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636
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isbn 978–88–548–3395–1
07 Presentazione
13 Capitolo I
Fallacia cognitiva e rifondazione del noos
39 Capitolo II
La Via delle Illusioni
1. La mappa delle vie, 39 – 2. La mappa dei frammenti, 42 – 3.
Dissuadendo, 46 – 4. Vicoli ciechi, 56 – 5. La poetica dell’in-
ganno, 60 – 6. Forme, nomi, percezioni, 65 – 7. Analogie e
tessere formulari, 68 – 8. Ordine esplicito e ordine implicito,
71 – 9. Falso, vero, plausibile, 76
81 Capitolo III
Afrodite timoniera del cosmo
1. Il programma, 81 – 2. Anelli cosmici, 85 – 3. Al centro,
90 – 4. Trasmigrazioni, 92 – 5. Maschi e femmine, 98 – 6.
Sorteggi e lotti, 100 – 7. Identità e domicilio della dea, 103 –
8. Polisemia di Afrodite, 106 – 9. L’uovo cosmico, 110 – 10.
Madrepatria e colonie, 114
141 Capitolo V
Il ritorno
1. Il santuario di Asclepio a Velia, 141 – 2. Parmenide medi-
co–indovino, 144 – 3. Il proemio, 147 – 4. L’itinerario, 150
– 5. La dea del v. 3, 163 – 6. La dea del v. 22, 166 – 7. Luce e
tenebra, 168 – 8. La dea e le doxai, 171
173 Capitolo VI
Il tragico
1. La frontiera, 173 – 2. Dilemmi, 175 – 3. Un’identità perdu-
ta, 184 – 4. La verità di Edipo, 186
191 Congedo
197 Bibliografia
Fallacia cognitiva
e rifondazione del noos
13
2. Testimoni
3. Dubbi sintattici
Come si vede sia dal suo inizio che dalla sua conclusione,
questo tetrastico si articola lungo una linea che parte da
una proposizione avente per soggetto noos e si conclude
con una frase che stabilisce che cosa è il noêma. È una linea
che non mira a definire la natura degli organi di senso, ma
a prospettare il noos (attività del pensare e contenuto della
conoscenza) come qualcosa che si concretizza in relazione
a mutamenti che intervengono nella relazione fra i costi-
tuenti del corpo umano, sì che l’organo del pensiero viene
a coincidere con la condizione stessa delle membra.
Allora è ben comprensibile anche la scelta di un predica-
to come parestêken («sta accanto», «si manifesta»), connessa
al fatto che le forme intransitive o medio–passive di paristê-
mi possono denotare il ‘mostrarsi’ o ‘aff 11
acciarsi’ alla mente
di un certo dato psichico o percettivo e si coglie anche la
relazione logica con l’ultima frase: se il pensare consiste,
secondo un modello che oggi si direbbe di supervenience, in
ciò che il corpo percepisce attraverso i suoi organi sensoria-
li, il determinarsi del singolo oggetto o contenuto cognitivo
è causato dal prevalere, nel contrasto fra gli elementi (luce
e notte) costitutivi della natura del corpo, di quello che si
trovi ad essere preponderante in un determinato 12
momento
e in relazione a un determinato individuo.
4. Un frammento erratico
11. Cf. ad es. Soph. OR 911 dov x a moi pareçtav q h e vedi LSJ s.v.
parivçthmi IV.
12. Novhma, che abbiamo reso con «pensamento», rappresenta, rispetto
a novoç, una determinazione del pensare correlata a singoli momenti, e
dunque contingente, come in Emped. 31 B 105.3 ai|ma ga;r ajnqrwvpoiç
perikavrdiovn ejçti novhma (Untersteiner 1958: XXIII n. 48).
18. Per Empedocle, come osservava Kahn 1971: 11 «mind and bodies
are homogeneous», sì che gli oggetti esterni «act upon us mingling their
substance with the ingredients of our nature, that is, with our body and
mind at once».
7. Essere e pensare
Già presupposta22
in Plot. Enn. 5.1.8 e in Procl. Parm.
1152.33 Cousin e accolta, fra gli altri, da Diels–Kranz,
Cerri 1999: 193–95, Robbiano 2005: 63–5, questa interpre-
tazione comporta un costrutto in cui to auto «la stessa cosa»
è predicato nominale, estin funge da copula e ‘pensare’ ed
‘essere’ sono infiniti sostantivati che funzionano da soggetti
della frase, ma varie ragioni militano contro di essa:
ou[te ga;r a]n gnoivhç tov ge mh; ejon; (ouj ga;r ef iktovn)
ou[te fravçaiç. to; ga;r aujto; noei`n e[çtin te kai; ei\nai.
25
Ciò che non è non puoi né riconoscerlo (non è raggiungibile )
né indicarlo: identico è l’oggetto del pensare e dell’essere.
27. Vedi von Fritz 1945: 238: «the cause or condition of noei`n».
28. Sembra difficile che con ejn w|i pefatiçmevnon ejstivn (ejn la
tradizione di Simplicio, ejfΔ, non registrato in VS, quella di Procl. In Parm.
6.1152.35, valorizzata da Cordero e da altri ma probabilmente banalizzante)
il relativo si riferisse all’essere. Gadamer 2002 ipotizzava che ejn w|i signifi-
casse «mentre», «in quanto», ma non è una soluzione agevole con il nesso
relativo collocato fra due infiniti sostantivati. In realtà ejn w|i (=tou`to ejn
w|i) può essere prolettico, anticipando to; noei`n (cf. Eur. Med. 228–29 ejn
w|i ga;r h\n moi pavnta...| kavkiçtoç ajndrw`n ejkbevbhcΔ ouJmo;ç povçiç),
se con Fränkel 1960: 195 poniamo pausa sintattica debole (virgola) dopo
euJrhvçeiç, non, con Diels–Kranz e altri editori, dopo ejonv toç e dopo ejçtivn.
