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Franco Ferrari
Il migliore dei mondi impossibili
Parmenide e il cosmo dei Presocratici

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via Raffaele Garofalo, 133 / A–B


00173 Roma
(06) 93781065

isbn 978–88–548–3395–1

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,


di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopie


senza il permesso scritto dell’Editore.

1 edizione: luglio 2010

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Indice

07 Presentazione

13 Capitolo I
Fallacia cognitiva e rifondazione del noos

1. La fusione degli elementi, 13 – 2. Testimoni, 15 – 3. Dubbi


sintattici, 18 – 4. Un frammento erratico, 20 – 5. Simile con
simile, 24 – 6. Fra le onde del sangue, 26 – 7. Essere e pensare,
30 – 8. Il proemio della Via delle doxai: testo e traduzione, 35

39 Capitolo II
La Via delle Illusioni
1. La mappa delle vie, 39 – 2. La mappa dei frammenti, 42 – 3.
Dissuadendo, 46 – 4. Vicoli ciechi, 56 – 5. La poetica dell’in-
ganno, 60 – 6. Forme, nomi, percezioni, 65 – 7. Analogie e
tessere formulari, 68 – 8. Ordine esplicito e ordine implicito,
71 – 9. Falso, vero, plausibile, 76

81 Capitolo III
Afrodite timoniera del cosmo
1. Il programma, 81 – 2. Anelli cosmici, 85 – 3. Al centro,
90 – 4. Trasmigrazioni, 92 – 5. Maschi e femmine, 98 – 6.
Sorteggi e lotti, 100 – 7. Identità e domicilio della dea, 103 –
8. Polisemia di Afrodite, 106 – 9. L’uovo cosmico, 110 – 10.
Madrepatria e colonie, 114

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121 Capitolo IV
Atemporalità e aspazialità
1. Atemporalità o durata?, 121 – 2. Resistenze, 122 – 3. Hic et
nunc, 125 – 4. «Ascoltò Senofane», 128 – 5. Aspazialità, 132 –
6. Il soggetto smarrito, 134

141 Capitolo V
Il ritorno
1. Il santuario di Asclepio a Velia, 141 – 2. Parmenide medi-
co–indovino, 144 – 3. Il proemio, 147 – 4. L’itinerario, 150
– 5. La dea del v. 3, 163 – 6. La dea del v. 22, 166 – 7. Luce e
tenebra, 168 – 8. La dea e le doxai, 171

173 Capitolo VI
Il tragico
1. La frontiera, 173 – 2. Dilemmi, 175 – 3. Un’identità perdu-
ta, 184 – 4. La verità di Edipo, 186

191 Congedo

197 Bibliografia

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Presentazione

Esistono sempre mille connessioni fra


due vite separate — vicine, lontane,
sovrapposte, tangenziali — anche se
rimangono sconosciute o passano
inosservate: una grande rete invisibile
di ‘quasi’, di quel che non è stato e
di quello che avrebbe potuto essere.
Di quando in quando, nella vita di
ognuno di noi, la rete diventa visibile
per un attimo o due, e riconosciamo
l’occasione con un sussulto di sbalor-
dimento felice o con un fremito di
disagio soprannaturale. Le complesse
interconnessioni dell’esistenza umana
possono essere rassicuranti o inquie-
tanti, a seconda dei casi.

William Boyd, Una tempesta qualunque


(2009)

Un nuovo libro su Parmenide e i Presocratici?


Del sapiente di Velia i papiri non ci hanno restituito nuovi
testi, com’è avvenuto invece negli ultimi decenni per il com-
mentario orfico del papiro di Derveni e per Empedocle con il
papiro di Strasburgo, e per altro verso il suo pensiero e la sua
opera sono stati studiati a fondo da studiosi della più diversa
formazione: non solo in chiave idealistica, materialistica,
logica, esistenzialistica, pragmatica, storico–politica (terreni
tradizionali della storiografia filosofica), ma anche filologica,
archeologica, epigrafica, religiosa, mistica, retorica.
Gli angoli più nascosti dei frammenti e delle testimonianze
sono stati perlustrati con un puntiglio per cui, su alcuni nodi
esegetici, si ha la sensazione di non poter far di meglio che

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8 Il migliore dei mondi impossibili

ripercorrere la storia della questione, e anche i rapporti con fi-


gure più recenti del pensiero greco (in particolare, Empedocle,
Platone, Aristotele, Plotino) sono stati scandagliati a fondo.
Credo tuttavia di poter dire che due ordini di ragioni giustifi-
cano un nuovo confronto con Parmenide e le sue questioni.
La prima ragione, che percorre sottotraccia tutto il mio
discorso affiorando qua e là in modo più esplicito in concomi-
tanza con alcuni nodi esegetici, è una ragione tanto semplice
quanto essenziale — che cosa ha veramente detto Parme-
nide? — legata alla base documentaria su cui le più diverse
interpretazioni sono state costruite almeno dal principio del
secolo scorso.
L’edizione dei Presocratici curata da Hermann Diels e
Walther Kranz è un monumento filologico che a partire dal
1903 ha promosso ricognizioni, confronti, approfondimenti che
sarebbero stati altrimenti impensabili: nulla è stato prodotto in
seguito che possa neppure lontanamente avvicinarla almeno
come repertorio tendenzialmente completo, e anche nel caso
di Parmenide le edizioni più recenti, anche pregevoli, hanno
ripetuto in larga misura la struttura e il testo dei Fragmente
der Vorsokratiker. Eppure, anche per l’enorme mole di testi e
problemi che essi dovettero delibare, oggi l’edizione di Diels e
Kranz costituisce tanto uno strumento imprescindibile quanto
un terreno minato. I frammenti sono ripartiti e articolati nella
sesta e ultima edizione (1951), che a parte due sostanziose
appendici di Kranz ripete la quinta del 1934 / 1937, secondo
un assetto che non permette di seguire adeguatamente lo svi-
luppo del poema. Sia nell’ambito della Via della Realtà sia in
quello della Via delle doxai i singoli passi sono talora distribuiti
in modo discutibile e la conclusione del lungo brano iniziale
del poema, momento di transizione fra la catabasi del kouros
e l’esposizione del metodo affidabile, è stata tagliata via dal
suo contesto per essere aggregata a un brano diverso, con
pregiudizio della ricostruzione delle famose due o tre vie che
tracciano la mappa della conoscenza.

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Presentazione 9

Le stesse traduzioni, per quanto attente ai contributi di


altri studiosi, suonano spesso inaccettabili perché danno per
possibili movimenti sintattici e valenze semantiche che appar-
tengono a fasi più recenti della storia della lingua greca (analoga
l’incoerenza dialettale per cui forme ioniche convivono con
forme attiche).
Riesaminare la collocazione dei frammenti all’interno del
poema, la relazione degli uni con gli altri, il loro assetto testua-
le, il loro significato ha comportato novità (o l’accoglimento di
ipotesi e interpretazioni diverse da quelle adottate da Diels e
Kranz) che intendono ricostruire una logica del racconto che
segua il movimento didattico della dea onnisciente, nel suo
sviluppo come anche nelle sue analessi e prolessi, secondo una
più plausibile coerenza interna.
Non volendo limitarci a un dialogo accessibile solo agli spe-
cialisti, abbiamo tuttavia affidato molte discussioni di natura
più tecnica alle note condensando nel testo il succo di ciò che si
evince dal riesame dell’evidenza testuale. Così, affinché l’opera
riuscisse fruibile anche al lettore ignaro di lingua greca, sono
stati posti in caratteri greci, a eccezione delle note, solo blocchi
di testo che vengono poi immediatamente tradotti, mentre sin-
gole parole o locuzioni facenti parte del corpo dell’esposizione
appaiono sistematicamente traslitterate (e tradotte).
La seconda ragione del libro è concettuale e si può com-
pendiare nella definizione della Via delle Illusioni come ingan-
nevole cosmo di parole destinato a rappresentare l’universo
della nostra esperienza sensibile.
Sebbene la costruzione verbale che la dea trasmette al suo
allievo in relazione al sensibile sia subito dichiarata da lei stessa
ingannevole e, per converso, si dica verso la fine del proemio
che anche «le cose che appaiono» (ta dokeunta) devono essere
apprese e conosciute per come dovrebbero essere, generazioni
di studiosi hanno combattuto una guerra di posizione volta
alternativamente a giustificare o delegittimare il mondo delle
doxai.

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10 Il migliore dei mondi impossibili

Dopo una lunga fase che sembrò segnare la schiacciante


vittoria di Alêtheiê vari interpreti recenti hanno avviato una
controffensiva che intende dimostrare che non c’è sostanziale
differenza fra le due vie perché realtà e opinioni sono disposte
lungo un percorso unitario e addirittura in definitiva si identifica-
no come due facce della stessa medaglia (o, nella prospettiva di
John Palmer, come due diversi ma co–presenti modes of being).
È una guerra vana perché il testo parmenideo, per chi voglia
interpretarlo sulla base delle indicazioni che ci offre, esibisce
una dicotomia irriducibile fra due poli — «è o non è» — fra cui
è necessario scegliere, e scegliere a favore del primo, ma senza
che il polo del non–essere possa scomparire dall’orizzonte
della conoscenza.
Primo compito dell’interprete è pertanto quello di osservare
il testo, e il mondo che lo ha prodotto, selezionando come
punto di osservazione privilegiato quello spazio intermedio o
terra franca che sta al confine fra verità ed errore.
Questa consapevolezza ha ispirato il disegno di questo libro.
Siamo partiti da quel brano 28 B 16 che denuncia, a principio
della Via delle Illusioni, la fallacia cognitiva umana in quanto
condizionata dalla cangiante fusione degli elementi.
Segue una ricostruzione delle possibili opzioni o ‘vie’ per
pensare e ci si pone il problema se sussistano somiglianze o
analogie fra polo della realtà e polo delle doxai.
D’altra parte, per restare il meno possibile nel vago dando
conto di una via su cui le nostre conoscenze sono estremamen-
te lacunose, abbiamo raccolto ogni possibile indizio, a partire
dalla testimonianza di Teofrasto filtrata da Aezio, per capire
come doveva strutturarsi questo cosmo illusorio (‘il migliore
dei mondi impossibili’ del titolo) retto da un’Afrodite che nel
ruolo di timoniera del divenire sovrintende a ogni unione e
a ogni nascita e regola il passaggio delle anime dal visibile
all’invisibile (e viceversa).
Dopo una diversione su tempo e spazio considerati all’in-
terno della pragmatica della comunicazione fra la dea e il suo

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Presentazione 11

allievo ci siamo affacciati sulla mossa superficie della storia


per domandarci quali sollecitazioni potesse aver ricevuto dalla
realtà comunitaria di Velia un sistema di pensiero in cui gio-
cava un ruolo decisivo il principio, tanto cosmologico quanto
politico, dell’’isonomia’ e abbiamo intravisto nelle vicende
coloniali dei Focei e nella relazione fra le colonie disseminate
nel Mediterraneo occidentale e la madrepatria Focea uno
sfondo plausibile per definire l’identità culturale di Parmenide
e del suo uditorio. Poi, restringendo l’inquadratura, abbiamo
riconsiderato la documentazione archeologica ed epigrafica
che collega la figura di Parmenide al culto di Apollo Oulios e
al santuario terapeutico di Asclepio a Velia.
A questo punto il viaggio raccontato nel proemio (la prima
parte del quale non si riferisce, a nostro avviso, alla partenza
del giovane iniziando, bensì al suo ritorno alla luce del giorno
come sapiente) ci è parso rinviare, in una compenetrazione di
misticismo e razionalità, sia alle pratiche incubatorie che ave-
vano certamente luogo nel santuario di Velia e ai viaggi estatici
di specialisti del sacro sotto il segno di Apollo sia alla tessitura
tematica del poema, che nel contrasto fra luce e tenebra (ma
anche nella necessità della loro integrazione) replica le figure,
allusivamente delineate nel proemio, di Aurora e Notte.
Infine, mettendo a confronto la dicotomia parmenidea fra
realtà e illusioni e la dimensione del ‘tragico’ quale si andava
elaborando sulla coeva scena ateniese, crediamo di aver colto un
momento di correlazione fra il teatro attico e il mondo di Par-
menide nel modulo del dilemma decisionale quale si articola in
alcune tragedie di Eschilo e nella tensione, in drammi come l’Elena
di Euripide e l’Edipo re di Sofocle, fra conoscenza e cecità.
A poco più di un anno dal sisma che ha devastato la città e
i suoi borghi voglio dedicare questo libro ai miei studenti della
Facoltà di Lettere dell’Università dell’Aquila, con i quali ho
discusso a più riprese i temi e i testi che lo attraversano, con
l’augurio che continuino a confidare nella loro intelligenza e
nel loro impegno.

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Capitolo 1

Fallacia cognitiva
e rifondazione del noos

1. La fusione degli elementi

Un brano tanto controverso quanto essenziale per


comprendere le ragioni per cui gli uomini restano prigio-
nieri di una dimensione illusoria senza riuscire a vedere,
seppur ne siano interessati, il cuore di Realtà rotonda è 28
B 16 D.–K., trasmesso
1
con alcune varianti da Aristotele e
da Teofrasto:

1. Nel testo qui riprodotto le divergenze rispetto alla quinta edizione


(1951) di Diels–Kranz sono eJkavçtotΔ (trasmesso dai più autorevoli mano-
scritti della Metafisica di Aristotele e da Teofrasto, vedi Coxon 1986: 248)
rispetto a e{kaçtoç e parevçthken (Teofrasto) rispetto a parivçtatai
(Aristotele), che, come notato da Snell 1963: 205 n. 2 e da Fränkel 1960:
175, è verosimilmente penetrato nel testo della Metafisica da Emped. 31
B 108.2 kai; to; fronei`n ajlloi`a parivçtatai che viene citato subito
prima.(ma-to nella tradizione testuale della Metafisica; -tai invece in De
anima 427a22).
Anche Passa 2009: 48–51 ha optato, dopo Diels–Kranz, a favore della
lezione parivçtatai, interpretata come forma tematizzata alternativa a
quella atematica (e pertanto da trascrivere pariçta`tai), ma non cono-
sciamo esempi di forme tematizzate per il medio di i{çthmi, mentre il per-
fetto parevçthken, che secondo Passa sarebbe inferiore per il senso, può
avere valore ‘intensivo’ (non resultativo), come probabilmente anche in
Hom. Il. 16.852–53 = 24.131.32 ajllav toi h[dh// a[gci parevçthken qavna-
toç kai; moi`ra krataihv (richiamato da Coxon 1986: 249).

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14 Il migliore dei mondi impossibili

wJç ga;r eJkavçtotΔ e[cei krh`çin melevwn poluplavgktwn,


tw;ç novoç ajnqrwvpoiçi parevçthken: to; ga;r aujtov
ejçtin o{per fronevei melevwn fuvçiç ajnqrwvpoiçin
kai; pa`çin kai; pantiv: to; ga;r plevon ejçti; novhma.
Come infatti di volta in volta2 qualcuno ha la fusione delle
membra
erranti, così il pensiero si presenta agli uomini: altro non è
che ciò che la natura delle membra medita per gli uomini,
tutti e ciascuno, e pensamento è ciò che prevale.

Parmenide faceva entrare in gioco, in relazione al


funzionamento della mente degli uomini, la nozione
di krêsis «fusione» (krasis in attico), e cioè un fenomeno
simile ma non identico alla mixis «mescolanza» in quanto
comportava un’integrazione più profonda fra gli elementi
costitutivi di un composto, sì che da ultimo essi non erano
più riconoscibili come tali (Hp. VM 16.35).
Si tratta di una nozione che compare anche in Alcmeone
di Crotone, che definiva 3
la salute «commisurata fusione
delle qualità» (24 B 4), in Empedocle, che spiega con la

2. A meno di correggere il testo (già lo Stephanus, seguito ad es. da


Kirk–Raven–Schofield, mutava krh`çin in krh`çiç, con e[cei intransitivo
con la valenza di «sta», «è») o di accogliere la variante, indubbiamente fa-
cilior, e{kaçtoç di una parte della tradizione aristotelica, la soluzione sin-
tatticamente più semplice per individuare il soggetto di e[cei sarebbe di
identificarlo con novoç del v. 2. Senonché, come ha notato Cerri 1999: 280,
«la mente è, non ha, la mescolanza di caldo e freddo nel corpo», e anche
l’ipotesi di un soggetto implicito («qualcuno», «l’uomo», «ciascun uomo»,
come fanno Cerri stesso e Untersteiner) non è agevole nell’ambito di una
dizione così rigorosa e puntuale come quella di Parmenide. In realtà,
come vedremo più oltre (§ 4), il soggetto di e[cei non è implicito, bensì
sottinteso: si tratta di tiç brotw`n di B 8.61.
3. Per un inquadramento del passo vedi Nutton 2004: 48–9, per l’uso
della nozione di ‘crasi’ in ambito medico Stemich 2007: 59–60. Altrove in
Parmenide essa è implicita (per contrasto) in puro;ç ajkrhvtoio di 28 B 12.1,
e krh`çin doveva essere il vocabolo greco reso con temperiem in Cael.Aurel.
Morb. chron. 4.9 = 28 B 18.3 (mivxiç compare invece in 28 B 12.4).

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1. Fallacia cognitiva e rifondazione del noos 15

‘crasi’ fra le quattro ‘radici’ elementari l’incessante meta-


morfosi ma anche l’armonizzarsi di tutte le cose (31 B 21.14
e 22.4), e in Democrito, che riconduce anch’egli l’attività
del pensare alla crasi4 dei costituenti del corpo (Theophr.
Sens. 58 = 68 A 135).

2. Testimoni

Per interpretare il brano dobbiamo innanzi tutto esami-


nare il modo in cui i due testimoni,
5
Aristotele e Teofrasto,
introducono la citazione.
In Metaph. 3.5, 1009b21 Aristotele intende evidenzia-
re che Parmenide e altri antichi naturalisti (Empedocle,
Anassagora, Democrito) non distinguevano fra sensazione
e pensiero ritenendo che la percezione sensoriale fosse una
forma di phronêsis (vedi Hussey 2006: 21–7).
Teofrasto (Sens. 2–4 = 28 A 46) parte dalla medesima
premessa del suo maestro, ma analizza più da vicino il
meccanismo della sensazione prendendo in esame due
opposte teorie intese a spiegarne la fisiologia: quella che
derivava la sensazione dal ‘simile’ (Parmenide, Platone ed
Empedocle, in questo ordine) e quella che la derivava dal
‘contrario’ (Eraclito, Anassagora).
Poi Teofrasto (§ 3) aggiunge che Parmenide non ha dato
alcuna più specifica spiegazione (relativamente, forse, ai
singoli organi di senso), ma che per il pensatore di Velia

4. Sulle teorie democritee della sensazione e della conoscenza vedi


Sassi 1978: 174 ss. e Warren 2002: 74 ss.
5. Poiché Teofrasto, oltre a costeggiare da vicino il testo par-
menideo, richiama un passo perduto, di cui Aristotele non trattava,
relativo alla sensazione del defunto, non è ipotizzabile, nonostante
Hershbell 1983, che egli basasse tutta la sua conoscenza di B 16 sulla
Metafisica del maestro.

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16 Il migliore dei mondi impossibili

duoi`n o[ntoin çtoiceivoin kata; to; uJperbavllon ejçti;n hJ


gnw`çiç. eja;n ga;r uJperaivrhi to; qermo;n h] to; yucrovn,
a[llhn givneçqai th;n diavnoian, beltivw de; kai; kaqarw-
tevran th;n dia; to; qermovn: ouj mh;n ajlla; kai; tauvthn
dei`çqaiv tinoç çummetrivaç.
essendo due gli elementi basilari, la conoscenza si correla
a quello che fra essi prevalga. Se infatti prevale il caldo o il
freddo, il pensiero si modifica, e migliore e più puro è quello
prodotto dal caldo; d’altra
6
parte anche il caldo ha bisogno di
una certa simmetria.

6. Laks 1990 ha inteso çummetriva (ben reso invece da Kirk–Raven–


Schofield 1983: 261 con «balance») come ‘commensurabilità’ rispetto
all’oggetto percepito, ma questa prospettiva secondo la quale la per-
cezione avviene attraverso ‘passaggi’ (povroi), disseminati negli organi
di senso, che ricevono gli efflussi delle cose, pur essendo ben attestata
nel De sensibus (vedi tuttavia çummevtrwç a § 58 in relazione all’equilibrio,
nell’anima, fra caldo e freddo), sarebbe fuori posto nel momento in cui
Teofrasto parla della relazione fra caldo e freddo e ha testé dichiarato la
superiorità del pensiero fondato sul caldo. Lo sviluppo dei ragionamento
mostra che egli intende dire che anche il caldo non può sussistere allo
stato puro, ma deve essere mescolato con una porzione sia pur minima di
freddo. E il termine çummetriva appare usato precisamente in relazione
al rapporto fra caldo e freddo in Aristot. GA 777b28 e, proprio abbinato a
kra`çiç, in Phys. 246b5 (sulla complessa semantica del termine in ambito
fisiologico vedi Debru 1996: 163–65).
Inoltre, benché to; plevon rimandi chiaramente a to; uJperbavllon
della parafrasi di Teofrasto, Laks nega l’importanza (rincalzata dal suc-
cessivo uJperaivrhi) di questa puntuale corrispondenza (cf. anche Alex.
Aphr. Metaph. p. 306.28 Heyduck e vedi Cerri 1999: 281–82) e, con altri,
intende to; plevon come «il pieno» (in occasione di ogni atto di pen-
siero si ricostituirebbe su scala minore l’identità originaria del singolo
elemento). Laks obietta all’esegesi di plevon come comparativo di poluv
che la superiorità quantitativa non potrebbe spiegare l’idea che l’ele-
mento pensa se stesso, cioè che il simile percepisce il simile, ma Te-
ofrasto dichiara di citare il brano per dimostrare che, «essendoci due
elementi base, la conoscenza è correlata a quello che prevale», non per
dimostrare che il simile percepisce il simile (questa è una premessa ge-
nerale addotta più sopra come criterio classificatorio delle teorie preso-
cratiche sulla sensazione).

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1. Fallacia cognitiva e rifondazione del noos 17

Se Teofrasto, dopo la citazione diretta del testo di


Parmenide, aggiunge che per Parmenide «il sentire (ai-
sthanesthai) e il pensare (phronein) sono la stessa cosa»,
tanto che memoria e oblio si attivano in relazione al
diverso contemperamento di caldo e freddo, egli doveva
intendere to ... auto «la stessa cosa» alla fine del secondo
verso di 28 B 16 come un predicato nominale che stabiliva
un’identità, o almeno un’equivalenza, fra sensazione e
conoscenza e doveva ricalcare con to phronein «il pensare»
l’hoper phroneei «(ciò) che pensa» del testo parmenideo
(Coxon 1986: 250).
Infine Teofrasto chiude la sezione del De sensibus dedi-
cata a Parmenide affermando:

a]n dΔ ijçavzwçi th`i mivxei, povteron e[çtai fronei`n h] ou[,


kai; tivç hJ diavqeçiç, oujde;n e[ti diwvriken. o{ti de; kai;
tw`i ejnantivwi kaqΔ auJto; poiei` th;n ai[çqhçin, fanero;n
ejn oi|ç fhçi to;n nekro;n fwto;ç me;n kai; qermou` kai;
fwnh`ç oujk aijçqavneçqai dia; th;n e[kleiyin tou` purovç,
yucrou` de; kai; çiwph`ç kai; tw`n ejnantivwn aijçqavneçqai.
kai; o{lwç de; pa`n to; o]n e[cein tina; gnw`çin.
ma, qualora nella mescolanza (gli elementi) si pareggino,
(Parmenide) non ha precisato se l’attività del pensare abbia
luogo o no e quale eventualmente possa esserne la moda-
lità. Che all’elemento contrario (al caldo) preso in sé egli
attribuisca sensazioni, emerge chiaramente in quei versi in
cui dice che il cadavere non percepisce la luce, il caldo, la
voce a causa del venir meno del fuoco, ma che percepisce
il freddo, il silenzio e gli altri contrari (del caldo). E sostiene
altresì in generale che ogni cosa esistente ha una qualche
attitudine conoscitiva.

La peculiare condizione del defunto dipende dal fatto


che in lui ancora persistono sensazione e conoscenza, ma
all’interno del suo corpo la crasi di elementi contrari è ri-
dotta al minimo, cosicché percepisce il silenzio e il freddo,
e affezioni affini, quasi allo stato puro.

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18 Il migliore dei mondi impossibili

Se è vero che questa condizione appartiene al defunto


di per se stesso, non al contesto in cui è collocato, gli
elementi di cui parla Teofrasto, al pari del fuoco e della
notte di Parmenide, sono da lui considerati nell’ambito
del corpo del recettore, non nel loro originarsi nel mondo
dei fenomeni esterni al soggetto.
È pur vero che Aezio (4.9.6 = 28 A 47) colloca Parme-
nide, insieme con Empedocle, Anassagora, Democrito,
Epicuro ed Eraclide Pontico, fra coloro che avevano
ritenuto che ogni sensazione è subordinata ai canali d’ac-
cesso o ‘pori’ in quanto
7
capaci di adattarsi all’afflusso delle
impressioni esterne e che altrove (4.13.9-10 = 28 A 48)
riferisce che alcuni ascrivevano a Pitagora o a Parmenide
la teoria del pitagorico Ipparco secondo cui i raggi che si
protendono da ciascuno degli occhi si attaccano con le
loro terminazioni ai corpi esterni come se usassero la presa
delle mani, ma questa problematica relativa al contatto
o all’interazione fra esterno e interno sembra estranea a
un brano, come B 16, che verte sulla fisiologia interna del
pensiero (Dilcher 2006: 33–6).

3. Dubbi sintattici

È controversa la corretta costruzione della frase dei


vv. 2b–4a che abbiamo tradotto «esso (il pensiero) altro
non è che ciò che la natura delle membra medita per gli
uomini».
Dal momento che to auto «la stessa cosa», «non altro
che» stabilisce secondo Teofrasto un’equivalenza fra
sensazione e pensiero, ha sorpreso che nel testo di Par-
menide tale equivalenza fosse realizzata, che si prenda
hoper «(ciò) che» come nominativo o come accusativo,

7. In particolare per Empedocle vedi Sedley 1992: 27–9.

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1. Fallacia cognitiva e rifondazione del noos 19
8
dal nesso to auto hoper, ma Parmenide è pur sempre un
poeta epico e questo9
nesso trova puntuale riscontro nella
dizione omerica.
Non possono pertanto convincere traduzioni, come quel-
le di Kranz («denn dasselbe ist es, was denkt, die innere Be-
schaffenheit der Glieder») o di Kirk–Raven–Schofield 1983:
261 («for that which thinks is the same thing, namely the
substance of their limbs»), che fanno di hoper phroneei «ciò
che pensa» il soggetto della frase e di meleôn physis «la natura
delle membra» un’apposizione di to auto «la stessa cosa», che
a sua volta fungerebbe da complemento oggetto («la stessa
cosa» in quanto percezione attraverso il simile), senza far
emergere l’equivalenza fra sensazione e pensiero. 10
In realtà occorre fare di hoper un accusativo: non però
nel senso che la condizione dei melea è la medesima cosa
che essa stessa pensa, in una identificazione fra organo e
oggetto del pensiero (cartesianamente, fra res cogitans e res
cogitata) di cui non c’è traccia nel pensiero di Parmenide,
ma in quanto il noos (soggetto implicito di estin dopo noos
del v. 2) si identifica con ciò che viene percepito dai sensi
(e cioè dalla «natura delle membra», soggetto della relativa
imperniata su phroneei). Si viene così a sottolineare che non
sussiste alcuna differenza fra sensazione e conoscenza: il
pensiero (noos) non è altro che ciò che viene percepito
dalle membra (vedi Thanassas 2006: 210).

8. Costruzioni più regolari in prosa sarebbero state l’abbinamento di;


aujtov a un sostantivo o a un pronome in dativo oppure a kaiv = quam: per
la prima eventualità cf. ad es. Plat. Euthyd. 298a h] çu; ei\ oJ aujto;ç tw`i
livqwi, per la seconda Xenoph. Cyr. 1.3.18 ouj taujta; ... para; tw`i pavp-
pwi kai; ejn Pevrçaiç divkaia oJmologei`tai.
9. Cf. Hom. Il. 23.480 ejk de; tokhvwn ⁄ tw`n aujtw`n, oi{ per tevkon
ΔAlkivnoon baçilh`a e Od. 8.107 h\rce de; tw`i aujth;n oJdo;n h{n per
oiJ a[lloi.
10. Cf. Archil. fr. 132 W.2 kai; fronevouçi toi`Δ oJpoivoiç ejgkurevwçin
e[rgmaçi e vedi Fränkel 1960: 175 e Sassi 1978: 166–69.

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20 Il migliore dei mondi impossibili

Come si vede sia dal suo inizio che dalla sua conclusione,
questo tetrastico si articola lungo una linea che parte da
una proposizione avente per soggetto noos e si conclude
con una frase che stabilisce che cosa è il noêma. È una linea
che non mira a definire la natura degli organi di senso, ma
a prospettare il noos (attività del pensare e contenuto della
conoscenza) come qualcosa che si concretizza in relazione
a mutamenti che intervengono nella relazione fra i costi-
tuenti del corpo umano, sì che l’organo del pensiero viene
a coincidere con la condizione stessa delle membra.
Allora è ben comprensibile anche la scelta di un predica-
to come parestêken («sta accanto», «si manifesta»), connessa
al fatto che le forme intransitive o medio–passive di paristê-
mi possono denotare il ‘mostrarsi’ o ‘aff 11
acciarsi’ alla mente
di un certo dato psichico o percettivo e si coglie anche la
relazione logica con l’ultima frase: se il pensare consiste,
secondo un modello che oggi si direbbe di supervenience, in
ciò che il corpo percepisce attraverso i suoi organi sensoria-
li, il determinarsi del singolo oggetto o contenuto cognitivo
è causato dal prevalere, nel contrasto fra gli elementi (luce
e notte) costitutivi della natura del corpo, di quello che si
trovi ad essere preponderante in un determinato 12
momento
e in relazione a un determinato individuo.

4. Un frammento erratico

Se tanto Aristotele, il quale osserva che coloro che cam-


biano la propria condizione fisica modificano nel contempo i

11. Cf. ad es. Soph. OR 911 dov x a moi pareçtav q h e vedi LSJ s.v.
parivçthmi IV.
12. Novhma, che abbiamo reso con «pensamento», rappresenta, rispetto
a novoç, una determinazione del pensare correlata a singoli momenti, e
dunque contingente, come in Emped. 31 B 105.3 ai|ma ga;r ajnqrwvpoiç
perikavrdiovn ejçti novhma (Untersteiner 1958: XXIII n. 48).

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1. Fallacia cognitiva e rifondazione del noos 21

propri pensieri e registra (o forse conia per errore di memo-


ria) la lezione polykamptôn «sinuosi» (sicuramente deteriore,
vedi Cerri 1999: 280–81) in luogo di polyplanktôn «erranti»,
quanto Teofrasto, la cui esposizione13 verte sull’opposizio-
ne caldo / freddo, davano a meleôn, al v. 1 come al v. 3,
la funzione di genitivo soggettivo (la crasi degli elementi
prodotta dal corpo), essi dovevano sentirsi legittimati a far
questo solo se il brano teneva dietro a una sequenza in cui
di caldo e freddo (fuoco e notte) appunto si parlava.
Diels e Kranz hanno collocato il passo parmenideo nella
seconda parte del poema, ma senza specifica relazione
con i frammenti contigui, tanto che B 16 appare inserito
fra due passi di tutt’altro tenore, concernenti rispettiva-
mente la luna (B 15) e la generazione di individui di sesso
maschile o femminile (B 17).

13. Da intendere non tanto come ‘membra’ in quanto articolazioni


distinte dell’organismo o come ‘organi di senso’ (Diels 1897, Popper 1998)
quanto come ‘corpo’ animato (vivente), analogamente che in Hom. Il.
17.211–12 plh`çqen dΔ a[ra oiJ mevleΔ ejnto;ç ⁄ ajlkh`ç kai; çqevneoç, Od.
13.431–32 ajmfi;; de; devrma ⁄ pavnteççin meleveççi palaiou` qh`ke gevron-
toç, Pind. fr. 131b.3 M. praççovntwn melevwn (vedi Fränkel 1960: 175).
Non è convincente la tesi che, in contrasto con l’esegesi di Aristotele e
di Teofrasto, fu sostenuta da Rostagni 1924: 109 n. 1, secondo il quale melev-
wn designerebe qui gli ‘elementi’ basilari del cosmo. Per un tale significato
di mevlea si possono richiamare sia i mundi membra di Lucr. 5.243–44 e 380–81
(con riferimento alle quattro ‘radici’ empedoclee, e dunque a elementi pri-
mi) sia paralleli più prossimi nel tempo a Parmenide come Emped. 31 B 35.11
e B 31, dove rispettivamente mevlea e gui`a designano gli elementi costituti-
vi dello Sfero; e in Parmenide stesso il sostantivo devmaç, che generalmente
si riferisce al corpo di una persona considerato nella sua struttura o ‘costi-
tuzione’ (cf. devmw), denota sia la struttura del mondo che viene scisso dagli
uomini in luce e notte (B 8.55) sia il ‘corpo’ della notte e del fuoco (B 8.59).
D’altra parte in questi casi quella sorta di ‘antropizzazione’ per cui mevlea o
gui`a o devmaç possono riferirsi a entità diverse dal corpo (per una panora-
mica sulla diff usione della nozione di «cosmic person» vedi McEvilley 2002:
24–8) viene esplicitamente dichiarata o si ricava agevolmente dal contesto,
mentre in B 16 nulla sembra orientare in questa particolare direzione.

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22 Il migliore dei mondi impossibili

Popper 1992: 18 ha invece proposto una collocazione


di B 16 all’interno della prima parte dell’opera, forse come
continuazione di B 6. D’altra parte, come riferisce lo stesso
Popper, Gadamer gli obiettò giustamente per litteras che
il principio della crasi gioca un ruolo solo nella seconda
parte del poema e che né in B 6 né in altri brani attribuiti
alla prima parte si fa riferimento all’opposizione fra luce e
notte (l’ipotesi non risulta però abbandonata nella silloge
di scritti popperiani dedicati a Parmenide: Popper 1998:
365).
Invece sulla coppia di contrari luce / notte e sui loro
poteri e funzioni Parmenide si sofferma con dovizia di
particolari a partire da B 8.53, e appunto questo passo
dedicato al formarsi, per un errore degli uomini, dell’op-
posizione tra fuoco e notte come entità antitetiche e
autonome (kat’ auto al v. 58) poteva fornire lo sfondo
ideale perché si parlasse del noos umano in quanto basato
sull’opposizione fra luce e notte, e senza che questi con-
trari dovessero essere nuovamente menzionati.
In più, se collochiamo B 16 subito dopo B 8.60–61
tovn çoi ejgw; diavkoçmon ejoikovta pavnta fativzw,
wJç ouj mhv potev tivç çe brotw`n gnwvmhi parelavççhi
Questo cosmo plausibile in tutto ti annuncio,
14
affinché mai un mortale ti oltrepassi con l’intelletto.

scopriamo che il soggetto sottinteso di B 16.1 si


trova nel tis brotôn «uno dei mortali» e che gnômêi «con
l’intelletto» di B 8.61 anticipa noos «pensiero» di B 16.2:
ti esporrò — dice la dea — questo ordine plausibile per
evitare che qualcuno (un altro sapiente con una sua

14. Il dativo gnwvmhi, restituito da Stein 1867 e accolto da Coxon 1986


(gnwvmh i manoscritti di Simplicio), non è una vera correzione, ma solo
un’interpretazione della paradosis.

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1. Fallacia cognitiva e rifondazione del noos 23

teoria cosmogonica) possa superarti: infatti il pensiero


di qualunque esssere umano, in quanto irretito nella
crasi cangiante degli elementi, non può che rivelarsi
fallace.
Il noos dei mortali,
15
che è comunque inestricabilmente
legato alle doxai, prende forma sulla base delle varia-
zioni nel dosaggio degli elementi all’interno del corpo
e si smarrisce come un naufrago nel mare delle sensa-
zioni (cf. B 6.6 plankton noon, cf. B 6.5 plazontai, B 8.54
peplanêmenoi).
Democrito riprenderà, trasformandolo, il motivo.
Poiché anche per lui il pensare si origina dalla crasi, e più
precisamente da una determinata condizione dell’anima in
relazione alle impressioni esterne (Theophr. Sens. 58 = 68
A 135), egli riconosce una relazione fra crasi e alterazione
del pensiero, ma nel contempo prospetta l’eventualità di
un pensiero validamente orientato nel caso in cui, secondo
il principio (68 B 191) per cui «le anime che si agitano con
grandi oscillazioni non sono né equilibrate né serene», sia
stato ristabilito l’equilibrio fra caldo e freddo, a sua volta
connesso16
alla maggiore o minore presenza di vuoto nel
corpo.

15. Sul doppio orientamento del noos in Parmenide, in direzione sia


dell’essere che dei fenomeni, vedi von Fritz 1945: 237, che sottolinea la
complessità semantica di un termine che in Parmenide comprende sia il
discursive thinking sia le facoltà intuitive, Leszl 1988: 297–302, che coglie
in noei`n l’aspetto ricettivo del mettersi in rapporto diretto con l’oggetto
e la capacità di rendere presente ciò che è lontano nello spazio e / o nel
tempo, Curd 1997: 36, per la quale «noos and noein are primarily connected
with thinking, conceiving, and understanding rather than knowing», Sul-
livan 1995: 32–3, che attribuisce al noos parmenideo «capacity for inner vi-
sion, for seeing beyond appearances, which makes understanding reality
possible», Palmer 1999: 38.
16. Sul resoconto di Teofrasto e sulla conservazione di kivnhçin (krh`çin
Diels) vedi Sassi 1978: 161–90.

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24 Il migliore dei mondi impossibili

5. Simile con simile

A questo punto possiamo riproporci il problema del


raccordo, nel resoconto di Teofrasto su Parmenide, fra
due diverse linee concettuali compresenti nella sua espo-
sizione:

— la tesi dell’attivarsi della sensazione attraverso il


simile;
— la tesi della dipendenza del pensiero da quello che
prevalga fra gli elementi sottoposti a crasi.

Poiché questo secondo punto comporta che una modi-


ficazione nel dosaggio degli elementi del caldo e del freddo
all’interno di un soggetto modifichi la condizione del suo
noos facendolo inclinare verso il polo del caldo o del fred-
do, la relazione con il tema della sensazione attraverso il
simile doveva consistere in Parmenide, secondo Teofrasto,
nel fatto che gli uomini sono in grado di percepire il fuoco,
la luce, l’etere, la leggerezza etc. in virtù dell’elemento
‘fuoco’ che alberga nel loro corpo e di percepire la notte,
l’oscurità, la terra, la gravità etc. sulla base dell’elemento
‘notte’ che racchiudono in se stessi. Così, quando sono in
presenza di oggetti esterni che attirano la loro attenzione,
essi diventano simili a quel determinato oggetto di perce-
zione per una somiglianza fra il17 contenuto del pensiero e
l’oggetto che lo ha sollecitato.
Non sappiamo se questa teoria fosse fatta propria da
Parmenide, ma Teofrasto poteva sentirsi autorizzato ad

17. Secondo Hussey 2006: 21 gli stati mentali (percettivi, deliberativi,


iconici etc.) presuppongono l’esistenza, all’interno della mente, di «a scale
model of the situations that are perceived or imagined or planned», ma
non ci risulta che nella ricostruzione dei meccanismi cognitivi Parmenide
andasse oltre il riferimento alla crasi degli elementi.

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1. Fallacia cognitiva e rifondazione del noos 25

attribuirla al Nostro dal momento che gli attribuiva l’idea


che caldo e freddo sono comuni al mondo dei fenomeni
esterni come a quello soggettivo degli individui: certo la
teoria è formulata, ponendo al posto di luce / notte le
quattro ‘radici’ oltre alle grandi forze di Amore e Contesa,
in Emped. 31 B 109 (il passo viene citato da Aristot. Anim.
204b8 proprio come esempio di ‘conoscenza del simile
con il simile’):
gaivhi me;n ga;r gai`an ojpwvpamen, u{dati dΔ u{dwr,
aijqevri dΔ aijqevra di`on, ajta;r puri; pu`r ajivdhlon,
çtorgh;n de; çtorgh`i, nei`koç dev te neivkei> lugrw`i.
Con la terra vediamo la terra, con l’acqua l’acqua,
con l’etere l’etere divino, e con il fuoco il fuoco distruttore,18
e con l’amore l’amore, e la contesa con la dolorosa contesa.

D’altra parte nella sua trattazione su Parmenide Teo-


frasto non avrebbe potuto esprimersi in termini assiologici
sul modo di pensare legato al caldo come «migliore e più
puro» di quello legato al freddo se non avesse considerato
anche un altro tipo di relazione, e cioè quella fra il dosaggio
degli elementi coinvolti nella crasi e la maggiore o minore
qualità del pensiero elaborato all’interno del soggetto.
Come abbiamo visto, questo tipo di relazione si pro-
filava con particolare evidenza, secondo Teofrasto, nel
passo (perduto per noi) in cui Parmenide parlava dello
stato del defunto, nel quale, dominando il freddo, il pen-
siero diventa anch’esso ‘freddo’, e cioè orientato verso la
percezione del gelo e del silenzio.
Al contrario, possiamo estrapolare, il giovane e la gio-
vane nel fiore dell’età e in generale la donna fertile (come

18. Per Empedocle, come osservava Kahn 1971: 11 «mind and bodies
are homogeneous», sì che gli oggetti esterni «act upon us mingling their
substance with the ingredients of our nature, that is, with our body and
mind at once».

