trovano in rapporto uguale il secondo
elemento con il primo e il quarto con il terzo. Si potrà dire allora il quarto elemento al posto del secondo o il
secondo al posto del quarto. E talvolta si pone al di posto di ciò di cui si parla quello che a questo si riferisce.
Secondo la retorica antica, la metafora trasporta un termine o un'impressione dal luogo in cui è proprio a
quello in cui o il termine proprio manca o il traslato è migliore. Deve dunque esistere un rapporto di
somiglianza tra la parola che viene sostituita e la parola che sostituisce intesa in senso proprio. Di
conseguenza si considerava la similitudine una metafora ampliata e la metafora una similitudine contratta.

Il fondamento dello stile costituito dalla purezza linguistica e questa consiste in cinque elementi:

1. correttezza nell'uso delle correlazioni: quando si rispetti il loro ordine naturale


ed esse precedano o seguano come alcune richiedono; è necessario che esse si
corrispondano fintanto che il primo termine è nella memoria, e che non
vengono separate da uno spazio ampio e che una nuova parola non venga
introdotta al posto di quella necessaria per corrispondere, poiché ciò raramente
risulta appropriato.

2. parlare con termini propri e non con perifrasi

3. evitare i termini ambigui: questo vale se non si ricerca l'effetto opposto, che
è quel che si fa quando non si ha nulla da dire ma si finge di dire qualcosa.

4. classificazione dei nomi in maschili, femminili e neutri (come ha stabilito Protagora)

5. corretto accordo di singolare e plurale

In generale, quel che è scritto dovrebbe essere facile da leggere e facile da pronunciare. E questa è una
qualità che manca dove si ha un uso frequente delle particelle correlative, e nelle frasi in cui è difficile la
punteggiatura. La mancata correlazione crea un solecismo, se non si congiungono le parole con ciò che si
adatta entrambe. Si rende scuro il discorso se non si dice quel che si vuole fin dall'inizio, quando si intendano
inserire molti elementi in mezzo.
Alla gravità dello stile contribuiscono i seguenti elementi:

1. Servirsi di una frase invece che di una parola; per la brevità vale il contrario,
una parola al posto di una frase. Quando vi sia qualcosa di vergognoso o
inopportuno, si usa la parola se il turpe consiste nella fras,e si usa la frase se
consiste nella parola.

2. Utilizzare metafore ed epiteti pur avendo cura di evitare il poetico.

3. Utilizzare il plurale al posto del singolare, che è quel che fanno i poeti.

4. Non congiungere i termini, ma ognuno premettere il suo articolo; il contrario,


se è richiesta la brevità: parlare utilizzando le congiunzioni, però, se è
necessaria la brevità, ometterle, ma non senza connessione grammaticale.

Lo stile possiederà proprietà quando sia in grado di esprimere emozioni e caratteri e sia proporzionato al
soggetto. “Proporzionato” vuol dire non esprimersi in modo improvvisato su soggetti di una certa gravità,
nè con solennità a proposito di questioni ordinarie, e senza aggiungere ornamento a parole triviali, o, in caso
contrario, il risultato sembrerà una commedia. In grado di “esprimere emozioni” vuol dire che, di fronte ad
atti di oltraggio, lo stile deve essere quello di un uomo adirato; di fronte ad azioni empie e turpi, quello di un
uomo offeso e riluttante persino a parlare; di fronte ad azioni encomiabili, quello di chi parla con
ammirazione; di fronte a fatti degni di compassione, quello di un uomo che si esprime con tristezza; e
similmente negli altri casi. Uno stile appropriato rende credibile la questione poiché l'ANIMA degli
ascoltatori trae false conclusioni, come se l'oratore stesse dicendo la verità, poiché essi provano le stesse
disposizioni in tali circostanze, e di conseguenza credono che le cose stiano come dice chi parla, anche se
non stanno così, e l'ascoltatore compartecipa sempre dell'emozione dell'oratore, anche se costui non dice
nulla.

In grado di esprimere i caratteri è la dimostrazione fondata su prove quando è accompagnata da uno stile
che si adatta a ogni classe disposizione morale. Per classe intendo in rapporto all'età oppure uomo e donna;
per disposizioni morali quelle in virtù delle quali ognuno è il genere di persona che è nella vita, poiché non a
tutte le disposizioni morali corrisponde un dato genere di vita. In altre parole, il linguaggio deve esprimere le
stesse caratteristiche proprie della categoria di persone che si vuole rappresentare.