Per ejn nel senso della dipendenza da una persona o da una condizione cf.
Soph. OR 314, Plat. Prot. 354e e vedi Palmer 2009: 164 n. 40.
39
È vero che Sesto non riporta due versi (B 1.31–2) che sono
invece citati da Simpl. Cael. 557.20 unitamente a B 1.28b–30,
ma, come notava Diels nella sua edizione del 1897, la caduta
di questi due versi nella tradizione di Sesto (o nell’esemplare
usato da Sesto) si spiega per omeoarcto, visto che B 1.28 e B
1.31 (e anche B 7.2) iniziano entrambi con alla.
e poi nella poesia (ad es. Aristoph. Eq. 468) come nella
prosa (ad es. Herodot. 2.170.2) del quinto secolo.
La particolarità per cui tale costruzione consta qui di
due elementi (einai ed eonta) che sono ambedue forme
del verbo ‘essere’ esprime nella forma più densa l’idea,
formulata in B 8.38–41, secondo cui nell’ambito delle
doxai l’essere si frammenta in una pluralità di enti che
rispetto all’essere sono mere apparenze, nomi affissi dagli
uomini:
tw`i pavntΔ o[nomΔ e[çtai
o{çça brotoi; katevqento pepoiqovteç ei\nai ajlhqeva,
40 givgneçqaiv te kai; o[lluçqai, ei\naiv te kai; oujciv,
kai; tovpon ajllavççein diav te crova fano;n ajmeivbein.
8. Opto per la lezione o[nomΔ e[çtai del codice F (ou[nomΔ D), confer-
mata da o[nomΔ ei\nai nella parafrasi del verso in Plat. Theaet. 180d, contro
ojnovmaçtai dei codici E e W di Simpl. Phys. 86 (Tarán 1987: 261–62 offre un
quadro più preciso della tradizione testuale rispetto a D.–K.). Sulla funzi-
one del futuro vedi sopra, I § 7.
9. Reinhardt 1916: 7–9 ipotizzava che crh`n non avesse qui, come di consue-
to, connotazione di irrealtà, ma indicasse una necessità proiettata nel passato
(«dovevano», «era destino che»), come in Herodot. 1.8.2 crh`n ga;r Kandauvlhi
genevçqai kakw`ç (e anche Reale traduce: «come le cose che appaiono bisognava
che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso»). Ma in Erodoto l’orizzonte
semantico è determinato dal fatto che la frase citata è un inciso all’interno di un
racconto; invece in Parmen. 29 B 32 non c’è alcun riferimento contestuale al pas-
sato e l’enunciato si collega al futuro maqhvçeai del v. 31.
10. Per il poliptoto dia; panto;ç pavnta per cf. B 4.3 pavnthi pavntwç
e Heraclit 22 B 41 pavnta dia; pavntwn. La particella per ha funzione
intensiva, non concessiva.
3. Dissuadendo
19. Soprattutto sulla base del confronto con Pind. Ne. 5.16–7 ou[ toi
a{paça kerdivwn faivnoiça/provçwpon jAlavqeiΔ ajtrekevç opto con
Passa 2009: 63–5 per la lezione ajtrekevç di una parte della tradizione
manoscritta di Sesto Empirico e di quella di Plut. Col. 1114d (il resto della
tradizione ha ajtremevç, generalmente accolto dagli editori).
20. È stato sostenuto, nel quadro della disposizione dei frammenti
adottata in Diels–Kranz, che questa ‘prova’ si riferisce a una sezione
precedente del discorso della dea (Mansfeld 1964: 43–4, Mourelatos 1970:
90–1, Coxon 1986: 192), in particolare a B 2, ma è del tutto improbabile
che fosse identificata con un poluvdhriç e[legcoç un’argomentazione
così succinta come quella contenuta in B 2. Un’approfondita messa in
atto dell’accertamento dell’essere avviene solo, per quanto ci risulta, in
B 8 (Curd 1998: 62), e il participio aoristo rJhqevnta può avere funzione
‘prospettica’ (la prova che ti sarà stata addotta).
b (= B 7.1–2 + B 8.1b–1a)
7.1 ouj ga;r mhvpote tou`to damh`i ei\nai mh; ejovnta:
7.2 ajlla; çu; th`çdΔ ajfΔ oJdou` dizhvçioç ei\rge novhma.
..............................................................
8.1b ............................ mou`noç dΔ e[ti mu`qoç oJdoi`o
8.2a leivpetai wJç e[çtin:
7.1 Mai sarà dimostrato che siano le cose che non sono,
7.2 ma tu distogli l’attenzione da questa via di ricerca.
.....................................................................
8.1b ............................... così resta solo l’annuncio
22
8.2a di una via: che è lecito.
21. Kingsley 2003: 128–50 e 566–68 ha osservato che lovgwi non può
significare, come spesso si intende, «ragione» perché questa è una valenza
che non si affaccia prima di Platone, bensì «talk», «discussion», e pertan-
to ha proposto di emendare lovgwi in lovgou sostenendo che non può
trattarsi di un invito della dea a discutere la questione con lei. Di qui la
traduzione: «judge in favor of the highly contentious demonstration of
the truth contained in these words as spoken by me» (vedi anche Gemelli
Marciano 2008: 40 n. 55). Kingsley ha portato valide obiezioni alla resa di
lovgoç come «ragione» e a favore di kri`nai come «judge in favor of» (o
«scegli», cf. Hom. Il. 9.521), ma la difficoltà si può risolvere, senza alterare
il testo tramandato, collegando lovgwi non a kri`nai ma a rJhqevnta (cf.