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26 Il migliore dei mondi impossibili

sappiamo da Aristot. PA 648a28 = 28 A 52, Parmenide con-


siderava la donna più calda dell’uomo) dovevano essere
predisposti a una crasi in cui il caldo / fuoco prevaleva,
e dunque dovevano essere portati a elaborare un tipo di
pensiero più ‘caldo’ (connesso con energia, acume, me-
moria etc.), e pertanto «migliore e più puro».
Predisposti a modificarsi internamente in relazione a
una crasi degli elementi a sua volta subordinata a speci-
fiche situazioni biologiche (sesso, età etc.) ma verosimil-
mente anche ambientali o esistenziali, per Parmenide gli
uomini non sono in grado di catturare la realtà perché
per consuetudine inveterata separano e assolutizzano
fuoco (luce) e notte (tenebra) restando intrappolati nella
cangiante interazione di elementi antitetici all’interno del
loro stesso corpo.
Mentre Senofane aveva osservato che se un dio non
avesse creato il miele gli uomini stimerebbero i fichi molto
più dolci (21 B 38), e dunque aveva sottolineato l’ottica
selettiva e parziale che l’esperienza impone agli uomini
(vedi Lesher 1996: 180–1 e Mogyorödi 2006: 135–38), Par-
menide va oltre e denuncia il modo contingente e precario
con cui elaboriamo ogni dato della nostra esperienza.

6. Fra le onde del sangue

Questa è anche la versione parmenidea dell’antica


nozione dell’uomo ‘effimero’ (dal pensiero cangiante,
volubile, precario) che ci è nota a partire da Omero e dalla
lirica arcaica (Hom. Od. 18.136–37 e 21.85, Archil. fr. 131 e
132 W.2, Sol. fr. 17 W.2, Stesich. fr. 222(b), 207–8 PMGF,
Semon. 1.3–4 W.2, Theogn. 966) e che ricompare anche
in Empedocle (31 B 2).
Senza riesaminare un tema che è stato ampiamente
discusso sia in se stesso sia nella sua relazione con B 16

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1. Fallacia cognitiva e rifondazione del noos 27

(un fondamentale punto di riferimento resta su entrambi


i versanti Fränkel 1960: 23–39 e 173–4), ci limiteremo a
notare che la crasi degli elementi viene a sostituire un
agente che altrove è rappresentato da Zeus o dagli dèi o
dagli eventi esterni e che, avvenendo la crasi all’interno
del soggetto senziente, la radice dell’errore si annida nella
stessa costituzione fisica degli esseri umani.
D’altra parte i resti del poema parmenideo ci permet-
tono di intravedere in controluce la fisiologia di un noos
emancipato dalla fluttuazione degli elementi: se infatti
percepire i fenomeni è procedimento cangiante, affidato al
vario contemperarsi degli elementi, pensare l’essere esige
la consapevolezza di una realtà refrattaria alle fluttuazioni
di fuoco e notte.
Empedocle mostra di condividere con Parmenide l’idea
che tutto possiede una qualche cognizione e ha una por-
zione di pensiero (31 B 110.10) e dice dei quattro elementi
basilari (31 B 107):

ejk touvtwn ãga;rà pavnta pephvgaçin aJrmoçqevnta


kai; touvtoiç fronevouçi kai; h{dontΔ hjdΔ ajniw`ntai.
Per effetto di questi tutte le cose sono saldamente compaginate
e tramite questi pensano e godono e si tormentano.

Anche qui il pensiero appare condizionato dagli ele-


menti (dal loro mescolarsi e separarsi) perché ciò che viene
da essi modificato è appunto la condizione mentale del
soggetto, il suo stato d’animo o ‘umore’, che tende al pia-
cere a contatto con elementi simili, tende alla sofferenza
a contatto con elementi dissimili (cf. Aet. 4.9.14 = 31 A
95 e vedi Guthrie 1979: 242).
Ecco perché sono molto limitate le risorse degli uomi-
ni, esposti a infiniti accidenti e sedotti solo da ciò in cui a
ciascuno capiti di imbattersi prima di volar via a guisa di
fumo (31 B 2.1–6):

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28 Il migliore dei mondi impossibili

polla; de; deivlΔ e[mpaia, tav tΔ ajmbluvnouçi mevrimnaç.


pau`ron dΔ ejn zwh`içi bivou mevroç ajqrhvçanteç
wjkuvmoroi kapnoi`o divkhn ajrqevnteç ajpevptan
aujto; movnon peiçqevnteç, o{twi proçevkurçen e{kaçtoç
pavntoçΔ ejlaunovmenoi […]
e molte sono le miserie improvvise che ottundono i pensieri,
e vista una piccola porzione di vita nelle loro esistenze
volano via con breve destino sollevandosi a guisa di fumo,
sedotti solo da ciò in cui, sospinti in ogni direzione, a ciascuno
accada di imbattersi.

Ma anche un altro brano empedocleo offre una riproposi-


zione dell’idea che sta alla base di Parmen. B 16 perché indica,
fra le cause che possono modificare la condizione del pensie-
ro, le alterazioni prodotte dagli stati onirici (31 B 108).
o{ççon ãgΔÃ ajlloi`oi metevfun, tovçon a[r çf için aijeiv
kai; to; fronei`n ajlloi`a parivçtatai[…]
Di quanto gli uomini si modificano nella loro natura, di19 tanto
ogni volta accade loro di pensare pensieri diversi […]

D’altra parte in Emped. 31 B 105 D.–K. il contrasto


parmenideo fra luce e notte appare sostituito dal diverso
grado di afflusso, nella cavità toracica, del sangue, cioè
dell’amalgama al cui interno, come riferisce Teofrasto
(Sens. 10 = 31 A 86), i quattro elementi risultano contem-
perati in massimo grado e grazie a cui è possibile discrimi-
nare nel modo più efficace fra tutte le cose (Barnes 1982:
384, Sassi 2009: 196):
ai{matoç ejn pelavgeççi teqrammevnh ajntiqorovntoç,
th`i te novhma mavliçta kiklhvçketai ajnqrwvpoiçin:
ai|ma ga;r ajnqrwvpoiç perikavrdiovn ejçti novhma.

19. Che il passo si riferisse alla fenomenologia dei sogni è attestato da


Philop. Metaph. 486.13 e da Simpl. Metaph. 202.30; per la convergenza con
alcuni testi medici vedi Lami 1991: 404 n. 132.

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1. Fallacia cognitiva e rifondazione del noos 29

(... la conoscenza), alimentata fra le onde del sangue pulsante,


là dove soprattutto è ciò che gli uomini chiamano pensiero:
ché per essi è pensiero il sangue attorno al cuore.

Per Empedocle scopo del discente (nel caso specifico,


Pausania) dovrà essere quello di imparare quel tanto
su cui l’umana intelligenza, pur inetta a comprendere
il tutto,
20
riesca a far presa con gli appigli dei sensi (31 B
2.9). Anche «pratiche pure», e cioè uno stile di vita asce-
tico di tipo orfico, potranno permettergli di far crescere
dentro di sé gli insegnamenti del maestro (31 B 110.1–5)
e di usare il noos per filtrare e organizzare le impressioni
sensibili (31 B 17 con la sua continuazione nel Papiro di
Strasburgo).
Apprendimento ed esperienza possono affinare le ri-
sorse intellettuali (cf. 31 B 17.14 e B 106) al 21punto che in
un campione della sapienza come Pitagora lo sguardo
riusciva a fissarsi facilmente su ciascuna delle cose esistenti
(31 B 129.5).
Tuttavia, diversamente che luce e notte per Parmeni-
de, per Empedocle le quattro ‘radici’ cosmiche non sono
invenzioni umane ma immutabili dati oggettivi, elementi
primordiali, e del pari sono reali e ineliminabili le opera-
zioni a contrasto di Amore e Contesa.
Parmenide diffida radicalmente delle capacità conosci-
tive dei mortali, ma la comprensione del meccanismo a
cui soggiace il pensiero umano doveva rappresentare per
lui il primo passo verso la riscoperta di una realtà che essi

20. Diversamente da Diels–Kranz (che accolgono la correzione di


Stein plevon hje;), sarei propenso con Kirk–Raven–Schofield 1983: 284–85 a
conservare il testo tramandato da Sext. Math. 7.123 ponendo pausa dopo
peuvçeai (peuvçeai: ouj plei`ovn ge broteivh mh`tiç o[rwren «You ... shall
learn: no further can mortal wit reach»).
21. Per l’identificazione, non certa ma altamente probabile, di questa
figura con Pitagora cf. Porph. VP 30 e Iambl. VP 15.

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30 Il migliore dei mondi impossibili

stessi hanno occultato a se stessi scindendo in due ‘forme’


antitetiche il mondo che si offriva alle loro percezioni
(torneremo su questo tema in II § 6).

7. Essere e pensare

Complementare, sul versante della verità, al rifiuto


dell’opposizione luce / tenebra è il vessatissimo frammento
28 B 3, che facciamo seguire dalla traduzione più diffusa:
to; ga;r aujto; noei`n ejçtivn te kai; ei\nai.
Infatti il pensare e l’essere sono la stessa cosa.

Già presupposta22
in Plot. Enn. 5.1.8 e in Procl. Parm.
1152.33 Cousin e accolta, fra gli altri, da Diels–Kranz,
Cerri 1999: 193–95, Robbiano 2005: 63–5, questa interpre-
tazione comporta un costrutto in cui to auto «la stessa cosa»
è predicato nominale, estin funge da copula e ‘pensare’ ed
‘essere’ sono infiniti sostantivati che funzionano da soggetti
della frase, ma varie ragioni militano contro di essa:

— il fatto che Parmenide non postula mai altrove, data


l’assoluta priorità dell’essere, un’identità fra essere
e pensiero (come osserva Palmer 2009: 119, questa
interpretazione «expresses a non–sensical thesis,
the purportedly ‘idealist’ thesis its advocates have
traditionally attributed to Parmenides»);

22. Sulla testimonianza di Proclo (non registrata da Diels–Kranz), che


riporta la frase nella forma (palesemente corrotta) taujto;n dΔ ejsti;n ejkei`
noevein te kai; ei\nai, vedi Tarán 1967. Quanto a Plotino, va ricordato che
egli allude a B 3 anche in Enn. 1.4.10 e altrove, e che, come ha messo bene
in luce Stamatellos 2007: 79 ss., l’assiduo dialogo che Plotino intrattiene
con Parmenide in relazione alla definizione dell’essere, all’Intelletto e alla
coscienza dimostra la sua conoscenza di prima mano del poema.

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1. Fallacia cognitiva e rifondazione del noos 31

— il fatto che Parmenide


23
altrove indica l’essere con il
participio (to) eon, non con l’infinito einai;
— l’ordine delle parole, con te kai collocato non fra
i due infiniti (come in B 6.8 e in B 8.40), ma dopo
estin.

Una diversa esegesi fu proposta già nel 1892 da Eduard


Zeller (vedi Zeller–Reale 1967: 218–31): accentando éstin
(non estín), essa fa di to auto «la stessa cosa» il soggetto
24
della
frase e di noein ed einai due infiniti ‘dativali’ dipendenti
entrambi da estin: «la stessa cosa c’è per pensare e per
essere», «identico è l’oggetto del pensiero e dell’essere»
(vedi Mourelatos 1970: 75 n. 4: «the same is there to be
thought of and to be», Coxon 1986: 54: «the same thing is
for conceiving as is for being», Gallop. 1991: 57: «because
the same thing is there for thinking and for being»).
In tal modo il nesso fra estin e i due infiniti ripete quello
che troviamo in B 2.2 (eisi noêsai): una coincidenza tanto
più significativa in quanto B 3 si integra assai bene, come
notato da Kranz e da altri, come immediata continuazione
di oute phrasais «né puoi indicarlo» di B 2.8.
Restituito a questa collocazione, B 3 fornisce una moti-
vazione ulteriore della inaffidabilità e impraticabilità della
Via del non–essere:

23. Oltre a essere interpretato in diverse prospettive funzionali (vedi IV


§ 6), to; ejonv è stato inteso (e tradotto) sia in senso categoriale–universaliz-
zante (l’essere, the Being, das Sein) sia nel senso di qualcosa che è (un ‘ente’),
cioè di una ‘unità predicazionale’ (Curd), ma il contrasto fra il singolare ejonv
e il plurale ejonv ta, quale emerge in 28 B 4, la libera alternanza di eon con e
senza articolo e la lunga dimostrazione della continuità onnicomprensiva
dell’essere in 28 B 8 dimostrano che eon è solo l’essere in generale (ciò che
è = tutto ciò che è), non il singolo ente o cosa o enunciato.
24. Si tratta precisamente, come per noh`çai di 28 B 2.2 e di Emped.
31 B 3.12 oJpovçhi povroç ejçti; noh`çai, di un «dative verbal noun» (Smyth
1920: § 1969), vedi Palmer 2009: 69–73.

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32 Il migliore dei mondi impossibili

ou[te ga;r a]n gnoivhç tov ge mh; ejon; (ouj ga;r ef iktovn)
ou[te fravçaiç. to; ga;r aujto; noei`n e[çtin te kai; ei\nai.
25
Ciò che non è non puoi né riconoscerlo (non è raggiungibile )
né indicarlo: identico è l’oggetto del pensare e dell’essere.

Se identico è l’oggetto del pensare e dell’essere, l’insus-


sistenza di ciò che non è si risolve nell’impossibilità di (ri)
conoscerlo e di denotarlo. E non essendoci alcuna traccia
in Parmenide della possibilità che noos o noein non siano il
pensiero e il pensare degli uomini (l’idea di autocoscienza
dell’essere, o comunque si voglia definire la possibilità
dell’essere di pensare se stesso, non fa parte del quadro
ontologico costruito da Parmenide), ne consegue che il
noos (in quanto noos che nel volgersi all’essere ha sanato
la fallacia del noos sottoposto alla crasi degli elementi) è
l’unico ponte che collega il nostro ambito di esperienza
alla dimensione dell’essere. 26
Sulla stessa linea appare la sequenza B 8.34–41:

25. Sulla superiorità delle lezione ejfiktovn (Proclo) rispetto a ajnuçtovn


(Simplicio) rimando a Ferrari 2005: 127–28. Passa 2009: 38–9 ha obiettato
che questa opzione «non tiene conto delle inesattezze che caratterizzano
la gran parte delle citazioni di Proclo», ma esse vanno probabilmente im-
putate in larga misura, con lo stesso Passa, all’uso di citare a memoria, il
che ovviamente non esclude che Proclo, il quale era in grado di consultare
un esemplare in possesso dell’Accademia platonica, potesse occasional-
mente riportare la lezione corretta rispetto a Simplicio, e inoltre ajnuçtovn,
che qui doverebbe comunque significare «possibile» — «das ist ja unaus-
führbar» (Diels–Kranz), «ché ciò non è fattibile (Untesrteiner) —, non
«che (non) può essere compiuto», come intende Passa, sarebbe puramente
tautologico rispetto alla prima parte del verso, mentre ejfiktovn spiega con
la sua impredicabilità l’impossibilità di (ri)conoscere il non essere.
26. Anche qui si affrontano due interpretazioni: da un lato Diels–Kranz
e molti altri (cito per tutti Untersteiner: «identico, poi, è l’intuire e ciò in
causa del quale è il pensiero singolo») fanno di noein il soggetto e di twuj-
tovn un predicato nominale; dall’altro quanti hanno giustamente assunto
anche qui twujtovn come soggetto e noein come infinito ‘dativale’ (vedi
Kühner-Gerth § 471 e Cordero 2004: 84–9).

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1. Fallacia cognitiva e rifondazione del noos 33

twujto;n dΔ ejçti; noei`n te kai; ou{neken e[çti novhma:


35 ouj ga;r a[neu tou` ejovntoç ejn w|i pefatiçmevnon ejçtivn
euJrhvçeiç, to; noei`n. oujde;n ga;r ãh]Ã e[çtin h] e[çtai
a[llo pavrex tou` ejovntoç, ejpei; tov ge Moi`rΔ ejpevdhçen
ou\lon ajkivnhtovn tΔ e[menai: tw`i pavntΔ o[nomΔ e[çtai
o{çça brotoi; katevqento pepoiqovteç ei\nai ajlhqeva,
40 givgneçqaiv te kai; o[lluçqai, ei\naiv te kai; oujciv,
kai; tovpon ajllavççein diav te crova fano;n ajmeivbein.
27
La stessa cosa è pensare e la condizione per cui si pensa,
35 ché senza l’essere28non troverai ciò in cui
esso è formulato, e cioè il pensare. Nient’altro infatti è
o sarà al di fuori dell’essere, ché Moira lo vincolò
a essere intero e immobile: gli faranno da nome tutte
le cose che i mortali stabilirono confidando che fossero reali:
40 nascere e morire, essere e non essere,
cambiare luogo, permutare lucente colore.

Senza l’essere non si può pensare davvero perché il


noos ha bisogno di alimentarsi dell’essere per poterne pre-
dicare, attraverso il linguaggio, l’interezza, l’immobilità e
gli altri attributi che gli pertengono: il noos è il linguaggio
dell’essere.
D’altra parte il blocco di versi che abbiamo appena
citato non mostra alcun nesso plausibile con i versi che li
precedono e li seguono nel testo tramandato da Simplicio

27. Vedi von Fritz 1945: 238: «the cause or condition of noei`n».
28. Sembra difficile che con ejn w|i pefatiçmevnon ejstivn (ejn la
tradizione di Simplicio, ejfΔ, non registrato in VS, quella di Procl. In Parm.
6.1152.35, valorizzata da Cordero e da altri ma probabilmente banalizzante)
il relativo si riferisse all’essere. Gadamer 2002 ipotizzava che ejn w|i signifi-
casse «mentre», «in quanto», ma non è una soluzione agevole con il nesso
relativo collocato fra due infiniti sostantivati. In realtà ejn w|i (=tou`to ejn
w|i) può essere prolettico, anticipando to; noei`n (cf. Eur. Med. 228–29 ejn
w|i ga;r h\n moi pavnta...| kavkiçtoç ajndrw`n ejkbevbhcΔ ouJmo;ç povçiç),
se con Fränkel 1960: 195 poniamo pausa sintattica debole (virgola) dopo
euJrhvçeiç, non, con Diels–Kranz e altri editori, dopo ejonv toç e dopo ejçtivn.
Per ejn nel senso della dipendenza da una persona o da una condizione cf.
Soph. OR 314, Plat. Prot. 354e e vedi Palmer 2009: 164 n. 40.

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34 Il migliore dei mondi impossibili

(che cita B 9.1–52); invece, come ha riconosciuto per la


prima volta Calogero 1936: 177 n. 2 e come hanno riba-
dito più di recente, e anche con nuovi argomenti, Ebert
1989 e Palmer 2009: 352–54, i gruppi di versi B 8.26–33 e
B 8.42–49 si combinano assai bene in immediata succes-
sione nell’ambito di una medesima trattazione di quella
finitudine e immobilità dell’essere che ha come requisito
fondamentale la presenza di un limite che lo stringe nei
suoi vincoli (si noti in particolare la ripresa di B 8.31 pei-
ratos en desmoisin «nei vincoli di un limite» in B 8.42 peiras
«limite»).
Per converso, la sequenza B 8.34–41, che dapprima
compendia il fondamento gnoseologico della Via della
Realtà e poi (a partire da v. 38b) definisce i tratti più carat-
terizzanti delle doxai umane, trova la sua più appropriata
collocazione subito dopo B 8.52 fornendo anche il sogget-
to (brotoi «i mortali» di v. 39) di katethento «imposero» di B
8.53 e dando un senso a un diversamente incomprensibile
gar «infatti» nello stesso verso. E anche apatêlon «inganne-
vole» di B 8.52 sembra anticipare a breve distanza il succo
di B 8.38b–41, e infine meglio si spiega in questo assetto il
futuro estai «sarà» di B 8.38, che, posto ora proprio sulla
soglia della Via delle doxai, può assumere una funzione
di marca narrativa nello sviluppo del poema («saranno
nome», «faranno da nome» di qui in poi, nell’esposizione
della Via delle doxai).
Ma se varie e forti sono le ragioni per ipotizzare che
B 8.34–41 subisse, nel corso della trasmissione del testo
parmenideo fino all’esemplare usato da Simplicio, una
traslocazione dalla sua sede originaria (e cioè da una
posizione immediatamente successiva a B 8.52), sor-
prende che i sostenitori della trasposizione non abbiano
avvertito un qualche disagio nel passaggio da B 8.52 a B
8.34 e non abbiano cercato di spiegare quale funzione
potesse avere in questo nuovo assetto il de a principio di

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1. Fallacia cognitiva e rifondazione del noos 35

B 8.34 (in altre parole, come può la frase «e / ma la stessa


cosa è pensare e la condizione per cui si pensa» porsi in
immediata continuazione rispetto a «impara di qui in
poi le nozioni mortali ascoltando l’ordine ingannevole
delle mie parole»?).
Se con evidente profitto si vuole porre B 8.34–41 dopo
B 8.50–2, occorre ipotizzare anche la caduta, fra B 52 e B
34, di (almeno) un verso che garantisse, nel segno della
nozione di ‘inganno’ e di doxa, una plausibile transizione
fra B 8.52 e B 8.34. Se di un solo verso si trattava, questo
poteva consistere, sulla linea di B 1.30, in qualcosa come
«infatti al di fuori dall’essere non è possibile vera cono-
scenza» quale base alla replica «ma la
29
stessa cosa è pensare
e la condizione per cui si pensa...».

8. Il proemio della Via delle doxai: testo e traduzione

Ecco dunque testo e traduzione di tutta la parte che


doveva formare l’introduzione alla Via delle doxai (B
8.50–52 + B 8.34–41 + B 8.53–61 + B 16 + B 9):
8.50 ejn tw`i çoi pauvw piçto;n lovgon hjde; novhma
ajmfi;ç ajlhqeivhç, dovxaç dΔ ajpo; tou`de broteivaç
8.52 mavnqane kovçmon ejmw`n ejpevwn ajpathlo;n ajkouvwn.
ã Ã
8.34 twujto;n dΔ ejçti; noei`n te kai; ou{neken e[çti novhma:
8.35 ouj ga;r a[neu tou` ejovntoç ejn w|i pefatiçmevnon ejçtivn
euJrhvçeiç, to; noei`n: oujde;n ga;r ãh]Ã e[çtin h] e[çtai
a[llo pavrex tou` ejonv toç, ejpei; tov ge Moi`rΔ ejpevdhçen

29. Se il blocco costituito da un simile verso perduto e da B 8.34–41


era caduto in una certa fase della trasmissione del testo, non sarebbe
strano che fosse poi reinserito, in una nuova (ed erronea) collocazione,
non nella sua integrità ma, per così dire, dopo aver perso qualcosa per
strada.

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36 Il migliore dei mondi impossibili

ou\lon ajkivnhtovn tΔ e[menai: tw`i pavntΔ o[nomΔ e[çtai,


o{çça brotoi; katevqento pepoiqovteç ei\nai ajlhqeva,
8.40 givgneçqaiv te kai; o[lluçqai, ei\naiv te kai; oujciv,
8.41 kai; tovpon ajllavççein diav te crova fano;n ajmeivbein.
8.53 morfa;ç ga;r katevqento duvo gnwvmaiç ojnomavzein
tw`n mivan ouj crewvn ejçtin, ejn w|i peplanhmevnoi eijçivn,
8.55 ajntiva dΔ ejkrivnanto devma kai; çhvmatΔ e[qento
cwri;ç ajpΔ ajllhvlwn, th`i me;n flogo;ç aijqevrion pu`r,
h[pion o[n, mevgΔ ejlafrovn, eJwutw`i pavntoçe twujtovn,
tw`i dΔ eJtevrwi mh; twujtovn: ajta;r kajkei`no katΔ aujtov
tajntiva nuvktΔ ajdah`, pukino;n devmaç ejmbriqevç te.
8.60 tovn çoi ejgw; diavkoçmon ejoikovta pavnta fativzw,
wJç ouj mhv potev tivç çe brotw`n gnwvmhi parelavççhi.
16.1 wJç ga;r eJkavçtotΔ e[cei krh`çin melevwn poluplavgktwn,
tw;ç novoç ajnqrwvpoiçi parevçthken: to; ga;r aujtov
ejçtin o{per fronevei melevwn fuvçiç ajnqrwvpoiçin
16.4 kai; pa`çin kai; pantiv: to; ga;r plevon ejçti; novhma.
9.1 aujta;r ejpeidh; pavnta favoç kai; nu;x o[nomΔ ejçtiv
kai; ta; kata; çfetevraç dunavmeiç ejpi; toi`çiv te kai; toi`ç,
pa`n plevon ejçti;n oJmou` faveoç kai; nukto;ç ajfavntou
9.4 i[çwn ajmfotevrwn, ejpei; oujdetevrwi mevta mhdevn.
8.50 Con ciò chiudo il ragionamento affidabile e il pensiero
sulla realtà, ma tu impara di qui in poi le illusioni mor-
tali
8.52 ascoltando l’ordine ingannevole delle mie parole.
<Infatti fuori dall’essere non è possibile vera conoscenza,>
8.34 ma la stessa cosa è pensare e la condizione per cui si pensa,
8.35 ché senza l’essere non troverai ciò in cui esso
è formulato, e cioè il pensare. Nient’altro infatti è
o sarà al di fuori dell’essere, ché Moira lo vincolò
a essere intero e immobile: gli faranno da nome tutte
le cose che i mortali stabilirono confidando che fossero reali:
8.40 nascere e morire, essere e non essere,
8.41 cambiare luogo, permutare lucente colore.
8.53 Ché imposero alle percezioni, per nominarle, due forme,
di non una delle quali c’è bisogno, e in ciò si sono smar-
riti.

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1. Fallacia cognitiva e rifondazione del noos 37
30
8.55 Distinsero opposte figure e vi posero segni distinti
gli uni dagli altri: di qua etereo fuoco di fiamma,
mite, molto leggero, identico a se stesso in ogni direzione,
diverso rispetto all’altra figura, ma pur quello in se stesso;
notte cieca all’opposto, corpo denso e pesante.
8.60 Questo cosmo plausibile in tutto ti annuncio
16.1 affinché nessuno dei mortali mai ti oltrepassi con l’intelletto.
Come infatti di volta in volta ha la fusione delle membra
erranti, così il pensiero si presenta agli uomini: altro non è
che ciò che la natura delle membra medita per gli uomini,
16.4 tutti e ciascuno, e pensamento è ciò che prevale.
31
9.1 Ma poiché tutte le cose sono denominate luce o notte32
e i loro poteri fanno da nome alle une cose e alle altre,
tutto è colmo simultaneamente di luce e notte oscura,
9.4 pari 33entrambe: nessuna cosa non è parte d’una delle
due.

30. Accolgo la correzione devma di Platt 1911; devmaç la tradizione mano-


scritta di Simplicio (qui testimone unico), che dà un’indicazione troppo
generica, priva di un referente plausibile («die Gestalt» rendeva Kranz).
31. Accolgo la correzione o[nomΔ ejçtiv di Diels 1897: 101 (cf. B 8.38) per
l’ametrico wjnovmaçtai dei codici DE e l’anomala forma di perfetto ojnov-
maçtai del codice F della tradizione di Simplicio, generalmente accolta
dagli editori (nenovmiçtai P. Von der Mühll, cf. B 6.8).
32. Come nella resa di Kranz, considero ta; kata; çfetevraç dunavmeiç
«ciò che attiene ai loro poteri» = «i loro poteri» (con çfetevraç = «di esse»,
come in Pind. Ol. 13.61 e altrove, non «proprie») come il soggetto e o[nomΔ ejçtiv
il predicato nominale implicito (con ejpiv che esprime relazione o riferimento),
cosicché la totalità delle cose esistenti è ripartita in toi`çiv te kai; toi`ç.
33. Reale–Ruggiu 1991: 111 e 329 intendono l’ultima frase «perché con
nessuna delle due (luce e notte) c’è il nulla», nel senso che «né la Luce né
la Notte sono nulla: e quindi sono, cioè sono Essere; e poiché tutto è pieno
ugualmente di Luce e di Notte oscura, e quindi tutte le cose, in quanto sono
costituite nel loro essere e nella loro determinata modalità di essere da
questi principii, esse per ciò sono, cioè in esse si esprime e si manifesta
l’Essere», ma che qui e in B 6.2 mhdevn possa denotare il nulla (il non–
essere) è molto dubbio (ovviamente diverso, data la presenza dell’articolo,
il caso di tou` mhdenovç in B 8.10). Analoga espressione appare usata da
Empedocle in 31 B 17.33 ejpei; tw`ndΔ oujde;n e[rhmon.

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Capitolo II

La Via delle Illusioni

1. La mappa delle vie

Una vecchia e irrisolta questione è quante e quali siano


le vie che attraversavano il mondo di Parmenide (i più
agguerriti sostenitori dell’esistenza di tre vie sono stati
Reinhardt 1916 e Cornford 1933, di due vie Cordero 1979
e 2004 e Nehamas 1981). La situazione, anche per lo stato
lacunoso del poema, è a prima vista confusa.
In 28 B 1.28–32 D.–K. la dea dichiara che il suo allievo
dovrà conoscere ogni cosa (panta) — sia il cuore di Realtà ro-
tonda sia le doxai dei mortali — e poi ribadisce, con una coda
introdotta da «e tuttavia» (all’empês al v. 31), che egli dovrà
imparare come tutte le cose che appaiono debbano proporsi 1
in modo del tutto accettabile nel loro essere dappertutto.
Non c’è dubbio che un tale programma sia ripreso
nella sezione proemiale della Via delle Illusioni: brotôn

1. Non è condivisibile la tesi di Reale–Ruggiu 1991: 11–2, 89 n. 8 e 194–


209 e di Curd 1997: 98–126, già rifiutata da Cerri 1999: 185–86, secondo cui
in B 1.31 tau`ta non si riferirebbe alle testé menzionate doxai dei mortali,
ma comporterebbe una terza possibilità (la via che cerca di riguadagnare i
fenomeni nell’ottica dell’essere, la via delle cose che appaiono considerate
nella verità del loro apparire). Senonché tau`ta deve avere, come qua-
si sempre, funzione epanalettica, non prolettica, come conferma anche
l’evidente ripresa di doxaç con ta; dokeu`nta.

39

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40 Il migliore dei mondi impossibili

doxas «le illusioni dei mortali» di B 1.30 è ripreso da


doxas broteias «le illusioni mortali» di B 8.51, Alêtheiês
... êtor «il cuore di Realtà» di B 1.29 da amphis alêthês
«intorno a realtà» di B 8.51, pistis alêtheiês «certezza di
realtà» di B 1.30 da piston logon «discorso affidabile»
di B 8.50, mathêseai «imparerai» di B 1.31 da manthane
«impara!» di B 8.52, e infine dokimôs «plausibilmente»
di B 1.32 è sullo stesso piano di eoikota «plausibile» di
B 8.60.
Le cose si complicano con B 2, B 6 e B 7.
In B 2 la dea esorta a comprendere quali siano le sole
vie di ricerca, e cioè:

— hê men hopôs estin te kai hôs ouk esti mê einai «l’una


secondo cui è lecito e non è lecito che non sia lecito»
(v. 3),
— hê d’ hôs ouk estin te kai hôs chreôn esti mê einai «l’altra
secondo cui non 2
è lecito ed è necessario che non sia
lecito» (v. 5).

Ma questa seconda via è dichiaratamente un sentiero


del tutto inaffidabile (panapeuthea al v. 6) poiché il non–
essere non si può né conoscere né formulare, e dunque
tale via non può coincidere con la Via delle
3
doxai (le quali
possono essere plausibili e appropriate, seppur non vere),
ma trova riscontro nelle «cose che non sono» di cui in B
7.1–2 si dice che non potrà mai essere dimostrato che
esistano davvero.

2. Sul problema del soggetto e del senso di e[çtin e sull’interpretazione


di queste due proposizioni vedi IV § 6.
3. Per ejoikwvç come «plausibile», «conveniente», «idoneo», «appropria-
to» cf. Hom. Il. 9.399 eji>kui`an a[koitin e Od. 1.39 (di Egisto giustamente
ucciso) ejoikovti kei`tai ojlevqrwi, 3.125 ejoikovta muqhvçaçqai e 4.239
ejoikovta ga;r katalevxw.

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II. La Via delle Illusioni 41

Alla Via delle doxai si fa invece riferimento in B 6.4–9


descrivendola come percorsa da mortali che nulla sanno,
bicefali, sordi e ciechi, storditi, che considerano essere e
non–essere la stessa cosa e, al contempo, cosa diversa.
É un quadro, non si sa se più sarcastico o dolente, della
specie umana (su cui torneremo a § 4), molto simile a
quello che incontriamo in B 7.3–6 nell’ambito di un invito
a evitare che l’abitudine basata sull’esperienza sensibile
spinga l’allievo a «dirigere occhio che non vede, orecchio
e lingua rombanti».
Sarebbe davvero strano se il quadro delineato in B 6
illustrasse in che cosa consistono le doxai dei mortali e
invece quello offerto in B 7.3–6, per quanto molto simile,
si riferisse alla Via del non–essere.
Il problema è insolubile se assumiamo come base di
partenza l’assetto testuale in cui questi brani universal-
mente si presentano a partire dall’appendice alla quarta
edizione (1922) dei Fragmente4
der Vorsokratiker e dal testo
della quinta (1934–1937). Senonché quella che a partire
dal 1922 viene replicata da tutti gli editori non è la tradi-
zione dei testimoni, bensì una rielaborazione operata da
Diels sulla base delle considerazioni svolte da Reinhardt
nel suo saggio su Parmenide del 1916.
Fra II e III secolo d.C. Sesto Empirico riporta infatti in
Adv. math. 7.111 ciò che nell’edizione di Diels–Kranz è ora
la serie di versi B 7.2–6a + 8.1b–2a (fino a leipetai) senza
soluzione di continuità subito dopo B 1.1–30. E lo stesso
Sesto, a § 114, cita nuovamente quello che ora è B 7.3–6a
continuando la parafrasi di B 1.1–30, e con la precisazione:
«(Parmenide) alla fine (cioè alla fine del proemio) chiarisce
che non bisogna prestare attenzione alle sensazioni, bensì
alla ragione».

4. Per una storia delle edizioni moderne di Parmenide vedi Cordero


1987.

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42 Il migliore dei mondi impossibili

È vero che Sesto non riporta due versi (B 1.31–2) che sono
invece citati da Simpl. Cael. 557.20 unitamente a B 1.28b–30,
ma, come notava Diels nella sua edizione del 1897, la caduta
di questi due versi nella tradizione di Sesto (o nell’esemplare
usato da Sesto) si spiega per omeoarcto, visto che B 1.28 e B
1.31 (e anche B 7.2) iniziano entrambi con alla.

2. La mappa dei frammenti

Aggiungiamo due dati:

— Anche se viene citata da sola in Plat. Soph. 237a la


coppia di versi B 7.1–2 è stata agglutinata da Diels a B 7.3–6
in quanto Sesto cita B 7.2–6, cosicché il verso B 7.2 risulta
essere comune a entrambi i testimoni, ma questo dato di
fatto può anche significare, come vedremo meglio più oltre,
che tale verso ricorreva in due distinti passi del poema.
— La lunga serie di versi B 8.1b–52 è riportata da Simpl.
Phys. 144.29, ma in Phys. 78.5 lo stesso Simplicio cita B 8.1b–
14 subito dopo 7.2 anteponendovi un «aggiunge» (epagei)
che parrebbe comportare immediata successione (e infatti
in Phys 38.28 Simplicio introduce B 8.50–61 con epagei dopo
aver detto che la dea ha concluso il ragionamento intorno5
all’intelligibile che effettivamente termina in B 8.49).

Se accogliamo l’assetto esibito da Sesto non abbiamo


alcun riferimento in B 7.3–6a alla Via del non–essere di B
7.1 perché B 7.3–6a tiene dietro al primo riferimento nel
poema (B 1.30–32) alla Via delle doxai.

5. Quando, al contrario, la successione non è immediata, troviamo da


parte di Simplicio precisazioni quali metΔ ojlivga (Phys. 180.8) per la citazi-
one di 28 B 9 dopo 28 B 8.59 e pleivona ... a[lla eijpwvn (Phys. 159.13) per
la citazione di Emped. 31 B 21 dopo 31 B 17.

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II. La Via delle Illusioni 43

Dobbiamo inoltre chiarire subito il significato della


frase (B 1.31–2)
wJç ta; dokeu`nta
crh`n dokivmwç ei\nai dia; panto;ç pavnta per o[nta.
come le cose che 6appaiono
dovrebbero, tutte dappertutto, essere plausibilmente esistenti.

Testo e interpretazione sono stati vivacemente discus-


si, e spesso si è adottata
7
in fine di v. 32 la variante perônta
«(at)traversanti» registrata dal codice A di Simpl. Cael.
557.20 e accolta anche da Diels–Kranz, che pregiudica il
senso del passo e non trova riscontro nel resto del poema
a noi noto.
Mi limito a indicare quella che credo di aver individuato
come l’interpretazione corretta (per una dettagliata ras-
segna delle varie esegesi vedi Mourelatos 1970: 194–221
e Brague 1987: 44–68).
Il primo aspetto da sottolineare è che la presenza
dell’avverbio dokimôs a contatto con ta dokeunta «le
cose che appaiono» comporta un cortocircuito etimo-
logico, già messo in atto ad altro fine da Eraclito quan-
do dichiarava che in 22 B 28 che «(anche) l’uomo più
accreditato (dokimôtatos) riconosce e salvaguarda cose
apparenti (dokeunta)». In effetti dokimôs da un lato vale
«accettabilmente», «plausibilmente», «giustamente»,

6. Inizialmente Diels aveva corretto dokivmwç in dokimw`ç(ai) «anneh-


men», «saggiare» (rara formaalternativa di dokimavzein), ma poi Kranz,
anche perché la desinenza -çai dell’infinito aoristo non si elide nell’epica
(Reinhardt 1916: 6), ha giustamente optato per dokivmwç («auf eine probe-
hafte, wahrscheinliche Weise»).
7. Questa variante è riportata dal solo codice A, mentre l’archetipo di
Simpl. Cael. 557.20 aveva certamente per o[nta, che è la lezione comune ai
codici DEF ed è stata difesa da Owen 1960: 86–9, Mourelatos 1970, 212 ss.,
Reale–Ruggiu 1991: 89 e 200–8, Cerri 1999: 185–86.

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44 Il migliore dei mondi impossibili

secondo la relazione di dok– con dech– di dechomai che


appare ancora in primo piano in Alc. fr. 6.12 V. (vedi
Page 1955: 184) e secondo il senso che dokimôs mostra
di avere negli altri passi in cui ricorre (Aesch. Pe. 547,
e Xen. Cyr. 1.6.7, Philostr. VS 2.627), dall’altro viene a
corrispondere a kata doxan «secondo apparenza» di B
19.1, nel senso che la dea attribuisce alle cose che appa-
iono un tipo di esistenza compatibile con l’ambito delle
doxai (vedi Palmer 1999: 83).
Un audace virtuosismo espressivo è poi il nesso einai ...
eonta «essere esistenti». Sul piano sintattico si tratta della
costruzione ‘perifrastica’ di eimi + participio, attestata in
Omero solo con il participio perfetto (cf. ad es. Il. 4.211),
ma rintracciabile anche con il participio presente in He-
raclit. 22 B 52
aijwn; pai`ç ejçti paivzwn, peççeuvwn: paido;ç hJ baçihivh.
Il tempo è un fanciullo che gioca, che si diverte con la dama:
il regno di un fanciullo.

e poi nella poesia (ad es. Aristoph. Eq. 468) come nella
prosa (ad es. Herodot. 2.170.2) del quinto secolo.
La particolarità per cui tale costruzione consta qui di
due elementi (einai ed eonta) che sono ambedue forme
del verbo ‘essere’ esprime nella forma più densa l’idea,
formulata in B 8.38–41, secondo cui nell’ambito delle
doxai l’essere si frammenta in una pluralità di enti che
rispetto all’essere sono mere apparenze, nomi affissi dagli
uomini:
tw`i pavntΔ o[nomΔ e[çtai
o{çça brotoi; katevqento pepoiqovteç ei\nai ajlhqeva,
40 givgneçqaiv te kai; o[lluçqai, ei\naiv te kai; oujciv,
kai; tovpon ajllavççein diav te crova fano;n ajmeivbein.

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II. La Via delle Illusioni 45
8
Ad esso faranno da nome tutte le cose
che i mortali stabilirono confidando che fossero reali:
40 nascere e morire, essere e non essere,
cambiare luogo, permutare luminoso colore.

Anche qui abbiamo il paradosso per cui l’essere (con-


giuntamente al non–essere) è riferito al mondo delle doxai
dal momento che su questo piano illusorio einai non può
che assumere il senso debole caratteristico del linguaggio
approssimativo degli uomini: ‘essere’ come essere al mon-
do, apparire, vivere, sussistere, opposto a un non–essere
come morire, scomparire etc.
Pertanto, come prova anche il loro inserimento in9
un’ottica del dover essere marcata da chrên «dovrebbero»,
in B 1.31–2 si vuol dire10che le cose che appaiono possono
assumere dappertutto una condizione plausibile di esi-
stenza solo nell’ambito di un modello virtuale che può e
deve essere costruito dalla dea. Così la scelta della costru-
zione perifrastica fa risaltare, rispetto a un semplice einai,
il disporsi delle cose esistenti nel volgere del tempo, non
nell’immobilità atemporale dell’essere.