Esiste un comune rimedio per ogni forma di iperbole (esagerazione): l'oratore deve censurare se stesso in
anticipo (deve ammettere di esagerare in anticipo); quel che dice sembrerà allora vero, essendo egli stesso
non inconsapevole di quello che dice.

Inoltre non ci si deve servire di tutti i mezzi analoghi insieme poiché in questo modo l'ascoltatore sarà
ingannato. Ad esempio, se le parole saranno aspre, non dovranno essere pronunciate anche con una voce e un
volta altrettanto aspri, perché altrimenti quel che si sta facendo diventerà evidente per quello che è: se invece
si ricorrerà ad uno di questi mezzi ma non all'altro, si otterrà lo stesso risultato senza essere notati. Se tuttavia
si pronunceranno dolcemente parole aspre, o aspramente parole dolci, il risultato non sarà persuasivo. Le
parole composte, gli epiteti frequenti e soprattutto le parole esotiche (parole che non rientrano nell'uso
quotidiano) sono adatti a un oratore che parla esprimendo emozione, perché è scusabile che un uomo adirato
definisca un male "grande fino al cielo" o "mostruoso". E questo vale anche quando un oratore abbia in
pugno i suoi ascoltatori e li metta in grado di accendersi con la lode o il biasimo, l'ira o la benevolenza.

La forma dello stile non deve essere né metrica nè priva di ritmo: nel primo caso non è persuasiva, poiché
sembra artificiale e nel contempo distrae l'attenzione dell'ascoltatore, ponendolo nell'attesa del ricorrere della
stessa cadenza. Se è invece priva di ritmo, è senza limiti, mentre deve avere dei limiti, ma non nel metro,
perché quel che non ha limiti è sgradevole e inconoscibile. Tutto è limitato dal numero, e il numero nella
forma dello stile è rappresentato dal ritmo, del quale i metri sono sezioni. Di conseguenza, il discorso deve
possedere un ritmo, ma non un metro, altrimenti sarà un poema. Questo ritmo non dovrà essere troppo
rigoroso, e questo accadrà se esso esisterà solo fino a un certo punto.
Tra i ritmi quello eroico è solenne, non adatto a uno stile colloquiale e ha bisogno di intonazione musicale,
mentre il giambo (vicino alla parlata comune, troppo ordinario) è di per sè il linguaggio dei più; è necessario
invece che il discorso abbia solennità e sappia commuovere. Il trofeo è troppo adatto a una danza comica.
Resta il peone: è il terzo tipo di ritmo (è costituito da tre sillabe brevi e una lunga, o da una lunga e tre brevi,
e presenta dunque un rapporto 3 a 2) ed è collegata ai precedenti presenta infatti gli altri presentano un
rapporto di 1 a 1 oppure 2 a 1 e il rapporto di uno e mezzo è collegato agli altri due. Gli altri ritmi devono
essere evitati per questi motivi e per il fatto di essere metrici, mentre deve essere utilizzato il peone, perché è
l'unico dei ritmi nominati che non forma un metro, e pertanto la sua presenza passa inosservata. Oggi solo il
tipo di peone iniziale viene utilizzato, ma è necessario distinguere quello iniziale da quello finale. Vi sono
due specie di Peoni che si contrappongono, dei quali il primo si adatta all'inizio, come effettivamente viene
adoperato: è quello che inizia con una sillaba lunga e che si conclude con tre sillabe brevi; l'altro invece è al
contrario: inizia con 3 sillabe brevi, mentre la sillaba lunga è conclusiva.

Lo stile deve necessariamente essere o continuo e unito da particelle connettive, come nei preludi dei
ditirambi, o compatto e simile alle antistrofe dei poeti antichi. Lo stile continuo è quello antico, ed esso fu in
passato usato da tutte mentre ora non molti se ne servono. Per “continuo” intende quello che non ha in se
stesso una conclusione se non quando l'argomento stesso sia completato: è sgradevole per il fatto di essere
illimitato, poiché tutti desiderano avere in vista la conclusione.

Quello “compatto” consiste nel periodo. Per periodo intende una forma di espressione che abbia di per sè
stessa un inizio e una fine e una dimensione che possa essere abbracciata con lo sguardo. Un'espressione di
questo genere è piacevole ed è facile da comprendere: piacevole perché si trova nella condizione opposta di
quella illimitata e perché l'ascoltatore ritiene di volta in volta di acquistare qualcosa e che qualcosa sia stato
concluso, mentre è sgradevole non prevedere o non raggiungere la fine; facile da comprendere perché
facilmente ricordata, e questo accade poiché lo stile del periodo ha un numero, che è ciò che è più facile da
ricordare. Il periodo deve essere compiuto anche in quanto al senso, e non deve risultare spezzato, come nel
giambo.