Aesch. Ag. 1052 levgouça peivqw nin lovgwi, Herodot. 1.95.1 to;n ejovnta
lovgon levgein).
22. Sul valore di e[çtin in questo passo vedi IV § 6.
e 31 B 35.1–2:
aujta;r ejgw; palivnorçoç ejleuvçomai ejç povron u{mnwn,
to;n provteron katevlexa, lovgou lovgon ejxoceteuvwn
Ma ecco che io indietro tornerò arrivando degli inni al passo
che prima esposi, discorso dall’alveo di discorso derivando.
(Tr. di A. Lami)
27. Come scrive Palmer 1999: 45, «the object of knowledge must have
been a stable or necessary mode of being».
eij de; dhv ti ou{twç e[cei wJç ei\naiv te kai; mh; ei\nai,
ouj metaxu; a]n kevoito tou` eijlikrinw`ç o[ntoç kai; tou`
au\ mhdamh`i o[ntoç…
e se poi qualosa è nella condizione di essere e non essere, non
si trova forse a mezza via fra ciò che assolutamente è e ciò
che assolutamente non è?
4. Vicoli ciechi
28. Per pavntwn maschile piuttosto che neutro vedi Stokes 1960.
5. La poetica dell’inganno
31. Il nesso kovçmon ... ejpevwn rappresenta una iunctura più volte repli-
cata o variata (cf. Sol. fr.1.2 W.2, Pind. fr. 194.3 M., Democr. 68 B 21, OF 25 F,
Philit. fr. 10.3 CA e vedi Cerri 1999: 243–44), ricollegabile anche alla locuzi-
one epica kata; kovçmon, che troviamo applicata alla sfera del linguaggio
in Hom. Il. 2.214 e Od. 7.189, 8.489, 14.363.
32. Nel commento Ruggiu (Reale–Ruggiu 1991: 310–13) dice che «la
doxa appare come il campo nel quale si manifesta la seduzione di una fi-
ducia che si affida agli aspetti più appariscenti, quindi non fondati, e che,
proprio per questo, ‘possono’ anche produrre inganno». Ma questa rifor-
mulazione circoscrive di molto la semantica di ajpathlovn, e oggetto del
discorso non è tanto la doxa quanto il cosmo di parole della dea, cioè la
costruzione di un ordine verbale che ha un effetto ingannatore perché non
corrisponde a un cosmo reale ma solo «plausibile» (per altro ejoikovta del v.
60 viene sorprendentemente tradotto da Reale con «veritiero»).
33. Non è necessario vedere in Empedocle una ripresa polemica: egli
oppone il suo discorso veritiero all’incapacità umana di percepire i moti
circolari di Afrodite, promotrice di inganni e illusioni (vv. 25–6 th;n ou[
tiç meta; toi`çin eJliççomevnhn dedavhke ⁄ qnhto;ç ajnhvr), mentre
Parmenide dichiara apertamente, attraverso la voce della dea, di inoltrarsi
sulla via delle doxai (vedi Kingsley 2003: 458–61).
34. E cf. anche Py. 2.74–5, dove di Rhadamanthys si dice che oujdΔ ajpavtaisi
qu-|mo;n tevrpetai e[ndoqen, e per il motivo Ne. 7.20–4 e fr. 205 M.
39. Costruzione simile, ma con ejpiv e il dativo (non con il dativo sem-
plice), troviamo in Emped. 31 B 8.4 fuvçiç dΔ ejpi; toi`ç ojnomavzetai
ajnqrwvpoiçin «nascita per queste cose è il nome in uso fra gli uomini».
41. Cf. ad esempio Aristoph. Th. 549 s. mivan ga;r oujk a]n ei[poiç |
tw`n nu`n gunaikw`n Phnelovphn, Plat. Rsp. 423a ou{tw ga;r megavlhn pov-
lin mivan ouj rJaidivwç ou[te ejn ”Ellhçin ou[te ejn barbavroiç euJrhvçeiç,
Xenoph. An. 5.6.12 wJç ajriqmw`i e{na mh; kataleivpeçqai ejnqavde e vedi LSJ
s.v. ei|ç 1d e Cornford 1933: 108–9 («‘for mortals have laid down their deci-
sion to name two forms, of which it is not right to name (as much as) one ...
mortals are wrong to name any ‘Forms’ at all»), Untersteiner 1958: 151 («non
uno di questi due (elementi) dovrebbe esservi»), Sedley 1999: 124.
42. Basti ricordare l’incipit dell’Enuma elis («Quando in alto il cielo non
era stato ancora nominato / e, sotto, la terra non era stata chiamata con
un nome ...») e Is. 55.10–1 (e cf. anche Gv 1.1 e Gv Ep. 1). Ma l’idea è radicata
anche in India dove il regno della pluralità è denominato namarupa «nome
e forma» (vedi MacEvilley 2002: 58).
43. Cf. Meliss. 30 B 2 D.–K. o{te toivnun oujk ejgevneto, e[çti te kai;
ajei; h\n kai; ajei; e[çtai e vedi Betegh 2004: 194–95, Kouremenos in KPT
2006: 217–18.
44. D’altra parte, se è palese l’analogia fra l’Aêr del commentatore di
Derveni (un Aêr che, come il Nous di Anaxag. 59 B 14, esiste da sempre)
e l’essere parmenideo, per il primo l’Aêr / Nous è realmente soggetto a
50. Il confronto con Emped.31 B 17.21 th;n çu; novwi devrkeu, mhdΔ
o[mmaçin h́ ~Jço teqhpwvç (dove anche teqhpwvç richiama Parmenide, cf.