8. Opto per la lezione o[nomΔ e[çtai del codice F (ou[nomΔ D), confer-
mata da o[nomΔ ei\nai nella parafrasi del verso in Plat. Theaet. 180d, contro
ojnovmaçtai dei codici E e W di Simpl. Phys. 86 (Tarán 1987: 261–62 offre un
quadro più preciso della tradizione testuale rispetto a D.–K.). Sulla funzi-
one del futuro vedi sopra, I § 7.
9. Reinhardt 1916: 7–9 ipotizzava che crh`n non avesse qui, come di consue-
to, connotazione di irrealtà, ma indicasse una necessità proiettata nel passato
(«dovevano», «era destino che»), come in Herodot. 1.8.2 crh`n ga;r Kandauvlhi
genevçqai kakw`ç (e anche Reale traduce: «come le cose che appaiono bisognava
che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso»). Ma in Erodoto l’orizzonte
semantico è determinato dal fatto che la frase citata è un inciso all’interno di un
racconto; invece in Parmen. 29 B 32 non c’è alcun riferimento contestuale al pas-
sato e l’enunciato si collega al futuro maqhvçeai del v. 31.
10. Per il poliptoto dia; panto;ç pavnta per cf. B 4.3 pavnthi pavntwç
e Heraclit 22 B 41 pavnta dia; pavntwn. La particella per ha funzione
intensiva, non concessiva.

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46 Il migliore dei mondi impossibili

3. Dissuadendo

Se ci atteniamo alla tradizione dei testimoni veniamo a


capo anche di un’altra questione, e cioè perché mai la dea,
dopo aver annunciato l’esposizione della Via delle doxai in
B 1.30–2 e prima di mettere in atto il suo proponimento
a partire da B 8.50, cerchi di distogliere in B 6 la mente
dell’allievo non solo dalla Via del non–essere ma anche
da quella delle doxai (B 6.1–5):
crh; to; levgein to; noei`n tΔ ejon; e[mmenai: e[çti ga;r ei\nai,
mh; dΔ ejo;n oujk e[çtin: tav çΔ ejgw; fravzeçqai a[nwga.
prwvthç gavr çΔ ajfΔ oJdou` tauvthç dizhvçioç ãei[rgwÃ,
aujta;r e[peitΔ ajpo; th`ç h}n dh; brotoi; eijdovteç oujde;n
5 plavzontai.
11
Questo bisogna dire 12
e pensare: l’essere
13
è, ché può essere,
ma ciò che non è non può essere. Su ciò ti esorto a
meditare.

11. Come ricorda Cordero 1987: 19–20, la tradizione manoscritta di


Simplicio è concorde nel registrare to; noei`n, non, come riportato in
D.–K., te noei`n. Probabilmente i due tov non sono articoli, ma dimostra-
tivi prolettici rispetto all’infinitiva ejo;n e[mmenai.
12. Kranz in apparato (seguito da Untersteiner 1958: CXI) riteneva che
mhdevn, la lezione tramandata in Simpl. Phys. 86, equivalesse a mh; ejovn e
richiamava B 8.10, dove però mhdevn è accompagnato dall’articolo (tou`
mhdeno;ç ajrxavmenon). In effetti il rimando al non–essere emerge con chiar-
ezza se, come non sembra sia stato proposto, leggiamo mh; dΔ ejonv basan-
doci sulla lezione (corrotta) mhdeoid di Simpl. Phys. 117 (dove ID può essere
corruzione di N).
13. Non condivido il modo in cui e[çti ga;r ei\nai ... oujk e[çtin è
reso da Kranz («denn Sein ist, ein Nichts dagegen ist nicht») e, sulla stessa
linea, da altri (Untersteiner, Reale, Cerri): per denotare l’essere Parmenide
non impiega l’infinito senza articolo ed e[çti + infin. non può che signifi-
care «è per», «è possibile che» (vedi Kirk–Raven–Schofield 1983: 247: «for it
is there for being, but nothing is not»).

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II. La Via delle Illusioni 47
14
Da questa prima via di ricerca <ti distolgo>
e poi da15quella su cui mortali che nulla sanno
5 vagano […]

Notando che in B 6.1–2 non si enunciano le vie dell’es-


sere e del non–essere ma solo quella dell’essere (di cui
l’inesistenza del non–essere è parte), Cordero (1979 e
2004) ha rifiutato l’integrazione eirgô «distolgo» di Diels
in fine di v. 3 (un’integrazione che nella tecnica formulare
di Parmenide sembra invece confortata16dal confronto con
B 7.2) proponendo arxei «comincerai».

14. Si è osservato che questa ‘prima’ via di ricerca si identifica con


quella che in B 2 era presentata come ‘la ‘secconda’, ma prwvthç può ben
essere inteso non in senso assoluto ma in relazione alle vie da cui la dea
intende distogliere il kouros (vedi Kirk–Raven–Schofield 1983: 247: «this is
the first way of inquiry from which I hold you back»).
15. Il plavttontai della tradizione manoscritta di Simplicio, riprodot-
to fino all’ultima edizione di Diels–Kranz benché dichiarato «corrotto» in
apparato da Kranz, non è comunque accettabile nello ionico–epico di Par-
menide: bisogna ricorrere alle vecchie correzioni plavzontai («vagano») o
plavççontai («si inventano»), accolto da Cerri 1999: 210–11, fra le quali cre-
do sia da preferire plavzontai, che si accorda con plagktovn e forou`ntai
dei vv. 5-6. La peregrina idea di Diels 1897: 72–3 secondo cui plavttontai
sarebbe una variante dialettale italica di plavzontai sulla base di ragguagli
forniti da Eraclide di Milato in merito al dialetto (dorico!) di Taranto è
stata ripresa da Passa 2009: 104–11, che ha richiamato alternanze come aJr-
movççw/aJrmovzw e aijnivzomai/aijnivççomai, ma non si vede quale sollecita-
zione potesse indurre Parmenide a optare per una forma periferica (e a noi
del tutto sconosciuta) di un verbo che nella forma plavzw appare non solo
ben radicato nella tradizione epica ma più volte ricorre, come qui, in prin-
cipio di esametro (Hom. Il. 10.91, 17.751, 21.269, Od. 2.396, 3.252, 5.389, 14.43,
16.151). Una ragione della corruzione plavzontai > plavttontai potrebbe
essere stata la rarità della costruzione (per altro perfettamente legittima) di
plavzomai con l’acc. semplice.
16. Più corretta dell’atticismo a[rxei sarebbe stata la forma a[rxhi (cf.
B 10.1 ei[çhi e 4 peuvçhi). Inoltre Cordero si sbarazza di un çΔ divenuto
scomodo a favore di tΔ (te), attestato nei manoscritti B e C di Simpl. Phys.
117.2 ma rarissimo già in Omero in nesso con gavr se non quando te abbia

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48 Il migliore dei mondi impossibili

Ricorrendo, ma indipendentemente da Cordero, a


una diversa forma dello stesso verbo, Nehamas 1981 ha
suggerito arxô «comincerò», abbinato a s(oi) non a s(e)
nella prima parte del verso (la sua proposta è stata accol-
ta da Palmer 2009: 65–9), ma del costrutto ipotizzato da
Nehamas non si conoscono paralleli né si capisce perché
mai la dea dovesse concentrare l’ attenzione dell’allievo
esclusivamente sul punto di partenza delle vie da percor-
rere e impiegare, per l’azione di imboccare una strada, un
costrutto tipicamente legato ad azioni di allontanamento
qual è apo + genitivo.
Recuperando invece l’integrazione eirgô otteniamo
per B 6 una situazione del tutto affine a quella del pro-
emio (comprensivo, beninteso, della sua ‘coda’ costi-
tuita da ciò che in D.–K. è ora B 7.2–6a + B 8.1b–2a):
la dea accenna alla terza via (doxai dei mortali) solo per
distogliere da essa il suo allievo poiché sul momento
è assolutamente prioritaria l’esposizione della Via
dell’essere.
Per due volte la dea mette in atto un procedimento di
dissuasione affine a quella pratica che la moderna neu-
ropsicologia definisce di ‘de–automatizzazione’ (Gemelli
Marciano 2008: 39–41) e in entrambi i casi tale opera-
zione ha valore solo provvisorio in quanto la Via delle
doxai sarà riproposta, in linea con B 1.30–2, a partire da
B 8.50.
I due procedimenti di ‘de–automatizzazione’ messi
in atto dalla dea hanno la funzione di liberare la mente
dell’allievo (e dell’uditorio) da presupposti invalsi e pre-
messe fallaci (l’abitudine radicata nell’esperienza sensi-
bile) inducendolo a concentrare la mente sull’arduo ma

funzione generalizzante (le uniche eccezioni rispetto a un piano senten-


zioso o comunque iterativo sembrano essere Il. 9.410, 15.197 e 23.156, non
invece Od. 7.307 e 12.105, citati da Cordero 2004: 124).

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II. La Via delle Illusioni 49

irrinunciabile compito di17


riconoscere i segni scaglionati
lungo la Via dell’essere.
Quanto alla prima
18
via da evitare, si tratta della Via
del non–essere. Se infatti Cordero ha ragione a sotto-
lineare che la Via del non–essere è quella che dichiara
l’esistenza, non l’inesistenza, del non–essere, è tuttavia
legittimo intendere in B 6.3 che questa prima via di
ricerca da cui il giovane deve distogliere il pensiero
è quella che riguarda il non–essere, cioè mê... eon (o,
secondo il testo tràdito, mêden) in principio di B 6.2
(Cerri 1999: 205), non il fatto che il non–essere non sia,
tanto più che la discussione di cui B 6.1–2 costituisce
la superstite conclusione doveva vertere appunto sul
non–essere, come si ricava da Simpl. Phys. 144.29, che
introduce la citazione di B 8.1b–52 parlando di una se-
zione che segue alla «eliminazione (anairesin) del non–
essere» (e a tutta questa discussione sul non–essere, e
non solo ai vv. 1–2a, deve riferirsi il pronome ta «queste
cose», «ciò» del v. 2).
Visualizziamo allora il risultato complessivo di questa
ricostruzione che non altera i dati della tradizione e che
riguarda due blocchi di versi (a e b) che costituivano
rispettivamente la coda del proemio e l’avvio del lungo
brano sull’essere:
a (= B 1.28–32 + B 7.2–6a + B 8.1b–2a)

17. Lesher 1984: 29–30 e Robbiano 2005: 129–30 hanno giustamente


osservato che i çhvmata di B 8.2 sono segni di riconoscimento (modi per
identificare l’essere), tekmhvria, cf. Hom. Od. 19.250 = 23.206 e 23.225–
26. Analogamente, i çhvmata di B 8.55 sono segni per identificare luce e
notte.
18. Alla Via dell’Essere come via da accantonare provvisoriamente
pensava invece Tarán 1965: 59–61, che però, notando che sarebbero poste
sullo stesso piano sintattico due vie di cui l’una dovrebbe essere accanto-
nata provvisoriamente e l’altra definitivamente, postulava la lacuna di un
verso fra v. 3 e v. 4.

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50 Il migliore dei mondi impossibili

1.28 crew; dev çe pavnta puqevçqai


hjme;n ΔAlhqeivhç eujkuklevoç ajtreke;ç h\tor
1.30 hjde; brotw`n dovxaç, tai`ç oujk e[ni pivçtiç ajlhqhvç.
ajllΔ e[mphç kai; tau`ta maqhvçeai, wJç ta; dokeu`nta
1.32 crh`n dokivmwç ei\nai dia; panto;ç pavnta per o[nta.
7.2 ajlla; çu; th`çdΔ ajfΔ oJdou` dizhvçioç ei\rge novhma
mhdev çΔ e[qoç poluvpeiron oJdo;n kata; thvnde biavçqw
nwma`n a[çkopon o[mma kai; hjchveççan ajkouhvn
7.5 kai; glw`ççan, kri`nai de; lovgwi poluvdhrin e[legcon
7.6a ejx ejmevqen rJhqevnta, movnoç dΔ e[ti qumo;ç oJdoi`o 8.1b
8.2a leivpetai.
1.28 19
Ma bisogna che tutto tu apprenda:
il cuore genuino di Realtà rotonda e le illusioni
1.30 dei mortali, in cui non vi è certezza di realtà.
E tuttavia pur questo imparerai, come le cose che appaiono
1.32 dovrebbero, tutte dappertutto, essere plausibilmente
esistenti.
7.2 Ma tu distogli l’attenzione da questa via di ricerca,
né l’abitudine fondata sull’esperienza ti forzi su questa via
a dirigere occhio che non vede 20
e orecchio e lingua
7.5 rombanti, ma scegli la prova polemica addotta

19. Soprattutto sulla base del confronto con Pind. Ne. 5.16–7 ou[ toi
a{paça kerdivwn faivnoiça/provçwpon jAlavqeiΔ ajtrekevç opto con
Passa 2009: 63–5 per la lezione ajtrekevç di una parte della tradizione
manoscritta di Sesto Empirico e di quella di Plut. Col. 1114d (il resto della
tradizione ha ajtremevç, generalmente accolto dagli editori).
20. È stato sostenuto, nel quadro della disposizione dei frammenti
adottata in Diels–Kranz, che questa ‘prova’ si riferisce a una sezione
precedente del discorso della dea (Mansfeld 1964: 43–4, Mourelatos 1970:
90–1, Coxon 1986: 192), in particolare a B 2, ma è del tutto improbabile
che fosse identificata con un poluvdhriç e[legcoç un’argomentazione
così succinta come quella contenuta in B 2. Un’approfondita messa in
atto dell’accertamento dell’essere avviene solo, per quanto ci risulta, in
B 8 (Curd 1998: 62), e il participio aoristo rJhqevnta può avere funzione
‘prospettica’ (la prova che ti sarà stata addotta).

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II. La Via delle Illusioni 51
21
7.6a dal mio discorso. Così resta solo il desiderio 8.1b
8.2a di una via.

b (= B 7.1–2 + B 8.1b–1a)
7.1 ouj ga;r mhvpote tou`to damh`i ei\nai mh; ejovnta:
7.2 ajlla; çu; th`çdΔ ajfΔ oJdou` dizhvçioç ei\rge novhma.
..............................................................
8.1b ............................ mou`noç dΔ e[ti mu`qoç oJdoi`o
8.2a leivpetai wJç e[çtin:
7.1 Mai sarà dimostrato che siano le cose che non sono,
7.2 ma tu distogli l’attenzione da questa via di ricerca.
.....................................................................
8.1b ............................... così resta solo l’annuncio
22
8.2a di una via: che è lecito.

Come si vede dai segmenti sottolineati (e in corsivo nel-


la traduzione), le due serie a e b hanno un verso in comune
(B 7.2) che si presenta come il sesto della sequenza a e il
secondo della sequenza b, e inoltre monos d’eti .... hodoio /
leipetai alla fine della sequenza a si replica in larga misura
alla fine della sequenza b. Ma sono fatti che non possono

21. Kingsley 2003: 128–50 e 566–68 ha osservato che lovgwi non può
significare, come spesso si intende, «ragione» perché questa è una valenza
che non si affaccia prima di Platone, bensì «talk», «discussion», e pertan-
to ha proposto di emendare lovgwi in lovgou sostenendo che non può
trattarsi di un invito della dea a discutere la questione con lei. Di qui la
traduzione: «judge in favor of the highly contentious demonstration of
the truth contained in these words as spoken by me» (vedi anche Gemelli
Marciano 2008: 40 n. 55). Kingsley ha portato valide obiezioni alla resa di
lovgoç come «ragione» e a favore di kri`nai come «judge in favor of» (o
«scegli», cf. Hom. Il. 9.521), ma la difficoltà si può risolvere, senza alterare
il testo tramandato, collegando lovgwi non a kri`nai ma a rJhqevnta (cf.
Aesch. Ag. 1052 levgouça peivqw nin lovgwi, Herodot. 1.95.1 to;n ejovnta
lovgon levgein).
22. Sul valore di e[çtin in questo passo vedi IV § 6.

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52 Il migliore dei mondi impossibili

essere considerati problematici all’interno del poema di


Parmenide se si pone mente al fenomeno degli iterata
nell’epica (ma anche nell’elegia) d’età arcaica, alla trama di
riprese interne
23
e di rimodulazioni nella tecnica formulare
del Nostro e alla gran copia di ripetizioni, integrali o con
più o meno sensibili variazioni, di versi e blocchi di versi
nei resti di Empedocle e nel poema di Lucrezio.
A lungo usate come strumenti di tecnica orale, le ripeti-
zioni diventano gradualmente anche espedienti didattici e
a questa stregua sono considerati già in Emped. 31 B 25
kai; di;ç gavr, o} dei`, kalovn ejçtin ejniçpei`n.
ché due volte ancora, quel che si deve, è bello raccontare

e 31 B 35.1–2:
aujta;r ejgw; palivnorçoç ejleuvçomai ejç povron u{mnwn,
to;n provteron katevlexa, lovgou lovgon ejxoceteuvwn
Ma ecco che io indietro tornerò arrivando degli inni al passo
che prima esposi, discorso dall’alveo di discorso derivando.
(Tr. di A. Lami)

E proprio in relazione a Parmenide Platone fa dire allo


Straniero di Elea (Soph. 237a) che il maestro era solito
enunciare il principio secondo cui il non–essere non è «al
principio e alla fine»
24
di ogni esposizione in versi o in prosa
del suo pensiero.

23. Ai casi ricordati a § 7 si può aggiungere che pivçtiç ajlhqhvç è clau-


sola di esametro in B 1.30 e in B 8.28, che B 2.3 e B 2.5 sono quasi identici,
e così anche pa`n dΔ e[mpleovn ejçtin di B 8.24 e pa`n plevon ejçtivn di
B 9.3.
24. Su questa testimonianza platonica vedi Sassi 2009: 218–19, che ipo-
tizza anche la «risposta a domande degli astanti, secondo una modalità di
fruizione di cui la discussione intorno al libro di Zenone, rappresentata
nel Parmenide, ci trasmette ancora un riflesso».

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II. La Via delle Illusioni 53

Ma c’è anche da notare che la seconda sovrapposizione


testuale non è totale, ma comporta tre divergenze:25
monos
(metricamente garantito) in a, mounos in b, thymos in a,
mythos in b, leipetai in a, leipetai, hôs estin in b.
In Diels–Kranz a queste divergenze non si dà alcun
peso: mounos e monos da un lato e thymos «animo» e my-
thos «discorso» dall’altro sono presentati come lezioni in
concorrenza (fra cui optare a favore di monos e di mythos),
mentre la divergenza fra leipetai «resta» e leipetai hôs estin
«resta: che è lecito» viene implicitamente ricondotta a un
diverso taglio della citazione.
Ma perché mai Sesto, se avesse avuto davanti a sé leipe-
tai, hôs estin, avrebbe dovuto concludere la sua citazione
con il solo leipetai senza arrivare alla fine della frase? Né
può essere un caso che la divergenza fra thymos e mythos
appaia correlata ai rispettivi contesti: nella sequenza a,
dato che il proemio era seguito da una discussione sul
metodo e sulle vie da seguire, non dall’esposizione della
via dell’essere, thymos «desiderio» (che replica nella stessa
sede del verso thymos di B 1.1) era la parola giusta per
creare l’attesa di un discorso sulla vera realtà ancora di
là da venire; invece nella sequenza b, poiché la dottrina
dell’essere cominciava a essere illustrata subito a principio
di B 8, mythos «discorso» era la parola giusta per introdurre
l’illustrazione del nuovo tema.
Reinhardt 1916: 34–6 contestava la primitiva ricostru-
zione di Diels del 1897 (quella aderente alla tradizione di

25. Per la precisione, secondo Kranz la tradizione di Simplicio,


nell’ambito della citazione di B 8.1–52 in Phys. 144.29 ss., è divisa fra mou`noç
(DE) e movnoç (F) (mou`noç invece nella citazione di B 8.1–14 in Phys. 78.5),
ma se consideriamo B 7.6–7a e B 8.1–2 come appartenenti a due luoghi
diversi del poema, dobbiamo, in B 8.1–2, «senz’altro optare per la forma
ionico–epica mou`noç trasmessa da una parte della tradizione simpliciana»
(Passa 2009: 87).

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54 Il migliore dei mondi impossibili

Sesto) con tre considerazioni (oltre al dato delle ripeti-


zioni):

— la lacuna dei due versi (B 1.31–2), noti solo da Sim-


pl. Cael. 557.20, che dobbiamo postulare all’interno
della citazione del proemio fatta da Sesto Empirico
e che Diels attribuiva a omeoarcto, non è verosimile
perché anche nella sua parafrasi Sesto non allude ad
essi;
— la dea non può dissuadere il giovane da una via su
cui non gli ha ancora ordinato di procedere;
— la dea non può parlare della sua ricostruzione del-
le doxai come di una «via di ricerca» perché vie di
ricerca sono esclusivamente quelle dell’essere e del
non–essere.

Nessuna di queste obiezioni è decisiva.


La prima ci deve solo indurre a far risalire la caduta
accidentale dei due versi mancanti in 26Sesto all’esemplare
o alla recensione a cui Sesto attingeva, non a Sesto stesso
o alla trasmissione del suo testo.
Quanto alla seconda, la dea può distogliere l’allievo da
una via di cui non ha ancora trattato distesamente perché
è la via che gli è consueta, quella dell’esperienza sensibile
e dell’abitudine quotidiana.
Infine, che anche la Via delle doxai possa essere una «via
di ricerca» è dimostrato dalla seconda parte del poema, e
in particolare dall’uso di verbi legati alla sfera cognitiva
in B 8.52 manthane «impara!» B 10.1 eisêi «saprai», 4 peusêi
«apprenderai» e 5 eidêseis «conoscerai».

26. Secondo Reinhardt 1916: 33 Sesto trovava il presunto assemblaggio


artificiale di testi da lui registrato in una fonte intermedia di orientamento
stoico (vedi anche Sider 1985: 366), ma sull’utilizzo da parte di Sesto di
un’affidabile edizione parmenidea vedi Coxon 1986: 5 e Passa 2009: 29–31.

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II. La Via delle Illusioni 55

Resta il problema di B 2, dove emerge che le sole (mou-


nai) vie di ricerca per pensare sono la Via della Realtà e la
Via del non–essere e non si accenna affatto a una terza
via. E certo è fragile l’ipotesi di Cornford 1933: 99–100
secondo cui in B 2 sarebbero state menzionate in origine
tre vie, ma della terza non ci sarebbe più traccia a causa
del taglio della citazione: essa appare smentita dalla stessa
struttura dilemmatica del brano, con hê men «l’una» ... hê d’
«l’altra» (via) abbinati all’esplicito intento di parlare delle
sole vie per pensare così da esaurire «the logically available
possibilities» (Palmer 2009: 64–5).
Tuttavia il dato si comprende se guardiamo al tipo di
formulazione impiegato: non si discute di vie percorribili
(tant’è vero che quella del non–essere è dichiarata im-
praticabile) né di vie su cui l’allievo dovrà essere istruito,
bensì di ambiti cognitivi al cui interno sia 27
astrattamente
possibile pensare con metodo rigoroso.
Da questo punto di vista ciò che si può pensare in ter-
mini, per così dire, di ‘ragion pura’ (cioè del noos orientato
verso la vera realtà, non del noos soggetto a quella crasi
degli elementi che viene illustrata in B 16) è soltanto l’es-
sere o la sua negazione (per altro l’opzione del non–essere
si esaurisce abbastanza rapidamente come contraddittoria
e a partire da B 8.17 scompare completamente, per quanto
ci consta, dall’orizzonte del poema).
Significativo il confronto con Plat. Rsp. 476e–477a, dove
dapprima Socrate domanda a Glaucone se «chi conosce
conosce qualcosa oppure niente» (un’alternativa secca
fra le due modalità estreme dell’interamente conoscibile
e dell’interamente inconoscibile), ma poi, messa da parte
la seconda eventualità, emerge una terza opzione (vedi
Palmer 1999: 40–1):

27. Come scrive Palmer 1999: 45, «the object of knowledge must have
been a stable or necessary mode of being».

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56 Il migliore dei mondi impossibili

eij de; dhv ti ou{twç e[cei wJç ei\naiv te kai; mh; ei\nai,
ouj metaxu; a]n kevoito tou` eijlikrinw`ç o[ntoç kai; tou`
au\ mhdamh`i o[ntoç…
e se poi qualosa è nella condizione di essere e non essere, non
si trova forse a mezza via fra ciò che assolutamente è e ciò
che assolutamente non è?

4. Vicoli ciechi

L’attacco alla fallacia della conoscenza umana ha spesso


sorpreso e a partire da Bernays 1850 si è visto in 28 B 6 un
inserto polemico contro Eraclito e i suoi seguaci.
Si potrebbe obiettare che l’insipienza dei mortali
denunciata in B 6 non sembra diversa da quella che il
giovane deve evitare in B 7.3–5, dove sarebbe impossi-
bile sospettare una qualche forma di attacco al metodo
di Eraclito.
Ma esaminiamo più da vicino B 6.3–9:
prwvthç gavr çΔ ajfΔ oJdou` tauvthç dizhvçioç ãei[rgwÃ,
aujta;r e[peitΔ ajpo; th`ç, h}n dh; brotoi; eijdovteç oujde;n
5 plavzontai, divkranoi: ajmhcanivh ga;r ejn aujtw`n
çthvqeçin ijquvnei plagkto;n novon: oiJ de; foreu`ntai
kwfoi; oJmw`ç tufloiv te, teqhpovteç, a[krita fu`la
oi|ç to; pevlein te kai; oujk ei\nai twujto;n nenovmiçtai
kouj twujtovn, pavntwn de; palivntropovç ejçti kevleuqoç.
Da questa prima via di ricerca ti <distolgo>
e poi da quella su cui mortali che nulla sanno
5 vagano, bicefali: impotenza nei loro petti
indirizza pensiero errabondo, e son trascinati
sordi e ciechi a un tempo, storditi, gente confusa
per la quale essere e non essere valgono come la stessa 28
cosa
e non la stessa cosa, e così è retrograda la via di tutti.

28. Per pavntwn maschile piuttosto che neutro vedi Stokes 1960.

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II. La Via delle Illusioni 57

I vv. 3–7 non possono alludere ad alcun particolare


pensatore o ai suoi adepti, ma si inseriscono, anche per
il tessuto verbale, in una lunga tradizione di denuncia
dell’ignoranza, fragilità, volubilità, insipienza degli umani
rispetto a un sapere elitario eventualmente di tipo orfico
o comunque iniziatico.
Si va dall’insulto delle Muse ai pastori che sono «solo
ventre» in Hes. Th. 26 (ripreso da Epimen. OF 41 F in rife-
rimento ai Cretesi) e da Hom. h. Cer. 256–57 a Heraclit. 22
B 56, da Aristoph. Av. 685–87 a diversi brani di Empedocle
(31 B 2, B 11, B 124, B 132.2, B 141), da una preghiera fa-
cente parte del Carmen aureum attribuito a Pitagora (vv.
54–8) a un brano della teogonia orfica detta ‘rapsodica’ (OF
337.2–3 F), e molto simile è anche il quadro del genere
umano prospettato da Prometeo per i tempi anteriori al
dono delle arti che hanno affrancato gli uomini da una
condizione di inerme debolezza e insipienza: essi guar-
davano ma non vedevano, ascoltavano ma non udivano
(Aesch. Prom. 442–50).
La sequenza parmenidea rimodula materiale tradizio-
nale anche se non si può ignorare l’invenzione (di perso-
nale ideazione sembra appunto trattarsi) del composto
dikranoi «bicefali» per fissare plasticamente l’ambivalenza
della condizione umana, sospesa fra essere e non–essere
(come in B 8.40, nel senso ‘debole’ di esistere / non esi-
stere, apparire / scomparire nel flusso del divenire), e
insieme ritrarre gli uomini come mostri mitologici sul
tipo del tricefalo Gerione (in Soph. 240c Platone definirà
‘policefalo’ il sofista disposto a ritenere che in qualche
misura il non–essere è).
Invece i vv. 8–9 esibiscono una dizione specificamente
parmenidea sia con il segmento «essere e non essere» (cf.
B 8.40), sia con tôuton «la stessa cosa», più volte impiegato
dal Nostro per esprimere un’identità o un’equivalenza (cf.
B 3, B 8.29 e 34, B 16.2).

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58 Il migliore dei mondi impossibili

È solo in questo ambito che sembra attivarsi un puntuale


contatto con Eraclito e i suoi seguaci. la locuzione «essere
e non essere», in quanto espressione di una dialettica che
riconosce simultaneamente la realtà e l’illusorietà di una
determinata cosa o di un certo fenomeno (o addirittura di
tutte le cose nel loro complesso), è infatti attestata in Ari-
stotele e nella tradizione paripatetica come caratteristica di
Eraclito o degli eraclitei (cf. Aristot. Metaph. 3, 1005b23 e
1012a24 e Alexandr. Aphrod. Metaph. p. 336.10 Heyduck e
vedi Cerri 1999: 208–9).
Meritevole d’attenzione
29
è anche l’impiego dell’ag-
gettivo palintropos
30
per denotare una via «che si volge
all’indietro» determinando un ritorno del soggetto sui
propri passi: insomma, un vicolo cieco.
Si è spesso ipotizzato, da parte dei fautori della pole-
mica anti–eraclitea, un riferimento all’uso dello stesso
aggettivo in un passo del sapiente efesino (22 B 51):
ouj xunia`çin o{kwç diaferovmenon eJwutw`i oJmologevei:
palivntropoç aJrmonivh o{kwçper tovxou kai; luvrhç.
(Gli uomini) non capiscono come ciò che diverge converge
con se stesso: è una tensione retrograda, come quella di un
arco o di una lira.

Le estremità di un arco teso ma inerte tendono a di-


vergere in senso opposto l’una dall’altra per una duplice
spinta retrograda, ma insieme a convergere in virtù della
corda che, collegandole, genera la tensione che esalta l’effi-
cienza dell’attrezzo: un meccanismo che appunto produce
una «tensione retrograda» (Marcovich 1978: 88).

29. La variante palivntonoç è da considerare una banalizzazione fa-


vorita dalla memoria dei nessi epici palivntona tovxa (Hom. Il. 10.459) e
tovxon ... palivntonon (Hom. Od. 21.11 e 59), vedi Kahn 1979: 199–200.
30. Cf. Soph. Ph. 1222–23 palivntropoç | ... e{rpeiç, Eur. HF 1069
palivntropoç ... çtrevfetai.

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II. La Via delle Illusioni 59

Ma quale atteggiamento assume Parmenide di fronte


a questa che Orazio (Epist. 1.12.19) chiamerà rerum con-
cordia discors?
In Eraclito il Fuoco, che assolve un ruolo egemone,
si propone al pari dell’essere parmenideo come privo di
nascita e di morte anche se scandito da fasi che si alternano
nel corso del tempo (22 B 30):
kovçmon tovnde, to;n aujto;n aJpavntwn, ou[te tiç qew`n
ou[te ajnqrwvpwn ejpoivhçen, ajllΔ h\n ajei; kai; e[çtin kai;
e[çtai pu`r ajeivzwon aJptovmenon mevtra kai; ajpoçbennuv-
menon mevtra.
Questo ordinamento cosmico, che è lo stesso per tutti, non
lo ha prodotto nessuno degli dèi o degli uomini, ma sempre
fu, è e sarà, fuoco perenne che si accende e si spegne secondo
misure.

Il Fuoco si scambia con tutte le cose come l’oro si


scambia con ogni tipo di merce perché ne costituisce il
controvalore universale, e dunque tutte le cose si posso-
no definire pyros ... antamoibê «(oggetti di) scambio per il
fuoco» (22 B 90).
Relativamente a questa prospettiva Parmenide non
poteva ammettere che concordanza e discordanza stes-
sero su un piede di parità, in un bilanciamento dialettico
che annullava ogni gerarchia, né poteva accettare che il
fondamento della realtà fosse anch’esso esposto al cam-
biamento e al divenire.
Questa inevitabile divergenza di Parmenide nei con-
fronti di Eraclito ci aiuta a capire perché egli inserisca due
versi quasi ad personam, appunto i vv. 8–9, in coda a una
denuncia di taglio tradizionale della fragilità cognitiva
dell’uomo, ma insieme accetti la sfida del suo predeces-
sore facendo inoltrare la dea sulla via delle doxai, quella
appunto «dell’essere e del non–essere».

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60 Il migliore dei mondi impossibili

Sostituire il nesso palintropos harmoniê «tensione retro-


grada» con palintropos ... keleuthos «via retrograda» era un
modo per sottolineare che la tensione retrograda che suole
esaltare la funzionalità dell’arco o della lira comporta,
dopo ogni progresso conoscitivo, un inevitabile arretra-
mento, in una perenne oscillazione fra essere e non–essere
che prescinde da quella scelta basilare reclamata dalla dea
(B 8.16) — «è o non è» — che per Parmenide rappresentava
l’indispensabile premessa per indagare la vera realtà.

5. La poetica dell’inganno

Altra questione toccata nel proemio della Via delle doxai


è quella di come intendere l’esortazione della dea (B 8.52):
mavnqane kovçmon ejmw`n ejpevwn ajpathlovn.
Impara l’ordine ingannevole delle mie parole!

Com’è possibile che dopo aver condannato come


inattendibili opinioni e illusioni dei mortali, la dea si im-
pegni in una illustrazione dell’origine del nostro 31mondo
dichiarando preventivamente che l’ordine verbale che la
sua voce costruirà, e che pure merita di essere apppreso,
è «ingannevole»? E perché mai, come ha osservato Cerri
1999: 242, l’allievo «dovrebbe ‘imparare’, ‘apprendere’, le
‘opinioni umane’ dalle labbra della Dea dell’ultramondo?
Non dovrebbe conoscerle già sulla base appunto della sua
esperienza umana pregressa?».

31. Il nesso kovçmon ... ejpevwn rappresenta una iunctura più volte repli-
cata o variata (cf. Sol. fr.1.2 W.2, Pind. fr. 194.3 M., Democr. 68 B 21, OF 25 F,
Philit. fr. 10.3 CA e vedi Cerri 1999: 243–44), ricollegabile anche alla locuzi-
one epica kata; kovçmon, che troviamo applicata alla sfera del linguaggio
in Hom. Il. 2.214 e Od. 7.189, 8.489, 14.363.

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II. La Via delle Illusioni 61

Questo «ordine ingannevole di parole» è posto al servi-


zio di un «cosmo plausibile in tutto» (B 8.60 diavkoçmon
ejoikovta pavnta), ma evidentemente non ‘vero’ se con-
traddice tutto ciò che è stato affermato nella prima parte
del poema.
Untersteiner rendeva kosmon apatêlon32 con «l’arte fan-
tastica», Reale con «l’ordine seducente», e già Simplicio
(Phys. 39.10 = 28 A 34) osservava che apatêlon denota un
discorso non falso, bensì congetturale (doxaston), e lo
stesso Parmenide, come abbiamo visto a § 3, usa verbi
gnoseologicamente forti anche lungo la Via delle doxai.
D’altra parte che apatêlon significhi «ingannevole»,
«illusorio» è confermato dall’eco puntuale di Emped. 31
B 17.26:
çu; dΔ a[koue lovgou çtovlon oujk ajpathlovn.
33
Ma tu ascolta il corso non ingannevole del mio discorso.

E sulla stessa linea, per quanto riguarda il senso dell’ag-


gettivo, era già un passo omerico (Il. 1.526–27) in cui Zeus
rivendicava come «non revocabile né ingannevole (oud’

32. Nel commento Ruggiu (Reale–Ruggiu 1991: 310–13) dice che «la
doxa appare come il campo nel quale si manifesta la seduzione di una fi-
ducia che si affida agli aspetti più appariscenti, quindi non fondati, e che,
proprio per questo, ‘possono’ anche produrre inganno». Ma questa rifor-
mulazione circoscrive di molto la semantica di ajpathlovn, e oggetto del
discorso non è tanto la doxa quanto il cosmo di parole della dea, cioè la
costruzione di un ordine verbale che ha un effetto ingannatore perché non
corrisponde a un cosmo reale ma solo «plausibile» (per altro ejoikovta del v.
60 viene sorprendentemente tradotto da Reale con «veritiero»).
33. Non è necessario vedere in Empedocle una ripresa polemica: egli
oppone il suo discorso veritiero all’incapacità umana di percepire i moti
circolari di Afrodite, promotrice di inganni e illusioni (vv. 25–6 th;n ou[
tiç meta; toi`çin eJliççomevnhn dedavhke ⁄ qnhto;ç ajnhvr), mentre
Parmenide dichiara apertamente, attraverso la voce della dea, di inoltrarsi
sulla via delle doxai (vedi Kingsley 2003: 458–61).

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62 Il migliore dei mondi impossibili

apatêlon) né incompiuto» tutto ciò che fosse sanzionato


dal cenno del suo capo.
La poetica della dea di Parmenide, con l’opposizione
fra alêtheiê e apatê, realtà e inganno, non sembra troppo
dissimile da quella del soggetto lirico nella Olimpica 1 di
Pindaro, dove si rifiuta una falsa versione del mito di Pe-
lope secondo cui gli dèi avrebbero mangiato a banchetto
le carni sminuzzate del figlio di Tantalo (vv. 28–30):
h\ qauvmata pollav, kaiv pouv ti kai; brotw`n
favtiç uJpe;r to;n ajlaqh` lovgon
30 dedaidalmevnoi yeuvdeçi poikivloiç
ejxapatw`nti mu`qoi.
Molti certo i prodigi, e spesso di là dal vero
le voci che corrono fra gli uomini
30 ci ingannano, storie ricamate
34
di colorate menzogne.

Non ha cercato di alterare il senso di apatêlon Kingsley


2003: 257, per il quale «there is no deception apart from
reality, and no reality apart from deception. The deception
is what is real», ma anche se possiamo condividere l’idea
che, essendo comunque l’apparire un apparire di qualco-
sa, l’inganno è connaturato alla verità così come le cose a
cui siamo abituati dall’esperienza sono immagini illusorie
dell’essere, la differenza radicale fra verità e inganno è
posta come irrinunciabile nel poema di Parmenide.
Popper 1998: 137–41, che ha cercato di rivalutare in
modi diversi la Via delle doxai, imbattutosi nello scoglio
costituito da apatêlon ha preferito sbarazzarsene correg-
gendolo in apatêton («non calpestato»), ma, a tacer d’altro,
un kosmos non è un fondo o terreno irregolare, come in
Democr. 68 B 131, o un monte, come in anon. AP 6.51.2,

34. E cf. anche Py. 2.74–5, dove di Rhadamanthys si dice che oujdΔ ajpavtaisi
qu-|mo;n tevrpetai e[ndoqen, e per il motivo Ne. 7.20–4 e fr. 205 M.

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II. La Via delle Illusioni 63

bensì qualcosa di cui non si può comunque immaginare


che sia ‘calpestato’ o ‘calcato’.
Se decidiamo di non eludere la parola–scandalo, una
soluzione che senza forzarne il senso si accordi con la plau-
sibilità della rappresentazione offerta lungo la Via delle doxai
è quella di considerare apatêlon alla stregua di un segnale di
pericolo, di un avvertimento: non perché la seconda parte del
poema possa avere, come pure si è immaginato, un’inflessio-
ne ironica (Mourelatos 1970: 222 ss.) o perché Parmenide in-
tenda confermare l’acquisizione del vero con l’esibizione del
suo contrario (Cordero 2004: 32–3 ha richiamato le raccolte
di errori o pseudaria della scuola euclidea e ha sostenuto che
«truth is absent from opinions, but knowing that opinions
are not true, is true»), ma perché attirare l’attenzione sul
carattere illusorio delle doxai era un modo per aiutare
35
il suo
allievo a inoltrarsi lungo un percorso insidioso.

35. Sulla parziale positività delle doxai ha insistito con interessanti


osservazioni Curd 1997: 98–126. che intravede nella loro rivalutazione la
possibilità di una cosmologia razionale in cui realtà e doxa operino con-
giuntamente; d’altra parte la Curd sembra spingersi troppo oltre nel rico-
noscimento della validità delle doxai se è vero che la cosmologia della se-
conda parte del poema è costruita precisamente secondo le ‘forme’ (fuoco
e notte) stabilite e denominate dai mortali. Analogamente, Palmer 2009:
178–88 sostiene che la distinzione fra ajlhqeivh e doxai non è quella fra re-
altà e apparenza, ma fra due modalità dell’essere: una modalità ‘necessa-
ria’ e una modalità ‘contingente’ che sarebbero co–presenti l’una all’altra
(vedi ad es. p. 179: «since what he calls ‘reality’ is ... what is and cannot not
be, and not simply what is or exists, his ontology has room for all the fa-
miliar objects of experience that are what they are only contingently since
they are all subject to change»), e già Simplicio era pervenuto a una simile
interpretazione ‘modale’ quando in Cael. 557.20, introducendo la citazione
di 28 B 1.28–32, aveva parlato per Parmenide di una ditth; uJpovçtaçiç o
‘doppia realtà’ elaborata dagli uomini: l’una fondata sull’essere intelligibi-
le, l’altra (un dokou`n o[n) sul divenire del mondo sensibile. Ma questo tipo
di distinzione non la troviamo nei resti dell’opera di Parmenide se non in
28 B 8.40 givgneçqaiv te kai; o[lluçqai, ei\naiv te kai; oujciv, e solo come
erroneo, illusorio, nominalistico punto di vista degli uomini.