Il periodo può essere composto di membri, oppure essere semplice. Un'espressione composta di membri
è compiuta, divisa e può essere pronunciata in un'unica emissione di fiato, non nella sua divisione ma per
intero (un membro è una delle due parti di un periodo). Per semplice intende invece quella che consiste in un
unico membro. Sia i membri che i periodi non devono essere né esigui né lunghi poiché quelli corti fanno
inciampare l'ascoltatore (se costui, mentre corre in avanti verso la misura di cui ha già in sé un'idea definita,
viene trattenuto dall' oratore che si arresta, inevitabilmente ci sarà un inciampo a causa dell' ostacolo),
mentre quelli lunghi lo fanno restare indietro, come fanno coloro che nel passeggiare invertono la direzione
più in là del limite atteso e lasciano così indietro i loro compagni: nello stesso modo i periodi, quando sono
lunghi, diventano un discorso e risultano simili ai preludi ditirambici. Mentre i membri troppo corti non
formano un periodo, poiché fanno avanzare precipitosamente l'ascoltatore.

Un'espressione composta di membri è divisa o antitetica. Quest'ultima è piacevole, poiché i contrari sono
assai facili da comprendere, e ancor più comprensibili quando posti a contatto e anche perché assomigliano
a un sillogismo: la confutazione infatti un accostamento di termini contrari. Questa è la natura dell’antitesi.

Si ha invece la parisosì quando i membri sono uguali (quando abbiano cioè lo stesso numero di sillabe); la
paromoiosi quando ogni membro abbia finali simili. Questo deve necessariamente accadere in principio o in
conclusione, e in principio la somiglianza consiste in intere parole, in conclusione nelle sillabe finali, nella
desinenza, nella ripetizione della stessa parola.

Le espressioni brillanti e popolari sono frasi acute, spiritose, che tengono viva l'attenzione del pubblico,
letteralmente espressioni cittadine. Esse possono essere create per talento naturale o per esercizio. Sono
soprattutto le metafore a produrre questo effetto. Creano lo stesso effetto anche le similitudini dei poeti, e
pertanto se esse sono ben costruite, si produce l'espressione brillante. La similitudine è una metafora che
differisce per l'aggiunta di una parola: di conseguenza è meno piacevole, perché è più lunga; essa inoltre non
dice che questo è quello, e di conseguenza la mente non cerca di comprenderlo.
Lo stile e gli entimemi che creano in noi un rapido apprendimento sono necessariamente brillanti. Lo stile
riscuote successo da un lato per la forma del discorso, quando si parla in termini di antitesi, dall'altro per le
parole, se contengono una metafora, sempre che questa non sia né strana né superficiale. Inoltre, sono
brillanti se fanno apparire le cose “davanti agli occhi” (evidenti), perché occorre vedere le cose mentre
avvengono e non nel futuro. Per porre “davanti agli occhi” intende parole che rappresentano un oggetto in
azione.

Si devono dunque avere di mira 3 obiettivi: metàfora, antitesi, evidenza.

Gli enigmi ben congegnati sono per lo stesso motivo piacevoli, poiché si produce apprendimento e viene
espressa una metafora.

A ogni genere di oratoria si adatta una diversa forma di stile. Quello di un discorso scritto non è uguale a
quello di un discorso pronunciato, nè quello politico a quello giudiziario. È necessario conoscerli entrambi:
l'uno consiste nel saper parlare un greco corretto, l'altro evita di essere costretti al silenzio quando si desidera
comunicare qualcosa ad altri, che è quel che capita a coloro che non sanno scrivere. Lo stile della
composizione scritta è più preciso, quello del discorso pronunciato più basato sulla recitazione, e per questa
ragione gli attori sono sempre alla ricerca di opere di questo genere, e i poeti di attori adatti. Se posti a
confronto, i discorsi degli scrittori appaiono esili nella recitazione, mentre quelli degli oratori, per quanto ben
recitati, appaiono dilettanteschi nelle mani del lettore.

La ragione è che essi sono adatti al dibattito: quel che è adatto alla recitazione, infatti, se la recitazione è
assente sembra banale poiché non adempie alla propria funzione. È necessario inoltre dire le stesse cose
variando i termini: ciò apre la strada alla recitazione. é necessario recitare, e non pronunciare come colui che
dice una cosa unica sempre con lo stesso carattere e lo stesso tono.