28 B 6.7 kwfoi; oJmw`ç tuf loiv te, teqhpovteç) indurrebbe a collegare
novwi a leu`ççe («osserva per mezzo dell’intuizione» Untersteiner 1958:
133, «schaue mit dem Geist» Kranz), ma questa soluzione cozza contro
l’ordine delle parole, con novwi incapsulato fra ajpeovnta e pareovnta.
51. Credo che oJmw`ç, da confrontare con oJmw`ç di B 6.7 e B 8.49 e con
oJmou` di B 9.3, sia da preferire a o{mwç come interpretazione della parado-
sis perché sottolinea la simultanea lontananza (nello spazio illusorio delle
doxai) e co–presenza (nello spazio mentale) delle cose esistenti.
52. Sull’opportunità di restituire -xhi come seconda persona singo-
lare media rispetto all’atticismo -xei dei manoscritti di Clem. Strom. 5.15
(-xeiç Brandis 1813) vedi Diels 1897: 64 e Passa 2009: 32–3.
53. Per kovçmon come «ordinamento cosmico», «universo» cf. Anaxag.
59 B 8, Hp. Nat. hom 7 e vedi Cerri 1999: 196–200, Andò 2002: 79–80.
54. La ‘continuità’ (to; çunecevç come in Parmenide) sarà definita da
Aristot. Phys. 227a10–15 come una forma di contiguità in cui il limite dove
due oggetti si toccano diventa uno e identico (su questo e analoghi concetti
aristotelici di spazialità vedi l’approfondita disamina di White 1992: 7–72).
1. Il programma
81
2. Anelli cosmici
6. L’aoristo radicale plh` n to (cf. Hes. Th. 688 mev n eoç plh~ n to
frevneç) è correzione di Th. Bergk (1842), seguito da Diels–Kranz, sulla
base di una tradizione manoscritta (quella di Simpl. Phys. 39.12) divisa
fra pavhnto e puvhnto. Successivamente (1864) lo stesso Bergk propose
il perfetto plh`ntai «sono colme» (variante senza raddoppiamento di
pev p lhntai), e l’ipotesi è stata ripresa da Fränkel 1960: 183 n. 1 anche
con il richiamo al presente i{etai del v. 2. L’anomalia metrica per cui la
seconda sillaba di plh`nto deve essere scandita come lunga pur essendo
seguito da una sola consonante fu spiegata da Diels 1897: 106 per analo-
gia con passi omerici (Il. 17.499 ajlkh`ç kai; çqevneoç plh`to frevnaç
aj m f i; melaiv n aç, 18.50, 23.777) in cui plh` t o appare collocato nella
stessa posizione del verso (ma seguito da doppia consonante). Lo stesso
Diels motivava il contrasto con il presente i{etai nel senso che plh`nto
deve riferirsi alla fase cosmogonica, i{etai all’assetto attuale («der jetzige
Zustand») del cosmo, come in effetti sembra confermato dal presente
a[rcei del v. 4.
7. Scrivo per congettura pavntΔ e[rga (con eliminazione della pausa abitu-
almente posta dagli editori dopo kuberna`i) per pavnta ga;r o pavntwn ga;r
(pavntwn il solo W, un manoscritto conservato a Mosca, vedi Sider 1979)
della tradizione manoscritta di Simpl. Phys. 31.10 (pavnta ga;r comporta
un’impossibile sequenza iniziale – + – , pavntwn sembra essere una congettura
bizantina). Per e[rga cf. 28 B 10.3 e 4, per la costruzione di a[rcw con l’accusativo
Pind. Ne. 3.10–1 a[rce ... u{mnon, Soph. El. 552–53 wJç a[rxaçav ti| luphrovn.
Karsten 1835, seguito da D.–K., integrava pavnta ga;r ãh}Ã (con problematico
ordine delle parole), Cerri 1999: 271 ha proposto pavnqΔ h} ga;r.
3. Al centro
4. Trasmigrazioni
13. Si è spesso sospettata la lezione ejx hJlivou, sostituita con ejx ijluvoç
nell’edizione Frobeniana di Diogene (ejk phlou` Ziegler), e in effetti Cen-
sor. 4.7.8 = 28 A 51 riferisce che Empedocle si differenziava solo per minimi
dettagli dall’opinione di Parmenide nel ritenere che primo membra singula
ex terra quasi praegnate passim edita, deinde coisse et effecisse solidi hominis
materiem igni simul et humori permixtam (cf. 31 A 72). Ma ejx hjlivou può
esprimere l’idea che gli uomini uscirono dalla terra in virtù del calore so-
lare, e questo calore sarebbe stato l’agente demiurgico dell’antropogonia
in accordo con la frase immediatamente precedente (duv o te ei\ n ai
çtoicei`a, pu`r kai; gh`n, kai; to; me;n dhmiourgou` tavxin e[cein,
th;n de; u{lhç), vedi Naddaf 2005: 138. Nel papiro di Derveni (col. 14.2–4)
ejx hJlivou dell’inno oggetto di commento viene parafrasato dall’autore del
trattato con dia; to;n h{lion.
Quanto al seguente aujtovn, esso è stato giustamente sospettato (varie
le proposte di correzione: ai[tia Diels, taujtovn Usener, prw`ton Von der
Mühll con eliminazione del prw`ton precedente), e non è consigliabile, a
meno di ammettere una strana sciatteria, riferirlo a un a[nqrwpon «dedu-
cibile da ajnqrwvpwn che precede» (Untersteiner 1958: CCII n. 125). A me
sembra probabile che la lezione primitiva fosse a[nqrwpon, facilmente cor-
rottosi in aujtovn perché trascritto nella tipica forma abbreviata a—n—q—o—n—.