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64 Il migliore dei mondi impossibili

Attento! — sembra suggerire la dea —. Il mondo


che ti espongo è un’illusione, una simulazione costruita
sull’erronea premessa della dicotomia fra luce e notte,
ma devi inoltrarti anche su questo percorso perché la sua
plausibilità, la sua coerenza interna, la sua stessa bellezza
hanno una validità anche gnoseologica e sono degne di
essere conosciute come la forma più alta possibile di ap-
prossimazione al vero.
Il richiamo all’apatê sembra avere molto in comune
con la famosa affermazione di Gorgia riferita da Plut.
Glor. Athen. 5, p. 348c (= 82 B 23 D.-K.) secondo cui la
tragedia procura un inganno in cui chi abbia ingannato è
più nel giusto (dikaioteros), cioè più conforme alla physis
dell’oggetto in questione, di chi non abbia ingannato e
chi si sia lasciato ingannare
36
è più saggio di chi non si sia
lasciato ingannare.
Per Gorgia la ‘giustizia’ dell’inganno consiste,
37
se ci
basiamo sull’Encomio di Elena (82 B 11, § 10), nel fatto
che gli incantesimi della parola inducono piacere e al-
lontanano il dolore; in Parmenide lo scopo dell’inganno
sta invece nell’impedire che l’allievo possa credere di
trovarsi di fronte alla vera realtà e possa essere sopra-
vanzato,38come in una gara equestre, da un altro mortale
(B 8.61).

36. Analogamente, l’anonimo autore dei Dissoi logoi (90.3.10 D.–K.)


dichiara che nella tragedia e nella pittura eccelle colui che inganni
(ejxapath`i) producendo moltissime cose simili a quelle vere (o{moia toi`ç
ajlhqinoi`ç poievwn), vedi Untersteiner 1949: 140–1.
37. Per il rapporto fra la testimonianza di Plutarco su Gorgia e l’Encomio
di Elena vedi Taplin 1978: 161–71 e Nicolai 2003 / 2005: 66–77, per un caso di
ripresa della terminologia gorgiana Plat. Ion 541e–542a, per altri esempi di
opposizione verità / inganno Mesturini 2009: 115–64.
38. Per parelauvnw (B 8.61 parelavççhi) nel senso di ‘superare’ un
carro rivale impegnato nella stessa corsa cf. Hom. Il. 23.382 kaiv nuv ken h]
parevlaççΔ (cf. v. 527).

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II. La Via delle Illusioni 65

6. Forme, nomi, percezioni

Al modo in cui si sarebbe originato l’inganno che im-


pedisce agli uomini di percepire la realtà si allude in una
frase che rievoca questo errore fondamentale (B 8.53):
morfa;ç ga;r katevqento duvo gnwvmaiç ojnomavzein
Imposero alle loro percezioni, per nominarle, due forme.

La maggior parte degli interpreti ha inteso questa frase,


legggendo gnômas (non gnômais), nel senso che gli uomini
«stabilirono di dar nome a due forme» (Reale, sulla linea
di Diels–Kranz: «sie haben nämlich ihre Ansichten dahin
festgelegt, zwei Formen zu benennen»), mentre Cerri
traduce: «posero duplice forma a dar nome alle loro im-
pressioni».
Nel primo caso il nesso katethento ... gnômas significhe-
rebbe «convennero (decisero) di», nel secondo katethento
«stabilirono» regge morphas dyo «due forme» mentre ono-
mazein «dar nome» si aggrega liberamente al resto della
frase come infinito ‘dativale’ (su cui vedi sopra I § 7).
Va però ricordato che katethento si riferisce sia in B
8.38–9 (vedi sopra, § 2) che in B 19.3
toi`ç dΔ o[nomΔ a[nqrwpoi katevqentΔ ejpivçhmon eJkavçtwi
e alle cose gli uomini imposero come segno un nome

all’imporre un nome alle cose esistenti e ai fenomeni


che le coinvolgono, con una sequenza in cui il verbo è
collegato all’accusativo della cosa
39
imposta e al dativo della
cosa che riceve l’imposizione.

39. Costruzione simile, ma con ejpiv e il dativo (non con il dativo sem-
plice), troviamo in Emped. 31 B 8.4 fuvçiç dΔ ejpi; toi`ç ojnomavzetai
ajnqrwvpoiçin «nascita per queste cose è il nome in uso fra gli uomini».

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66 Il migliore dei mondi impossibili

Anche in B 8.53 abbiamo la costruzione usata in B


8.38–9 e in B 19.3 se, come abbiamo fatto, fra le due lezioni
attestate nella tradizione manoscritta di Simplicio optiamo
non per l’accusativo gnômas (Phys. 38 e il codice F in Phys. pc
180), bensì per il dativo gnômais (Phys. 30 e i codici DEF
in Phys. 180), intendendo la frase 40
nel senso: «imposero due
forme alle loro percezioni ...».
Quanto a onomazein in fine di verso, esso può fungere,
con Cerri, da infinito ‘dativale’ (consecutivo) — «per (così
da) dare ad esse (alle gnômai) un nome» — secondo un uso
ben attestato in Parmenide (cf. B 2.2, B 4.2, B 11.4).
Se la frase significa «imposero due forme alle (proprie)
percezioni così da dare ad esse un nome» questo non
può comunque rimandare a una libera decisione, a un
patto collettivo, ma tratteggia la scena di un momento
originario in cui, nominando le cose nella forma in cui ad
essi apparivano, gli uomini cominciarono a interpretare
il mondo secondo una prospettiva dualistica (vedi Tha-
nassas 2006).
Essi furono indotti inevitabilmente all’errore sia dal
fatto che, come si evince dal racconto cosmogonico che
subito segue, il mondo si offrì ad essi nella scansione
illusoria di luce e notte (anelli eterei di fuoco opposti ad
anelli solidi di tenebra) sia, ancor più, dal fatto che essi
stessi, in quanto partecipi di tale processo cosmogonico,
erano e sono ‘figli’ del sole e della terra (cf. 28 A 1 e vedi
III § 4), senzienti e percipienti in relazione a luce e notte e
pertanto creature illusorie, sogni a se stessi o, con Emped.
31 B 23, immagini simili a quelle dipinte da abili pittori
mescolando colori diversi.

40. La lezione gnwvmaiç è stata preferita da Furley 1989: 30 e da Curd


1997: 104 n. 20, ma entrambi hanno dato al dativo, poco plausibilmente,
funzione locale–limitativa: «they set up two forms in their minds for nam-
ing» (Furley).

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II. La Via delle Illusioni 67

Gli uomini dovrebbero correggere il loro errore originario


cessando una volta per tutte di richiamarsi all’una e all’altra
‘forma’, non, come talora si intende con Diels–Kranz («von
denen man freilich eine nicht ansetzen sollte»), a una in
particolare fra le due (la notte per molti, la luce per Popper
1992): mian ou del v. 54 equivale infatti, secondo un uso ben 41
attestato, a oudemian e significa «neppure una», «nessuna».
Questo rapporto fra i nomi e le cose come reificazione
linguistica sembra
42
affondare le radici in concezioni del Vi-
cino Oriente e appare molto simile a quello che si profila
in P.Derveni, col. 17.1–6 (l’Aêr esisteva senza che43
fosse no-
minato poiché non nacque ma c’era da sempre, prima che
si formassero le cose che esistono ora; poi, quando ebbe il
nome di ‘Zeus’, si ritenne che fosse nato come se prima non
esistesse) e 18.10–13 (Moira, in quanto intelligenza divina,
esisteva prima di essere chiamata ‘Zeus’, ma quando fu chia- 44
mata ‘Zeus’ gli uomini credettero che costui fosse nato).

41. Cf. ad esempio Aristoph. Th. 549 s. mivan ga;r oujk a]n ei[poiç |
tw`n nu`n gunaikw`n Phnelovphn, Plat. Rsp. 423a ou{tw ga;r megavlhn pov-
lin mivan ouj rJaidivwç ou[te ejn ”Ellhçin ou[te ejn barbavroiç euJrhvçeiç,
Xenoph. An. 5.6.12 wJç ajriqmw`i e{na mh; kataleivpeçqai ejnqavde e vedi LSJ
s.v. ei|ç 1d e Cornford 1933: 108–9 («‘for mortals have laid down their deci-
sion to name two forms, of which it is not right to name (as much as) one ...
mortals are wrong to name any ‘Forms’ at all»), Untersteiner 1958: 151 («non
uno di questi due (elementi) dovrebbe esservi»), Sedley 1999: 124.
42. Basti ricordare l’incipit dell’Enuma elis («Quando in alto il cielo non
era stato ancora nominato / e, sotto, la terra non era stata chiamata con
un nome ...») e Is. 55.10–1 (e cf. anche Gv 1.1 e Gv Ep. 1). Ma l’idea è radicata
anche in India dove il regno della pluralità è denominato namarupa «nome
e forma» (vedi MacEvilley 2002: 58).
43. Cf. Meliss. 30 B 2 D.–K. o{te toivnun oujk ejgevneto, e[çti te kai;
ajei; h\n kai; ajei; e[çtai e vedi Betegh 2004: 194–95, Kouremenos in KPT
2006: 217–18.
44. D’altra parte, se è palese l’analogia fra l’Aêr del commentatore di
Derveni (un Aêr che, come il Nous di Anaxag. 59 B 14, esiste da sempre)
e l’essere parmenideo, per il primo l’Aêr / Nous è realmente soggetto a

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68 Il migliore dei mondi impossibili

7. Analogie e tessere formulari

Nonostante la frontiera che separa essere e apparenze,


realtà e opinioni, il mondo delle doxai può essere tuttavia
(ri)costruito dalla daimôn come un cosmo che, seppur in-
gannevole, merita di essere illustrato e conosciuto sia in
quanto è plausibile in sé sia in quanto somiglia alla vera
realtà. Come ha visto in particolare Popper 1998: 141, il
criterio più importante che ci permette di valorizzare la
Via delle doxai è infatti quello della sua ‘somiglianza’ con
la Via della Realtà («la dea include nella sua rivelazione la
Via dell’Opinione per il suo alto grado di approssimazione
alla Verità»).
Fra le sue caratteristiche l’essere ha quelle di essere
unitario (8.6), omogeneo (B 8.22), compiuto (B 8.4 e 32),
colmo di sé (B 8.24), immobile nella sua sede (B 8.29–30),
sferico (B 8.43), perfettamente equilibrato a partire dal
proprio centro (B 8.44).
Il cosmo di cui siamo parte è colmo, con perfetta isono-
mia, dei suoi componenti basilari (B 9.3–4) ed è sferico con 45la
terra al centro (D.L. 9.21 = 28 A 1, cf. A 37, A 44 e B 12).
Altro dato comune all’essere e al nostro universo è
l’immanenza di una legge che stringe in catene tanto la
curva dell’eon quanto l’estremo confine del cielo: l’estremo
limite (B 11.2–3 olympos eschatos), simile a solido muro (28
A 37), che circonda il nostro universo fu spinto da Anankê
fino alla sua sede più idonea e inchiodato ad essa per far da
limite agli astri; l’essere, benché ingenerato, imperituro,
intero, immobile etc., è stretto in catene, quasi fosse carico
di una gigantesca tensione centrifuga che lo sospinge verso

cambiamenti a cui gli uomini danno un nome, mentre per Parmenide


l’essere resta immobile e inalterabile.
45. Come osserva Sedley 1999: 124 «the detailed descriptions of the
cosmos mimic the language of the Way of Truth».

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II. La Via delle Illusioni 69
46
il proprio limite estremo (B 8.49),47 da Dikê (B 8.13–4),
Anankê (B 8.30–1), Moira (B 8.37).
Sintomatica anche la riconoscibilità delle
48
tessere sparse
di un sistema formulare allo stato nascente che compren-
de, insieme con passi della prima parte del poema, anche
due della seconda:
— Il nesso en peirasi desmôn di B 8.26«in limiti di catene»
si ripropone con variazioni in peiratos en desmoisin
di B 8.31, en peirasi di B 8.49 e peirat’ echein di B 10.7
(cf. Hes. Th. 517–18).
— La clausola Moir’ epedêsen «Moira incatenò» di B 8.37
è ripresa e modificata in epedêsen Anankê di B 10.6.
Comune a entrambi i versanti è anche la costellazione
semantica che abbraccia ordine, armonia, equilibrio, iso-
nomia (vedi Ruggiu in Reale–Ruggiu 1991: 319–21).
Per la dimensione dell’essere :
— B 8.22–5: l’essere è tutto intero e omogeneo.
49
— B 1.29 eukykleos «perfettamente rotonda» (di Alêtheiê).

46. Su B 8.49 è da ricordare il commento di Giorgio Colli nelle lezi-


oni pisane curate da Ernesto Berti: «l’espressione ci presenta l’essere quasi
come un organismo vivente, che tende ad espandersi come un respiro
verso i suoi limiti. Qui l’essere è presentato dall’interno: dall’esterno ab-
biamo l’accentuazione della immobilitâ, dall’interno è dinamico» (Colli
2003: 150).
47. Punto di arrivo di questa corrispondenza fra essere e universo fisico
è, com’è noto, la rappresentazione platonica del cosmo come una sfera
perfetta in un passo (Tim. 33b–c) che non a caso pullula di reminiscenze
parmenidee (Palmer 1999: 193 ss., Passa 2009: 23–4):
48. Di formularità parmenidea ho discusso, con due analisi campione,
in Ferrari 2005.
49. La variante eujpeiqevoç di Sesto (eujkuklevoç Simplicio, eujfeggevoç
Proclo), preferita da alcuni, sembra essere una glossa esplicativa (vedi
Palmer 2009: 378–80, che considera eujpeiqevoç «an intrusive ‘correction’
of the perplexing eujkuklevoç, influenced by the next line’s denigration

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70 Il migliore dei mondi impossibili

— B 8.29 tôuton t’ en tôutôi te menon «rimanendo identico


e in se stesso» (l’essere).
— B 8.43 eukuklou «rotonda» (della sfera dell’essere).
— B 8.44 messothen isopales pantêi «equilibrato dapper-
tutto a partire dal centro» (l’essere).
— B 8.49 hoi ... pantothen ison «da ogni parte pari a se
stesso» (isotropo)» (di nuovo l’essere).

Per la dimensione delle doxai:

— B 4.3 skidnamenon pantêi pantôs kata kosmon «disper-


so dappertutto in ogni guisa per il cosmo» (l’essere
come appare agli uomini).
— B 8.57 heautôi pantose tôuton «identico a se stesso in
ogni direzione» (il fuoco).
— B 8.60 diakosmon «ordinamento (dell’universo fisi-
co).
— B 9.4 isôn amphoterôn «pari entrambi» (fuoco e not-
te).

Infine, sulla Via della Realtà come su quella delle


doxai sono dislocati segni (sêmata in B 8.2 e e 8.55 nella
stessa sede del verso) che permettono di riconoscere
e identificare da una parte l’essere, dall’altra fuoco e
notte.
Le doxai non sono rappresentazioni cristallizzate una
volta per tutte nel momento in cui gli uomini separarono
luce e notte, ma possono essere corrette e depurate anche
se non cesseranno mai di valere per ciò che sono per defi-
nizione: illusioni, opinioni, congetture, inganni dei sensi,
cose che appaiono.

of mortal beliefs as devoid of pivçtiç ajlhqhvç»), tanto più che eujkuklevoç


sembra trovare echi significativi in eujkuvklou çfaivrhç di B 8.43 e in
Emped. 31 B 27.4 e 28.2 Çfai`roç kukloterhvç.

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II. La Via delle Illusioni 71

8. Ordine esplicito e ordine implicito

La serie di parallelismi che abbiamo evidenziato mostra


la circolazione, nel pensiero di Parmenide, di una polari-
tà, per usare la terminologia di David Bohm, fra ‘ordine
implicito’ e ‘ordine esplicito’.
In Wholeness and the Implicate Order Bohm ricorda pro-
prio Parmenide come sostenitore nell’antichità di quella
nozione di inesistenza del vuoto, formulata nel modo più
esplicito in Meliss. 30 B 7 (7)
oujde; keneovn ejçtin oujdevn: to; ga;r keneo;n oujdevn ejçtin
e non c’è nulla di vuoto: infatti il vuoto non esiste,

e già chiaramente implicita in Parmenide stesso (B


8.23–4: «né vi è da qualche parte qualcosa in più che gli
possa impedire di essere compatto, né qualcosa in meno,
ma l’essere è tutto colmo di essere»), che egli intendeva
riproporre in una dimensione quantistica.
Secondo Bohm ciò che percepiamo attraverso i sensi
come spazio vuoto è invece pieno, e questo ‘pieno’ è
il fondamento dell’esistenza di ogni cosa, inclusi noi
stessi; le cose che appaiono ai nostri sensi sono forme
derivate il cui senso può essere afferrato solo tenendo
conto del ‘pieno’ in cui sono state generate e in cui
da ultimo sono destinate a scomparire (Bohm 1983:
242–43).
Non diversamente da Bohm, Parmenide non ci
spiega come l’ordine esplicito sia emerso dall’ordine
implicito (le doxai dall’eon) né per quale impulso una
realtà chiusa in se stessa e immutabile abbia potuto
emettere un’ingannevole immagine di sé proiettandosi
nel nostro cosmo e nella varietà dei suoi accidenti, ma,
definendo «plausibile» l’ordine esplicito (diavkoçmon
ejoikovta) che la dea intende esporre, ci indica che questo

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72 Il migliore dei mondi impossibili

ordine ricalca i lineamenti di quello implicito e risponde


anch’esso in qualche misura a un’esigenza di ordine e
di isonomia.
Dicendo al suo allievo che dovrà imparare come le cose
che appaiono debbano esistere plausibilmente in quanto
pluralità di enti affinché nessun mortale lo sopravanzi con
una sua teoria (B 1.31–2 e B 8.61), la daimôn si prepara a
illustrare il migliore dei mondi pensabili come uno spazio
che, secondo le parole del poeta G.M. Hopkins in un suo
breve saggio su Parmenide, segna «l’orlo, il confine, lo
sciabordio, la corsa e il rimescolio dei due principii [essere
e non–essere] che s’incontrano nell’orizzonte di ogni cosa»
(vedi Hopkins 1992).
Il cosmo di Parmenide è il migliore dei mondi impos-
sibili quanto quello di Leibniz era il migliore del mondi
possibili: una teoria formulata nel 1714 nelle proposizioni
53–55 della Monadologie sulla base di quel principio di
ragion sufficiente per cui la scelta divina a favore del
nostro mondo sarebbe dipesa dal suo maggior grado di
perfezione e di convenance.
Per quanto importanti siano le differenze fra il sistema
di Parmenide e quello di Leibniz, anche in Parmenide
l’universo quale dovrebbe plausibilmente apparire al sa-
piente (un cosmo virtuale, non già, come in Leibniz, un
mondo reale) dimostra in termini di coerenza e armonia
interne la sua superiorità su altre forme di universi im-
maginabili.
In che cosa consistano questi requisiti era compendiato
da Leibniz nella proposizione nr. 56:

Cette liaison ou cet accommodement de toutes les cho-


ses créées à chacune, et de chacune à toutes les autres, fait
que chaque substance simple a des rapports qui expriment
toutes les autres, et qu’elle est par conséquent un miroir
vivant perpétuel de l’univers.

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II. La Via delle Illusioni 73

Un riferimento all’omologia fra ordine esplicito e or-


dine implicito e alla relazione fra tutte le cose esistenti
affine alla liaison di cui parlava Leibniz si affaccia, alla
fine della sezione di apertura sulle doxai, in due versi
che, partendo dall’ormai consumata dicotomia fra luce
e notte, fanno scaturire l’esigenza di riconoscerne la
perfetta equivalenza nel loro espandersi su tutte le cose
(B 9.3–4):
pa`n plevon ejçti;n oJmou` faveoç kai; nukto;ç ajfavntou
i[çwn ajmfotevrwn, ejpei; oujdetevrwi mevta mhdevn.
Tutto è simultaneamente ricolmo di luce e notte oscura,
pari entrambe: non c’è nulla che non sia parte d’una delle due.

Promossa a un primo stadio di somma di elementi


equipollenti, la pluralità delle cose che si muovono nel
divenire replica le scansioni di una realtà che si identifica,
entro un continuum inviolabile, con il tutto indivisibile e
unitario dell’essere.
Non a caso la formulazione del v. 3 «tutto è parimenti
ricolmo di luce e notte invisibile» suona come un calco di
ciò che dell’essere si dice in B 8.24:
pa`n dΔ e[mpleovn ejçtin ejovntoç.
e (l’essere) è tutto colmo di essere.

Per riuscire a percepire la continuità isonomica del


reale il pensiero umano deve preliminarmente percepire
l’implicita, concettuale contiguità delle cose che appaiono
(B 4):
leu`ççe dΔ oJmw`ç ajpeovnta novwi pareovnta bebaivwç:
ouj ga;r ajpotmhvxhi to; ejo;n tou` ejovntoç e[ceçqai
ou[te çkidnavmenon pavnthi pavntwç kata; kovçmon
ou[te çuniçtavmenon.

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74 Il migliore dei mondi impossibili
50 51
Guarda come cose lontane sono 52
a un tempo ben presenti
alla mente, ché non staccherai l’essere dal contatto con
l’essere 53
né quando sia disperso dappertutto in ogni guisa per il cosmo
né quando sia concentrato in se stesso.

In effetti l’idea di contiguità delle cose che esistono


espressa con pareonta «(cose) presenti» sembra essere la
commutazione sul piano delle doxai dell’idea di continuità
quale si pone nell’ambito della verità (cf. B 8.6 e 25: syneches
54
«continuo» in entrami i passi nella stessa sede del verso).
Posto in Diels–Kranz fra i brani della prima parte del
poema, B 4 è stato invece assegnato da Bollack 1957 alla
seconda perché lungo la Via della Realtà il plurale di eon
(qui abbiamo la coppia di contrari apeonta / pareonta «cose
assenti» / «cose presenti») non solo è attestato ma con-
trasterebbe con l’insistenza di Parmenide sulla compatta
unitarietà e indivisibilità dell’essere.

50. Il confronto con Emped.31 B 17.21 th;n çu; novwi devrkeu, mhdΔ
o[mmaçin h́ ~Jço teqhpwvç (dove anche teqhpwvç richiama Parmenide, cf.
28 B 6.7 kwfoi; oJmw`ç tuf loiv te, teqhpovteç) indurrebbe a collegare
novwi a leu`ççe («osserva per mezzo dell’intuizione» Untersteiner 1958:
133, «schaue mit dem Geist» Kranz), ma questa soluzione cozza contro
l’ordine delle parole, con novwi incapsulato fra ajpeovnta e pareovnta.
51. Credo che oJmw`ç, da confrontare con oJmw`ç di B 6.7 e B 8.49 e con
oJmou` di B 9.3, sia da preferire a o{mwç come interpretazione della parado-
sis perché sottolinea la simultanea lontananza (nello spazio illusorio delle
doxai) e co–presenza (nello spazio mentale) delle cose esistenti.
52. Sull’opportunità di restituire -xhi come seconda persona singo-
lare media rispetto all’atticismo -xei dei manoscritti di Clem. Strom. 5.15
(-xeiç Brandis 1813) vedi Diels 1897: 64 e Passa 2009: 32–3.
53. Per kovçmon come «ordinamento cosmico», «universo» cf. Anaxag.
59 B 8, Hp. Nat. hom 7 e vedi Cerri 1999: 196–200, Andò 2002: 79–80.
54. La ‘continuità’ (to; çunecevç come in Parmenide) sarà definita da
Aristot. Phys. 227a10–15 come una forma di contiguità in cui il limite dove
due oggetti si toccano diventa uno e identico (su questo e analoghi concetti
aristotelici di spazialità vedi l’approfondita disamina di White 1992: 7–72).

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II. La Via delle Illusioni 75

È vero che in B 4 la realtà, suscettibile di particolariz-


zarsi e pluralizzarsi in una sorta di sistole e diastole del
movimento cosmico, si presenta qual è percepita dagli
uomini, ma bisogna considerare che la parte del poema
anteriore alla vera e propria esposizione della realtà (quel-
la che comincia propriamente con B 8.1) non manca di
rimandi alla sfera del non–essere o delle doxai.
Più precisamente, un inserimento di B 4 dopo B 6, e
cioè dopo che è stato illustrato il vagare confuso dei morta-
li ‘bicefali’, comporterebbe una prima ‘correzione’ del loro
errato atteggiamento cognitivo: un tentativo di mettere
ordine nel magma delle loro percezioni con il richiamo a
un’interconnessione fra le cose esistenti capace di prepara-
re la mente dell’allievo ad attraversare la Via della Realtà;
una funzione propedeutica favorita dal fatto che il fulcro
del brano è quel passaggio dai plurali apeonta e pareonta al
singolare eon che «introduce esplicitamente il legame che
le cose molteplici divenienti hanno con l’essere» (Ruggiu
in Reale–Ruggiu 1991: 239).
Se l’essere, come la dea spiegherà ampiamente in
seguito, è indivisibile e il noos ne percepisce la coesione,
il pensiero umano tuttora rivolto alla varietà delle cose
in divenire può scoprire fra di esse interconnessioni che
certificano l’esistenza di un’unica realtà immutabile di
cui il fluttuare dei fenomeni sia, leibnizianamante, uno
‘specchio vivente’.
Lungo un tale itinerario l’insegnamento dedicato alle
doxai può prospettarsi, prima che sia stata rimossa la dico-
tomia luce / notte e in ordine inverso rispetto al decorso
del poema, come una forma di ‘iniziazione’ di grado infe-
riore rispetto alla suprema contemplazione del vero.
Troviamo una simile gradualità in quell’accordatura fra
scienze e intuizione che Diotima illustra nel Simposio di Pla-
tone (210c–211b) dicendo che chi abbia contemplato il bello
molteplice — le cose belle una dopo l’altra (ephexês) — qual

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76 Il migliore dei mondi impossibili
55
è rintracciabile nelle scienze potrà scorgere all’improvviso
«un bello che sempre è e non nasce né muore, non aumenta
né scema» e ha «sempre un’unica forma (monoeides aei)».
Ciò che Diotima comunica fino a un certo momen-
to del suo discorso a Socrate «costituisce solo la myêsis,
il primo grado dell’iniziazione alle ‘cose d’amore’». Il
grado più alto, la perfetta epopteia a cui «deve guidare la
myêsis se procede in modo corretto, implica l’ascesa dal
kalon particolare alla fonte di ogni kalon (...) il culmine
dell’iniziazione ai Misteri d’Amore implica, come ogni
vera epopteia, una metamorfosi divinizzante del soggetto»
(Lavecchia 2006: 80–2).

9. Falso, vero, plausibile


In Hes. Th. 27–8
i[dmen yeuvdea polla; levgein ejtuvmoiçin oJmoi`a,
i[dmen dΔ eu\tΔ ejqevlwmen ajlhqeva ghruvçaçqai
Sappiamo dire molte menzogne simili al vero,
ma sappiamo anche, quando vogliamo, dire cose vere.
56
il contrario del vero è il falso o fittizio (pseudea), e
lo stesso vale talora 57
nell’epica omerica (cf. Od. 14.125 e
19.203, h. Merc. 368), e anche nella silloge teognidea (v.

55. Sul modulo dell’ejxaivfnhç e sul rapporto con la settima Lettera


vedi Di Benedetto 1985: 41–2.
56. Quale sia la ragione di questa distinzione non è chiaro anche per-
ché l’apostrofe delle Muse al giovane pastore è molto breve ed ellittica.
Che ci sia una polemica nei confronti della poesia omerica, come soste-
nuto da molti, non sembra probabile (West 1966: 162).
57. D’altra parte già in Omero ajlhqeivh era innanzi tutto, conforme
alla sua etimologia ormai largamente accettata (che in ajlhvqeia fosse sen-
tita la connessione con lhvqh e lelhqevnai è stato dimostrato da Heitsch
1962: cf. ad es. Soph. OR 366–69, dove a lelhqevnai del v. 366 si contrappone

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II. La Via delle Illusioni 77

713) incontriamo l’antitesi pseudea / etyma «menzogne»


/ «cose vere». E ‘menzogna’ si oppone a ‘verità’, come
‘guerra’ a ‘pace’, in una piastra ossea orfica di Olbia Pon-
tica coeva a Parmenide (94b IGDOP, cf. 94c), e alêtheia
compare in 94a IGDOP al di sotto di quella sequenza bios
thanatos bios (vita / morte / vita) che rimanda alla ruota
orfica di morte e rinascita.
D’altra parte in Esiodo le menzogne sono simili al vero,
come in Hor. A.P. 338 ficta voluptatis causa sint proxima veris,
in quanto ‘plausibili’, ‘credibili’ — «the sort of fiction that can
be believed in» (West 1966: 163) —, non ‘implausibili’.
Nel sapiente di Velia a fronte di alêtheiê, sia in quanto
essenza del reale (e dunque ‘realtà’) sia in quanto
58
capacità
soggettiva di percepirla (e dunque ‘verità’), non troviamo
lo pseudos, bensì la doxa (o, più precisamente, le doxai) in
modo analogo a come Aristot. Metaph. 1039b27 ss. op-
porrà la scienza (epistêmê), che si occupa con definizioni e
dimostrazioni di ciò che è stabile, alla doxa, che si rivolge
ai fenomeni transitori e mutevoli (Leszl 1988: 302–5), ma
la differenza rispetto a Esiodo non è poi grande se queste
doxai, essendo tutte basate sulla falsa opposizione fra luce
e notte, collassano inevitabilmente in pseudea.
Già in Xenoph. 21 B 35

ajlhqeivaç çqevnoç di v. 369), l’eliminazione della dimenticanza, e cioè la


completezza informativa che comunica l’essenza di una situazione, come
riscontriamo anche nella lamina misterica di Farsalo, della seconda metà
del IV secolo a.C., OF 477 F, dove per raccomandare al miste di ripetere
fedelmente la formula prescritta viene ripreso al v. 7 un nesso formulare
(pa`çan ajlhqeivhn) già presente in Hom. Il. 24.407 e Od. 17.122. Come nota
Bernabé 2005: 36, mortuus oblivisci quae in initiatione didicerit vetatur; sulla
‘verità’ in ambito misterico vedi Tortorelli Ghidini 2006: 159–61.
58. Sulla doppia valenza, oggettiva e soggettiva, di ajlhqeivh e ajlhqhvç
in Parmenide e altrove vedi Cole 1983 (spec. 25: «the truly real must display
the same qualities as the content of sctrict and careful discourse»), Rob-
biano 2005: 61–3, Palmer 2009: 89–93, Sassi 2009: 238–41.

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78 Il migliore dei mondi impossibili

tau`ta dedoxavçqw me;n ejoikovta toi`ç ejtuvmoiçi


Queste cose siano accettate in quanto simili al vero

la somiglianza fra doxa e realtà rimandava a una cono-


scenza basata sulla congettura. Da notare in particolare
che l’eoikota «simili» di Senofane, che varia il «simili al
vero» (etymoisin homoia) esiodeo, anticipa tanto il «cosmo
plausibile in tutto» (diakosmon eoikota panta) di Parmen. 28
B 8.60 quanto il «racconto plausibile» (ton eoikota mython)
e il «ragionamento plausibile» (logon ton eoikota) di Plat.
Tim. 29d e 30b (Sassi 2005). E dokos, corradicale di doxa,
veniva riferito da Senofane all’attività del congetturare
(21 B 34.4):
dovkoç dΔ ejpi; pa`çi tevtuktai
59
congettura si attacca a ogni cosa.

Lungo questo crinale che divide vero e opinabile Seno-


fane optava per un orientamento agnostico se nello stesso
B 34 l’essere umano è visto come inetto a pervenire alla
vera conoscenza (vv. 1–2 e 4) intorno agli dèi e ad altre
cose non specificate (presumibilmente i fenomeni che non
cadono sotto i nostri sensi) anche quando riesca a60formu-
lare ipotesi che per evventura colgano nel segno.
Anche in Parmenide la realtà sfugge al pensiero smar-
rito di uomini che nulla sanno (l’eidotes ouden «che nulla
sanno» di 28 B 6.4 replica l’oude tis estai / eidôs «né ci sarà
qualcuno che sappia» di Xenoph. 21 B 34.1–2 e si contrap-
pone all’eidôta phôta «l’uomo sapiente» di 28 B 1.3), ma

59. Sui problemi interpretativi relativi a 21 B 34 vedi Lesher 1996: 149–86


e Mogyorödi 2006: 132–35.
60. Cf. anche Alcmae. 24 B 1 peri; tw`n ajfanevwn Êperi; tw`n qnhtw`nÊ
(peri; tw`n ajqanavtwn?) çafhvneian me;n qeoi; e[conti, wJç de; ajnqr-
wvpoiç tekmaivreçqai.

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II. La Via delle Illusioni 79

per chi non goda del privilegio di entrare in contatto con


una dea onnisciente la consapevolezza dell’inganno a cui
il noos umano costantemente soggiace e la costruzione
della più plausibile fra le simulazioni possibili — «the best
paradigm imaginable for scientific explanation» (Graham
2008: 17) — rappresentano il primo passo verso l’intuizio-
ne del vero.

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Capitolo III

Afrodite timoniera del cosmo

1. Il programma

Le tappe del racconto cosmogonico che dava inizio alla Via


delle doxai ci sono note da un brano programmatico (28 B 10),
trasmesso da Clemente Alessandrino (Strom. 5.138), e ad esso
allude anche Plut. Col. 1114b ricordando che, dopo aver mesco-
lato gli elementi della luce e della tenebra, Parmenide rendeva
1
conto di tutti i fenomeni sulla base di questi due principii:
ei[çhi dΔ aijqerivhn te fuvçin tav tΔ ejn aijqevri pavnta
çhvmata kai; kaqarh`ç eujagevoç hjelivoio
lampavdoç e[rgΔ ajivdhla kai; oJppovqen ejxegevnonto,
e[rga te kuvklwpoç peuvçhi perivfoita çelhvnhç
5 kai; fuvçin, eijdhvçeiç de; kai; oujrano;n ajmfi;ç e[conta
e[nqen e[fu te kai; w{ç min a[gouçΔ ejpevdhçen ΔAnavgkh
peivratΔ e[cein a[çtrwn.
E saprai la natura dell’etere e tutti gli aerei
segni e le opere devastanti della pura face
del sole luminoso, e donde nacquero,
e le orbite della luna dall’occhio rotondo
5 e la sua origine, e anche saprai donde nacque
il cielo che sta all’intorno e come Anankê, spingendolo,
lo vincolò a far da limite agli astri.

1. Sull’atteggiamento difensivo di Plutarco nel momento in cui po-


lemizza con l’epicureo Colote, che aveva censurato Parmenide per la sua
negazione della realtà sensibile, vedi Isnardi Parente 1988.

81

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82 Il migliore dei mondi impossibili

L’accento, come in Emped. 31 B 38, è posto sull’ori-


gine dell’etere, dei corpi celesti e dell’ouranos, che
Parmenide doveva identifi
2
care con l’olympos / eschatos
«l’estremo olimpo» di B 11.2–3 e concepire, come
sappiamo da A 37, a guisa di solido muro (teichos) che
circonda il puro etere (l’aithêr xynos di B 11.2) in cui
ruotano gli astri.
All’origine del cosmo fa riferimento anche il breve bra-
no (B 11) che doveva seguire di poco B 10 continuandone
l’andamento catalogico:
pw`ç gai`a kai; h{lioç hjde; çelhvnh
aijqhvr te xuno;ç gavla tΔ oujravnion kai; o[lumpoç
e[çcatoç hjdΔ a[çtrwn qermo;n mevnoç wJrmhvqhçan
givgneçqai.
come terra e sole e luna
e l’etere comune e la Via lattea e l’estremo olimpo
e la calda forza degli astri balzarono
a nascere.

L’espressione usata per l’origine di etere, cielo e corpi


celesti (hôrmêthêsan gignesthai «balzarono a nascere») si
addice a un impeto simile a quello che in OF 118 F

2. D’altra parte sia in B 12.2 gavla tΔ oujravnion che in A 37 l’oujranovç


si identifica con lo spazio o ‘cielo’ in cui si muovono gli astri (l’aijqh;r ...
xunovç di B 11.2), e dunque il termine doveva essere usato da Parmenide
sia come spazio occupato dai corpi celesti sia come anello solido cha fa da
‘limite’ esterno al cosmo in una prospettiva in parte simile a quella che
troviamo in P.Derveni, col. 14.12–13 nella etimologizzazione di ‘Urano’
come «colui che delimita» (ªoJ Nou`ºç wJç≥ ≥ oJrª≥ ivzwºn≥ fuvçin ªth;n ejpwnumivan
e[çceºn ⁄ ªOujranovºç≥) (nella traduzione di KPT: 133, «[Mind,] as determining
the creation, [received the designation Ouranos»).
Per l’identificazione di ‘olimpo’ e cielo (o parte di esso), negata invece
in P.Derv. col. 12.16, in una serie di scoli omerici risalenti ad Aristarco di
Samotracia e altrove, cf. Emped. 31 B 44, Philol. 44 A 16, [Aristot.] Mund.
400a3 e vedi Schironi 2001.

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III. Afrodite timoniera del cosmo 83

wJrmhvqh dΔ ajna; kuvklon ajqevçfaton


e balzò lungo un cerchio immenso

doveva rappresentare il movimento


3
rotatorio dell’uovo
cosmico donde nasceva Phanês, e a una vicenda biolo-
gica chiaramente rinvia la storia del nostro universo in
28 B 19:
ou{tw toi kata; dovxan e[fu tavde kaiv nun e[açi
kai; metevpeitΔ ajpo; tou`de teleuthvçouçi trafevnta:
Così secondo apparenza queste cose nacquero e sono
e poi in futuro, una volta cresciute, avranno fine.

Doveva essere nota a Parmenide la teoria di Anassi-


mandro, che aveva immaginato (12 A 10) che al momen-
to dell’origine del nostro universo, forse in seguito a un
moto incessante di tipo circolare, dal ‘perenne’ (ajidivou),
e cioè dall’apeiron, si fosse staccato (apokrithênai) un seme
generativo (gonimon) composto di fiamma e aêr, cioè di
caldo e di freddo, donde si era formata attorno alla 4terra
una sfera di fuoco simile alla corteccia di un albero.
Gli anelli di fuoco originatisi dalla rottura di questa sfe-
ra, avvolti da membrane di aêr simili a cerchioni di gigante-
sche ruote, produssero sole, luna e astri, interpretati come
condensazioni (pilêmata) di atmosfera colma di fuoco (Aet.

3. Cf. anche OF 119 F to; dΔ ajpeirevçion kata; kuvklon ⁄ ajtruvtwç


ejforei`to e vedi Bernabé 2004: 125.
4. Vedi Kahn 1960: 87 («the embryo of the world develops by fission
into an inner, cold (and damp) core, and an outer, warm (and dry) spheri-
cal skin, which fits tight about it») e West 1971: 80–7. Ma l’idea dell’albero
cosmico sembra già implicita nelle «radici della terra» (gh`ç rJivzai) di
Hes. Th. 729 (vedi West 1971: 55–60). Sulle testimonianze relative al moto
perenne dell’apeiron vedi Kirk–Raven–Schofield 1983: 126–28 (scettici però
sulla possibilità di attribuire ad Anassimandro una teoria del vortice sulla
base di Aristot. Cael. 295a7).

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84 Il migliore dei mondi impossibili

2.13.7 = 12 A 18), e con perfetta coerenza Anassimadro


postulava in ambito zoogonico (Aet. 5.19.4 = 12 A 30) che
i primi animali fossero stati avvolti da cortecce spinose e
poi, liberatisi da queste, si fossero gradualmente trasferiti
sulla terraferma.
Nel papiro di Derveni (col. 14.1–3) troviamo un pre-
ciso parallelo per l’hôrmêthêsan «balzarono» parmenideo
nell’ekthorêi «balzi fuori» che descrive l’erompere di una 5
massa luminosa e caldissima che si separa da se stessa, e
in Anassagora aêr ed etere si staccano da una massa infinita
(59 B 2, cf. 59 B 4 e B 5).
Che questo separarsi, ed espandersi attraverso lo spazio
cosmico, di una massa commista di luce e notte fosse de-
scritto o meno nei versi che separavano 28 B 11 da 28 B 12 (e
sicuramente, come si desume da 28 A 37, qualcosa si diceva
almeno del muro che circondava l’etere), Parmenide, data
la tradizione cosmologica in cui si inseriva e il riferimento
al ‘balzo’ verso la nascita dei corpi celesti, doveva immagi-
nare il primo formarsi delle masse destinate a strutturarsi in
corone concentriche come un processo di separazione.
Se poi il nostro cosmo, secondo quanto si arguisce da 28
B 4 e B 19, è solo uno dei tanti che sono nati e nasceranno,
esso, pur essendo la parte di un tutto, deve replicare come
un nuovo tutto (il pan pariteticamente colmo di luce e di
notte di B 9.3) la totalità originaria.

5. ... ejºkqov≥rhi to;ønØ lam≥provtatovn te ªkai; qeºr≥m≥ovªtºaton cwriçqe;n


ajfΔ eJwutou`. Kouremenos in KPT 2006: 197–99 difende tovn (tov Rusten)
sulla base della possibile costruzione di un verbo di movimento con un
accusativo di origine come in Herodot. 5.104.2 ejxelqovnta to; a[çtu, per
cui soggetto di ejºkqo≥vrhi sarebbe il fuoco che viene a formare il sole bal-
zando fuori da una massa incandescente e to;n lam≥ptovtatovn te ªkai;
qeºr≥m≥ovªtºaton rappresenterebbe «a substantival description of aijqevra
in col. 13.4». Sembra tuttavia inverosimile una doppia determinazione
dell’origine di questo fuoco, di cui nella stessa frase si direbbe che si separa
tanto dall’etere quanto da se stesso.