Lo stile deliberativo è nel complesso simile ai disegni in chiaroscuro: quanto maggiore la folla, tanto più
distante il punto di osservazione, e pertanto la precisione è superflua ed è peggiore in entrambi i casi.

Lo stile giudiziario richiede maggior precisione, e ancor più di fronte a un giudice unico, poiché è minima la
possibilità di ricorrere alla retorica, in quanto è facile scorgere quel che pertiene alla questione e quel che le
è estraneo, non c'è discussione e di conseguenza è limpido il giudizio. Per questo motivo non sono gli stessi
oratori a ottenere successo in tutti questi generi di discorso. Dove maggiore è il bisogno di recitazione,
minore è la precisione. Questo accade soprattutto dove è importante la voce, e soprattutto una voce robusta.

Lo stile epidittico è il più adatto allo scritto, poiché è destinato alla lettura. Al secondo posto viene quello
giudiziario. È superfluo fare un'ulteriore distinzione nello stile, dicendo che deve essere piacevole e
magnifico.

Due sono le parti del discorso: è necessario proporre l'argomento di cui si parla e quindi dimostrarlo.
Pertanto è impossibile proporre senza dimostrare, o dimostrare senza avere proposto, poiché chi dimostra
dimostra qualcosa, e chi propone un argomento lo fa al fine di dimostrarlo. Di queste parti la prima è la
proposizione, la seconda l'argomentazione, come se si ponesse la distinzione tra problema e dimostrazione.
Appropriate a ogni discorso sono queste, e al massimo esordio, proposizione, argomentazione, epilogo.

La replica all'avversario, infatti, fa parte dell' argomentazione e la comparazione è un amplificazione del


proprio caso, ed è quindi una parte dell'argomentazione. Chi agisce in questo modo cerca di dimostrare
qualcosa, ma non può farlo l'esordio, e neppure l'epilogo, che serve invece a richiamare alla memoria.

Le fonti degli esordi dei discorsi epidittici sono: lode, biasimo, esortazione, discussione, appello
all'ascoltatore. Per quanto riguarda gli esordi dei discorsi giudiziari si deve considerare il fatto che essi
producono lo stesso effetto dei prologhi drammatici e dei proemi epici, mentre gli esordi dei ditirambi sono
simili a quelli dei discorsi epidittici. Nei discorsi giudiziari e nell'epica si ha un'esposizione del soggetto, in
modo che gli ascoltatori sappiano in anticipo di che cosa parla il discorso e il pensiero non resti in sospeso,
poiché ciò che è indefinito porta fuori strada.
La funzione essenziale specifica dell'esordio consiste nel rendere evidente quale sia il fine cui tende il
discorso.

Chi si difende deve replicare all'attacco all'inizio, chi accusa nell'epilogo. La ragione non è oscura: chi si
difende, quando sta per introdurre se stesso, deve necessariamente rimuovere tutti gli ostacoli, e di
conseguenza deve in primo luogo demolire il pregiudizio; chi invece vuole creare un pregiudizio deve farlo
nell'epilogo, perché gli ascoltatori ricordino meglio.

L'esordio serve per questo o per ornamento, poiché senza di esso il discorso sembrerebbe improvvisato.

Un modo di eliminare i pregiudizi (nel controbattere l'avversario) è il ricorso ad argomenti che possano
confutare un sospetto infamante: non fa alcuna differenza se quest'ultimo sia stato espresso o meno da
qualcuno, e ciò vale in generale. Un altro luogo consiste nell'opporsi al punto in questione, affermando o che
il fatto non sussiste, o che non c'è danno, o che non c'è per quella particolare persona, o che non ha
l'importanza attribuitagli, o che il fatto non è ingiusto, o che non lo è in misura notevole, o che non comporta
disonore o che non ha importanza.

Questi sono infatti punti intorno ai quali verte la disputa. Oppure, se si è commessa ingiustizia, si può
controbilanciarla dicendo che se l'azione infliggeva un danno era tuttavia onorevole, e che se era dolorosa era
tuttavia utile, o qualcosa di questo genere. Un altro luogo consiste nell'affermare che si tratta di un errore, di
una sventura o di una costrizione. Si può anche contrapporre un movente all'altro, e dire che non ci si
proponeva di infliggere un danno, ma si perseguiva un altro obiettivo, non quello che insinua l'accusatore, e
che il danno che ne è risultato è accidentale.