15. Cf. Pind. fr. 137.2–3 M., l’incipit della lamina aurea OF 485 F, Isocr.
Pan. 28 e vedi Cannatà Fera 1990: 208–9.
16. A favore della presenza di questo motivo si sono pronunciati fra gli
altri Rohde 1916: 489, Burkert 1969: 28–9, Sassi 1988b: 393, McEvilley 2002:
111, in senso contrario Guthrie 1979: 70 e Cerri 1999: 271–72.
5. Maschi e femmine
6. Sorteggi e lotti
18. Conforme alla versione («the fate of everything she holds in her
hand») di F.J. Stephens in ANET: 383. A questa funzione possiamo ricol-
legare anche l’iscrizione posta sulla base della statua di Afrodite opera di
Alcamene (seconda metà del V secolo a.C.) collocata accanto al tempio
ateniese della dea nella zona detta ejn khvpoiç, dove secondo Paus. 1.19.2 la
dea era detta «la più antica delle Moire».
19. Per moirw`n come le tre parti dell’universo piuttosto che le tre
Moire vedi Ricciardelli 2000: 441.
20. Basti ricordare la distinzione ajpoikivaiç kai; klhroucivaiç in IG
I2 140.9 (Graham 1964: 167–191). Tuttavia l’opposizione terminologica ap-
pare molto più netta nelle fonti epigrafiche che in quelle letterarie e oc-
corre distinguere fra le cleruchie ateniesi del quarto secolo a.C. e quelle
anteriori (la più antica ‘cleruchia’ di cui abbiamo notizia è quella insediata
dagli Ateniesi sul territorio degli Hippobotai di Calcide nel 506 a.C., cf.
Herod. 5.77.2).
21. Il verbo kubernavw e il suo sinonimo oijakivzw erano già stati usati
in relazione al tutto o al cosmo da Heraclit. 22 B 41 ei\nai ga;r e}n to;
çofovn, ejpivçtaçqai gnwvmhn, oJtevh ejkubevrnhçe pavnta dia; pavntwn
e B 64 ta; de; pavnta oijakivzei Keraunovç.
22. Aezio aggiunge che Parmenide dà alla dea anche il nome di Dikê e
di Anankê, ma si tratta verosimilmente di un’identificazione forzata fra la
daimôn e due solidali ma diverse figure indotta dal ruolo assegnato a Dikê
in B 1.14 e ad Anankê in 8.30 e in B 10.6. Sull’arbitrarietà di una unificazione
sommaria e generalizzante fra le varie figure divine del poema vedi Cerri
1999: 268–69.
23. Eros è presentato più volte come figlio di Afrodite a partire da Si-
mon. 575.1 PMG çcevtlie pai` dolomhde;ç jAfrodivtaç, vedi Cerri 1999:
267–68 e Pontani 2007.
24. Il verso relativo all’origine di Eros doveva essere seguito da un
catalogo di figure divine, forse organizzate per coppie di contrari, come
quelle elencate in Cic. Nat. deor. 1.11.28 (= 28 A 37):quippe qui Bellum,
qui Discordiam, qui Cupiditatem ceteraque generis eiusdem ad deum revocat
(cf. Hes. Th. 211 ss., Emped. 31 B 122 e 123 e vedi Reinhardt 1916: 18 e
Northrup 1980).
25. Per una dettagliata discussione del passo, incentrata sulla questione
se l’Uno vada inteso in senso numerico, vedi Schibli 1996, per la connes-
sione tra Filolao e Parmenide Kirk–Raven–Schofield 1983: 259 e Ruggiu in
Reale–Ruggiu 1991: 342–43.
26. Cf. 58 B 37, dove si dice che i Pitagorici italici facevano della terra
una delle stelle e la immaginavano ruotare intorno a un centro igneo, e
inoltre postulavano una anti–terra opposta al nostro pianeta.
trono al centro
27
del cosmo (v. 5 hê katecheis kosmoio meson
thronon).
Se Afrodite era insediata al centro del cosmo possiamo
individuare la sua ‘cleruchia’ più esterna grazie alla testi-
monianza di Aet. 2.15.4 = 28 A 40a:
Parmenivdhç prw`ton me;n tavttei to;n ÔEw`ion, to;n
aujto;n de; nomizovmenon uJpΔ aujtou` kai; ”Eçperon, ejn
tw`i aijqevri: meqΔ o}n to;n h{lion, uJfΔ wJ~i tou;ç ejn tw`i
purwvdei ajçtevraç, o{per oujrano;n kalei`
Parmenide assegna dapprima il suo posto nell’etere a Heôs,
che da lui è anche considerata identica a Espero, e dopo
Heôs al sole e, al di sotto di questo, agli astri, che si trovano
nell’elemento igneo che chiama ‘cielo’.
27. Vedi Ricciardelli 2000: 338 e 528–29 e Kingsley 2003: 577. Per altro
l’idea di un fuoco sotterraneo è implicita già in Pindaro quando nel fr.
133.2–3 M. presuppone l’esistenza di un doppio sole, uno per i viventi e
uno per i morti.
28. L’attribuzione alternativa della scoperta a Pitagora in D. L. 9.23 =
28 A 1 potrebbe dipendere dal fatto che alcuni, come viene riferito nello
stesso contesto, attribuivano il poema parmenideo appunto a Pitagora.