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III. Afrodite timoniera del cosmo 85

Di qui il paradosso per cui dalla massa immutabile


dell’essere (e donde mai altrimenti se nulla esiste al di
fuori dell’essere?) dovrebbe essersi separato un globo in
divenire. Plotino ne dipanerà le implicazioni in Enn. 6.5.3
dichiarando che l’essere non può separarsi da se stesso e
non è in nessuna cosa, mentre le cose partecipano dell’es-
sere; la più radicale soluzione di Parmenide sta invece nel
lasciare che la dea costruisca un meraviglioso universo
impossibile, un cosmo virtuale.
Dobbiamo scegliere l’essere, ma non possiamo ignorare
la sua relazione con quel non–essere che è la sua ombra. Il
nostro errore non sta tanto nel restare immersi nel mondo
delle doxai quanto nel confondere prospettive eterogenee
credendo che essere e non–essere siano qualche volta la
stessa cosa e altre volte due cose diverse.
Inaugurando un’aporia che arriverà fino alle dicotomie
della fisica odierna fra mondo atomico e mondo sub–ato-
mico, materia osservabile e dark matter, ordine esplicito e
ordine implicito Parmenide ci diffida da facili scorciatoie.

2. Anelli cosmici

Nel naufragio di gran parte del secondo blocco del po-


ema l’unico resoconto superstite sulla cosmologia di Par-
menide che ppaia corredato di qualche dettaglio è quello
fornito da Aet. 2.7.1 = 28 A 37 D.-K. e risalente come di
consueto a Teofrasto, che possiamo integrare con i brani
da 28 B 9 a B 12 e con Simpl, Phys. 39.12 e 31.10 (= 28 B
12, r. 5–11) e 39.18 (= 28 B 13, r. 12–15).
Parmenide, secondo Teofrasto, postulava l’esistenza di
stephanai (‘corone’ o ‘anelli’ concentrici) alternativamente
formate di rado (araion) e di denso (pyknon), ma interposte
fra queste (coppie di) corone ce n’erano altre, in numero
imprecisato, commiste di luce e tenebra (28 B 12.1–2):

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86 Il migliore dei mondi impossibili

aiJ ga;r çteinovterai plh`nto puro;ç ajkrhvtoio,


aiJ dΔ ejpi; tai~ç nuktovç, meta; de; flogo;ç i{etai ai\ça.
6
Le corone più strette si colmarono di fuoco non mescolato,
quelle superiori di notte, ma porzione di fiamma irrompe
fra esse.

La daimôn che tutto dirige sta al centro (28 B 12.3–6):


ejn de; mevçwi touvtwn daivmwn h} pavnta kuberna`i
pavntΔ e[rga çtugeroi`o tovkou kai; mivxioç a[rcei
5 pevmpouçΔ a[rçeni qh`lu migh`n tov tΔ ejnantivon au\tiç
a[rçen qhlutevrwi.
E nel mezzo di questi (anelli)
7
la dea che governa tutte le cose
promuove tutte le opere del parto odioso e della mescolanza

6. L’aoristo radicale plh` n to (cf. Hes. Th. 688 mev n eoç plh~ n to
frevneç) è correzione di Th. Bergk (1842), seguito da Diels–Kranz, sulla
base di una tradizione manoscritta (quella di Simpl. Phys. 39.12) divisa
fra pavhnto e puvhnto. Successivamente (1864) lo stesso Bergk propose
il perfetto plh`ntai «sono colme» (variante senza raddoppiamento di
pev p lhntai), e l’ipotesi è stata ripresa da Fränkel 1960: 183 n. 1 anche
con il richiamo al presente i{etai del v. 2. L’anomalia metrica per cui la
seconda sillaba di plh`nto deve essere scandita come lunga pur essendo
seguito da una sola consonante fu spiegata da Diels 1897: 106 per analo-
gia con passi omerici (Il. 17.499 ajlkh`ç kai; çqevneoç plh`to frevnaç
aj m f i; melaiv n aç, 18.50, 23.777) in cui plh` t o appare collocato nella
stessa posizione del verso (ma seguito da doppia consonante). Lo stesso
Diels motivava il contrasto con il presente i{etai nel senso che plh`nto
deve riferirsi alla fase cosmogonica, i{etai all’assetto attuale («der jetzige
Zustand») del cosmo, come in effetti sembra confermato dal presente
a[rcei del v. 4.
7. Scrivo per congettura pavntΔ e[rga (con eliminazione della pausa abitu-
almente posta dagli editori dopo kuberna`i) per pavnta ga;r o pavntwn ga;r
(pavntwn il solo W, un manoscritto conservato a Mosca, vedi Sider 1979)
della tradizione manoscritta di Simpl. Phys. 31.10 (pavnta ga;r comporta
un’impossibile sequenza iniziale – + – , pavntwn sembra essere una congettura
bizantina). Per e[rga cf. 28 B 10.3 e 4, per la costruzione di a[rcw con l’accusativo
Pind. Ne. 3.10–1 a[rce ... u{mnon, Soph. El. 552–53 wJç a[rxaçav ti| luphrovn.
Karsten 1835, seguito da D.–K., integrava pavnta ga;r ãh}Ã (con problematico
ordine delle parole), Cerri 1999: 271 ha proposto pavnqΔ h} ga;r.

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III. Afrodite timoniera del cosmo 87

5 mandando femmina a congiungersi con maschio e, all’in-


verso,
maschio con femmina.

Per Teofrasto (attraverso Aet. 28 A 37, r. 5–7) questo


nume femminile era collocato al centro delle zone sferi-
che miste:
tw`n de; çummigw`n th;n meçaitavthn aJpavçaiç ãajrchvnà te
kai; ãaijtivanà kinhvçewç kai; genevçewç uJpavrcein, h{ntina
kai; daivmona kubernh`tin kai; klhidou`con ejponomavzei
Divkhn te kai; jAnavgkhn.
e quella centrale8 fra le corone miste è per tutte <princi-
pio> e <causa> del movimento e del nascere, e la chiama
anche divinità timoniera e detentrice delle chiavi e Dikê e
Anankê.

Dato il taglio della citazione, in B 12.1 è andato perdu-


to il referente di steinoterai, e pertanto non ci viene
9
detto
rispetto a che cosa fossero più ‘strette’ (interne) le corone
composte di fuoco puro.
Diels (vedi D.–K. I: 242) ipotizzava due coppie di co-
rone non mescolate costituite da una corona composta
di fuoco e una composta di notte (con quella ignea più
interna), e una serie di zone miste (occupate da Via lattea,
sole, luna e pianeti) intermedie fra le due coppie ‘pure’.

8. La sequenza ãajrchvnà te kai; ãaijtivanà (solo aijtivan già Krische) è


stata restituita da Diels sulla base di Simpl. Phys. 34.14, che ha pavçhç ge-
nevçewç aijtivan daivmona tivqhçin, ma la ragione della presunta caduta di
ajrchvn e aijtivan è oscura: io sospetterei un originario aJpavçaiç tevktainan
kinhvçewç «artefice del movimento di tutte (le corone)», cf. Hes. fr. 313.14
M.–W. Mh`tiç ... tevktaina dikaivwn e Callim. Hec. fr. 267 Pf.
9. Per l’uso di çteinovterai cf., con Diels 1897, Herod. 1.181.1 tei`coç
... çteinovteron.

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88 Il migliore dei mondi impossibili

Le due coppie di corone non mescolate sarebbero:

1) Una coppia posta alla periferia del cosmo, e cioè: a)


firmamento (olympos eschatos), fatto di ‘notte’, b) fuoco
dell’etere (aithêr xynos).
2) Un’altra connessa alla terra, e cioè: a) superficie ter-
restre; b) nucleo terrestre (fuoco vulcanico).

Questa analisi appare convincente anche perché l’abbi-


namento di plurale e suffisso –terai (in funzione contrastiva
piuttosto che comparativa) in steinoterai del v. 1 mostra
che si sta parlando non di corone rispetto alle quali esisteva
qualcosa all’esterno, ma di coppie di corone nel cui am-
bito quelle ignee formavano l’anello più interno e quelle
‘notturne’ l’anello più esterno (epi al v. 2, tenendo dietro
a steinoterai, deve significare «al di sopra», non «dopo»).
Perciò, come notava Kranz, gar «infatti» a principio di
B 12 suggerisce che subito prima fosse descritto l’anello
più esterno fatto di ‘notte’, e cioè il teichos «muro» a cui si
fa riferimento in 28 A 37.
D’altra parte la centralità del fuoco postulata da Diels
è parsa incompatibile (vedi Coxon 1986: 239) con l’affer-
mazione dello stesso Aezio in A 37, r.4–5 secondo cui
kai; to; meçaivtaton paçw`n çtereo;n peri; o} pavlin
purwvdhç.
e ciò che è al centro di tutte (le corone), intorno a cui c’è di
nuovo una corona ignea, è solido.

La contraddizione era avvertita dallo stesso Diels quan-


do correggeva drasticamente peri ho «intorno al quale» in
hyph’ ho «sotto il quale» (ma Kranz è poi tornato a peri ho),
ma c’è da notare che per una svista trascinatasi di edizio-
ne in edizione, e tuttora non eliminata nei Fragmente der
Vorsokratiker salvo ad essere segnalata da Kranz nell’ap-

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III. Afrodite timoniera del cosmo 89

pendice (I 496) alla quinta edizione, stereon «solido» in 28


A 37, r. 4 è presentato come testo tràdito anche se si tratta
di un’integrazione di A.B. Krische, e inoltre che peri ho è
un emendamento, seppur lieve, di A. Boeckh rispetto a
una tradizione manoscritta 10
divisa fra peri hon del codice
F e peri hôn del codice P.
Poiché la sfera terrestre era posta al centro del cosmo
(sulla sfericità della terra secondo Parmenide cf. 28 A 1
e 44 e vedi Kahn 1960: 115–28), circondata dall’atmo-
sfera prodottasi come una sorta di esalazione in forma
di vapore in seguito a violente compressioni della terra
stessa (28 A 37, r. 8-9), la corona che circondava l’anello
più interno del cosmo (to mesaitaton) non poteva essere
ignea (Reinhardt 1916: 11 e Finkelberg 1986: 304): do-
veva essere la crosta terrestre, densa e fatta di ‘notte’,
a circondare un anello
11
igneo che, esso sì, costituiva il
nucleo del cosmo.
Eliminato stereon, se accogliamo lo schema generale
di Diels, che in effetti si accorda con i brani superstiti,
possiamo ricondurre ad esso il perion della paradosis in-
terpretandolo non come peri on «intorno 12
al quale», bensì
come peri(i)on «che ruota in tondo»:
kai; to; meçaivtaton paçw`n periãiÃo;n pavlin purwvdhç.
e la circonferenza al centro di tutte (le corone) è di nuovo
(una corona) ignea.

10. Per altro w|n sembra chiaramente dovuto ad assimilazione con il


precedente paçw`n.
11. Sulla base delle contraddizioni che emergono dall’esegesi tradizio-
nale Dvrota 2006: 22 ha pensato di risolvere un po’ troppo frettolosamente
il problema alla radice espungendo l’intera sequenza kai; to; meçaivtaton
... purwvdhç.
12. La grafia con un singolo iota è frequente non solo nella tradizione
medievale, ma già in quella papiracea di Aristot. Ath.Pol. 53.1 e di altri testi,
vedi LSJ s.v. periveimi (ei\mi) 1a.

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90 Il migliore dei mondi impossibili

In tal modo l’anello più esterno e quello più interno


del cosmo erano, specularmente, un muro compatto,
analogo al ‘firmamento’ (steremnion) di Emped. 31 A 51,
che cingeva una corona ignea (l’aithêr), e un nucleo igneo
(il fuoco sotterraneo) circondato dalla densa e compatta
crosta terrestre.

3. Al centro

Dicendo che la dea è la corona intermedia fra tutte, Te-


ofrasto evidentemente interpretava en mesôi «nel mezzo»
di 28 B 12.3 in relazione alle corone ricordate nel verso
precedente, a loro volta identificate con la serie di corone
miste, ma questa esegesi non è convincente.
Trattandosi di coppie di corone alternativamente ignee
e ‘notturne’, non potevano essere le corone miste a porsi
in opposizione alle corone di fuoco puro (e al di sopra
di esse), bensì le corone composte di tenebra altrettanto
pura, e questo precisamente si suggerisce in B 12.2 con
la menzione di corone «di notte»: l’aggiunta, nello stesso
verso, meta de phlogos hietai aisa «ma porzione di fiamma
irrompe fra esse» non rimanda a corone ‘miste’, ma precisa
che queste corone composte di ‘notte’ non mescolata pos-
sono essere attraversate, pur essendo dense e compatte,
da getti di fiamma (Burnet 1930: 189).
La precisazione doveva servire a spiegare come il fuo-
co sotterraneo potesse erompere in superficie in forma di
eruzioni vulcaniche, acque termali e fenomeni analoghi
(Finkelberg 1986: 307–8). E sarebbe strano che nell’ambito
di sfere concentriche «nel mezzo» indicasse non il centro
del cosmo, bensì la zona intermedia fra le (coppie di) coro-
ne ‘pure’, con l’ulteriore complicazione per cui la daimôn
avrebbe dovuto estendersi lungo l’intero cerchio di una co-
rona (così invece, sulla scia di Aezio, Fränkel 1960: 185).

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III. Afrodite timoniera del cosmo 91

Come già ipotizzato da Diels 1897: 107 e da Guthrie


1979: 62–3, «nel mezzo di queste (corone)» (en ... mesôi
toutôn) di B 12.3 deve riferirsi al centro di tutte le corone,
proprio come intendeva Simplicio, che aveva la possibilità
di conoscere l’intero contesto (cf. Phys. 144.25 = 28 A 21),
quando in Phys. 34.14 (riportato fra i testimoni di 28 B 12)
dice che Parmenide pone come unica e universale causa
efficiente la daimôn che è responsabile di ogni generazione
ed è insediata nel mezzo di tutte le cose (en mesôi pantôn
hidrumenên).
Come è stato largamente accertato, nel lessico politico
a cavallo fra sesto e quinto secolo a.C. il meson «s’inscrit
dans un espace composé, certes, de parties diverses, mais
qui révèlent toutes leur similitude, leur symétrie, leur
équivalence fondamentale par leur rapport commun
avec ce centre unique qui forme la Hestia Koiné» (Vernant
1965: 579).
Non è escluso che la nozione di ‘isonomia’ si elaborasse
originariamente all’interno di contesti aristocratici, ma già
alla fine del VI secolo la parola era diventata uno slogan
della democrazia clistenica, come mostrano due carmi
conviviali attici che rievocano l’impresa dei tirannicidi
(893.4 e 896.4 PMG isonomous t’ Athênas epoiêsatên «e resero
gli Ateniesi uguali di fronte alla legge»).
Pitagora e i primi Pitagorici avevano fatto dell’isono-
mia il risultato di proporzioni modellate sugli intervalli
armonici, e Platone li seguirà progettando nelle Leggi (744
b–c) per la colonia di Magnesia in Creta una non paritaria
suddivisione censitaria e una distribuzione di onori e ca-
riche secondo una ineguaglianza proporzionale (tôi anisôi
symmetrôi) derivata dal principio dell’uguaglianza ‘geome-
trica’ (Wood–Wood 1978: 162–64, Morrow 1993: 525–30),
ma già in Alcmeone di Crotone, coetaneo di Parmenide,
che pure la tradizione considera discepolo di Pitagora,
non si avverte alcuna considerazione ‘aristocratica’ della

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nozione di ‘isonomia’ se egli riconduceva la salute appunto


all’’isonomia’ assoluta dei ‘poteri’ (umido / secco, freddo
/ caldo, amaro / dolce) e faceva della ‘monarchia’ di uno
di essi la causa prima delle malattie (Sassi 2009: 112–13).
In Parmenide l’equilibrio che viene prospettato non
ha risvolti proporzionali né all’interno dell’essere né in
relazione alle doxai, anzi l’espressione usata per l’essere
in B 8.44 (messothen isopales pantêi «equilibrata dappertutto
a partire dal centro») può essere considerata la migliore
esemplicazione del principio ‘democratico’ del meson.
È anche un indizio che Parmenide, al momento di
stabilire per Velia leggi che avrebbero avuto lunga du-
rata e a cui i magistrati entranti annualmente in carica
avrebbero giurato di mantenersi fedeli (D.L. 9.23 = 28 A
1 e Plut. Col. 1126 a = 28 A 12), non dovette ripetere gli
errori che avevano provocato l’espulsione dei Pitagorici
da Crotone.
Come ha scritto Ruggiu in Reale–Ruggiu 1991: 378 e
p. 380, «il linguaggio dell’Essere parmenideo è fortemente
isonomico, e non monarchico e aristocratico (...) tutti gli
elementi conducono in direzione di una teoria di stampo
democratico». Grazie a queste leggi, dice Strabone (6.1),
Elea fu ben governata e riuscì a tener testa agli attacchi di
Lucani e Posidoniati.

4. Trasmigrazioni

Come abbiamo visto, Aezio precisa a proposito della


dea (28 A 37, r. 8–9): «... quella che chiama anche divinità
che governa e detiene le chiavi, Dikê e Anankê».
Anche in questo caso il testo è stato modificato perché
«colei che detiene le chiavi» (klêidouchon) è un emenda-
mento di Fülleborn rispetto alla lezione tramandata da
Aezio, e cioè klêrouchon, introdotto sulla base di B 1.14,

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dove si dice che Dikê punitrice «regge le chiavi alterne»


del portale attraversato dai percorsi di Giorno e Notte.
La lezione klêrouchon è stato difesa da Morrison 1955:
61 nel senso di una daimôn «che (de)tiene e indirizza le
sorti (i lotti)» e collegato a un’altra testimonianza (Simpl.
Phys. 39.18 = 28 B 13) secondo cui la dea manda le anime
talora dal visibile (ek tou emphanous) all’invisibile (eis to
aeides), talora in senso contrario.
Che qui si facesse o non si facesse riferimento al ciclo
di trasmigrazione delle anime (torneremo fra poco su
questo punto), appare in primo piano la doppia funzione
della dea, origine di nascita e morte e pertanto padrona dei
cicli delle vicende umane come di quelli della vegetazio-
ne: insomma, «two faces of a dual goddess: life in death,
death in life» (Kingsley 2003: 219). Così la sorgente del
movimento verso l’invisibile era la stessa del movimento
verso il visibile analogamente a come, nel celebre dictum
di Anassimandro (12 B 2), l’apeiron è l’origine e insieme il
termine di tutte le cose esistenti.
La prospettiva suggerita da Simplicio per Parmenide si
ripropone in un passo già richiamato da Diels 1897: 109,
e cioè Hp. Vict. 1.4.6 (p. 16 Joly–Byl), dove si dice che gli
uomini, confidando più negli occhi che nella ragione,
credono che una cosa nasca dopo che sia cresciuta dall’in-
visibile alla luce e un’altra muoia dopo che si sia affievolita
dalla luce all’invisibile (vedi Bartos 2009).
L’autore del De victu ritiene, in modo simile a Emped.
31 B 8, che nulla perisca interamente né si crei nulla di
nuovo, ma che avvengano solo molteplici e difformi me-
scolanze (quelle appunto di cui la daimôn parmenidea è
sovrana); per Parmenide il passaggio dalla vita alla morte
(e viceversa) doveva prospettarsi invece come transizione
dal più caldo al più freddo (e viceversa).
Come compendia in relazione alla prima origine del
genere umano D.L. 9.22 = 28 A 1 D.–K.:

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gevneçivn te ajnqrwvpwn ejx hJlivou prw`ton genevçqai:


Êaujto;nÊ de; uJpavrcein to; qermo;n kai; to; yucrovn, ejx
w|n ta; pavnta çuneçtavnai.
e (mostrò) che13
la prima origine degli uomini ebbe luogo in
virtù del sole e che l’uomo è composto di caldo e di freddo,
donde si forma tutto ciò che esiste.

In GC 330b13 = 28 A 35 Aristotele puntualizza questo


meccanismo ricordando che «dal momento che, com’è
noto, il caldo tende per sua natura a separare e il freddo a
riunire, e ciascuno degli altri opposti tende l’uno ad agire e
l’altro a subire, (Parmenide e altri) sostengono che da questi
opposti o a causa di questi tutte le altre cose nascono e si
corrompono», e la polarità caldo / freddo viene usata dallo
stesso Aristotele in GA 784b32 e Long. 466a16 in rapporto
all’opposizione giovinezza / vecchiaia (Sassi 2009b: 19–22).
Ecco perché, secondo Theophr. Sens. 3 = 28 A 46, Parme-

13. Si è spesso sospettata la lezione ejx hJlivou, sostituita con ejx ijluvoç
nell’edizione Frobeniana di Diogene (ejk phlou` Ziegler), e in effetti Cen-
sor. 4.7.8 = 28 A 51 riferisce che Empedocle si differenziava solo per minimi
dettagli dall’opinione di Parmenide nel ritenere che primo membra singula
ex terra quasi praegnate passim edita, deinde coisse et effecisse solidi hominis
materiem igni simul et humori permixtam (cf. 31 A 72). Ma ejx hjlivou può
esprimere l’idea che gli uomini uscirono dalla terra in virtù del calore so-
lare, e questo calore sarebbe stato l’agente demiurgico dell’antropogonia
in accordo con la frase immediatamente precedente (duv o te ei\ n ai
çtoicei`a, pu`r kai; gh`n, kai; to; me;n dhmiourgou` tavxin e[cein,
th;n de; u{lhç), vedi Naddaf 2005: 138. Nel papiro di Derveni (col. 14.2–4)
ejx hJlivou dell’inno oggetto di commento viene parafrasato dall’autore del
trattato con dia; to;n h{lion.
Quanto al seguente aujtovn, esso è stato giustamente sospettato (varie
le proposte di correzione: ai[tia Diels, taujtovn Usener, prw`ton Von der
Mühll con eliminazione del prw`ton precedente), e non è consigliabile, a
meno di ammettere una strana sciatteria, riferirlo a un a[nqrwpon «dedu-
cibile da ajnqrwvpwn che precede» (Untersteiner 1958: CCII n. 125). A me
sembra probabile che la lezione primitiva fosse a[nqrwpon, facilmente cor-
rottosi in aujtovn perché trascritto nella tipica forma abbreviata a—n—q—o—n—.

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nide affermava, come abbiamo visto in I § 2, che il morto


non percepisce la luce, il caldo e il suono a causa del venir
meno del fuoco, ma percepisce il freddo e il silenzio.
D’altra parte per Parmenide la natura dell’anima non
doveva essere ontologicamente diversa da quella del corpo
essendo formata, a quanto riferisce Macrob. Somn. Scip.
1.14.20 = 28 A 45, di terra (corrispondente alla ‘notte’)
e di fuoco (forse una correzione rispetto a Xenophan.
21 A 50, che la considerava costituita di terra e acqua), e
comunque ricaviamo da 28 B 16 e da quanto dice, citando
il brano, Theophr. Sens. 3–4 = 28 A 46 che per lui il noos si
identificava con le percezioni di luce e notte sperimentate
dal corpo attraverso gli organi di senso.
Pertanto Rohde 1916: 489, facendo appunto riferimento
a B 16, si domandava se Parmenide «distingue quest’anima
dall’esistenza indipendente da ciò che nella combinazio-
ne degli elementi percepisce e pensa come spirito (noos),
ma che pure, nella sua esistenza, è legato agli elementi
e a quella loro composizione che costituisce il corpo» e
rispondeva che «Parmenide, dove parla dell’anima che
vive alternativamente nel regno visibile e nell’invisibile,
non parla da fisiologo, ma da seguace della teosofia orfico–
pitagorica», e in effetti la contraddizione non è sanabile in
termini strettamente logici se è vero che, come dichiara
D.L. 9.22 = 28 A 1 sulla base di Theophr. Phys. fr. 6a, p.
483.2 Diels, in Parmenide psychê e nous si identificavano.
Rohde enfatizzava l’aporia rendendo noos, secondo
una corrispondenza decisamente impropria che troviamo
anche nella traduzione di Kranz, con Geist, ma proprio
perché non è ipotizzabile in questo sistema una dicoto-
mia fra noos come ‘spirito’ e noos come combinazione di
elementi non si capisce come la psychê potesse avere un
percorso e un destino diversi da quelli del corpo.
La contraddizione sta a monte, ed è quella fra realtà e
doxai. La vicenda incessante delle psychai come entità au-

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tonome che passano dal visibile all’invisibile, e viceversa,


fa parte della dimensione delle doxai e dunque rappresenta
un esempio di quell’inganno che la dea mette in atto.
Ciò non comporta che l’antitesi si articolasse, come
voleva Rohde, nei termini di un’opposizione fra spirito e
corpo: il contrasto doveva vertere invece su materia più
‘ignea’ e materia più ‘notturna’ (e forse anche su ciò che
subisce e ciò che comanda), come si ricava da Aet. 4.3.4
e 4.5 = 28 A 45 quando riporta che, secondo Parmenide,
l’anima è «ignea» (pyrôdês) e che il principio–guida (hêge-
monikon) è diffuso in tutto il petto.
Poiché anche secondo Teophr. Sens. 3 (= 28 A 46) il
pensiero più puro è quello legato al caldo, Parmenide
doveva ipotizzare, sul piano delle doxai, che le psychai,
prima di penetrare nel corpo e dopo esserne uscite,
erano più ‘ignee’ (non dunque immateriali, ma, come
poi in Democrito e in Epicuro, composte di materia più
luminosa e leggera) e che il loro ingresso all’interno di
un corpo le costringeva a coabitare con materia più dura
e oscura.
Anima e corpo dovevano seguire vie diverse in quanto
Afrodite presiedeva all’ingresso nel corpo 14
e all’uscita da
esso, forse attraverso due porte distinte, delle anime, e
cioè al loro diventare ‘visibili’ o ‘invisibili’.

14. Coxon 1986: 241–44 ha collegato questo doppio movimento delle


anime al passo (assente in Diels–Kranz fra i testimonia di Parmenide) di
Porphyr. Nymph. 11 (= test. 133 Coxon), secondo cui Parmenide, al pari di
anonimi ‘teologi’, menzionava le due porte del Cancro (settentrionale) e
del Capricorno (meridionale) attraverso le quali le anime rispettivamente
discendevano (per nascere) e salivano (per avviarsi verso gli dèi), e Coxon
ha richiamato a confronto anche i due cavçmata attraverso uno dei quali,
nel racconto di Er, le anime dei giusti salgono al cielo (Plat. Rsp. 614c).
Nulla per altro autorizza a sfruttare questa testimonianza, come fa Coxon,
per identificare le ‘zone’ di 28 A 44a con le çtefavnai di 28 A 37 e B 12 (vedi
Cerri 1999: 269).

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Poiché nella citazione di Simplicio la successione è, 15


in linea con la tradizione escatologica di tipo misterico,
morte — vita, non vita — morte, e poiché viene intro-
dotta in relazione alla nascita un’indicazione (anapalin
«all’inverso») che comporta un ‘ritorno’ alla vita estraneo
alla comune concezione del nascere e del morire, la frase 16
doveva rimandare alla prospettiva della metempsicosi.
Non può essere un caso che la frase «(Afrodite) manda
le anime talora dal visibile all’invisibile, talora in senso
contrario» di Simplicio sia molto simile al passo di Pindaro
(fr. 133.2–3 M.)
ejç to;n u{perqen a{lion keivnwn ejnavtwi e[tei>
ajndidoi` yuca;ç pavlin
nel nono anno al sole superno rimanda
indietro le anime di quelli

che descrive l’atto di Persefone di rimandare indietro


(andidoi ... palin) alla vita sulla terra (lo spazio animato
dal «sole superno») le anime di coloro di cui abbia accolto
l’espiazione per il suo antico dolore e che si reincarnano
in figure eccellenti quali sovrani, atleti, sapienti (anche
per il tenore orfico del brano vedi Cannatà Fera 1990:
222–25).
Quanto ai neutri emphanes «visibile» e aeides «invisibile»,
essi dovevano riferirsi non tanto (o non solo) al mondo
superiore e al mondo infero quanto alla condizione stessa
delle anime, come emerge dal confronto con quel momen-
to del Fedone (79 b–c) in cui Socrate, dopo uno scambio di
battute con Cebete, conclude dicendo:

15. Cf. Pind. fr. 137.2–3 M., l’incipit della lamina aurea OF 485 F, Isocr.
Pan. 28 e vedi Cannatà Fera 1990: 208–9.
16. A favore della presenza di questo motivo si sono pronunciati fra gli
altri Rohde 1916: 489, Burkert 1969: 28–9, Sassi 1988b: 393, McEvilley 2002:
111, in senso contrario Guthrie 1979: 70 e Cerri 1999: 271–72.

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oJmoiovteron a[ra yuch; çwvmatovç ejçtin tw`i ajidei`, to;


de; tw`i oJratw`i.
Dunque l’anima più del corpo è simile all’invisibile, e il corpo
al visibile.

Anche in Parmenide l’’invisibilità’ dell’anima doveva


rimandare a una (illusoria) liberazione dal corpo, la sua
‘visibilità’ a un (illusorio) ingresso all’interno di esso.

5. Maschi e femmine

Anche le diverse caratteristiche dei sessi venivano


ricondotte al medesimo principio di opposizione caldo
/ freddo partendo dal principio secondo cui, a quanto
sostiene Aristot. PA 648a25 = 28 A 52, per Parmeni-
de, diversamente che per Empedocle, le donne «sono
più calde degli uomini dato che le mestruazioni sono
prodotte dal calore e dipendono dall'abbondanza di
sangue» (cf. Hp. Mul. 1.1, p. 8.12 Littré e vedi Lloyd
1964: 102).
Inoltre, secondo Aezio (5.7.2 = 28 A 53), Parmenide
affermava, di nuovo in contrasto con Empedocle (31 A
81), che in origine «le regioni settentrionali produssero
maschi essendo partecipi del denso in maggiore quantità,
le regioni meridionali donne a causa del rado».
Non è chiaro come questa teoria potesse conciliarsi
con l’idea di una differenziazione sessuale basata sull’op-
posizione destra / sinistra quale emerge in Aet. 5.7.4 =
28 A 53 e nei passi di Aezio stesso e di Censorino raccolti
da Diels–Kranz sotto 28 A 54.
Parmenide poteva ritenere, nell’ambito del racconto
dell’antropogonia, a cui fanno riferimento 28 A 1 (§ 22) e
A 51, che maschi e femmine avessero avuto la loro prima
origine gli uni nelle regioni fredde e dominate dal denso,

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le altre in quelle calde e dominate dal rado, ma che in se-


guito prendessero a differenziarsi secondo17
l’opposizione
destra / sinistra all’interno dell’utero.
In verità i passi raccolti sotto 28 A 53 e 54, e anche 28
B 17, non implicano che la differenziazione sessuale si
originasse all’interno dell’utero, ma potrebbero riguardare
anche solo la mescolanza dei semi maschili e femminili
commisti nell’embrione che alberga nell’utero (Kember
1971), e si è anche ipotizzato che la differenziazione ses-
suale dipendesse per Parmenide esclusivamente dal seme
maschile, mentre il seme della donna, di per sé o in con-
giunzione con quello del maschio, determinava l’aspetto
esteriore del nuovo nato, il suo orientamento libidico e
altri tratti ‘secondari’, insomma l’habitus di cui parla Cen-
sor. 6.8 = 28 A 54 (vedi Schrijvers 1985, pp. 52–62).
Senonché, come ha puntualizzato Lloyd 1972, il con-
testo in cui Galeno (In Epid. 6.48, CMG V 10.2.2) cita
l’esametro (28 B 17)
dexiteroi`çin me;n kouvrouç, laioi`çi de; kouvraç
a destra (dell’utero) maschi, a sinistra femmine

è esplicito, anche attraverso rimandi ad altri testi dello


stesso Galeno, nel mostrare che la questione in gioco non
è come il collocarsi dell’embrione nella parte destra o sini-
stra dell’utero dipenda dal sesso dell’embrione, ma come
il sesso dell’embrione sia determinato dal lato dell’utero
in cui si forma.
Anche la suddivisione del globo terrestre in cinque
‘zone’ (Strab. 1.94 = 28 A 44a) doveva rispondere all’esi-
genza di stabilire una perfetta simmetria fra caldo e freddo,

17. In generale, sulle coppie maschile / femminile, caldo / freddo e destra


/ sinistra vedi Sassi 1988: 81–9, su quella destra / sinistra nella tradizione pi-
tagorica, in Parmenide e nelle lamine misteriche Battezzato 2005.

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100 Il migliore dei mondi impossibili

con una zona torrida (secondo Posidonio, fonte di Strabo-


ne, di estensione doppia rispetto al reale perché debordante
al di là di entrambi i tropici) interposta fra zone temperate
che si estendevano rispettivamente fino ai circoli artico e
antartico (vedi Kidd 1972: 224 e Kingsley 2003: 579–80).

6. Sorteggi e lotti

Ma torniamo alla definizione della daimôn come klêrou-


chos.
Burnet 1930: 190 spiegava il composto sulla base del
racconto di Er relativo alle ‘sorti’ (klêroi) che le anime dei
defunti, giunte di fronte a Lachesi, estraggono per sce-
gliere le nuove vite in cui reincarnarsi (Plat. Rsp. 617d–e),
ma già in un inno accadico dedicato a Ishtar e risalente al
1600 circa a.C., si dice al v. 14 che questa dea, che altrove
riceve dal padre Enki la tavola 18del destino, «tiene nella sua
mano il destino di ogni cosa».
Ma anche se la nozione di Afrodite come dea del desti-
no è certamente implicita nella testimonianza di Simplicio
e ripete una funzione caratteristica di Ishtar (Dalley 2007:
138 ss.), sembra difficile che klêrouchos potesse identificare
qualcuno che detiene ‘sorti’ altrui, cioè destini di morte e
di vita da assegnare alle anime. Definire klêrouchos una
dea doveva infatti significare che essa deteneva come
proprio appannaggio uno o più ‘lotti’ (klêroi), eventual-
mente definiti con un genitivo di possesso (cf. Soph. Ai.

18. Conforme alla versione («the fate of everything she holds in her
hand») di F.J. Stephens in ANET: 383. A questa funzione possiamo ricol-
legare anche l’iscrizione posta sulla base della statua di Afrodite opera di
Alcamene (seconda metà del V secolo a.C.) collocata accanto al tempio
ateniese della dea nella zona detta ejn khvpoiç, dove secondo Paus. 1.19.2 la
dea era detta «la più antica delle Moire».

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III. Afrodite timoniera del cosmo 101

507–8 «abbi pietà di tua madre, detentrice di un lotto di


molti anni»).
Un parallelo stringente è offerto, proprio nell’ambito di
un’invocazione ad Afrodite, da un verso isolato di Eschilo
(fr. 402a R.):
Kuvprou Pavfou tΔ e[couça pavnta klh`ron.
colei che possiede ogni lotto di Cipro e Pafo.

E in Orph. hymn. 55.4–7 Afrodite, per il cui volere anche


secondo Eur. Hipp.447–48 ogni cosa viene alla luce,19è detta
detenere tutte e tre le parti (moirai) dell’universo.
A monte c’era naturalmente l’idea di una spartizione per
sorteggio di spazi e prerogative che troviamo in Hom. Il
15.189–93, dove si dice che il mondo fu diviso, attraverso un
sorteggio, in tre parti e che ogni dio ebbe il suo onore: Posi-
done ottenne il mare, Hades il buio nebbioso, Zeus il vasto
cielo. E andando a ritroso nel tempo troviamo nell’Atrahasis
accadico che gli dèi «afferrarono il sacchetto delle sorti, lan-
ciarono le sorti; gli dèi fecero la divisione: Anu salì al cielo [...
Enlil] prese la terra per i suoi sudditi...» (Burkert 1992: 90).
D’altra parte già al tempo di Parmenide ‘cleruco’ e
‘cleruchia’ dovevano essersi sviluppati, anche se le più
antiche attestazioni in tal senso non risalgono al di qua
di Erodoto (5.77 e 6.100) e di Aristofane (Nu. 203), come
elemento del lessico della colonizzazione per denotare chi
ottenesse un lotto di terreno in una colonia senza però, a
differenza dell’apoikos, diventarne cittadino, bensì 20
conti-
nuando a mantenere la primitiva cittadinanza.

19. Per moirw`n come le tre parti dell’universo piuttosto che le tre
Moire vedi Ricciardelli 2000: 441.
20. Basti ricordare la distinzione ajpoikivaiç kai; klhroucivaiç in IG
I2 140.9 (Graham 1964: 167–191). Tuttavia l’opposizione terminologica ap-
pare molto più netta nelle fonti epigrafiche che in quelle letterarie e oc-

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102 Il migliore dei mondi impossibili

Una dea klêrouchos doveva pertanto essere un nume


che aveva ottenuto come suo appannaggio certe aree di
culto in un dato territorio pur conservando la sua sede
sull’Olimpo (e va ricordato come fosse diffusa l’usanza di
consacrare una parte dei lotti coloniali agli dèi, come nel
caso di Lesbo in Thuc, 3.50.2).
Non a21caso la daimôn parmenidea pilota la sua nave
cosmica, promuove il parto odioso e l’unione sessuale,
gestisce i destini delle anime restando tuttavia salda, come
il dio di Senofane (21 B 25 e B 26) o lo Zeus di Eschilo (Su.
100–2), nella propria sede. La sua azione non viene rap-
presentata come un intervento diretto, ma come un atto
di ‘mandare’ (pempein): Afrodite manda l’elemento fem-
minile a mescolarsi con quello maschile, quello maschile
con quello femminile così come manda le anime talora dal
visibile all’invisibile, talora in senso contrario.
In questo quadro ben si comprende anche la giustap-
posizione kybernêtin kai klêrouchon «timoniera e detentrice
di lotti» che, come abbiamo visto, è attestata in Aezio e in
qualche misura potrebbe rispecchiare il testo originale. Se
infatti kybernêtin riprende quel kybernai «regge il timone»,
«guida» di 28 B 12.3 che ha per oggetto il parto e l’unione
sessuale e come spazio d’azione il cosmo intero, anche
klêrouchon poteva riguardare un’azione svolta dalla dea
per l’intero cosmo con l’infondere dalla sua sede l’impulso
alla congiunzione di notte e luce, freddo e caldo, umido
e secco, maschile e femminile.

corre distinguere fra le cleruchie ateniesi del quarto secolo a.C. e quelle
anteriori (la più antica ‘cleruchia’ di cui abbiamo notizia è quella insediata
dagli Ateniesi sul territorio degli Hippobotai di Calcide nel 506 a.C., cf.
Herod. 5.77.2).
21. Il verbo kubernavw e il suo sinonimo oijakivzw erano già stati usati
in relazione al tutto o al cosmo da Heraclit. 22 B 41 ei\nai ga;r e}n to;
çofovn, ejpivçtaçqai gnwvmhn, oJtevh ejkubevrnhçe pavnta dia; pavntwn
e B 64 ta; de; pavnta oijakivzei Keraunovç.

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III. Afrodite timoniera del cosmo 103

7. Identità e domicilio della dea

Ma chi è questa daimôn? Come abbiamo visto, in 28


B 12 Parmenide fa riferimento solo a una non meglio
precisata dea, altrettanto anonima di quella che 22
al v. 3 del
proemio porta per il mondo «l’uomo che sa». Solo Plut.
Amat. 756f = 28 B 13 identifica questa figura con Afrodite
riferendo che Parmenide nella sua ‘cosmogonia’ «mostra
Eros come la più antica delle opere di Afrodite».
È possibile che Parmenide lasciasse la dea nell’anoni-
mato limitandosi a precisare il suo ruolo e le sue funzioni
e che Plutarco si limitasse ad avanzare una congettura. Si
tratterebbe comunque di una congettura molto plausibile
se è vero che solo alludendo alla 23figura di Afrodite Parme-
nide poteva dire di lei (28 B 13):
prwvtiçton me;n “Erwta qew`n mhtivçato pavntwn.
24
Per primo fra tutti gli dèi ella meditò Eros.

Posta al centro delle corone che compongono il cosmo,


l’Afrodite parmenidea ha preso il posto della hestia («foco-

22. Aezio aggiunge che Parmenide dà alla dea anche il nome di Dikê e
di Anankê, ma si tratta verosimilmente di un’identificazione forzata fra la
daimôn e due solidali ma diverse figure indotta dal ruolo assegnato a Dikê
in B 1.14 e ad Anankê in 8.30 e in B 10.6. Sull’arbitrarietà di una unificazione
sommaria e generalizzante fra le varie figure divine del poema vedi Cerri
1999: 268–69.
23. Eros è presentato più volte come figlio di Afrodite a partire da Si-
mon. 575.1 PMG çcevtlie pai` dolomhde;ç jAfrodivtaç, vedi Cerri 1999:
267–68 e Pontani 2007.
24. Il verso relativo all’origine di Eros doveva essere seguito da un
catalogo di figure divine, forse organizzate per coppie di contrari, come
quelle elencate in Cic. Nat. deor. 1.11.28 (= 28 A 37):quippe qui Bellum,
qui Discordiam, qui Cupiditatem ceteraque generis eiusdem ad deum revocat
(cf. Hes. Th. 211 ss., Emped. 31 B 122 e 123 e vedi Reinhardt 1916: 18 e
Northrup 1980).