Un altro si ha quando l'accusatore è stato coinvolto nella stessa accusa, ora in poi in precedenza; un altro
quando possono essere implicate persone che per consenso unanime non sono esposte all'accusa. Un altro se
l'accusatore o qualcun altro ha già accusato altre persone o se senza un'accusa altre persone furono sospettate
come ora lo è l'oratore, e queste furono poi dimostrate non colpevoli. Un altro luogo consiste nel
contraccusare l'accusatore, poichè sarebbe assurdo che fossero degne di fiducia le parole di chi non è degno
di fiducia. Un altro consiste nell'attaccare la calunnia, mostrando quale grande male essa sia, e ciò in quanto
essa altera i giudizi e non presta attenzione ai fatti.

Un altro, valido per l'accusatore, consiste nel biasimare concisamente qualcosa di importante, dopo aver
lodato a lungo qualcosa di secondario, oppure, dopo aver premesso molti aspetti positivi, condannare l'unico
elemento che riguarda direttamente la questione. gli oratori di questo genere sono i più artificiosi e i più
ingiusti, perché cercano di danneggiare servendosi di elementi positivi, che mescolano a ciò che è negativo.

Nei discorsi epidittici la narrazione non è continua, ma per parti: è infatti necessario passare in rassegna le
azioni che formano i soggetto del discorso. Un discorso è composto da una parte estranea alla tecnica, poiché
l'oratore non è in alcun modo causa delle azioni, e da una parte che deriva dalla tecnica, e cioè dimostrare
che l'azione ha avuto luogo, se non sembra credibile, o che è di un certo genere, o di una certa importanza,
oppure tutte queste cose insieme. Per questo motivo talvolta non si devono esporre tutti i fatti in una
narrazione continua, poiché una dimostrazione di questo tipo è difficile da ricordare. La narrazione non deve
essere lunga, come non deve esserlo l'esordio nè l'esposizione delle argomentazioni. In questo caso la
proprietà non consiste nella rapidità o nella concisione, ma nella misura, e ciò significa dire tutto ciò che
renderà chiara la questione, o farà credere che è accaduta una certa azione, che è stato inflitto un certo danno,
che è stata commessa una certa ingiustizia, o che i fatti hanno l'importanza che si desidera. Per l'avversario è
l'opposto: esporre incidentalmente ciò che tende a mostrare la propria virtù, o la cattiveria dell'avversario,
oppure ciò che è gradito ai giudici. Per chi si difende la narrazione deve essere più breve, poiché i punti in
discussione sono o che il fatto non è avvenuto, o che non ha comportato danni, o che non c'è stata ingiustizia,
o che non è importante, e di conseguenza non si deve perdere tempo su ciò su cui tutti sono d'accordo, a
meno che qualcosa non tenda a quello scopo, ad esempio a dimostrare che se il fatto è accaduto non c'è stata
tuttavia nessuna ingiustizia. Inoltre, si devono esporre solo le passate azioni che non producano, mentre
vengono descritte, pietà o indignazione.

La narrazione deve essere indicativa dei caratteri, e ciò si verificherà se sappiamo che cosa crea un carattere.
Un mezzo è senza dubbio rendere chiaro il proposito morale, quale sia il carattere, cioè, in rapporto al genere
di proposito morale; il proposito è poi di un certo genere in rapporto al fine. Per questo motivo i trattati
matematici non hanno alcun carattere morale, poiché non hanno neppure il proposito morale, mentre i
dialoghi socratici ne hanno uno, in quanto discutono argomenti di questo genere.

Si deve parlare inoltre basandosi sugli elementi emozionali, narrando sia le conseguenze, sia ciò che
l'uditorio conosce, sia ciò che è una caratteristica dell'avversario o propria. Questi elementi sono persuasivi
poiché, noti al pubblico, diventano segni rivelatori di ciò che non conosce.

Per quanto riguarda l'interrogazione, è opportuno utilizzarla soprattutto quando un avversario abbia già
parlato e se, con l'aggiunta di una domanda, si palesi un'assurdità.

L’epilogo è composto di 4 elementi:

1. Disporre l’ascoltatore favorevolmente nei propri confronti e sfavorevolmente


nei confronti dell’avversario

2. Amplificare e diminuire

3. Suscitare reazioni emotive nell’ascoltatore

4. Ricapitolare

Dopo aver mostrato se stesso come una persona sincera e l'avversario come una
persona falsa, l'ordine naturale prevede che l'oratore lodi, biasimi, e dia gli ultimi
ritocchi.

Successivamente una volta che amare la natura l'importanza dei fatti si deve condurre
l'ascoltatore ad avere reazioni emotive. Nella conclusione del discorso è appropriato
l'asindeto, in modo da avere un epilogo e non un'orazione.

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