8. Polisemia di Afrodite
9. L’uovo cosmico
uovo (totalità)
Eros o Phanês
universo esistente
corrisponde quella
essere (totalità)
Afrodite ed Eros
universo esistente
39. Come ha scritto Pugliese Carratelli 1990: 88, lo storico «ha ragione
di valersi dell’Odissea come di un’interpretazione di idee e di iniziative che
caratterizzarono il mondo greco nell’età dei grandi viaggi ‘precoloniali’ e
coloniali, nel Ponto nell’Egeo nei mari occidentali».
Atemporalità e aspazialità
1. Atemporalità o durata?
121
2. Resistenze
382, e[çti gavr sono chiaramente parole di Plutarco stesso (tou` nohtou`
dΔ e{teron eij~doç, e[çti ga;r oujlomelevç te kai; ajtreme;ç ktl.); del
resto mounogenevç, che compariva nella stessa sede del verso in Hes. Th.
426, può significare semplicemente «unico».
ed incompiuto
mai è stato o sarà.
3. Hic et nunc
«ArΔ ou\n e[çti to; a[topon tou`to, ejn wJ~i tovtΔ a]n ei[h,
o{te metabavllei…
– To; poi`on dhv…
– To; ejxaivfnhç. to; ga;r ejxaivfnhç toiovnde ti e[oike çhmaivnein,
wJç ejx ejkeivnou metabavllon eijç eJkavteron. ouj ga;r e[k ge tou`
eJçtavnai eJçtw`toç e[ti metabavllei, oujdΔ ejk th`ç kinhvçewç
kinoumevnhç e[ti metabavllei: ajlla; hJ ejxaivfnhç au{th fuvçiç
a[topovç tiç ejgkavqhtai metaxu; th`ç kinhvçewvç te kai;
çtavçewç, ejn crovnwi oujdeni; ou\ça, kai; eijç tauvthn dh; kai;
ejk tauvthç tov te kinouvmenon metabavllei ejpi; to; eJçtavnai
kai; to; eJçto;ç ejpi; to; kinei`çqai.
– Esiste dunque questa strana cosa in cui l’Uno è anche quan-
do muta?
– Di che si tratta?
– Dell’istante. Infatti l’istante sembra denotare qualcosa di
simile in quanto una cosa trapassa nell’una o nell’altra con-
dizione. Non dall’essere in quiete, che persiste immobile, ha
infatti origine il mutamento, né dal moto ancora in movimen-
to, ma questa strana proprietà dell’istante sta nel mezzo fra
moto e quiete e non appartiene ad alcuna temporalità, ma in
virtù dell’istante ciò che è in moto trapassa nella quiete e ciò
che è in quiete trapassa nel moto.
4. «Ascoltò Senofane»
mnhvmhn th`ç touvtou dovxhç. to; ga;r e}n tou`to kai; pa`n
to;n qeo;n e[legen oJ Xenofavnhç, o}n e{na me;n deivknuçin
ejk tou` pavntwn kravtiçton ei\nai: pleiovnwn gavr, fhçivn,
o[ntwn oJmoivwç uJpavrcein ajnavgkh pa`çi to; kratei`n: to;
de; pavntwn kravtiçton kai; a[riçton qeovç.
Un unico principio, e cioè che l’essere è uno e tutto (e non
definito né indefinito né in movimento né in quiete), Teofra-
sto dice che viene posto da Senofane di Colofone, il maestro
di Parmenide, riconoscendo che il richiamo alla sua opinione
appartiene 3a una trattazione diversa rispetto a quella intorno
alla natura. Infatti questo ‘uno’ e ‘tutto’ Senofane lo denomi-
nava ‘dio’ mostrando che è uno in base al fatto che domina su
tutti: trattandosi infatti — dice — di una pluralità spetterebbe
necessariamente a tutti di prevalere, ma ‘dio’ è ciò che fra tutti
è più forte e migliore.
o 21 B 24:
ou\loç oJra`i, ou\loç de; noei`, ou\loç dev tΔ ajkouvei.
(Il dio) intero guarda, intero pensa, intero ascolta.
5. Aspazialità
Pur riprendendo5
lungo la Via delle doxai spunti dei suoi
predecessori, si astiene dal discutere la validità delle loro
tesi: pensa semplicemente che il problema è mal posto
perché non c’è né inizio né fine, né principio né termine.
L’essere non ha avuto origine né cesserà di essere, non è
la trasformazione di qualcos’altro né diventerà altro. Per
dirla con Graham 2006: 186, «Parmenides spends no time
on the Problem of Primacy: the question of which basic
substance is the generating substance does not arise for
him».
D’altra parte distinguere fra territorio dell’essere e
territorio del non–essere non è operazione né facile né
rapida.
Una tipica applicazione del metodo parmenideo, su cui
ha giustamente insistito Popper 1998, è la scoperta che la
luna non è dotata di luce propria (28 B 14):
nuktifae;ç peri; gai`an ajlwvmenon ajllovtrion fw`ç
notturna luce altrui che vaga intorno alla terra
e 28 B 15:
aijei; paptaivnouça pro;ç aujga;ç hjelivoio
sempre guardando verso i raggi del sole.
6. Il soggetto smarrito
fra i casi in cui esti «è» o ouk esti «non è» non hanno sog-
getto esplicito (B 2.3 e 5 e B 8.2) e quelli in cui il soggetto,
espresso o agevolmente deducibile dal contesto, è (to) eon
«ciò che è», «l’essere», e con la precisazione che all’inter-
no di questi ultimi bisogna distinguere quelli in cui esti è
predicato verbale (B 6.1–2, B 7.1 e B 8.5, 9, 11, 16, 46) e
quelli in cui funziona da copula (B 8.3–5, 22–25, 32–33,
42, 45, 48).