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lare») dei Pitagorici, collocata anch’essa al centro dell’uni-


verso, come conferma Anatolio di Laodicea (Dec. p. 30
Heiberg = 28 A 44) riferendo che i Pitagorici affermavano
che nel mezzo dei quattro elementi sta un cubo unitario
infuocato la cui posizione mediana sarebbe stata nota
anche a Omero quando diceva: «tanto al di sotto dell’Ade
quanto il cielo dista dalla terra» (Il. 8.16), e subito dopo
aggiunge che in questo Empedocle e Parmenide con i loro
seguaci e la maggior parte degli antichi sapienti hanno
seguito i Pitagorici affermando che la natura ‘monadica’
è collocata al centro a guisa di focolare (hestias tropon) e
conserva la medesima sede in virtù della sua condizione
di equilibrio (dia to isorropon).
Ma già nella seconda metà del V secolo a.C. il pitago-
rico Filolao di Crotone affermava (44 B 7) che ciò che fu
connesso per25
primo (l’Uno) nel centro della sfera è chia-
mato hestia e immaginava (Aet. 2.7.7 = 44 A 16, cf. 3.11.3
= 44 A 17) una massa ignea collocata al26 centro dell’uni-
verso (donde invece rimuoveva la terra ) che chiamava,
oltre che ‘focolare’ del tutto, casa di Zeus, madre degli
dèi, altare, congiungimento e misura della natura con
evidente rispecchiamento di un ordine gravitante attorno
al pritaneo nell’agora.
La nozione ricompare in Orph. hymn. 84.2, dove si dice
che Hestia ha la sua dimora in mezzo al fuoco perenne,
mentre in un altro inno orfico (27.9) è identificata con la
Madre degli dèi, definita a sua volta come colei che ha il

25. Per una dettagliata discussione del passo, incentrata sulla questione
se l’Uno vada inteso in senso numerico, vedi Schibli 1996, per la connes-
sione tra Filolao e Parmenide Kirk–Raven–Schofield 1983: 259 e Ruggiu in
Reale–Ruggiu 1991: 342–43.
26. Cf. 58 B 37, dove si dice che i Pitagorici italici facevano della terra
una delle stelle e la immaginavano ruotare intorno a un centro igneo, e
inoltre postulavano una anti–terra opposta al nostro pianeta.

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III. Afrodite timoniera del cosmo 105

trono al centro
27
del cosmo (v. 5 hê katecheis kosmoio meson
thronon).
Se Afrodite era insediata al centro del cosmo possiamo
individuare la sua ‘cleruchia’ più esterna grazie alla testi-
monianza di Aet. 2.15.4 = 28 A 40a:
Parmenivdhç prw`ton me;n tavttei to;n ÔEw`ion, to;n
aujto;n de; nomizovmenon uJpΔ aujtou` kai; ”Eçperon, ejn
tw`i aijqevri: meqΔ o}n to;n h{lion, uJfΔ wJ~i tou;ç ejn tw`i
purwvdei ajçtevraç, o{per oujrano;n kalei`
Parmenide assegna dapprima il suo posto nell’etere a Heôs,
che da lui è anche considerata identica a Espero, e dopo
Heôs al sole e, al di sotto di questo, agli astri, che si trovano
nell’elemento igneo che chiama ‘cielo’.

È un dato isolato nelle cosmogonie greche che il primo


corpo celeste a essere collocato nello spazio cosmico fosse
quel pianeta Venere per il quale è attestato per la prima
volta in ambito greco il nome di ‘Afrodite’ in Ps.–Plat.
Epin. 987b, ma che probabilmente già Parmenide collega-
va a questa dea se egli stesso è altresì ricordato (D.L. 9.23 =
28 A 1) come lo scopritore dell’identità 28 fra Eos (Heôsphoros,
Lucifero) ed Espero (Cerri 1999: 268).
Poiché la filiazione di Afrodite Urania da Ishtar attraverso
i Pafii ciprioti e i Fenici era sostenuta da Paus. 1.14.7 e per
Herodot. 1.105.2–3 il tempio di Afrodite Pafia (ricordato già
in Hes. Th. 102–3) era stato fondato dai Fenici ad Ascalona
sul modello di quello di Atargatis (variante fenicia di Ishtar),

27. Vedi Ricciardelli 2000: 338 e 528–29 e Kingsley 2003: 577. Per altro
l’idea di un fuoco sotterraneo è implicita già in Pindaro quando nel fr.
133.2–3 M. presuppone l’esistenza di un doppio sole, uno per i viventi e
uno per i morti.
28. L’attribuzione alternativa della scoperta a Pitagora in D. L. 9.23 =
28 A 1 potrebbe dipendere dal fatto che alcuni, come viene riferito nello
stesso contesto, attribuivano il poema parmenideo appunto a Pitagora.

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e poiché gli scavi condotti a Cipro sembrano confermare le


testimonianze antiche (Penglase 1997: 134–51), è verosimile
che Ishtar / Atargatis fosse ‘importata’ nell’isola non senza
memoria di un dato (la sua assimilazione con il pianeta Vene-
re) che in area mesopotamica e siriaca era noto almeno dalla
metà del secondo millennio (Cochrane 1997: 93–101).

8. Polisemia di Afrodite

Se appaiono evidenti, e sono stati più volte sottoli-


neati, i rapporti fra questa dea promotrice 29
della genera-
zione e quella empedoclea e lucreziana, la gamma di
prerogative dell’Afrodite parmenidea delinea una figura
multiforme.
L’abbinamento fra potenza generatrice e relazione con
il mondo infero, tipica in generale per figure di Madri, è
accertabile per Afrodite in ambito cultuale. Per Delfi è
attestato un culto di Afrodite epitymbia «sepolcrale» (affine
allaVenus Libitina romana), presso la cui statua si celebrava
una festa, simile alle Antesterie ateniesi, in cui si evoca-
vano le anime dei defunti (Plut. Quaest. Rom. 269b), e un
altro epiteto ctonio è melainis «la Nera», con cui la dea
era venerata a Tespie (Beozia) e a Corinto (Paus. 2.2.4 e
9.27.5, Athen. 13, 588c).
Una connotazione infera emerge con grande enfasi nel
fr. 941 R. (da tragedia ignota) di Sofocle, dove ai vv. 3–5
si dice di Kypris (vedi Pattoni 2003):
e[çtin me;n ”Aidhç, e[çti dΔ a[fqitoç biva,
e[çtin de; luvçça maniavç, e[çti dΔ i{meroç
5 a[kratoç, e[çtΔ oijmwgmovç

29. Basti ricordare la coincidenza fra 28 B 12.3 daiv m wn h} pav n ta


kuberna`i e Lucr. 1.21 quae ... rerum naturam sola gubernas.

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È Hades, è forza che non si spegne,


è folle delirio, è brama
5 assoluta, è gemito.

E in un brano in esametri riportato all’interno di un


papiro magico del II / III secolo d.C. ma presumibilmente
risalente al quinto secolo a.C. Afrodite è invocata al v. 10
accanto a Persefone come colei che si compiace della sua
magica fascia (Suppl.Mag. 49 = OF 830a.10 F).
Forza demiurgica assegna ad Afrodite anche il com-
mentatore del papiro di Derveni (col. 21.5–10) quando
afferma che Afrodite Urania deve essere identificata con
Zeus, con Peithô e con Harmonia (si tratta comunque
e sempre di manifestazioni di Aêr / Nous) in quanto le
cose esistenti, divise in minuscole particelle, si muovono
e balzano per l’aria fino a congiungersi in aggregazioni
del simile con il simile, e di questo processo Afrodite
regola il momento del mescolarsi delle une cose con le
altre.
È poi da notare che il mêtisato «meditò» usato da Par-
menide per la generazione di Eros da parte di Afrodite (un
uso per cui il ‘generare’ è sostituito dal ‘pensare’ a ciò che
si intende generare sulla base di quello che Untersteiner
1958: LXX definiva «un assoluto rilievo30 del concetto di
fronte alla realtà») è gemello per il senso del mêsato usato
per la generazione di Oceano ad opera di Zeus dal poeta
(‘Orfeo’) dell’inno in esametri oggetto di commento nel
papiro di Derveni (col. 23.3–4).
Il ruolo demiurgico di Eros rifulgente nel dorso di ali
dorate, nato senza partecipazione maschile dall’uovo
cosmico prodotto da Nyx e a sua volta procreatore del
genere umano (un Eros a cui subentra Phanês Protogonos

30. Sul piano etimologico mhtivw e mh`tiç si ricollegano invece a san-


scrito māti– e lat. metior, mhvdomai e mevdw a lat. modus e medito.

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31
nelle Rapsodie orfiche), si affaccia nella famosa teogonia
degli Uccelli di Aristofane (vv. 695–99), ma già in Hes. Th.
120–22, poi riecheggiato molto da vicino da Acusilao di
Argo (9 B 2 D.–K.), Eros, in quanto emerso direttamente
da Chaos al pari di Gaia, appartiene alla prima generazio-
ne divina e svolge, come colui che soggioga la mente e la
volontà di tutti gli dèi e di tutti gli uomini, una funzione
demiurgica (West 1966: 195).
È una linea che collega Esiodo a Parmenide già va-
lorizzata da Aristotele nel primo libro della Metafisica
(984b23–30) quando osserva che «si può immaginare
che per primo Esiodo abbia ricercato qualcosa di simile
(un principio generale) al pari di chi, come Parmenide,
ha posto come
32
principio fra le cose esistenti l’eros o il
desiderio».
D’altra parte l’Afrodite parmenidea opera, per svolgere
la sua funzione generatrice, su un materiale (l’opposi-
zione luce / tenebra).che era il cardine di quel dualismo
mazdeista che si articolava nel contrasto tra le forze33del
bene e della luce e le forze del male e delle tenebre, ri-
spettivamente impersonate da Ormuzd e da Ahriman, e
valorizzava insistentemente anche il contrasto fra verità
e menzogna (cf. ad es. Yasna 30.3–5).
Solo in Parmenide, tra i Presocratici, gli elementi
basilari a cui tutte le cose, e tutte le loro funzioni, si ri-
conducono sono luce e notte, non acqua o aria o fuoco o

31. Si riferiscono a Phanês i brani OF 120–137 F, appartenenti con


maggiore o minore probabilità alle Rapsodie orfiche, mentre è assai
dubbio che prwtogovnoio in P.Derveni col. 16.3 già faccia riferimento
a Phanês. Per l’identificazione fra Eros e Phanês cf. Orph. Arg. 14–6 (=
OF 99 T).
32. Anche in Pherecyd. 7 B 3 D.–K. Zeus dava inizio alla sua opera de-
miurgica solo trasformandosi in Eros (West 1963: 160).
33. Vedi West 1971: 30–3. Una concezione attestata come tradizione dei
‘magi’ anche in ambito greco con Eudem. fr. 150 Wehrli e Plut. Is. 369f.

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III. Afrodite timoniera del cosmo 109
34
l’apeiron etc. ed è verosimile che egli avesse una qualche
cognizione di quella ‘teogonia’ o inno liturgico che i magi
erano soliti intonare al momento di compiere un sacrificio
(cf. Herodot. 1.32.3 e vedi Asheri 1988: 143–44). E la stessa
opposizione fra la Via di Alêtheiê rispetto a ogni altra via
trova una precisa corrispondenza in un testo iranico ine-
dito richiamato da Wolf 2009: 4, in cui è detto: «Io lodo il
vero ... c’è una sola via, quella del vero, tutte le altre non
sono vie» (cf. anche Vidêvdât 19).
Forse il nesso con la tradizione iranica ci aiuta anche
a intuire come mai Aristot. Metaph. 1.5, 986b27 (= 28 A
24) potesse ritenere che il caldo fosse per Parmenide dalla
parte dell’essere, il freddo dalla parte del non–essere. Ari-
stotele, che aveva esposto e discusso la cultura religiosa
iranica nel perduto Peri philosophias identificando Ahura
Mazda con Zeus e Ahriman con Hades (fr. 6 Ross), do-
veva reinterpretare il cosmo di Parmenide sulla base del
suo referente medio–orientale trascurando le importanti
innovazioni che il sapiente di Velia vi aveva apportato, e
cioè il declassamento del contrasto luce / notte al piano
delle doxai e l’equiparazione assiologica dei due poli, che
non si prospettano come figure del bene e del male ma
come fantasmi altrettanto imperfetti di un’unica realtà.
Mentre dunque singole tessere del mosaico parmenideo
sono rintracciabili in altri contesti, sia greci che del Vicino
Oriente, la costellazione di segni che scandisce questo
‘mito’ raccontato lungo la Via delle doxai non è attestata
altrove nella sua struttura complessiva: un bricolage che ci
appare come il prodotto di una tardiva ma variegata mito-

34. Il tema richiederebbe uno studio dettagliato, ma in termini generali


l’essenziale è stato messo in rilievo da Henn 2003: 39–5 (di cui tuttavia non
è condivisibile l’idea che in B 6 siano attaccati i seguaci di Zoroastro) e da
Wolf 2009, e per un cenno fuggevole vedi già West 1971: 223 («the light–
darkness dualism of the doxa–world corresponds to an Iranian belief»).

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110 Il migliore dei mondi impossibili

poiesi elaborata attraverso una daimôn che, pur sapendo


raccontare cose vere, offre, come secondo pannello del
suo dittico sapienziale, finzioni simili al vero.

9. L’uovo cosmico

Possiamo anche provare a chiederci quale fosse l’inci-


denza di questo mito di Afrodite come colonizzatrice e
timoniera del cosmo sul primitivo uditorio eleatico a cui
Parmenide doveva in primo luogo rivolgersi.
Molti sono stati i tentativi di collegare Parmenide e i
Presocratici alla storia sociale e politica della Grecia ar-
caica e tardo–arcaica, sia in termini di lunga durata sia in
relazione a più specifici eventi e contesti.
In generale restano senz’altro valide alcune riflessioni
di Vlastos (1947 e 1953 = 1996) e di Vernant (1962) sulla
relazione fra l’emergente struttura democratica della polis
e la formazione del pensiero presocratico, e certo il princi-
pio dell’isonomia, così centrale nel sistema di Parmenide,
è ricollegabile alle varie forme di isonomia sperimentate
in molte città ioniche.
Su un terreno più specifico, l’antitesi parmenidea fra
essere e non–essere è stato ricondotta da Capizzi 1975 al
contrasto fra Focei e Achei o a quello fra ricchi dei quartieri
attorno all’acropoli e poveri dei quartieri posti nella parte
bassa nell’ambito per altro di quella che Cerri 1999: 24 ha
definito «un’intricata vicenda politico–istituzionale com-
pletamente inventata». Ma già nel 1955 George Thomson
aveva sostenuto che l’essere parmenideo è un concetto–
feticcio che «riflette la forma monetaria del valore» (vedi
Thomson 1973: 324), e più di recente Seaford 2004: 188
ss. e 261 ss. ha criticato l’interpretazione di Thomson
osservando che essa pretende insieme troppo poco e
troppo (troppo poco perché il poema di Parmenide segna

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III. Afrodite timoniera del cosmo 111

il culmine di una tendenza già operante nelle cosmologie


ioniche, troppo perché offre, in modo riduzionistico, una
«one–to–one relation»), ma poi egli stesso ha individuato
nell’opposizione fra essere e non–essere un’analogia con
la relazione fra concreta circolazione monetaria e valore
monetario astratto.
Diversamente dalle correlazioni fra cosmo e polis,
isonomia e concordia sociale, i tentativi di più specifica
lettura del mondo parmenideo in chiave sociale o mo-
netaria hanno trovato eco modesta anche per l’estrema
difficoltà nel documentare la pertinenza delle correlazioni
proposte.
C’è tuttavia il rischio che la messa in evidenza dei tratti
arbitrari delle ipotesi attualizzanti possa avere come con-
traccolpo il rinsaldarsi di posizioni di matrice aristotelica
che tendono a considerare la storia del pensiero presocra-
tico secondo la logica interna di un dialogo a distanza tra
figure che procedono, per ricordare il titolo di un celebre
libro, per congetture e confutazioni, ipotesi e loro falsifi-
cazione (Popper 1963) disinteressandosi dell’osservazione
dei fenomeni naturali come delle tendenze politiche,
religiose, culturali operanti nei contesti in cui questi per-
sonaggi si trovarono a vivere e meditare.
Anche nel caso di Parmenide non dovremmo esimerci
dal continuare a chiederci a quali bisogni sociali e a quali
tendenze culturali e politiche del suo tempo potesse venire
incontro, in modo diretto o indiretto, consapevole o in-
consapevole, una costruzione intellettuale che si elaborava
intorno a un principio («l’essere è») volto a neutralizzare
tempo e spazio, nascita e morte, separazione e contrasti.
Non è probabile che a questi interrogativi possa mai
essere trovata una risposta univoca: è invece possibile
valorizzare almeno due immagini–modello, diverse ma
complementari, che dovevano esistere e contare nell’im-
maginario di Parmenide e della comunità civica di Velia.

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112 Il migliore dei mondi impossibili

La prima immagine è legata alla tradizione orfica: si


tratta di quell’uovo cosmico a cui abbiamo già accennato
in relazione alla nascita di Eros / Phanês (§§ 1 e 8).
Il collegamento con l’universo di Parmenide è tardo–
antico e risale a Simplicio, che in Phys. 146.29 = 28 A 20,
a proposito dell’equiparazione parmenidea dell’essere a
una massa sferica perfettamente omogenea ed equlibrata
in ogni sua parte (28 B 8.43–4), commenta che l’immagi-
ne non deve sorprendere dal momento che Parmenide
«ricorre anche a una finzione mitica» e subito dopo si
domanda: «che differenza c’era fra dire così rispetto a
come fa Orfeo dicendo ‘l’uovo splendente’ (ôeon argy-
pheon)?».
L’«uovo splendente» è parte di una sequenza che ci è
nota in forma un po’ più estesa grazie a Dam. Princ. 55
e che descrive la nascita di questo uovo primordiale da
Chronos (OF 114 F):
e[peita dΔ e[teuxe mevgaç Crovnoç Aijqevri divwi
w[eon ajrguvfeon.
e il grande Chronos foggiò all’Etere divino
un uovo splendente.

Il brano doveva appartenere alle Rapsodie, il lunghissi-


mo poema in 24 canti che sulla base di poemi precedenti fu
compilato come summa tardo–ellenistica della tradizione
orfica, ma l’uovo cosmico compariva altresì, procedendo
a ritroso nel tempo:

— nella cosiddetta ‘variante di Atenagora’ (Pro Chri-


stian. 18, p. 20 Schwartz = 1 B 13 D.–K.), dove l’uovo
era generato da Eracle;
— nella teogonia, forse risalente al II secolo a.C., attri-
buita a Ieronimo ed Ellanico (Damasc. Princ. 123bis
= OF 79 F);

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III. Afrodite timoniera del cosmo 113

— in Aristoph. Av. 694–95, dove l’uovo, generato da


Notte nel grembo infinito di Erebo, viene definito
hypênemion, e cioè, come spiega lo scolio relativo,
senza partecipazione maschile (cf. anche Aristoph.
fr. 194 K.–A. e Aristot. HA 559b24, GA 748b);
— in Epimen. 3 B 5 D.–K. = OF 46 F, dove l’uovo na-
sceva dalla mescolanza fra due Titani nati dal Tar-
taro e rappresentava la mescolanza dei due principii
fondamentali aêr e nyx.

In Aristofane dall’uovo nasce nel corso del tempo Eros,


che produce cielo e oceano e terra e tutta la stirpe immor-
tale degli dèi beati (l’andamento catalogico di Av. 700 s.
è in linea con Parmen. B 11 e B 12) mescolando fra loro
tutte le cose, mentre in Epimenide l’uovo avrebbe dato
origine a ogni altra generazione e nelle Rapsodie avrebbe
prodotto Phanês Protogonos (OF 121 F), donde si sareb-
bero originati gli dèi, il mondo e gli uomini
35
(OF 144–164
F); infine, nalla ‘variante di Atenagora’, l’uovo si sareb-
be scisso in due parti, destinate a evolversi come36Urano
(quella superiore) e come Gaia (quella inferiore).
La convergenza fra Epimenide, Aristofane e diver-
se versioni teogoniche di orientamento orfico mostra
l’operatività di un modello che, al di qua dei più specifici
dettagli genealogici esibiti di volta in volta nelle singole
versioni, prospetta un’origine del nostro mondo da un
uovo cosmico formatosi senza unione sessuale, donde
emerge un’entità demiurgica che promuove l’esistenza
di dèi, uomini e corpi celesti.

35. Secondo West 1983: 181, Atenagora avrebbe contaminato un sunto


derivato da Ieronimo con materiale desunto dalle Rapsodie.
36. Cf. anche Achill. Isag. 4 (il guscio dell’uovo equivale alla sfera ce-
leste) e vedi Kirk–Raven–Schofield 1983: 23–9. Il motivo dell’uovo sembra
invece assente nel papiro di Derveni (vedi Betegh 2004: 158).

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114 Il migliore dei mondi impossibili

A sua volta l’affinità fra questo modello e un siste-


ma, come quello di Parmenide, in cui alla sequenza
orfica

uovo (totalità)
Eros o Phanês
universo esistente

corrisponde quella

essere (totalità)
Afrodite ed Eros
universo esistente

sembra confermare l’intuizione di Simplicio.


La differenza è che nel poema di Parmenide c’è una
frattura insanabile fra essere e Afrodite, realtà e doxai: una
discontinuità irreversibile fra ciò che è fuori del tempo e
ciò che si evolve nel tempo.

10. Madrepatria e colonie

Se muoviamo dal dato per cui l’auto–identificazione


dell’individuo greco, o almeno di quei cittadini agiati,
maschi e adulti a cui Parmenide certamente apparteneva
(cf. D.L. 9.21 = 28 A 1: «era di famiglia illustre e ricca»),
si radicava nel senso di appartenenza alla propria polis,
sembra legittimo cercare nel rapporto fra questa figura
di intellettuale impegnato sul piano politico, terapeutico,
religioso e la sua città un termine di riferimento per il
suo sistema.
In effetti la vicenda coloniale di cui fu partecipe Parme-
nide, nato poco prima o poco dopo la fondazione di Velia
almeno secondo la cronologia ‘alta’ data da D.L. 9.21–3

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III. Afrodite timoniera del cosmo 115
37
= 28 A 1 (che ne pone il floruit intorno al 500 a.C.) e
verosimilmente risalente all’erudito Apollodoro di Atene
(secondo secolo a.C.), sembra rapportarsi sia alla Via delle
doxai che alla natura dell’essere.
Per calarci in questa prospettiva dobbiamo partire,
integrandoli con qualche altro dato, da alcuni capitoli di
Erodoto (1.162–167), che potrebbe aver usato anche quel
poema di Senofane (non è chiaro se in esametri o in distici
elegiaci) sulla fondazione di Velia di cui ci informa D.L.
9.18 (= T 77 Gent.–Pr.).
Verso il 545 a.C. Arpago, generale di Ciro il Grande,
condusse una spedizione contro le città ioniche della costa
anatolica. Il suo metodo consisteva nel sospingere gli abi-
tanti dentro le cinte murarie per poi espugnare le singole
città erigendo cumuli di terra davanti alle mura.
La prima città da lui attaccata fu proprio Focea, ma-
drepatria di Velia e sede dei primi Greci che si fossero
avventurati in lunghe navigazioni esplorando l’Adriatico,
la costa tirrenica e l’Iberia fino a Tartesso (Cadice)
38
attratti
dai metalli locali (argento, rame, stagno).
La tradizione racconta che le mura di Focea erano state
finanziate qualche decennio prima dell’attacco persiano da

37. Alcuni, fra cui Kirk–Raven–Schofield 1983: 239–40, optano per la


cronologia presupposta in Plat. Parm. 127b = 28 A 5 (e 29 A 11), secondo cui
Parmenide sessantacinquenne avrebbe visitato Atene insieme con Zeno-
ne incontrando un Socrate molto giovane (questo abbasserebbe la nascita
del Nostro al 515 circa), ma, com’è noto, l’attendibilità documentaria di
Platone, che ad esempio nel Timeo presenta un Solone di 20 o 30 anni più
giovane di quanto doveva essere all’epoca presupposta nel dialogo, è mol-
to dubbia (vedi Zeller 1910: 129–32, Untersteiner 1958: 16–21).
38. Sulle esplorazioni marinare focee e lo spirito che le animava si sof-
ferma a lungo Kingsley 2003: 238 ss., ma è poco plausibile la sua idea di
individuare in mhv tiç di B 8.61 mhv potev tiç un bisticcio con mh`tiç
e addirittura di stabilire su questa base una correlazione fra Parmenide
e la mêtis della cultura marinara focea come attitudine all’esplorazione
dell’ignoto (Eutimene, Pitea) e come maestria tecnica.

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116 Il migliore dei mondi impossibili

Argantonio sovrano di Tartesso (un personaggio leggen-


dario che sarebbe vissuto 120 anni). Il circuito di queste
mura, i cui resti sono stati portati alla luce negli anni ‘90
del secolo scorso, era ampio e massiccio.
Quando Arpago, che mirava a una sorta di resa simbo-
lica, chiese di abbattere anche un solo bastione, i Focei,
dopo un attacco persiano alla porta meridionale di cui
restano tracce nei segni di conflagrazione e nei frammenti
carbonizzati dei pali in legno che fiancheggiavano il varco
di una torre, chiesero di consultarsi: di fatto calarono in
acqua le loro navi con figli, mogli, masserizie e statue
templari e salparono alla volta dell’isola di Chio. Così i
Persiani occuparono una città ormai deserta.
In seguito al rifiuto degli abitanti di Chio di vendere
loro le isole Oinusse i migranti focei tornarono indietro
verso la loro città, sterminarono la guarnigione persiana
che vi si era insediata e, oltre a lanciare maledizioni contro
chi avesse disertato la migrazione, gettarono in mare un
blocco di ferro giurando che non sarebbero tornati a Focea
prima che fosse ricomparso in superficie: un tipo di rituale
che troviamo, in riferimento al gruppo di Mirsilo (che
intorno al 600 a.C. fu tiranno di Mitilene a Lesbo), anche
in uno scolio antico ad Alceo (fr. 77.5–6 V.): «... e il blocco
di metallo [...] affinché non risalga in superficie ...».
Poi i Focei fecero vela alla volta della Corsica, dove
già vent’anni prima avevano fondato la città di Alalia e
dove per cinque anni convissero con i primi colonizzatori
(a questo periodo sembra risalire anche la fondazione di
Massalia).
Per arginare le incursioni focee nel Mediterraneo occi-
dentale verso il 540 Etruschi e Cartaginesi mossero contro
di loro. Nonostante la vittoria i Focei persero 40 delle 60
navi di cui disponevano. Tornati ad Alalia, caricarono a
bordo figli, mogli e tutto ciò che potessero portare per
mare e lasciata la Corsica navigarono in direzione di Reg-

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III. Afrodite timoniera del cosmo 117

gio. Muovendo di lì, fra il 535 e il 530, sulla costa tirrenica


della Lucania «acquistarono» (ektêsanto) il territorio di
Hyelê «Velia / Elea» (alla fondazione avrebbe partecipato
anche un gruppo di Massalioti) scegliendo il sito dopo
che un anonimo esegeta di Posidonia (Paestum) aveva
spiegato che quel ‘Cirno’ figlio di Eracle ed eponimo della
Corsica che al tempo della fondazione di Alalia la Pizia
aveva consigliato loro di insediare non indicava la Corsica,
bensì un santuario dedicato appunto a questo eroe.
Non si trattava di un territorio fertile, e questo costrinse
gli Eleati «a svolgere lavori legati al mare e ad attendere
alla salagione del pesce e ad altre analoghe attività» (Strab.
6.1.1).
Il primo insediamento si concentrò attorno alla som-
mità del poggio dove fu costruita l’acropoli, né ci sono
vestigia di mura anteriori al 480 a.C. La tradizione della
madrepatria fu conservata anche nello stile architettonico,
caratterizzato dalla tecnica edilizia in muratura poligonale
e dall’impiego dell’arenaria, reperibile nella valle del Ci-
lento, che replicava l’andesite in uso a Focea. Il terreno
attorno al poggio centrale venne sfruttato con un impianto
a terrazze formate da alti muri che a loro volta potevano
servire, come mostrano i resti di un villaggio scavato sul
pendio meridionale, da pareti posteriori per le abitazioni
posizionate più in basso (Mertens 2005: 203–8).
Come nota Asheri 1988: 357, Focea «rappresenta la
reazione disfattista alla conquista persiana» (analogo il
comportamento degli abitanti di Teo, a cui Erodoto fa
riferimento in 1.168, che fecero vela alla volta della Tracia
fondando Abdera), ma è anche l’esempio più evidente
dell’intolleranza di molte poleis ioniche nei confronti di
un regime che, pur tollerante, insediava governi tirannici
nelle città occupate. In effetti «la conquista persiana ave-
va posto fine all’evoluzione costituzionale ionica; aveva
come cristallizzato e stabilito il regime tirannico al posto

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118 Il migliore dei mondi impossibili

delle libere aristocrazie, e della diffusa esigenza di isono-


mia» (Mazzarino 1989: 236).
I Focei abbandonano la madrepatria e fondano colonie
e sub–colonie per tutto il Mediterraneo occidentale. La
madrepatria viene definitivamente abbandonata dopo la
celebrazione di un rito che impegna gli esuli a non farvi
mai più ritorno. Il blocco di ferro (il materiale più resi-
stente al galleggiamento che si potesse immaginare) ben
si addice alla formulazione di un adynaton, ma si propone
nel contempo come il ‘doppio’ simbolico della città.
In estrema sintesi si può azzardare l’idea che in qualche
misura l’essere parmenideo sta al divenire come le colonie
focee stanno alla madrepatria: una città, per i coloni, ormai
fuori del tempo e dello spazio vissuti, irrecuperabile per
ragioni oggettive (l’occupazione persiana) e soggettive (il
giuramento di non ritorno), e tuttavia essenziale punto
di riferimento, sorgente di un’identità tanto più forte e
immune da crisi in quanto affrancata da obblighi inerenti
alle relazioni talora difficili fra colonie e madrepatria.
Allusive a questa prospettiva sembrano essere in par-
ticolare due frasi.
Una è quella in cui l’essere è detto senza inizio e senza
fine in quanto (B 8.27–8)

gevneçiç kai; o[leqroç


th`le mavlΔ ejplavgcqhçan
nascita e morte
si sono messe a vagare molto lontano.

Il verbo usato per questo ‘vagare’ di nascita e morte


(cioè della vita e della storia che continuano) è lo stesso
plazô (usato anche in B 6.5 e B 16.1) che, in riferimento a
Odisseo polytropos, apre il secondo verso dell’Odissea —
«colui che molto vagò (planchthê)...», e analogamente, in
Hom. Od. 8.573 Alcinoo si rivolge a Odisseo domandan-

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III. Afrodite timoniera del cosmo 119

dogli dove abbia vagato (hoppêi apeplanchthês) e a quali


contrade di uomini sia giunto.
Il motivo appare ripreso anche in Empedocle per deno-
tare il vagare degli arti (31 B 20.5 plazetai) o degli elementi
(B 22.3 apoplanchthenta) separati gli uni dagli altri.
Come Odisseo,
39
modello di ogni esperienza marinara
d’età arcaica, anche i Focei hanno errato lungi dalla
madrepatria per i mari d’Occidente conservando intatta
quell’esperienza del vivere e del morire che a Focea si era
spenta per sempre. Il ‘vagare’ è il segno del mondo delle
doxai, della separazione e dispersione degli elementi, dove
le cose si muovono e cambiano, muoiono e rinascono in
altre forme.
L’altra frase, quella (B 8.48) in cui si dice che l’essere
pan estin asylon «è del tutto non saccheggiato (inviolato),
sembra quasi la negazione di un trauma profondo: ora che
le sue colonie conducono le loro esperienze commerciali
e politiche ripetendo l’assetto isonomico della madrepa-
tria, la Focea violata e saccheggiata dall’armata persiana
è diventata inaccessibile e inviolabile, senza possibilità di
espansione o di contrazione, immobile nella stessa sede,
simile a massa di sfera, uguale a se stessa, appunto come
un blocco di ferro posato sul fondo del mare.
Al pari della separazione del nostro cosmo dall’essere in
uno spazio scandito nel tempo da corone di luce e notte,
l’irreversibile separazione di colonie e sub–colonie dalla
madrepatria può essere considerata un evento illusorio:
come in un ologramma, il tutto si replica intero in ciascuna
delle sue parti.

39. Come ha scritto Pugliese Carratelli 1990: 88, lo storico «ha ragione
di valersi dell’Odissea come di un’interpretazione di idee e di iniziative che
caratterizzarono il mondo greco nell’età dei grandi viaggi ‘precoloniali’ e
coloniali, nel Ponto nell’Egeo nei mari occidentali».

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Capitolo IV

Atemporalità e aspazialità

1. Atemporalità o durata?

Se il polo dell’essere e quello del divenire sono simili


ma irriducibilmente diversi, se realtà e apparenza pos-
sono avvicinarsi ma non possono incontrarsi veramente
mai e se il sapiente deve cercare di armonizzare realtà
e apparenza senza mai confonderle, possiamo sfiorare il
problema più controverso e spinoso degli studi su Par-
menide: quello del tempo.
In verità non troviamo in Parmenide alcuna esplicita
negazione del tempo, né nei brani superstiti né nei testi-
moni del suo pensiero: abbiamo invece una serie di af-
fermazioni, spesso controverse, in cui si parla dell’essere
in rapporto a caratteristiche che, esse sì, afferiscono alle
nozioni di tempo e di temporalità.
Su questo terreno si sono fronteggiate due posizioni
fondamentali variamente motivate.
La prima posizione, quella che potremmo definire
‘classica’ ovvero ‘della negazione del tempo’, considera
l’essere come atemporalità o extratemporalità.
L’altra posizione, che potremmo definire ‘della durata’
o ‘della perennità’, muove dal saggio di Hermann Fränkel
Die Zeitauffassung in der archaischen griechischen Literatur
riprodotto a principio di Wege und Formen frügriechischen
Denkens (19602), prosegue con le pagine dedicate a questo

121

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122 Il migliore dei mondi impossibili

problema in Tarán 1965: 175–88 e si dirama in una serie


di studi più recenti. Essa ha come presupposto l’idea che
l’essere permane nel tempo identico a se stesso e dunque
non può essere atemporale: ha, piuttosto, un’estensione
temporale illimitata, proiettata tanto verso il passato
quanto verso il futuro.
Un tale dibattito non poteva non intrecciarsi con
quello sulla concezione del tempo nella Grecia arcaica,
sulla semantica di chronos e aiôn, sul tempo come ‘ciclo’
(basti pensare al ‘ciclo’ erodoteo delle vicende umane e
al ciclo orfico delle trasmigrazioni) e come tempo sta-
gionale (hôra) connesso ai lavori agricoli quale emerge
ad esempio negli Erga di Esiodo.
Per non smarrirci in un dedalo di distinguo faremo
ricorso a un’unica discriminante: quella fra un tempo
‘vuoto’ e universale, funzionale alle relazioni di passato /
presente / futuro (prima / durante / dopo) quali si rispec-
chiano anche nella fonetica e nella morfologia del greco
(aumento, raddoppiamento, apofonia) e pertanto deputato
a scandire analessi, prolessi, sincronie, orari, accidenti, e un
tempo biologico–esistenziale ‘connato’ (symphytos come
nel symphytos aiôn di Aesch. Ag. 107) alle vicende di nascita,
crescita, decadenza e morte, al destino personale, all’età,
insomma all’esperienza di uomini, animali, piante.
Se ci atteniamo a questa fondamentale opposizione
possiamo dire che ciò che viene innanzi tutto negato da
Parmenide all’essere è la seconda connotazione: infatti
l’essere è detto più volte privo di nascita e morte (B 8.3,
6, 10, 13–4, 19, 27–8).

2. Resistenze

Se un’interpretazione che nega l’atemporalità a favore


della durata illimitata ha potuto essere formulata e trova-

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IV. Atemporalità e aspazialità 123

re credito è perché molti hanno riconosciuto nel poema


residui di temporalità.
Pulpito 2005: 63 ha così compendiato questi presunti
tratti residuali:

— l’oude pot’ ên oud’ estai «né mai fu né sarà» e il nyn


«ora» di B 8.5,
— la disgiuntiva hysteron ê prosthen «poi o prima» di B
8.10,
— l’anarchon apauston «senza principio e senza fine» di
B 8.27,
— l’empedon ... menei «resta immobile» di B 8.30,
— il futuro ouden ... estai «nulla ... sarà» di B 8.36.

D’altra parte i casi di «né mai fu né sarà» di B 8.5 e quelli di


B 8.10 e B 8.36 non possono esser messi nel conto trattandosi
di affermazioni negative (e quindi di un’assenza considerata
dal punto vista del locutore) o, per quanto riguarda B 8.10,
di una domanda retorica che parimenti prevede una nega-
zione, e anche in B 8.30 non è implicata alcuna temporalità
perché solo forzando il senso di menei vi si può riconoscere
una dimensione durativa (com’è evidente confrontando
il verso precedente, menei equivale qui a keitai «sta», nel
senso di essere privo di movimento, in armonia con il tema
dominante della sezione che comincia a B 8.26).
Resta dunque il caso di B 8.5, che ha rappresentato
l’unica arma non spuntata in partenza in mano ai soste-
nitori della durata e che è anche coinvolto in una delicata
questione testuale.
Ecco il 1testo trasmesso da Simpl. Phys. 144.29 et 78.5
di B 8.2–6:

1. Kranz, trovando problematica la presenza di mounogenevç subito


dopo ajgevnhton, ha accolto a principio di v. 4 e[çti ga;r oujlomelevç di
Plut. Col. 1114c, dove però, come notato da Cerri 1999: 222 e Palmer 2009:

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124 Il migliore dei mondi impossibili

tauvthi dΔ ejpi; çhvmatΔ e[açi


polla; mavlΔ, wJç ajgevnhton ejo;n kai; ajnwvleqrovn ejçtin,
ouj~lon mounogenevç te kai; ajtreme;ç hjdΔ ajtevleçton,
5 oujdev potΔ h\n oujdΔ e[çtai, ejpei; nu`n e[çtin oJmou` pa`n,
e{n, çunecevç. tivna ga;r gevnnan dizhvçeai aujtou`…
e su questa via ci sono moltissimi
segni che l’essere è ingenerato e indistruttibile,
intero e unico e immobile e non compiuto,
5 né mai fu né sarà, poiché esso è ora tutto insieme,
uno e continuo. Quale nascita potrai cercare in esso?

Quello che non convince in questo testo è êd’ ateleston


«e non compiuto» (conservato da Kranz, ma nel senso,
escogitato ad hoc, di «senza termine nel tempo»), e cioè
l’esatto contrario di ciò che viene espresso in B 8.32
ou{neken oujk ajteleuvthton to; ejo;n qevmiç ei\nai
poiché è lecito che l’essere non sia incompiuto

e in B 8.42 (l’essere è telelesmenon «compiuto», «perfetto»).


La migliore via d’uscita da questa incongruenza è
probabilmente l’economica soluzione, proposta di C.A.
Brandis (1813), di sostituire êd’ «e» con oud’ «né» anche se
altre possibilità equivalenti per il senso come êde teleston
(Karsten 1835) o êde teleion (Owen 1960: 77) possono essere
prese in considerazione. Invece la soluzione, indipenden-
temente elaborata da Manchester 1979 e da Cerri 1999:
222–23 e consistente nel togliere segno di interpunzione
in fine di v. 4, così da avere
hjdΔ ajtevleçton
oujdev potΔ h\n oujdΔ e[çtai.

382, e[çti gavr sono chiaramente parole di Plutarco stesso (tou` nohtou`
dΔ e{teron eij~doç, e[çti ga;r oujlomelevç te kai; ajtreme;ç ktl.); del
resto mounogenevç, che compariva nella stessa sede del verso in Hes. Th.
426, può significare semplicemente «unico».

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IV. Atemporalità e aspazialità 125

ed incompiuto
mai è stato o sarà.

si scontra con l’impossibilità di motivare la compiutezza


dell’essere nel passato e nel futuro con la sua compiutezza
nel presente («poiché esso è ora tutto insieme»), come se un
processo fisico non potesse raggiungere la sua compiutezza
dopo una fase di crescita e prima di una di decadenza.
Altra questione è, relativamente ai vv. 5–6a, quella della
variante che Asclepio (Met. 42.30–1) avrebbe raccolto dalla
viva voce del maestro Ammonio:
ouj ga;r e[hn, oujk e[çtai oJmou` pa`n, e[çti de; mou`non
oujlofuevç.
poiché non fu, né sarà un tutto di parti unite, ma è soltanto
nella sua natura un tutto.
(Tr. di M. Untersteiner)

Questa tarda versione è stata valorizzata da Unterstei-


ner 1958: XLIII–L come conferma della sua tesi, sviluppata
con grande acume nell’introduzione alla sua edizione
commentata di Parmenide del 1958, secondo cui l’essere
sarebbe «intero», non ‘l’Uno’.
Se però la rivendicazione dell’essere come ‘intero’
(oulon) piuttosto che come ‘l’Uno’ (hen) è un importante
contributo all’interpretazione del poema, la preferenza ac-
cordata alla variante di Ammonio è davvero sorprendente
e ha trovato ben poco seguito. Com’è infatti possibile, a
tacer d’altro, che la dea dichiarasse che l’essere non fu né
sarà «tutto insieme»?

3. Hic et nunc

Se torniamo al testo stabilito da Kranz con la sola


modifica costituita dalla correzione di Brandis (o da un

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126 Il migliore dei mondi impossibili

emendamento equivalente per il senso), è possibile venire


a capo della presenza di «ora».
L’avverbio temporale nyn «ora» non rappresenta infatti
una strana e improvvisa intrusione del tempo (un rimando
al presente, continuo o puntuale, entro l’atemporalità), ma
si rapporta al piano di una comunicazione fra la dea e il suo
allievo che, pur svolgendosi lungi dal mondo degli uomini in
una casa della Notte dai vaghi contorni, vede la presenza di
un kouros in vita (alla sua condizione di vivente si allude in
B 1.26) e più oltre vedrà il racconto della Via delle doxai.
In questa pragmatica della comunicazione nyn funziona
da indice deittico che ingloba i punti di vista temporali della
dea e del suo allievo coinvolti nella relazione didattica: è uno
strumento per ancorare l’ammaestramento divino all’atto
della sua trasmissione e, indirettamente, alla replica che ne
farà il poeta nel corso della recita di fronte a un uditorio.
Capace di osservare (e di esporre) la piena verità dell’esse-
re ed ella stessa sottratta, in quanto entità divina, alle insidie
del divenire, la dea si esprime tuttavia all’interno del tempo,
e la sua esposizione ha un prima e un poi, tant’è vero che il
suo discorso appare disseminato di marche espositive:

— B 6.3 (una prima via), 4 (poi un’altra);


— B 6.50 (la dea cessa di parlare della vera realtà en tôi
«con questo», «a questo punto»);
— B 8.51 (a partire da questo momento l’allievo dovrà
apprendere l’ordine ingannevole delle sue parole);
— B 10.1 e 5 (i due futuri programmatici
2
eisêi «saprai»
e eidêseis «conoscerai»).

2. Per ricorrere a un esempio ben noto, l’«ora» pronunciato dalla dea


ha una funzione analoga a quella svolta da dum loquimur in Hor. Carm.
1.11.7–8 dum loquimur, fugerit invida aetas, dove il poeta latino sintonizza la
fuga del tempo al dialogo intercorrente fra l’Io lirico e Leuconoe (ma con

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IV. Atemporalità e aspazialità 127

Questo ora non deve dunque essere omologato


all’’istante’ (to exaiphnês) di cui in Plat. Parm. 156 d–e si
dice che appartiene all’Uno come punto mediano, al di
fuori del tempo, fra moto e quiete:

«ArΔ ou\n e[çti to; a[topon tou`to, ejn wJ~i tovtΔ a]n ei[h,
o{te metabavllei…
– To; poi`on dhv…
– To; ejxaivfnhç. to; ga;r ejxaivfnhç toiovnde ti e[oike çhmaivnein,
wJç ejx ejkeivnou metabavllon eijç eJkavteron. ouj ga;r e[k ge tou`
eJçtavnai eJçtw`toç e[ti metabavllei, oujdΔ ejk th`ç kinhvçewç
kinoumevnhç e[ti metabavllei: ajlla; hJ ejxaivfnhç au{th fuvçiç
a[topovç tiç ejgkavqhtai metaxu; th`ç kinhvçewvç te kai;
çtavçewç, ejn crovnwi oujdeni; ou\ça, kai; eijç tauvthn dh; kai;
ejk tauvthç tov te kinouvmenon metabavllei ejpi; to; eJçtavnai
kai; to; eJçto;ç ejpi; to; kinei`çqai.
– Esiste dunque questa strana cosa in cui l’Uno è anche quan-
do muta?
– Di che si tratta?
– Dell’istante. Infatti l’istante sembra denotare qualcosa di
simile in quanto una cosa trapassa nell’una o nell’altra con-
dizione. Non dall’essere in quiete, che persiste immobile, ha
infatti origine il mutamento, né dal moto ancora in movimen-
to, ma questa strana proprietà dell’istante sta nel mezzo fra
moto e quiete e non appartiene ad alcuna temporalità, ma in
virtù dell’istante ciò che è in moto trapassa nella quiete e ciò
che è in quiete trapassa nel moto.

Né può sorprendere la scelta parmenidea a favore


dell’atemporalità piuttosto che dell’eterna durata: optare
per quest’ultima avrebbe significato restituire all’essere,
sull’asse del tempo, quella infinità che Parmenide gli
nega, a differenza dei suoi continuatori, sull’asse dello
spazio.

la differenza che in Parmenide il nu`n esalta per contrasto non la fuga, ma


l’assenza del tempo).

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128 Il migliore dei mondi impossibili

Collocato all’interno della stessa colonna dell’Uno, del


Quieto e del Bene nella tavola dei contrari attribuita da
Aristotele ai Pitagorici (Metaph. 1.5, 986a15 = 58 B 5), il
Limite (opposto all’apeiron) appare in Parmenide come
un attributo essenziale dell’essere, come viene detto in
forma positiva (per formulazioni in forma negativa cf. B
8.4–5 e 29–33) in B 8.42–3:
aujta;r ejpei; pei`raç puvmaton, teteleçmevnon ejçtiv
pavntoqen
Ma poiché c’è un limite estremo, (l’essere) è finito
da tutte le parti.

L’essere è ‘finito’ nel senso che ha un ‘limite’, non ‘con-


fini’. Sarebbe stato davvero incongruo che all’interno di
un sistema così simmetrico e bilanciato alla chiusura dello
spazio corrispondesse l’apertura infinita del tempo.

4. «Ascoltò Senofane»

Se poi ci domandiamo come Parmenide pervenisse


a questa nozione di atemporalità non possiamo non far
entrare in gioco anche l’altro maestro che, oltre al pita-
gorico Aminia, Diogene Laerzio gli attribuisce (9.21 = 28
A 1), e cioè Senofane, nato a Colofone verso il 570 a.C. e
coinvolto nella fondazione di Elea.
Simplicio attribuisce infatti a Senofane una concezione
del dio non solo come ‘intero’ e ‘unico’, ma anche come
totalità (Phys. 22.22 ss. = 21 A 31.2–3 D.–K.):
mivan de; th;n ajrch;n h[toi e}n to; o]n kai; pa~n (kai; ou[te
peperaçmevnon ou[te a[peiron ou[te kinouvmenon ou[te
hjremou`n) Xenofavnhn to;n Kolofwvnion to;n Parmenivdou
didavçkalon uJpotivqeçqaiv fhçin oJ Qeovfraçtoç ojmologw`n
eJtevraç ei\nai ma`llon h] th`ç peri; fuvçewç iJçtorivaç th;n

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IV. Atemporalità e aspazialità 129

mnhvmhn th`ç touvtou dovxhç. to; ga;r e}n tou`to kai; pa`n
to;n qeo;n e[legen oJ Xenofavnhç, o}n e{na me;n deivknuçin
ejk tou` pavntwn kravtiçton ei\nai: pleiovnwn gavr, fhçivn,
o[ntwn oJmoivwç uJpavrcein ajnavgkh pa`çi to; kratei`n: to;
de; pavntwn kravtiçton kai; a[riçton qeovç.
Un unico principio, e cioè che l’essere è uno e tutto (e non
definito né indefinito né in movimento né in quiete), Teofra-
sto dice che viene posto da Senofane di Colofone, il maestro
di Parmenide, riconoscendo che il richiamo alla sua opinione
appartiene 3a una trattazione diversa rispetto a quella intorno
alla natura. Infatti questo ‘uno’ e ‘tutto’ Senofane lo denomi-
nava ‘dio’ mostrando che è uno in base al fatto che domina su
tutti: trattandosi infatti — dice — di una pluralità spetterebbe
necessariamente a tutti di prevalere, ma ‘dio’ è ciò che fra tutti
è più forte e migliore.

Simplicio sembra essersi basato in larga misura, per


quanto dice di Senofane, sui cap. 3–4 di quel trattato
pseudo–aristotelico De Melisso Xenophane Gorgia che rap-
presenta in modo tutt’altro che attendibile il suo pensiero
(Kirk–Raven–Schofield 1983: 166–67), ma questa porzione
di testo è, per dichiarazione dello stesso Simplicio, una
citazione da Teofrasto (Diels 1879: 109 ss.).
Si è a lungo dibattuto se a sua volta Teofrasto si rifacesse
direttamente al testo di Senofane o si limitasse a ricamare sul
profilo delineato da Aristotele, che in Metaph. 986b9 ss. (=
21 A 30 D.–K.) aveva osservato che, avendo di mira il cosmo
intero, il sapiente di Colofone sosteneva che l’’uno’ è dio.
L’affermazione potrebbe essere ricondotta a luoghi
senofanei come 21 B 23
ei|ç qeovç, e[n te qeoi`çi kai; ajnqrwvpoisi mevgistoç,
ou[ti devmaç qnhtoi`çin oJmoivioç oujde; novhma.
Un unico dio, sommo fra dèi e uomini,
non simile ai mortali né per forma né per intelletto.

3. Teofrasto aveva considerato Senofane alla stregua di un ‘teologo’


piuttosto che di un ‘fisiologo’.

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130 Il migliore dei mondi impossibili

o 21 B 24:
ou\loç oJra`i, ou\loç de; noei`, ou\loç dev tΔ ajkouvei.
(Il dio) intero guarda, intero pensa, intero ascolta.

Si è ipotizzato (per la storia del dibattito vedi Schäfer


1996: 183–192) che Teofrasto integrasse il quadro offerto
da Aristotele aggiungendo di suo kai pan «e tutto» a to ....
hen «l’uno» e fornendo così la base per le più tarde testimo-
nianze di Cic. Acad. 2.118 = 21 A 34 D.–K.: unum esse omnia
neque id esse mutabile et id esse deum neque natum umquam et
sempiternum, conglobata figura e di Ps.–Galen. Hist. phil. 7 =
21 A 35.16–18, secondo il quale Senofane era rimasto nel
vago su tutto tranne che sul fatto che «tutte le cose sono
una unità» e che questo ‘uno’ si identifica con la divinità.
D’altra parte un indizio a favore dell’attendibilità della
testimonianza di Teofrasto è offerto da un testo orfico
arcaico e da un frammento di Eschilo:
Ai vv. 1–3 di OF 31 F (un inno la cui antichità è dimostrata
dal fatto che il v. 2 faceva parte del componimento in esame-
tri, non posteriore alla metà del VI secolo
4
a.C., commentato
in col. 17.12 del Papiro di Derveni ), si dice di Zeus:
Zeu;ç prw`toç gevneto, Zeu;ç u{çtatoç ajrgikevraunoç:
Zeu;ç kefalhv, Zeu;ç mevçça, Dio;ç dΔ ejk pavnta tevtuktai:
Zeu;ç puqmh;n gaivhç te kai; oujranou` ajçteroventoç.
Zeus fu per primo, Zeus dal fulmine abbagliante per ultimo,
Zeus è la testa, Zeus il mezzo, da Zeus ogni cosa fu foggiata,
Zeus è il fondamento della terra e del cielo stellato.

E in Aesch. fr. 79 R. leggiamo:


Zeuvç ejçtin aijqhvr, Zeu;ç de; gh`, Zeu;ç dΔ oujranovç,
Zeuvç toi ta; pavnta cw{ti tw`ndΔ uJpevrteron.

4. Una chiara allusione all’inno (ma con ajrchv in luogo di kefalhv) è


anche in Plat. Leg. 715e (vedi Kouremenos in KPT 2006: 226).

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IV. Atemporalità e aspazialità 131

Zeus è l’etere, Zeus la terra, Zeus il cielo,


Zeus è tutte le cose e ciò che è al di sopra di esse.

Un dio come totalità e uno Zeus che si estende fino


agli estremi limiti dello spazio e del tempo sono evidenti
precorrimenti dell’essere atemporale di Parmenide, e che
questa sia la via percorsa dal sapiente di Velia risalta anche
da un nesso intertestuale fra due passi.
Dice Xenoph. 21 B 26 in relazione alla divinità:
aijei; dΔ ejn twujtw`i mivmnei kinouvmenoç oujdevn
resta sempre del tutto immobile nella stessa sede.

E dice Parmen. B 8.26 e 29 in relazione all’essere:


aujta;r ajkivnhton megavlwn ejn peivraçi deçmw`n
...
twujtovn tΔ ejn twujtw`ite mevnon kaqΔ eJautov te kei`tai
e immobile nei ceppi di grandi catene
...
e restando identico nella stessa sede giace in se stesso.

L’anonimo autore dell’inno orfico traduce l’immensità


di Zeus nel lessico della nascita e della scansione temporale
(primo / ultimo), ma Senofane, per quanto vediamo, ne
rifugge ed esprime , egli sì, l’idea di un’immobile totalità
del dio attraverso il linguaggio dell’eterna durata, di cui
aiei («sempre», «perennemente») è la più tipica marca.
Ed è lo stesso Senofane che in un brano proveniente dai
Silloi (21 B 14) rimprovera i mortali di credere che gli déi
possano essere generati:
ajllΔ oiJ brotoi; dokevouçi genna`çqai qeouvç,
th;n çfetevrhn dΔ ejçqh`ta e[cein fwnhvn te devmaç te.
ma i mortali credono che gli dèi siano generati
e abbiano le loro stesse vesti e voci e figure.

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132 Il migliore dei mondi impossibili

5. Aspazialità

Come è atemporale, l’essere è anche aspaziale almeno


in quanto si consideri lo spazio un’estensione misurabile
al cui interno gli oggetti si spostano e mutano forma at-
traverso il vuoto.
Se infatti è intero e perfettamente compiuto, unitario,
continuo, indivisibile, omogeneo, isotropo, in perfetto
equilibrio a partire da un centro, senza crescita, immo-
bile, fermo su se stesso, e se la sua sfera abbraccia tutto
ciò che è perché non c’è niente al di fuori di essa, l’essere
non può contenere vuoti perché il vuoto, emblema del
non–essere, non può insinuarsi in una massa colma di
essere (B 8.24).
Come le statue di Michelangelo, plasmate non «per
via di porre» ma «per via di torre», l’essere viene definito
passo passo per sottrazione attraverso le stazioni temati-
che di 28 B 8.
Anche se oggi è stata giustamente accantonata una vi-
sione schematica, suggerita in primo luogo da Aristotele,
della ‘scuola milesia’ come dedita alla ricerca dei principii
primi, e si è anche notato che il termine archê «principio
(primo)» non è neppure attestato come parte del loro les-
sico ma solo nei testimoni del loro pensiero (Sassi 2009:
50–66), resta vero che le indagini sulla natura anteriori a
Parmenide si ponevano il problema di spiegare l’origine
o il meccanismo basilare del mondo in cui viviamo ed
escogitavano motivazioni diverse, e sempre meno rudi-
mentali, basate comunque su eonta «cose esistenti» quali
acqua, aria, terra, fuoco, o sugli elementi primi (caldo,
freddo, secco, umido) o su un insieme, come l’apeiron, di
cose o elementi.
Non diversamente da Alessandro Magno di fronte al
nodo di Gordio, Parmenide, soppesate le varie ramifi-
cazioni delle teorie ioniche, compie un gesto radicale.

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IV. Atemporalità e aspazialità 133

Pur riprendendo5
lungo la Via delle doxai spunti dei suoi
predecessori, si astiene dal discutere la validità delle loro
tesi: pensa semplicemente che il problema è mal posto
perché non c’è né inizio né fine, né principio né termine.
L’essere non ha avuto origine né cesserà di essere, non è
la trasformazione di qualcos’altro né diventerà altro. Per
dirla con Graham 2006: 186, «Parmenides spends no time
on the Problem of Primacy: the question of which basic
substance is the generating substance does not arise for
him».
D’altra parte distinguere fra territorio dell’essere e
territorio del non–essere non è operazione né facile né
rapida.
Una tipica applicazione del metodo parmenideo, su cui
ha giustamente insistito Popper 1998, è la scoperta che la
luna non è dotata di luce propria (28 B 14):
nuktifae;ç peri; gai`an ajlwvmenon ajllovtrion fw`ç
notturna luce altrui che vaga intorno alla terra

e 28 B 15:
aijei; paptaivnouça pro;ç aujga;ç hjelivoio
sempre guardando verso i raggi del sole.

La scoperta è attribuita da Aet. 2.27.5 (= 11 A 17b) a


Talete, ma Graham 2006: 180 ha messo in dubbio l’atten-
dibilità della testimonianza anche perché non abbiamo
altre indicazioni sulle idee astronomiche di Talete, e certo
Anassimandro e Senofane avevano continuato ad attribu-
ire luce propria alla luna (12 A 22 e 21 A 43).

5. Basti pensare, oltre ai confronti con Anassimandro (III, § 1), al ruolo


svolto dalla condensazione nella formazione dell’atmosfera terrestre (28 A
37) dopo che Anassimene aveva sostenuto che «tutte le cose sono generate
per condensazione e rarefazione dell’aria» (13 A 6).

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134 Il migliore dei mondi impossibili

Forse Parmenide fu, se non lo scopritore della luce ri-


flessa della luna, il primo a corredare la teoria con «un’ade-
guata base argomentativa» (Cerri 1999: 56) e a servirsene
come esempio di una crepa 6
clamorosa nella attendibilità
delle percezioni sensibili.

6. Il soggetto smarrito

Assenza del tempo e assenza del vuoto sono aspet-


ti complementari di un medesimo monolito: la realtà
dell’essere.
Non è nostra intenzione riprendere l’infinita discussione
che si è dipanata intorno alla natura del verbo ‘essere’ (per
una tavola delle occorrenze parmenidee vedi Kahn 1988:
258–61) al fi7ne di stabilire quale significato Parmenide gli
assegnasse: esistenziale (‘è’ = ‘c’è’, ‘esiste’), copulativo
(‘è’ come copula di ogni enunciato che esprima identità
o equipollenza),’veridico’ o ‘veritativo’ (‘è’ = «è così», «è
realmente», «è vero») oltre a soluzioni che combinano
due delle funzioni possibili (quella esistenziale e quella
copulativa nel caso di Calogero 1932 e di Mourelatos 1970)
o addirittura le abbracciano tutte (per un’ampia rassegna
critica delle diverse interpretazioni vedi Reale in Zeller–
Reale 1967: 184–90).
Come per la discussione sulla nozione di tempo, ci
limiteremo a un singolo aspetto, e cioè alla distinzione

6. Un bizzarro, non felice, precorrimento di questo metodo lo trovia-


mo in Senofane, che aveva osservato, secondo Aet. 2.24.9 = 21 A 41a, che
il sole procede oltre all’infinito anche se, a causa della sua distanza da noi,
sembra seguire un’orbita circolare.
7. Le discussioni moderne presuppongono in maggiore o minore mi-
sura la distinzione fra i significati basilari del verbo ‘essere’ variamente
elaborata da Platone e da Aristotele (vedi Palmer 2009: 129–33).

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IV. Atemporalità e aspazialità 135

fra i casi in cui esti «è» o ouk esti «non è» non hanno sog-
getto esplicito (B 2.3 e 5 e B 8.2) e quelli in cui il soggetto,
espresso o agevolmente deducibile dal contesto, è (to) eon
«ciò che è», «l’essere», e con la precisazione che all’inter-
no di questi ultimi bisogna distinguere quelli in cui esti è
predicato verbale (B 6.1–2, B 7.1 e B 8.5, 9, 11, 16, 46) e
quelli in cui funziona da copula (B 8.3–5, 22–25, 32–33,
42, 45, 48).
Consideriamo dunque i due casi in cui il soggetto di
esti non è espresso né appare sottinteso (lasciando per il
momento impregiudicati, nella traduzione, sia l’eventuale
soggetto implicito sia la valenza di esti):

B 2.1–5:
eij dΔ a[gΔ ejgw;n ejrevw, kovmiçai de; çu; mu`qon ajkouvçaç,
ai{per oJdoi; moun` ai dizhvçiovç eijçi noh`çai:
hJ me;n o{pwç e[çtin te kai; wJç oujk e[çti mh; ei\nai,
Peiqou`ç ejçti kevleuqoç (ΔAlhqeivh ga;r ojphdei`),
5 hJ dΔ wJç oujk e[çtin te kai; wJç crewvn ejçti mh; ei\nai. 5
8
Ebbene, io ti dirò, e tu riporta con te il mio ragionamento,
quali siano le uniche vie di ricerca idonee a pensare:
l’una secondo cui esti e non è possibile che non esti,
9
ed è la strada di Persuasione (Verità è compagna di viaggio ),
5 l’altra secondo cui non esti ed è necessario che non esti. 5

B 8.1–2:

8. Sul valore di kovmiçai come «take away» vedi Kingsley 2003: 563–64.
La stessa forma è riemersa nella stessa sede dell’esametro nel cosiddetto
‘Empedocle di Strasburgo’ (B 17.299 nella numerazione di Janko 2004): ejk
tw`n ajyeudh` kovmiçai freni; deivgmata mªuvqwn.
9. Diels–Kranz e molti altri accolgono la correzione (o, piuttosto,
l’interpretazione della tradizione) jAlhqeivhi (Bywater), ma il nominativo
si può conservare, tanto più che ojphdevw e ojphdovç sono talora riferiti a
una divinità «who manifests his approval (by standing near) of either a
lesser divinity or a mortal» (Sider 1985: 363).

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136 Il migliore dei mondi impossibili

movnoç dΔ e[ti muq` oç oJdoio`


leivpetai, wJç e[çtin.
e resta solo il discorso
su una via: che esti.

Queste le soluzioni proposte per l’individuazione del


soggetto:

— Il soggetto è l’essere, ma la parola che lo designa


deve essere restituita per congettura (Cornford 1950: 98
n. 2 proponeva di leggere in B 2.3 hê men hopôs eon esti kai
«una (via) in che modo l’essere sia e ...») oppure si deve
postulare (Reinhardt) una lacuna fra v. 2 e v. 3. Ma sia
l’ipotesi della corruzione testuale sia quella di una lacuna
sono rimedi assai precari perché il soggetto dovrebbe es-
sere reintegrato sia in B 2.3 sia in B 8.1–2 e perché quelli
tramandati si presentano come versi formalmente inec-
cepibili e ben connessi l’uno all’altro.
— Soggetto sottinteso è (to) eon «ciò che è», «l’essere»,
come intendeva già Simplicio in Phys. 116.25 introducen-
do la citazione di B 2 (lo hanno seguito in molti, fra cui
Kranz con l’anche graficamente artificioso «das IST ist»),
ma poiché la menzione del soggetto «l’essere» compare, a
quanto ci consta, non prima di B 6.1–2, ne consegue che se
guardiamo al poema come a un testo didattico–narrativo
vincolato al decorso della sua recita non possiamo inter-
polare retrospettivamente in B 2.3 e 5 qualcosa che viene
esplicitato solo in seguito.
— Soggetto implicito è tutto ciò che può essere detto
o pensato (Owen 1960: 60: «what can be talked or thought
about»; Kirk–Raven–Schofield 1983: 245: «any subject of
enquiry whatever»), ma si tratta di un’ipotesi che pretende
davvero troppo dal destinatario (vedi Palmer 2009: 75).
— Il soggetto è il termine a cui le vie di ricerca pos-
sono condurre, insomma la verità (Kahn 1969: 702–10 e

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IV. Atemporalità e aspazialità 137

1988, Barnes 1982: 163): vale la stessa obiezione mossa


alla tesi precedente.
— Il soggetto (questa volta sottinteso piuttosto che
implicito) si ricava da hodoi dizêsios «vie di ricerche» di B
2.2 e da mythos hodoio «rivelazione di una via» di B 8.1: due
espressioni equivalenti che dimostrerebbero come la dea si
preoccupi preliminarmente dell’esistenza della via di ricerca
che conduce all’essere e dell’inesistenza di quella che con-
duce al non–essere (Untersteiner 1958: LXXX–LXXXVIII).
Senonché dopo «vie di ricerche» e «rivelazione di una via» le
proposizioni modali / dichiarative avviate da hopôs «come»
di B 2.3 e hôs «come» di B 2.5 e di B 8.2 dovrebbero carat-
terizzare in qualche modo il contenuto di queste vie, non
limitarsi a dirci che esse esistono o non esistono (un dato
già esplicitato in senso positivo in B 2.2).
— Non c’è soggetto perché esti rappresenta la mera
copula con cui si costruiscono i predicati nominali (Mou-
relatos 1970: 55 ss., Cerri 1999: 57–62). Ma una copula che
non sia accompagnata né dal soggetto né da un aggettivo
o sostantivo in funzione predicativa non può che restare
irriconoscibile.

Se tutte queste esegesi appaiono insoddisfacenti e ci


portano complessivamente a concludere che il soggetto
non c’è e neppure è sottinteso, non resta che riconsiderare
l’unica interpretazione che rispetti l’assenza del soggetto,
e cioè quella che, come suggerito da Burnet 1930, Fränkel
1960, Cordero 2004: 53, Palmer 2009: 74–85, presuppone un
soggetto impersonale (sul tipo di it in inglese o es in tedesco):
non però nel senso di10
«c’è», ma in quanto ésti vale «è dato»,
«è lecito», «si può», così che B 2.3–5 venga a significare

10. In realtà si tratta fondamentalmente dello stesso uso in quanto e[çti vi-
ene ad assumere la valenza di licet sulla base di «c’è per», e nel nesso e[çti poiei`n
«è lecito fare» o sim. l’infinito ha funzione ‘dativale’ (vedi sopra I § 7).

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138 Il migliore dei mondi impossibili

«l’una (via) secondo cui è lecito e non è possibile che non


sia lecito ... l’altra secondo cui non è lecito ed è necessario
che non sia lecito» e B 8.1-2 «e resta solo il discorso su una
via: che è lecito» (analogo l’uso di themis «è lecito», proprio
in relazione all’essere, in B 8.32: ouk ateleutêton to eon themis
einai «è lecito che l’essere non sia incompiuto»).
Una valenza di estin che troviamo anche più oltre in B
6.1–2 (per l’esegesi dell’intero passo vedi sopra, II § 3)
e[çti ga;r ei\nai,
mh; dΔ ejo;n oujk e[çtin
(l’essere)
11
è lecito che sia,
ma ciò che non è non è lecito che sia.

Sembra dunque realizzarsi in B 2.3 ouk esti mê einai «non


è lecito che non sia lecito» una tautologia tanto bizzarra
al primo impatto quanto perfettamente parallela al motto
ricorrente nel poema di Parmenide (vedi poco più sotto)
«l’essere è» / «il non essere non è».
In questa ottica la dea, come per due volte nei confronti
delle doxai mette in atto procedimenti di dissuasione e di
rinvio (vedi II, § 3), per altrettante volte, dopo il proemio
e a principio della trattazione dell’essere, attiva proce-
dimenti propedeutici in cui l’opposizione ésti / ouk ésti
funziona come quella che ci è abituale fra disco verde e
disco rosso (avanti / stop) e garantendo tanto l’accesssi-
bilità della Via della Realtà quanto l’inaccessibilità della

11. In parte analogo, e parimenti espresso con esti impersonale, è in Em-


ped. 31 B 133 il rifiuto della via che, nella presunzione degli uomini, dovrebbe
permettere loro di avvicinare con gli occhi e di afferrare con le mani il divino:
oujk e[çtin pelavçaçqai ejn ojfqalmoi`çin ejf iktovn | hJmetevroiç h] cerçi;
labei`n, h|ipevr te megivçth | peiqou`ç ajnqrwvpoiçin aJmaxito;ç eijç frevna
pivptei («non è lecito avvicinarlo entro il raggio dei nostri occhi / o afferrarlo
con le mani anche se tale è la maggior / carraia di convinzione che penetra
nella mente degli uomini»).

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IV. Atemporalità e aspazialità 139

Via del non–essere addita l’unico itinerario conoscitivo


legittimamente percorribile.
É solo sulla base della dichiarata praticabilità della Via
della Realtà che la dea può cominciare in B 6.1 ad affron-
tare il discorso sull’essere (definito con il participio (to) eon
«ciò che è») predicando eon (o la sua negazione) con una
forma dello stesso verbo ‘essere’:

— B 6.1 eon emmenai «(bisogna dire e pensare che)


l’essere è»;
— B 7.1–2 einai mê eonta «(non sarà mai che) il non–
essere sia»;
— B 8.3–5 eon ... oude pot’ ên oud’ estai «mai l’essere fu
né sarà»;
— B 8.11 houtôs ê pampan pelenai chreôn estin ê ouchi
«così è necessario che (l’essere) sia completamente
o completamente non sia»;
— B 8.16 estin ê ouk estin «(l’essere) è o non è»;
— B 8.20 ouk est’ «non è» (nel senso che l’essere non
potrebbe essere se fosse nato).

In tutti questi casi la relazione fra soggetto e predicato


è una evidente tautologia, ma una tautologia tutt’altro che
improduttiva perché serve a stabilire che una definizione
dell’essere non può provenire da una sorgente estranea
all’essere stesso.
Ma se (to) eon denota «ciò che è» come totalità o catego-
ria generale dell’esistente (la ‘realtà’) così come (ta) eonta
sono «le cose esistenti» o, più semplicemente, le ‘cose’ (gli
oggetti che fanno parte della nostra esperienza), anche il
predicato esti privo di determinazione predicativa deve
assumere, nell’interazione con il soggetto eon, un valore
esistenziale (rivendicato fra gli altri, seppure con argo-
mentazioni in parte diverse, da Owen 1960, Tarán 1965,
175–201, Wiesner 1996: 205–306, Graham 2008: 156–59), e

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140 Il migliore dei mondi impossibili

gli stessi significanti, con il gioco che si realizza fra diverse


forme dello stesso verbo, sottolineano una dimensione
che ruota tutta intorno a una medesima valenza del verbo
‘essere’.
D’altra parte in greco la connotazione esistenziale di
einai appare inestricabilmente connessa (una connessione
resa esplicita in B 8.18 tên d’ôste pelein kai etêtymon einai «e
l’altra via in modo che sia e sia vera») a quella ‘veridica’
o ‘veritativa’ (sostenuta da Kahn 1969 e 1988, Leszl 1988:
292–94, Henn 2003: 31–2), per cui di una cosa si predica
che «è reale (vera)», «è veramente», «è così come deve
essere», come in ton eonta logon «il discorso vero», «la ve-
rità» (Herodot. 1.95.1), nell’avverbio ontôs «veramente»,
«effettivamente» (specie in nessi come Plat. Rsp. 597d einai
ontôs «essere veramente») o nella definizione che di vero
e falso è data da Socrate in Plat. Crat. 385b:
a\rΔ ou\n ou|toç (lovgoç) o}ç a]n ta; o[nta levghi wJç e[çtin,
ajlhqhvç, o}ç dΔ a]n wJç oujk e[çtin, yeudhvç…
Non è forse veritiero il discorso che dice le cose come sono
realmente e falso quello che dice come non sono?

Da questo punto di vista Eudemo (fr. 43 Wehrli) aveva


ragione a sottolineare che Parmenide usa il verbo ‘essere’
«indiscriminatamente» (monachôs), senza applicare quelle
puntuali distinzioni semantiche che Eudemo stesso aveva
appreso a usare da Platone e da Aristotele, e tuttavia non si
tratta, come Eudemo sembra credere, di acerba arcaicità,
perché riconoscendo una fondamentale unità come base
dell’uso esistenziale e veritativo del verbo ‘essere’ Parme-
nide non faceva che rivendicare il legame, rispecchiato dal
linguaggio d’uso e nell’impiego di alêtheiê e di alêthês (su
cui vedi sopra II § 9), fra esistenza e verità.

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Capitolo V

Il ritorno

1. Il santuario di Asclepio a Velia

Nel 1950 fu portata alla luce nel sito dell’antica Velia, su


una gradinata d’accesso al portico sotterraneo di un santuario
di Asclepio, una statua di questo nume guaritore risalente al
primo secolo d.C. su cui era stato effigiato un serpe risalente
su per la veste, e inoltre furono trovate una statua di Apollo
con la lira in mano, un altare, una cisterna per lavacri.
Quattro epigrafi, rinvenute in questa stessa area all’interno
di un ampio edificio la cui costruzione era stata iniziata nei
primi decenni del primo secolo d.C., furono pubblicate nel
1962 da P. Ebner (vedi Pugliese Carratelli 1990: 269–80).
L’iscrizione nr. 1 era stata incisa sulla base di una statua
di un personaggio togato, le nr. 2, 3, 4 su erme acefale:
1. Ou\liç Eujxivnou JUelevthç ijatro;ç fwvlarcoç
2. Ou\liç jArivçtwnoç ijatro;ç fwvlarcoç
3. Ou\liç jIerwnuvmou ijatro;ç fwvlarcoç
4. Paªrºm≥eneivdhç Puvrhtoç Oujliavdhç fuçikovç.
1. Oulis figlio di Euxinos, di Velia, medico, folarco.
2. Oulis figlio di Aristone, medico, folarco.
3. Oulis figlio di Ieronimo, medico, folarco. 1
4. Parmenide figlio di Pyrês, Ouliadês, medico.

1. Si è discusso se fuçikovç significhi qui ‘medico’ (per questa accezione


cf. IG 13, 1190, col. 3, l.152, Hp. Steril. 230 (8.444 Littré) e vedi Cristofori 2006)

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142 Il migliore dei mondi impossibili

Le prime tre iscrizioni sono accompagnate ciascuna,


alla fine, da un numero (rispettivamente 379, 280 e 446)
seguito da etei («nell’anno...»), che è stato interpretato
come indicazione di un periodo a partire dalla fondazione
di Velia o dalla morte di Parmenide.
Parmenide, il cui padre si chiamava Pyrês anche se-
condo D.L. 9.21 = 28 A 1 e la Suda (= 28 A 2), dovette
appunto essere, al pari degli altri personaggi menzionati,
a capo di un’associazione posta sotto il segno di Ascle-
pio. Il termine ‘folarco’ doveva infatti denotare il capo
o direttore di una phôlea (letteralmente «tana»), cioè di
un’associazione 2
i cui membri erano legati da un vincolo
comunitario.
Considerando che sotto l’edificio dove furono rinvenu-
te le epigrafi è stata portata alla luce una camera sotterra-
nea in cui sono stati ritrovati anche strumenti chirurgici,
la ‘tana’ del ‘folarco’ doveva essere un luogo idoneo alla
trance di un sapiente secondo l’uso di entrare in celle o
caverne sotterranee (Ustinova 2009: 198).
Pitagora stesso, secondo una tradizione riferita in D.L.
8.41, arrivato in Italia si sarebbe fatto costruire una piccola
camera sotterranea: riemerso alla luce dopo molto tempo
trascorso in essa, si sarebbe recato all’assemblea
3
cittadina
raccontando di essere stato nell’Ade.

oppure, secondo l’accezione introdotta da Aristotele, ‘filosofo della natura’


(fuçiolovgoç). Significativo in particolare a favore della prima soluzione
il confronto, addotto già da Gigante 1988, con IG 14.666, dove a medic(us)
corrisponde fuçikovç,
2. Per fwleav e fwleovç in relazione a comunità chiuse e agli edifici
che le ospitavano cf. Poll. 6.8 ijdivwç de; tou;ç tw`n qiaçwtw`n oi[kouç
fwlhthvria wjnovmazon e Hesych. s.v. fwlhthrivoiç: fwlhthvria kai;
fwleai; tw`n qiaçwtw`n kai; çunovdwn oi\koi.
3. Sulla più antica tradizione relativa a Pitagora e a figure a lui assimi-
labili un quadro eccellente è stato tracciato da Burkert 1972: 97–217; sui
professionisti del sacro vedi la sinossi delineata da Gemelli Marciano 2006.

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V. Il ritorno 143

Non attestato altrove è l’epiteto Ouliadês, che eviden-


temente si connette a Oulis delle altre tre epigrafi e il cui
suffisso –iadês indica probabilmente (si pensi agli ‘Ascle-
piadi’) l’appartenenza a un gruppo consacrato ad Apollo
Oulios (sul suffisso –idai / –iadai per denotare l’attività o
la funzione di in gruppo vedi Durante 1976: 185–203).
In area ionica Apollo, padre di Asclepio, era infatti detto
Oulios, e cioè, come attesta Strab. 14.1.6, ‘guaritore’ (vedi
Graf 2008: 68–9): «gli abitanti di Mileto e di Delo danno ad
Apollo l’epiteto di Oulios in quanto guaritore e sanatore:
infatti oulein significa ‘guarire’» (e l’epiteto è attestato anche
in un’epigrafe di Rodi, IG 13.1.834, e in una di Cos, SEG
18.328 e in Pherec. FGrHist F 149 e nella Suda, O 905).
Un’altra, pur lacunosa, iscrizione fu pubblicata dallo
stesso Ebner nel 1970 sulla «Parola del Passato» (25: 262):
si tratta di un decreto onorario che reca alle righe 3–8:

hJ çuvn≥ªodoç- - - ejtivmhçen- - -º
Oujliav≥ªdhn- - -
ijatrovm≥ªantin- - -
jApovllwªnoç- - -
ajºndrw`n- - -
kºai; ajret≥ªh`ç ei{neka
L’associazione [... ha onorato ...]
Ouliadês ...
medico indovino ...
di Apollo...
degli uomini ...
e [per] la virtù ...

Il ritorno dell’epiteto Ouliadês, riferito a Parmenide


nell’epigrafe nr. 4, rende verosimile che proprio il filosofo
fosse lo iatromantis, il medico–indovino a cui il testo fa
riferimento. Certo Parmenide era legato a un ambiente
terapeutico sacro ad Asclepio e fu considerato, in quanto
Ouliadês, un sacerdote di Apollo (Stein 2006: 154).

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144 Il migliore dei mondi impossibili

2. Parmenide medico–indovino

Il medico–indovino era un terapeuta in grado di dia-


gnosticare il male in stato di trance sulla base della deci-
frazione di specifici segni e di trovare la cura più idonea a
un determinato caso (Kingsley 1999: 120–27).
Iatromantis è definito Apollo stesso in Aesch. Eum. 62, dove
gli attributi che appaiono associati al dio, e cioè teraskopos
«interprete di prodigi» e katharsios «purificatore», dimostrano
che alla figura sacerdotale dello iatromantis erano affidate in
primo luogo l’interpretazione di eventi o situazioni abnormi e
la purificazione per mezzo di incantesimi da contaminazioni
(miasmata) che potessero aver infettato l’ambiente naturale o
singoli individui o anche famiglie e gruppi più ampi.
Questa funzione ‘ecologica’ appare svolta in Aesch. Su.
260–70 da Apis, figlio di Apollo, antico medico–indovino
che aveva purificato l’Argolide da mostri sterminatori di
uomini emersi dalla terra infettata dalle macchie di antichi
delitti, ma già in Hes. fr. 37.14 M.–W. Melampo, che ha
ereditato la sua arte di medico–indovino da Apollo, cura le
figlie di Preto che Hera ha reso folli e diagnostica le cause
del male (Parker 1983: 208–10).
Un celeberrimo iatromantis era stato Epimenide di
Creta, che verso il 596 a.C. aveva purificato Atene dalla
contaminazione provocata dagli Alcmeonidi uccidendo
sull’acropoli Cilone e i suoi seguaci (D.L. 1.110, Plut. Sol.
12.5). La sua figura era diventata leggendaria sia per aver
dormito per molti anni in una caverna cretese (OF 6 T)
sia perché la sua anima sarebbe stata in grado di uscire
dal corpo e poi rientrarvi spontaneamente (OF 7a T).
Epimenide era solito vaticinare sul passato piuttosto che
sul futuro, rintracciando in eventi trascorsi le cause di
situazioni critiche attuali (Kingsley 2003: 33–5).
Presso gli Asclepiei di Epidauro, Atene, Pergamo, Cos e di
altre località affluivano pazienti afflitti dalle più varie malattie

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V. Il ritorno 145

e invalidità (piaghe, cecità, sordità, zoppia, nevrosi etc.), ma il


fulcro della terapia era invariabilmente rappresentato, dopo
lunge pratiche preparatorie (abluzioni, purganti, sacrifici, pre-
ghiere, inni), dall’incubazione, e cioè dal dormire, o almeno
dal restare immobili e in silenzio, all’interno del settore del
santuario inaccessibile ai profani e consacrato ad Asclepio,
assistendo durante il sogno o in forma di visione estatica
all’epifania del nume. Il paziente si ridestava alla coscienza già
guarito o almeno in grado di riferire un’esperienza che i sa- 4
cerdoti e i medici avrebbero adeguatamente interpretato.
Che Parmenide si sentisse competente, e praticasse,
un tipo di medicina olistica tesa a riconoscere l’eziologia
di morbi e disfunzioni nella mancata 5
isonomia fra gli ele-
menti presenti nel corpo umano (un orientamento che
viene stigmatizzato come «tendente alla filosofia» 6
nel cap.
20 dello scritto ippocratico Sull’antica medicina e che fa
dipendere la conoscenza dell’arte medica dal sapere «che

4. Per una sintesi sugli Asclepiei nel quadro delle istituzioni terapeu-
tiche del mondo antico vedi Risse 1999: 15–38.
5. Nelle Sentenze composte fra il 1048 e il 1049 dall’erudito siro–egiziano
al–Mubassir Parmenide compare come quarto in una successione, sia pure
semimitica, di grandi medici greci che comincia con Asclepio I, Ghuros e Mi-
nosse (forse corruzione dell'egizio Menes) e termina con Ippocrate e Galeno
(Pugliese Carratelli 1990: 269–80).
6. «Dicono alcuni medici e sapienti che non sarebbe possibile sapere
la medicina per chi non sa che cosa è l’uomo, ma è questo che deve com-
prendere chi dovrà correttamente curare gli uomini. Il loro discorso tende
così alla filosofia, come per Empedocle e per altri che, intorno alla natura,
hanno scritto a partire dal principio che cosa è l’uomo e come si formò
dapprima e da che cosa si è costituito. Ma io tutte le affermazioni di questi
sapienti o di questi medici o quanto è stato scritto intorno alla natura con-
sidero che meno attengano all’arte medica che a quella della pittura, e pen-
so che non sia possibile attingere conoscenze evidenti intorno alla natura da
niente altro che dalla medicina» (tr. di A. Lami). Su questa contrapposizione
tra ‘filosofia’ e ‘medicina’ ormai consolidate come scienze autonome (e in
reciproca concorrenza) vedi Di Benedetto 1986: 210–11 e Sassi 1988: 248–50.

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146 Il migliore dei mondi impossibili

cosa sia l’uomo») si desume da un brano (28 B 18) tradot-


to e trasmesso nel quinto secolo d.C. dal medico Celio
Aureliano, nativo di Sicca (Numidia), nei suoi Tardarum
sive chronicarum passionum libri (4.9), a sua volta basati
sull’opera, anteriore di cinque secoli, di Sorano di Efeso:
Femina virque simul Veneris cum germina miscent,
venis informans diverso ex sanguine virtus
temperiem servans bene condita corpora fingit.
Nam si virtutes permixto semine pugnent
5 nec faciant unam permixto in corpore, dirae
nascentem gemino vexabunt semine sexum.
Quando donna e maschio mescolano i semi di Venere,
nelle vene virtù formatrice da sangue diverso,
se conserva equilibrio, plasma corpi ben costruiti;
se invece, mescolatosi il seme, le forze si contrastano
5 e nel corpo mescolato non diventano una sola, crudeli
tormenteranno con duplice seme il sesso nascente.