Consideriamo dunque i due casi in cui il soggetto di
esti non è espresso né appare sottinteso (lasciando per il
momento impregiudicati, nella traduzione, sia l’eventuale
soggetto implicito sia la valenza di esti):
B 2.1–5:
eij dΔ a[gΔ ejgw;n ejrevw, kovmiçai de; çu; mu`qon ajkouvçaç,
ai{per oJdoi; moun` ai dizhvçiovç eijçi noh`çai:
hJ me;n o{pwç e[çtin te kai; wJç oujk e[çti mh; ei\nai,
Peiqou`ç ejçti kevleuqoç (ΔAlhqeivh ga;r ojphdei`),
5 hJ dΔ wJç oujk e[çtin te kai; wJç crewvn ejçti mh; ei\nai. 5
8
Ebbene, io ti dirò, e tu riporta con te il mio ragionamento,
quali siano le uniche vie di ricerca idonee a pensare:
l’una secondo cui esti e non è possibile che non esti,
9
ed è la strada di Persuasione (Verità è compagna di viaggio ),
5 l’altra secondo cui non esti ed è necessario che non esti. 5
B 8.1–2:
8. Sul valore di kovmiçai come «take away» vedi Kingsley 2003: 563–64.
La stessa forma è riemersa nella stessa sede dell’esametro nel cosiddetto
‘Empedocle di Strasburgo’ (B 17.299 nella numerazione di Janko 2004): ejk
tw`n ajyeudh` kovmiçai freni; deivgmata mªuvqwn.
9. Diels–Kranz e molti altri accolgono la correzione (o, piuttosto,
l’interpretazione della tradizione) jAlhqeivhi (Bywater), ma il nominativo
si può conservare, tanto più che ojphdevw e ojphdovç sono talora riferiti a
una divinità «who manifests his approval (by standing near) of either a
lesser divinity or a mortal» (Sider 1985: 363).
10. In realtà si tratta fondamentalmente dello stesso uso in quanto e[çti vi-
ene ad assumere la valenza di licet sulla base di «c’è per», e nel nesso e[çti poiei`n
«è lecito fare» o sim. l’infinito ha funzione ‘dativale’ (vedi sopra I § 7).
Il ritorno
141
hJ çuvn≥ªodoç- - - ejtivmhçen- - -º
Oujliav≥ªdhn- - -
ijatrovm≥ªantin- - -
jApovllwªnoç- - -
ajºndrw`n- - -
kºai; ajret≥ªh`ç ei{neka
L’associazione [... ha onorato ...]
Ouliadês ...
medico indovino ...
di Apollo...
degli uomini ...
e [per] la virtù ...
2. Parmenide medico–indovino
4. Per una sintesi sugli Asclepiei nel quadro delle istituzioni terapeu-
tiche del mondo antico vedi Risse 1999: 15–38.
5. Nelle Sentenze composte fra il 1048 e il 1049 dall’erudito siro–egiziano
al–Mubassir Parmenide compare come quarto in una successione, sia pure
semimitica, di grandi medici greci che comincia con Asclepio I, Ghuros e Mi-
nosse (forse corruzione dell'egizio Menes) e termina con Ippocrate e Galeno
(Pugliese Carratelli 1990: 269–80).
6. «Dicono alcuni medici e sapienti che non sarebbe possibile sapere
la medicina per chi non sa che cosa è l’uomo, ma è questo che deve com-
prendere chi dovrà correttamente curare gli uomini. Il loro discorso tende
così alla filosofia, come per Empedocle e per altri che, intorno alla natura,
hanno scritto a partire dal principio che cosa è l’uomo e come si formò
dapprima e da che cosa si è costituito. Ma io tutte le affermazioni di questi
sapienti o di questi medici o quanto è stato scritto intorno alla natura con-
sidero che meno attengano all’arte medica che a quella della pittura, e pen-
so che non sia possibile attingere conoscenze evidenti intorno alla natura da
niente altro che dalla medicina» (tr. di A. Lami). Su questa contrapposizione
tra ‘filosofia’ e ‘medicina’ ormai consolidate come scienze autonome (e in
reciproca concorrenza) vedi Di Benedetto 1986: 210–11 e Sassi 1988: 248–50.
7
3. Il proemio
4. L’itinerario
12. Mourelatos 1970: 26: «here is no indication that these are distinct
figures, and it is most natural to assume that we are dealing with four or
five aspects or hypostases of one and same deity». La tesi della polimorfia
divina ha una lunga storia e dopo Mourelatos è stata riproposta da Ruggiu
in Reale–Ruggiu 1991: 165–168 e 182–192, ma contestata da Pugliese Car-
ratelli 1990: 422 osservando che «nel poema parmenideo le figure divine
sono distinte, e operano distintamente» (tuttavia l’identificazione della
qeav del v. 22 da parte del medesimo studioso con Mnemosyne si basa es-
senzialmente sulla ricognizione di tratti orfici in Parmenide e sul ruolo di
Mnemosyne nelle lamine di Hipponion, Petelia, Farsalo ed Entella, non su
specifici elementi interni).
13. Cerri 1999: 174 osserva giustamente che «questo avverbio locativo,
quando è impiegato in contesti relativi all’Ade, era andato acquisendo
una pregnanza particolare, una connotazione aggiuntiva: lì, nell’Ade, al
centro dell’universo, nel regno della morte ma anche della vita, perché
luogo–spazio in cui hanno inizio tutte le cose» e rimanda, in particolare, ai
sette casi di e[nqa a principio di verso che ricorrono in Hes. Th. 729–811.
lia (per Tarán 1965: 31 l’esperienza raccontata nel proemio sarebbe invece
«only a literary device»), ma che le cavalle sono figure che traducono
all’interno di una condizione visionaria lo slancio interiore dell’Io nar-
rante.
16. Cf. anche Pind. Isthm. 8. 58 qrh`novn te poluvfamon e vedi Burkert
1969: 4, Pfeiffer 1975: 33–35, Cerri 1999: 167.
19. E cf. anche Od. 9.127–28, 15.82 e 491–92, 16.63, 19.170 e 23.267–68,
Hymn. Ap. 174–75 hJmei`ç dΔ uJmevteron klevoç oi[çomen o{ççon ejpΔ aiΔ ~an ⁄
ajnqrwvpwn çtrefovmeçqa povleiç eu\ naietawvçaç, Herodot. 1.5.3 oJmoivwç
çmikra; kai; megavla a[çtea ajnqrwvpwn ejpexiwvn. Specificamente co-
mune a 28 B 1.1–2 e Od. 1.1–3 è però la presenza di ejpeiv nella stessa sede al
secondo verso dopo un predicato verbale in enjambement (rispettivamente
pevmpon e plavgcqh). D’altra parte, come notava Havelock 1958: 136–37, le
‘città’ a cui fa riferimento il proemio dell’Odissea sono quelle che, secondo
la profezia di Tiresia (11.119 ss., cf. 23.248 ss.), Odisseo dovrà affrontare dopo
il suo ritorno a Itaca.
20. Anche se il testo di questa lamina del Timpone grande di Thurii
che, ripiegata nove volte, fungeva da involucro di un’altra lamina (OF 487
F) è estremamente problematico, la sequenza in questione, benché non
accolta del tutto da Bernabé (che stampa }Hlie, pu`r dh; pavntaÇTH),
è fra le meno problematiche del pezzo ed è stata recepita, dopo Diels e
Zuntz, anche da Pugliese Carratelli 2005.
21. Vedi Burkert 1989: 185 n. 23 e Merkelbach 1995: 227–29 anche per la
conservazione di a[çtea, mutato da Wilamowitz (seguito da Heitsch) in
a[çtra.
22. Che il carro delle Eliadi sia un carro volante è già implicito nel fatto
che la presenza stessa delle Eliadi rimanda al carro del Sole (o di Aurora),
ma è anche presupposto dalla menzione, al v. 18, dell’enorme abisso che si
spalanca oltre la porta sorvegliata da Dike.
23. Per il confronto fra la versione di Erodoto e quella di altre fonti vedi
West 2004.
24. Cf. Ol. 3.26, 6.35, 7.34, Py. 4.4 e Pae. 12.8. Ma è da richiamare anche
l’e[nqa che al v. 4 della lamina di Hipponion (OF 474 F) introduce la vi-
sione delle anime dei defunti che si refrigerano alla sorgente del cipresso
bianco.
5. La dea del v. 3
27
L’appartenenza alla dea della via su cui il ‘sapiente’
procede viene sottolineata al v. 3 da un enjambement en-
fatizzato dalla distanza fra «via» e daimonos. Segue la frase
6. La dea del v. 22
32. Cerri 1999: 180–182 sostiene la sua identificazione della qeav con
Persefone (proposta indipendentemente anche da Kingsley 1999: 104 ss. e
accolta da Gemelli Marciano 2008: 35–6) ricordando che «nei culti misterici
gli dei titolari venivano abitualmente chiamati oJ qeovç, hJ qeav, tw; qewv,
oiJ megavloi qeoiv etc.» e che «nelle città della Magna Grecia non è dif-
7. Luce e tenebra
E 1.123.7:
8. La dea e le doxai
Il tragico
1. La frontiera
173
2. Dilemmi
essa egli ritiene che dovrebbero essere contrapposti modelli più articolati,
aperti alla considerazione di aspetti pratici e desiderativi di action–theory.
In questa prospettiva i quattro monologhi omerici a cui abbiamo fatto
riferimento si configurerebbero come monologhi che, prendendo in con-
siderazione i mezzi in vista di un fine, sarebbero riconducibili all’analisi
degli atti decisionali svolta da Aristot. Metaph. 1032b6–9: «the speakers
work out the likely consequences of an available course af action (in the
process, establishing whether these courses of action are really available),
and evaluate them in the light of explicit or implied goals. The markedly
syllogistic form of Aristotle’s accounts of deliberation is partly anticipated
by the typical formulation of the Homeric reasoning: ‘if I do x, then y will
happen, and this involves z, which is good or bad’» (Gill 1996: 54). Tuttavia
Gill taglia fuori dalla sua analisi la diversità individuabile nella tragedia (e
all’interno stesso dei diversi poeti tragici) rispetto all’epica, e c’è anche
da notare la contraddizione per cui, mentre alle tensioni interne alla cul-
tura moderna da Cartesio ai nostri giorni egli giustamente attribuisce un
ruolo significativo nella promozione di una nuova consapevolezza delle
motivazioni dell’agire, per la cultura greca presuppone un modello com-
portamentale sostanzialmente impermeabile ai cambiamenti nel tempo
e nello spazio.
6. Qui i peivrata sono ‘limiti’ nel senso di ‘capi’, come in una corda, e
lovgon significa «misura», come in 21 B 31 (Marcovich 1978: 257).
3. Un’identità perduta
Sul contrasto parmenideo fra alêtheiê e doxa gravita tut-
ta la prima parte dell’Elena di Euripide, messa in scena nel
4. La verità di Edipo
191
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