La transessualità, considerata come una situazione di


ambiguità nell’auto–identificazione dell’individuo (sulla
distinzione rispetto all’omosessualità vedi Cerri 1999:
286), viene ricondotta, secondo la stessa logica che ab-
biamo incontrato in B 16 (I § 1–6) e in B 17 (III § 5), a uno
sbilanciamento nella crasi dei semi maschili e femminili
nel sangue dell’embrione: una sorta di vaticinazione sul
passato che riportava al tempo del concepimento e della
gestazione del feto una condizione sentita come causa
potenziale di ansie e tormenti.
Ma c’è un altro aspetto di Parmenide in quanto Ouliadês
che merita di essere ricordato.
Poiché Plotino (Enn. 5.6.26-30), ripetendo un’assimila-
zione già presente in Plut. Is. 334f, riferisce che i Pitagorici
identificavano Apollo con l’Uno in quanto «negatore della
molteplicità» (a–pollôn) e già Platone nel Cratilo (405c)
collegava il nome ‘Apollo’ ad haploun «semplice», «com-
patto» (vedi Stamatellos 2007: 36-9), c’è da sospettare che

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V. Il ritorno 147

Parmenide fosse interessato non solo al culto di Asclepio e


alle pratiche dell’Asclepieio, ma anche alla figura di Apollo
in quanto emblema dell’Uno pitagorico.
Nei brani superstiti di Parmenide Apollo non è mai men-
zionato, ma Menandro retore (1.5.2 = 28 A 20) riferisce che
Parmenide ed Empedocle avevano composto inni ‘fisici’ il
cui schema consisteva nel dire che Apollo è il sole e nel trat-
tare della natura del sole e identificare Hera con l’atmosfera
e Zeus con il caldo. L’informazione è confermata almeno
per Empedocle da D.L. 8.57 = 31 A 1, secondo il quale il sa-
piente agrigentino aveva composto un inno ad Apollo, e da
Ammonio (Int. p. 249.1 Busse), il quale dichiara, citandolo,
che il brano empedocleo dove si afferma che la divinità non
ha sembianze umane ma è «solo sacra e sovrumana mente
che agita tutto il cosmo con rapidi pensieri» (31 B 134) aveva
Apollo come principale termine di riferimento.
Considerando le molteplici riprese parmenidee in Em-
pedocle, è verosimile che anche Parmenide avesse cantato
in un inno, come dice Menandro, della physis di Apollo.

7
3. Il proemio

In questo contesto che possiamo lacunosamente intra-


vedere non ci stupisce che il poema di Parmenide si apra
con la narrazione di un incontro, quello fra l’Io narrante
e una dea anonima, che trasforma il primo da ‘giovane’
(kouros) a «uomo che sa» e pertanto rappresenta il momen-
8
to fondante di una condizione iniziatica (28 B 1):

7. Per precedenti versioni di questa parte dedicata al proemio vedi Fer-


rari 2003 e 2007: 97–114.
8. Sulle strategie comunicative messe in atto per correlare Io e Tu nella
«fiction of autobiography» del proemio vedi le pertinenti osservazioni di
Robbiano 2005: 71–85.

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148 Il migliore dei mondi impossibili

{Ippoi taiv me fevrouçin o{çon tΔ ejpi; qumo;ç iJkavnoi


pevmpon ejpeiv mΔ ejç oJdo;n bh`çan poluvfhmon a[gouçai
daivmonoç h} kata; pavntΔ a[ãçÃtea fevrei eijdovta fw`ta:
th`i ferovmhn: th`i gavr me poluvfraçtoi fevron i{ppoi
5 a{rma titaivnouçai, kou`rai dΔ oJdo;n hJgemovneuon.
a[xwn dΔ ejn cnoivhiçin i{ei çuvriggoç ajuthvn
aijqovmenoç (doioi`ç ga;r ejpeivgeto dinwtoi`çin
kuvkloiç ajmfotevrwqen) o{te çpercoivato pevmpein
JHliavdeç kou`rai, prolipou`çai dwvmata Nuktovç,
10 ejç favoç, wjçavmenai kravtwn a[po cerçi; kaluvptraç.
e[nqa puvlai Nuktovç te kai; [Hmatovç eijçi keleuvqwn
kaiv çfaç uJpevrquron ajmfi;ç e[cei kai; lavinoç oujdovç:
aujtai; dΔ aijqevriai plh`ntai megavloiçi qurevtroiç:
tw`n de; Divkh poluvpoinoç e[cei klhi`daç ajmoibouvç.
15 th;n dh; parfavmenai kou`rai malakoi`çi lovgoiçin
pei`çan ejpifradevwç, w{ç çfin balanwto;n ojch`a
ajpterevwç w[çeie pulevwn a[po: tai; de; qurevtrwn
cavçmΔ ajcane;ç poivhçan ajnaptavmenai polucavlkouç
a[xonaç ejn çuvrigxin ajmoibado;n eijlivxaçai
20 govmfoiç kai; perovnhiçin ajrhrovte: th`i rJa diΔ aujtevwn
ijqu;ç e[con kou`rai katΔ ajmaxito;n a{rma kai; i{ppouç.
kaiv me qea; provfrwn uJpedevxato, cei`ra de; ceiriv
dexiterh;n e{len, w|de dΔ e[poç favto kaiv me proçhuvda:
w\ kou`rΔ ajqanavthiçi çunhvoroç hJniovcoiçin
25 i{ppoiç qΔ ai[ çe fevrouçin iJkavnwn hJmevteron dw`,
cai`rΔ, ejpei; ou[ti çe moi`ra kakh; prou[pempe neveçqai
thvndΔ oJdovn (h\ ga;r ajpΔ ajnqrwvpwn ejkto;ç pavtou ejçtivn),
ajlla; Qevmiç te Divkh te. crew; dev çe pavnta puqevçqai
hjme;n ΔAlhqeivhç eujkuklevoç ajtreke;ç h\tor
30 hjde; brotw`n dovxaç, th`içΔ oujk e[ni pivçtiç ajlhqhvç.
ajllΔ e[mphç kai; tau`ta maqhvçeai, wJç ta; dokeu`nta
crh`n dokivmwç ei\nai dia; panto;ç pavnta per o[nta.
Le cavalle che mi portano fin dove l’animo arrivi
mi scortavano dopo avermi spinto sulla via ricca di canti
della dea che porta l’uomo sapiente per tutte le città:
lì ero portato, ché lì mi portavano cavalle sagaci
5 tirando il carro: fanciulle mostravano la via.
Sprigionava nei mozzi sibilo di zufolo l’asse
infiammato (era premuto dai due cerchi su ambo i lati

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V. Il ritorno 149

rotanti) man mano che si affrettavano a scortarmi


le figlie del Sole, lasciata la casa della Notte,
10 verso la luce, dopo aver rimosso con le mani il velo dal capo.
Lì i battenti dei percorsi di Notte e Giorno:
un architrave li unisce e soglia di pietra.
9
Alti fino al cielo, sono a contatto di un grande telaio.
10
Dikê punitrice ne tiene le chiavi alterne.
15 Accortamente le fanciulle la persuasero, parlando
con delicate parole, a togliere senza indugio per esse
il paletto della serratura, e oltre i battenti la porta,
aprendosi, spalancò baratro immenso ruotando
con moto alterno, nelle piastre, i cardini di bronzo
20 compaginati con chiodi e zanche. Per di lì le fanciulle
spingevano dritto lungo la carraia carro e cavalle.
Benevola mi accolse la dea, mi prese con la destra
la destra e così mi parlava apostrofandomi:
«O giovane che compagno di aurighe immortali
25 e di cavalle che ti portano arrivi alla nostra casa,
salute a te: non sorte maligna ti scortava a venire
per questa via (è lontana dalla pista degli uomini),
bensì Themis e Dikê. Ma bisogna che tutto tu apprenda:
il cuore genuino di Realtà rotonda e le illusioni
30 dei mortali, a cui manca prova di realtà.
Ma anche questo tu imparerai, come le cose che appaiono
11
dovrebbero, tutte dappertutto, essere plausibilmente esistenti.

9. Probabilmente plh`ntai non si connette, come in genere si intende,


a pivmplhmi «riempire» (che appare costantemente costruito con il geni-
tivo), bensì a pivlnamai «avvicinarsi» (Passa 2009: 100–4).
10. Per poluvpoinoç riferito a Dike già Diels 1897: 11 richiamava la
perfetta coincidenza, anche nella collocazione all’interno dell’esametro,
con OF 233 F tw`i de; Divkh poluvpoinoç ejfevçpeto pa`çin ajrwgovç,
inserito da Bernabé nei brani derivanti dalla teogonia orfica detta ‘rap-
sodica’. Le chiavi di Dike sono ‘alterne’ perché il suo compito consiste
«in opening the gate only to allow the sun to pass (...) and shutting it
afterwards, taking care for the regular alternation of Day and Night»
(Robbiano 2005 : 184).
11. Per l’interpretazione dei vv. 31–2 e per la continuazione del proemio
in B 7.2–6a vedi II §§ 2–3.

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150 Il migliore dei mondi impossibili

4. L’itinerario

Mourelatos 1970: 14–16 così riassumeva la difficoltà di


ricostruire un itinerario coerente del viaggio narrato da
Parmenide nel proemio del suo poema: «B 1 is intrinsi-
cally vague» e somiglia, per il suo «abbreviated–reference
style», a passi omerici che compendiano episodi lasciati ai
margini della trama portante dei poemi.
Così B 1 potrebbe essere letto sia come un itinerario
verso il cielo sia come una catabasi.
A favore di un itinerario verso il cielo sarebbero:

— L’ovvia associazione delle Eliadi, le figlie del Sole,


con un viaggio nel regno della luce.
— Se B 1.9 «lasciata» si riferisce all’intero complesso di
Eliadi, kouros e cavalle, allora «verso la luce» del v.
10 definisce la direzione generale del viaggio.
— La porta del Giorno e della Notte potrebbe essere la
porta del cielo di Hom. Il. 5.749 («la porta del cielo
custodita dalle Horai si aprì da sé cigolando»).
— La porta è detta essere alta fino al cielo (v. 13).
— Un viaggio verso il regno della luce è un simbolo
largamente diffuso per l’esperienza di illuminazione
intellettuale che il poeta racconta.

D’altra parte il luogo della rivelazione potrebbe es-


sere l’oltretomba (per questa opzione vedi Mansfeld
1964: 233–247, Burkert 1969, Sassi 1988b, Palmer 2009:
54–8):

— I «sentieri della Notte e del Giorno» sono situati,


secondo Hom. Od. 10.86, non lungi dall’ingresso
dell’oltretomba e in Hes. Th. 746 ss. si parla di un
luogo infero dove «Notte e Giorno si avvicinano e
si salutano sulla soglia di bronzo».

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V. Il ritorno 151

— Il baratro immenso del v. 18 richiama il grande ba-


ratro del Tartaro di Hes. Th. 740.
— Al v. 26 la dea rassicura il suo ospite dicendogli che
non è stato condotto da «sorte maligna» (cioè non
è morto, cf. Hom. Il. 13.602).
— Al v. 14 Dikê punitrice tiene le chiavi della retribu-
zione come una divinità infera.

Essendo la topografia del viaggio irrimediabilmente


confusa, non saremmo in grado, per Mourelatos, di rico-
struire un itinerario coerente, anzi la confusione potreb-
be essere intenzionale. Né, analogamente, saremmo in
grado di identificare la dea che il narratore incontra e che
appare detentrice di una verità totale. Nume polimorfo,
questa dea si confonderebbe con Dikê (B 1.14 e 28, B 8.14),
Anankê (B 8.30 e B 10.6), Moira (B 1.26 12
e B 8.37), Themis
(B 1.28) e forse anche Peithô (B 2.4).
Non sono mancati, nonostante le aporie messe in luce
da Mourelatos, diversi tentativi di ricostruire il viaggio del
kouros nei suoi singoli momenti e nelle sue stazioni, e fra
questi appare particolarmente promettente per lucidità
intellettuale quello di Cerri 1999: 96–110, che ha disegna-
to una mappa puntuale del percorso e ha proposto una
precisa messa a fuoco dei suoi attori.

12. Mourelatos 1970: 26: «here is no indication that these are distinct
figures, and it is most natural to assume that we are dealing with four or
five aspects or hypostases of one and same deity». La tesi della polimorfia
divina ha una lunga storia e dopo Mourelatos è stata riproposta da Ruggiu
in Reale–Ruggiu 1991: 165–168 e 182–192, ma contestata da Pugliese Car-
ratelli 1990: 422 osservando che «nel poema parmenideo le figure divine
sono distinte, e operano distintamente» (tuttavia l’identificazione della
qeav del v. 22 da parte del medesimo studioso con Mnemosyne si basa es-
senzialmente sulla ricognizione di tratti orfici in Parmenide e sul ruolo di
Mnemosyne nelle lamine di Hipponion, Petelia, Farsalo ed Entella, non su
specifici elementi interni).

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152 Il migliore dei mondi impossibili

Poiché il portale descritto ai vv. 11–4 sarebbe la Porta


del Giorno e della Notte, detta anche Porta del Sole e
identificabile con quella Porta dell’Ade che si elevava
all’estremo occidente poggiando sulla superficie terre-
stre, Cerri osserva che in quanto guidato dalle Eliadi da
oriente a occidente lungo la traiettoria solare il carro su
cui viaggia il narratore si assimila al carro del Sole, ma in
quanto veicolo adatto a raggiungere l’aldilà e a varcarne
la soglia si assimila al Carro di Ade.
Mentre le cavalle del suo ingegno spingevano il poeta
a proseguire sulla strada divina che attraverso l’esperienza
conduce verso la verità ultima le Eliadi, uscite dalla Por-
ta del Giorno e della Notte e prelevato il kouros all’alba,
avrebbero guidato il carro di nuovo verso la stessa porta,
ma non tornando indietro bensì proseguendo sulla traiet-
toria del sole verso l’estremo occidente. L’ora dell’arrivo
sarebbe pertanto il tramonto e la méta l’Ade lungo un
percorso celeste da est a ovest.
La dea rivelatrice del vero dovrebbe essere tenuta se-
parata da daimôn del v. 3 (da intendere come divinità in
senso generico: «strada divina») e andrebbe identificata con
Persefone (una assimilazione, questa, indipendentemente
proposta da Kingsley 1999), la quale insieme con la madre
Demetra era oggetto di culto a Velia (Cerri 1999: 108–9
ricorda anche il ritrovamento a Casal Velino di un blocco
di pietra squadrato recante l’iscrizione, pubblicata nel
1937, «di Persefone, di Hades») e la cui dimora è situata,
secondo Hes. Th. 767 ss., poco oltre la Porta del Giorno
e della Notte.
C’è però da osservare che nel proemio non troviamo
alcuna indicazione relativa a un ‘prelevamento’ del gio-
vane ad opera delle Figlie del Sole né a un suo viaggio da
est verso ovest fino alla porta del Giorno e della Notte. Si
dice solo che le Eliadi si sono affrettate a scortarlo verso
la luce dopo aver abbandonato la casa della Notte; poi,

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V. Il ritorno 153

attraverso la mediazione di un entha «dove» / «lì» (v. 11)


che non può che riferirsi
13
a «casa della Notte» e, più gene-
ricamente, all’Ade, si apre una descrizione della porta e
della sua soglia di pietra e del ruolo di guardiana esercitato
da Dikê, e a questa descrizione si aggancia, attraverso tên
de «e lei» riferito a Dikê a principio di v. 15, il racconto
della discesa delle Eliadi al di là del portale e dell’incontro
del kouros con la dea.
Questo kouros compare al cospetto della dea che gli
impartisce i suoi insegnamenti già compagno (v. 24) di
aurighe immortali, e dunque è con l’ausilio di queste fan-
ciulle immortali che egli è potuto giungere alla casa della
Notte, ma sul tragitto di andata il testo tace: l’Io narrante
è arrivato misteriosamente al portale sorvegliato da Dikê
analogamente a come l’anima di Er, dopo essere uscita dal
suo corpo, si mette in viaggio insieme con altre anime fin-
ché giunge a un luogo meraviglioso (Plat. Rsp. 614b–c).
Né troviamo alcun indizio che il racconto di v. 15 ss., a
partire cioè dall’incontro delle Eliadi con Dikê , rifletta una
vicenda posteriore nel tempo rispetto a quella delineata a
principio del proemio.
In effetti, benché Parmenide rinunci alla pienezza di
dettagli tipica del racconto epico, se il raccordo fra «la casa
della Notte» del v 9 e «lì» del v. 11 ci indica che l’azione di v.
15 ss. descrive quanto è accaduto nel regno della Notte, la
sequenza «avendo lasciato la casa della Notte verso la luce»
di v. 9–10 indica, dopo l’assimilazione dell’Io narrante a un
«uomo sapiente» (v. 3), che le Eliadi lo hanno accompagna-

13. Cerri 1999: 174 osserva giustamente che «questo avverbio locativo,
quando è impiegato in contesti relativi all’Ade, era andato acquisendo
una pregnanza particolare, una connotazione aggiuntiva: lì, nell’Ade, al
centro dell’universo, nel regno della morte ma anche della vita, perché
luogo–spazio in cui hanno inizio tutte le cose» e rimanda, in particolare, ai
sette casi di e[nqa a principio di verso che ricorrono in Hes. Th. 729–811.

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154 Il migliore dei mondi impossibili

to fuori del mondo infero indicandogli la via verso la luce


dopo che egli ha ricevuto la sua investitura iniziatica.
Certo «l’uomo sapiente» denota qualunque sapiente,
non esclusivamente il narratore, ma l’espressione, collo-
cata entro una frase relativa dipendente da una temporale
che verte sull’immissione dell’Io narrante sulla via ricca
di canti e seguito da una notazione in prima persona sin-
golare, comporta che il narratore sia ormai egli stesso un
«uomo che sa».
Burkert 1969: 7–9 ha svincolato il movimento verso la
luce di cavalle ed Eliadi da quello del narratore riferendo
«lasciata la casa della Notte verso la luce» esclusivamente
alle Eliadi e al loro veicolo, non invece al sapiente che esse
trasportano, e presumendo che «verso la luce» a principio
di v. 10 si colleghi solo a «lasciata la casa della Notte»,
non invece a «man mano che si affrettavano a scortarmi»
del v.8, ma non si può separare la figura del narratore da
icone, quali il carro e le cavalle, che al narratore stesso
si collegano strettamente trattandosi del carro della sa-
pienza e dell’arte (per l’esemplificazione del motivo vedi
D’Alessio 1995, Cerri 1999: 96–98, West 2007: 41–3) e di 14
cavalle definite «accorte», «sagaci» (polyphrastoi) al v. 4:
non certo figure, come voleva Sesto Empirico (Adv. math.
7. 112), delle pulsioni irrazionali dell’anima, ma «‘cavalle
del pensiero’ o almeno dello slancio 15della mente verso il
proprio scopo» (Cerri 1999: 166–67).

14. Di poluvfraçtoç non abbiamo altre attestazioni prima di Opp.


Cyn. 4. 6 e di Nonn. Dion. 4. 275, ma probabilmente giocava nella memoria
di Parmenide, anche per la collocazione subito dopo la cesura trocaica,
l’eco dell’omerico poluvfrona (cf. Il. 18.108 kai; covloç, o{ç tΔ ejfevhke
poluvfronav per caleph`nai e 21.367, Od. 1.83 = 14.424 etc.), né è da tra-
scurare, con Cerri 1999: 170, il confronto con polufradhvç di Hes. Th. 494
e polufradevwn di Hes. fr. 310.1 M.–W.
15. Ciò non significa che Parmenide costruisse una finzione sganciata
da effettive esperienze estatiche vissute nell’ambito dell’Asclepieo di Ve-

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V. Il ritorno 155

Queste cavalle hanno un raggio d’azione regolato


dall’impulso emotivo e intellettuale (thymos) di colui
che esse trasportano (v. 1) in un modo nuovo rispetto
alla tradizione epica anche se la sequenza incipitaria «le
cavalle che mi portano» a questa tradizione palesemente
rimanda (cf. Hom. Il. 2. 770: «i cavalli che portavano il
perfetto Pelide») e la frase hoson t’ epi thymos hikanoi «fin
dove l’animo giunga» ci richiama da vicino hoppêi hoi noos
ornutai «come a lui balza il pensiero» riferito all’aedo Fe-
mio in Hom. Od. 1.347 e hoppêi thymos epotrynêisin aeidein
«come l’animo inciti a cantare» relativo a un altro aedo,
Demodoco, in Od. 8.45.
E con l’immagine delle cavalle che hanno scortato il
kouros sulla via della dea abbiamo due ulteriori contatti
con la tradizione epica: la via è detta polyphêmos, e cioè
ricca di suoni e di voci, non diversamente da come è
detta polyphêmos
16
una piazza in Hom. Od. 2.150 agorên
polyphêmon, mentre l’immissione del giovane sulla
via della sapienza (epei m’ es hodon bêsan ... daimonos) ci
richiama il racconto dell’iniziazione poetica di Esiodo in
Op. 658–59:
to;n me;n ejgw; MouvçhiçΔ ÔElikwniavdeççΔ ajnevqhka
e[nqa me to; prw`ton ligurh`ç ejpevbhçan ajoidh`ç.
quello (il tripode) io lo dedicai alle Muse eliconie là dove
per la prima volta mi avevano immesso sul canto sonoro.

La strada ricca di canti su cui il narratore è stato immes-


so dalle cavalle che obbediscono al suo animo è dunque

lia (per Tarán 1965: 31 l’esperienza raccontata nel proemio sarebbe invece
«only a literary device»), ma che le cavalle sono figure che traducono
all’interno di una condizione visionaria lo slancio interiore dell’Io nar-
rante.
16. Cf. anche Pind. Isthm. 8. 58 qrh`novn te poluvfamon e vedi Burkert
1969: 4, Pfeiffer 1975: 33–35, Cerri 1999: 167.

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156 Il migliore dei mondi impossibili

la via poetica che egli ha iniziato a percorrere e che gli


permette di comunicare ad altri, a un uditorio di Velia o
a pubblici di altre comunità, la rivelazione ricevuta dalla
dea nello spazio infero.
Nel proemio il tempo del racconto scorre a ritroso: il
ritorno verso la luce precede la catabasi nel regno della
Notte, che pure precede il ritorno in termini di tempo
narrato. Quando riemerge alla luce, l’Io narrante non è
più un giovane bisognoso di istruzione iniziatica, ma un
uomo sapiente in grado di essere portato tanto lontano
quanto il suo animo si spinga lungo la via del canto e della
sapienza.
Come infatti potrebbe essere definito «uomo sapiente»,
e come potrebbe percorrere il mondo abitato sul carro
volante della poesia, prima di essere stato ammaestrato
dalla dea infera sul cuore genuino di Realtà e sulle doxai
dei mortali (vv. 28–32)?
Non che l’aporia conseguente all’accettazione di una
simile prospettiva non sia stata percepita da molti, ma
si è cercato di eluderla con ipotesi artificiose, e così, se
Mansfeld 1964: 227–28 riferiva correttamente la relativa
del v. 3 alla prospettiva del presente (al comportamento
di Parmenide dopo il suo ritorno dall’Ade) a costo però
di separare questa prospettiva attuale dal contesto nar-
rativo in cui appare inserita, Ruggiu in Reale–Ruggiu
1991: 177–78 ha ipotizzato una «circolarità tra il sapere
che deve essere in qualche modo già posseduto per
poter immettersi nella via e percorrerla» e «il 17
sapere
che costituisce il risultato finale del percorso» e Cerri
1999: 169–70 ha osservato che «la scoperta della verità
è bensì frutto di una rivelazione, di un’illuminazione

17. D’altra parte, in contrasto con questa pretesa ‘circolarità’, lo stesso


Ruggiu parla giustamente altrove, in riferimento ai vv. 9–10, di un «ritorno
nel mondo della luce» (Reale–Ruggiu 1991: 181–82).

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V. Il ritorno 157

quasi divina, ma ad essa può accedere soltanto chi vi è


predisposto grazie a un vasto patrimonio di conoscenze
già acquisite» (e vedi anche Coxon 1986: 158, Gallop
1991: 30).
D’altra parte lo stesso Cerri ha richiamato, come ter-
mine di confronto per questa scoperta del vero, l’intel-
lezione–folgorazione illustrata da Platone nella Lettera 7
(341c–d, 343e, 344b–c), e pertanto un’esperienza immedia-
ta e totalizzante ben diversa dalla lenta accumulazione di
un composito patrimonio di conoscenze, e Burkert 1969:
7 ha osservato che «l’uomo sapiente» (eidôta phôta) del
v. 3, privo com’è di una specifica competenza cognitiva,
prospetta, anche per il confronto con’Eur.’ Rh. 973, An-
doc. Myst. 30, Ar. Nu. 1241, la condizione del miste che
ha superato la prova di iniziazione.
Il ‘sapiente’, inoltre, dopo essere stato immesso da
cavalle sospinte dal suo animo su una via ricca di canti,
viene portato kata pant’ astea «per tutte le città». Se infatti
è stato dimostrato che la lezione astê, attribuita un tem-
po al codice N di Sesto Empirico (1.111) e poi accolta da 18
Diels–Kranz, è solo il risultato di un errore di lettura,
essa (o piuttosto astea con sinizesi di –ea) può tuttora
rappresentare, in qualità di emendamento, una soluzione
plausibile, accolta da Mourelatos 1970: 22 n. 31 e Lesher
1994, e può contare sul confronto sia con una serie di passi
dell’Odissea omerica a partire da 1.3

18. In effetti la lezione di N, che è pavntΔ a[th, non si differenzia se


non per minuzie grafiche dalle lezioni del resto della tradizione di Sesto,
ossia pavntajth L, pavnta th` E e altri manoscritti: tutte rimandano a
PANTATH (Coxon 1968). Su questa base Cerri 1997 (e vedi anche Cerri
1999: 169) ha proposto pavnqΔ a{ tΔ e[hi «tutte le cose che siano», con
un congiuntivo che troverebbe un precedente nella dichiarazione delle
Sirene in Hom. Od. 12.191: i[dmen dΔ o{çça gevnhtai ejpi; cqoni; pou-
luboteivrhi.

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158 Il migliore dei mondi impossibili

pollw`n dΔ ajnqrwvpwn i[den a[çtea kai; novon e[gnw


19
e di molti uomini vide le città e scrutò la mente

sia con il proemio delle Purificazioni di Empedocle (31


B 112.7–8):
ãpa`çi de;Ã toi`ç a]n i{kwmai ejç a[çtea thleqavonta,
ajndravçin hjde; gunaixiv, çebivzomai
<e> io sono onorato da <tutti> coloro, uomini e donne,
nelle cui prospere città mi accada di arrivare.

e, come notato da Bowra 1937: 109, anche con una


sequenza (r. 2) della lamina d’oro di Thurii OF 492 F:
{ lie pu`r dh; pavntΔ a[çth
H
20
o Sole che il fuoco per tutte le città ...».

Ma c’è un altro, sia pur tardo, parallelo che coinvolge


anch’esso il carro. Nell’inno a Iside (nr. 5 Heitsch) di Me-
somede di Creta, che fu liberto dell’imperatore Adriano,

19. E cf. anche Od. 9.127–28, 15.82 e 491–92, 16.63, 19.170 e 23.267–68,
Hymn. Ap. 174–75 hJmei`ç dΔ uJmevteron klevoç oi[çomen o{ççon ejpΔ aiΔ ~an ⁄
ajnqrwvpwn çtrefovmeçqa povleiç eu\ naietawvçaç, Herodot. 1.5.3 oJmoivwç
çmikra; kai; megavla a[çtea ajnqrwvpwn ejpexiwvn. Specificamente co-
mune a 28 B 1.1–2 e Od. 1.1–3 è però la presenza di ejpeiv nella stessa sede al
secondo verso dopo un predicato verbale in enjambement (rispettivamente
pevmpon e plavgcqh). D’altra parte, come notava Havelock 1958: 136–37, le
‘città’ a cui fa riferimento il proemio dell’Odissea sono quelle che, secondo
la profezia di Tiresia (11.119 ss., cf. 23.248 ss.), Odisseo dovrà affrontare dopo
il suo ritorno a Itaca.
20. Anche se il testo di questa lamina del Timpone grande di Thurii
che, ripiegata nove volte, fungeva da involucro di un’altra lamina (OF 487
F) è estremamente problematico, la sequenza in questione, benché non
accolta del tutto da Bernabé (che stampa }Hlie, pu`r dh; pavntaÇTH),
è fra le meno problematiche del pezzo ed è stata recepita, dopo Diels e
Zuntz, anche da Pugliese Carratelli 2005.

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V. Il ritorno 159

la dea egizia è invocata, oltre che da molte altre entità,


dagli astea diphrêlata (v.17), cioè da tutte le città attraver-
so le quali l’eroe eleusino Trittolemo è giunto sul carro
alato di Demetra portando i doni dell’agricoltura (i vv.
9–17 dell’inno alludono al culto di 21Demetra e Persefone
rinnovato nell’anaktoron di Eleusi).
Un volo attraverso tutte le città sul carro della sapien-
22
za non può non richiamarci anche i viaggi di personaggi
in grado di giungere in condizione estatica fino a contrade
remote per poi eventualmente far ritorno in patria (su
queste e simili figure vedi Diels 1897: 14–5, Guthrie 1979:
10–3, Ustinova 2009: 199–201), e in particolare:

— Aristea di Proconneso, giunto in forma di corvo


fra gli Issedoni e ricomparso sette anni dopo la sua
morte, che compose un poema epico e poi si eclissò
una seconda volta per riapparire 240 anni dopo a
Metaponto ordinando 23
di erigere un altare ad Apollo
(Herodot. 4.13–15);
— Abaris iperboreo, anch’egli sacerdote di Apollo, che
viaggiò senza prendere cibo per tutta la terra traspor-
tato dalla freccia di Apollo (o portandola con sé, se-
condo la versione razionalizzante di Herodot. 4.36);
— Etalide, la cui anima per dono di Hermes poteva
viaggiare tanto negli inferi quanto sulla terra (Phe-
recyd. 7 B 8 D.-K.).

21. Vedi Burkert 1989: 185 n. 23 e Merkelbach 1995: 227–29 anche per la
conservazione di a[çtea, mutato da Wilamowitz (seguito da Heitsch) in
a[çtra.
22. Che il carro delle Eliadi sia un carro volante è già implicito nel fatto
che la presenza stessa delle Eliadi rimanda al carro del Sole (o di Aurora),
ma è anche presupposto dalla menzione, al v. 18, dell’enorme abisso che si
spalanca oltre la porta sorvegliata da Dike.
23. Per il confronto fra la versione di Erodoto e quella di altre fonti vedi
West 2004.

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160 Il migliore dei mondi impossibili

É dunque evidente che un tale compesso di motivi — le


cavalle sagaci, la via ricca di canti, la sapienza del miste,
l’ascesa alla luce dalla casa della Notte, il viaggio per
tutte le città — non può accordarsi con una condizione
anteriore all’incontro del giovane con la dea infera e alla
rivelazione della vera realtà.
Solo con l’entha «lì» del v. 11 (un avverbio spesso usa-
to da24Pindaro per marcare la transizione dall’attualità al
mito ) si avvia il resoconto oltremondano di colui che,
nell’attacco del proemio, si rappresenta invece, come
Dante, in figura di reduce (Par. 1.4–6):
nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende.

Già quello che è stato largamente riconosciuto come


il modello immediato del racconto parmenideo (la rievo-
cazione da parte di Esiodo, nel proemio della Teogonia,
della investitura poetica ricevuta dalle Muse eliconie) si
articola secondo scansioni in parte analoghe: dapprima
il richiamo al fatto che le Muse gli insegnarono il canto
mentre pascolava le pecore alle pendici del divino Elicone
(vv. 22–3), poi il primo contatto con le dee nella forma
della loro apostrofe ai pastori selvatici, il dono del bastone
di rapsodo tratto da un ramo d’alloro, l’insufflamento di
una voce divina e l’indottrinamento su specifiche tema-
tiche.
Anche in Parmenide è in primo piano, nel tempo del
racconto, il risultato dell’incontro con la divinità iniziatri-

24. Cf. Ol. 3.26, 6.35, 7.34, Py. 4.4 e Pae. 12.8. Ma è da richiamare anche
l’e[nqa che al v. 4 della lamina di Hipponion (OF 474 F) introduce la vi-
sione delle anime dei defunti che si refrigerano alla sorgente del cipresso
bianco.

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V. Il ritorno 161

ce: ormai il giovane iniziando è un sapiente e la via che


percorre è ricca di voci perché ha incontrato una dea che
gli ha comunicato il suo universale sapere.
La stessa anafora idmen ... idmen «sappiamo ... sappia-
mo» di Hes. Th. 27–8 sembra riecheggiata in êmen ... êde
«sia ... sia» nel discorso rivolto dalla dea al kouros (vv.
29–30), tanto più che si ha una palese corrispondenza (ma
in ordine inverso) fra «il cuore di Realtà» del v. 29 e le
«cose vere» di Hes. Th. 28 («e sappiamo, quando vogliamo,
raccontare cose vere») e fra le «illusioni dei mortali» del v.
30 e le «finzioni» (pseudea) di Hes. Th. 27: «sappiamo dire
finzioni simili a cose vere» (Tulli 2000: 76).
Se in Parmenide la dea si rivolge al giovane con grande
rispetto, e dunque ben diversamente dal modo sprezzante
con cui le Muse si rivolgevano a Esiodo, questo non acca-
de perchè l’Io narrante sia già un ‘sapiente’ al momento
dell’incontro con la dea, ma perché costei riconosce in lui
un compagno di cavalle
25
e di aurighe immortali scortato
da Themis e Dikê. Queste figure, anche se personificano
requisiti di pietas e di rettitudine essenziali per accedere
alla conoscenza, non definiscono ancora il profilo di un
‘sapiente’.
Non a caso la conoscenza del cuore di Realtà come delle
doxai umane è posta dalla dea nella prospettiva del dove-
re e del futuro (cf. v. 28 chreô ... se ... pythesthai «bisogna
che tu apprenda» e v. 31 chrên «bisognerebbe»): un chiaro
segnale che per lei il visitatore non è un sapiente ma solo
un virtuoso iniziando, un giovane apprendista (ô koure «o
giovane» al v. 24) simile a Pistetero che in Aristoph. Av.
977–78 viene chiamato «esimio giovane» (thespie koure)
dall’interprete di oracoli (Cerri 1999: 182).

25. Diels–Kranz stampano i due nomi con la lettera iniziale minuscola,


ma l’associazione con prou[pempe 26 (cf. v. 2 e 8 e B 12.5) suggerisce due
personificazioni.

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162 Il migliore dei mondi impossibili

Empedocle poi, a principio delle Purificazioni (31 26


B
112 D.–K.), dapprima dichiara ai philoi di Agrigento di
aggirarsi fra tutti come un dio onorato da coloro nelle cui
prospere città gli accadesse di giungere e solo più oltre (31
B 115.13–4) rivelava la sua condizione di daimôn errante
(e cf. anche 31 B 117 e B 120).
Nella prima parte del proemio parmenideo l’intreccio
fra i presenti del v. 1 e del v. 3 e gli imperfetti dei vv. 2, 4,
5, 6 e 7 sembra dunque marcare la continuità fra il ritorno
dall’oltretomba e il presente (come notava Snell 1963: 204
n. 2, «gli imperfetti ... accanto al presenti ... significano:
esse (ed io) lo facevano e continuano a farlo»), e questo
anche in accordo con il valore che il nesso del v. 10 es
phaos «verso la luce» era solito assumere in relazione a
un riemergere dal mondo infero (cf. Hom. h.Cer. 337–38,
Theogn. 711–12, Aesch. Pe. 630 e vedi Cerri 1999: 173).
Allora il racconto che inizia al v. 15, preceduto dalla
descrizione del portale di Giorno e Notte, viene a prospet-
tarsi come premessa di un tale nostos e non a caso si apre
con il primo aoristo che (a parte bêsan «fecero andare»,
«spinsero» al v. 2, posto però all’interno di una proposi-
zione subordinata) compare nel proemio, e cioè il peisan
«persuasero» del v. 16, al quale tengono dietro gli altri
aoristi dei vv. 18 (poiêsan), 22 (hypedexato), 23 (helen).
Ha sorpreso l’assenza nel proemio parmenideo non
solo di un’invocazione iniziale alle Muse o ad altra divi-
nità ma addirittura di qualsivoglia apostrofe sul tipo del
philoi di Empedocle: il racconto comincia in medias res

26. Non mi sembra condivisibile l’identificazione di questi f ivloi con


gli dèi protettori di Agrigento sostenuta da Stehle 2005. Si tratterà piut-
tosto di un determinato gruppo d’ascolto («conceivably a Pythagorean
hetaireia» secondo Kirk–Raven–Schofield 1983: 313), e per il tipo di apos-
trofe cf. Pind. Py. 11.38 (con la nota di P. Bernardini in Gentili et al. 1995:
659: «l’apostrofe è rivolta a Trasideo e ai suoi invitati»).

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V. Il ritorno 163

mostrando il nuovo sapiente mentre solca la via verso la


luce sul carro delle Eliadi (di inizio del poema deve infatti
trattarsi se Sext. Adv. math. 7.111 introduce la citazione
di 28 B 1.1–30 con «cominciando il poema Della natura
scrive così»).
Un tale tipo di attacco non ha riscontro nell’epica ma
non manca di paralleli nei resoconti dei messaggeri in
tragedia (spesso avviati da êkô «sono arrivato») e nelle
parodoi anapestiche dei Persiani e dell’Agamennone di
Eschilo dove, partendo dall’indicazione dello spazio o del
tempo presenti (Pe. 1–2, Ag. 40–1), si risale alla radice della
situazione attuale.
Infine, solo in questa prospettiva la descrizione, a vv.
6–8, del sibilo di zufolo emesso dall’asse infiammato
dalla pressione sui mozzi dei cerchi rotanti acquista
piena funzionalità quale figura della difficoltà e della
fatica di un’ascesa dallo spazio infero che, com’è noto,
è tanto ardua quanto agevole è la discesa ad esso (sul
motivo cf. Hes. Th. 770 ss., Aesch. Pe. 690 ss., Theocr.
12.19 e vedi West 1966: 370 e Ruggiu in Reale–Ruggiu
1991: 181).

5. La dea del v. 3
27
L’appartenenza alla dea della via su cui il ‘sapiente’
procede viene sottolineata al v. 3 da un enjambement en-
fatizzato dalla distanza fra «via» e daimonos. Segue la frase

27. É stata in genere riconosciuta in tempi recenti l’arbitrarietà della


correzione di daivmonoç in daivmoneç, proposta da Stein 1867 e accolta da
Diels–Kranz. Per il nesso oJdo;n ... ⁄ daivmonoç cf. B 2.4 Peiqou`ç ... kev-
leuqoç, Hom. Od. 13.112 ajqanavtwn oJdovç, Pind. Ol. 2.77 Dio;ç oJdovn e
Dith. 4.18 oJdªo;ºç≥≥ ajqa≥navtwªn e vedi D’Alessio 1995: 165 n. 44, Cerri 1999:
168, Lavecchia 2000: 203–4.

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164 Il migliore dei mondi impossibili

relativa «che porta l’uomo sapiente per tutte le città» a


proposito della28quale si è discusso se si agganci a «la via
o a «della dea».
D’altra parte la struttura rappresentata da

(a) nome in principio di verso di forma dattilica o spon-


daica,
(b)pronome relativo,
(c) definizione del personaggio fino a colmare la misura
del verso

era uno schema diffuso in Omero e in Esiodo (cf. ad es.


Il. 6. 425 e Hes. Th. 372) che ricompare anche in Emped.
31 B 6.3. È vero che «la via che porta» è un’espressione
legittima, equivalente a hodos leôphoros «via maestra» (cf.
Hom. Il. 15. 682), ma il ritmo del verso porta a interpre-
tare la frase «che porta l’uomo sapiente per tutte le città»
come una perifrasi che sollecita l’identificazione dell’entità
divina da parte dell’uditore, e pertanto questa daimôn non
può essere né la divinità in generale né Dikê del v. 14 né
la dea ricordata al v. 22.
In più, secondo una tendenza tipicamente epica alla
produzione di cola in parallelo, la struttura del v. 3 è spe-
culare (anche per la dimensione del presente) a quella
del v. 1.
Ma questa dea, se porta per tutte le città sopra un carro
guidato dalle figlie del Sole un uomo sapiente lungo un
tragitto che dalla casa della Notte conduce verso la luce,
deve essere un nume femminile della luce, e questo ci

28. A favore dell’aggancio a oJdovn era evidentemente Sesto Empirico (Adv.


math. 7. 112) quando parafrasava i vv. 2–3 con kata; de; th;n poluvfhmon oJdo;n
tou` daivmonoç poreuveçqai th;n kata; to;n f ilovçofon lovgon qewrivan.
Fra i moderni lo hanno seguito fra gli altri Burkert 1969: 4, Reale in Reale–
Ruggiu 1991: 85, Cerri 1999: 169.

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V. Il ritorno 165

rimanda a Hêmerê, la figlia di Notte che illumina la terra


con i suoi candidi destrieri (Aesch. Pe. 386) e che viene
nominata subito dopo, 29sia pure nella forma di genere
neutro Êmatos, al v. 11, e ad Êôs / Aurora (così Frère
1985. 467–68, che però identifica con Aurora anche la dea
del v. 22) soprattutto se si tiene conto del verso formulare
(Hom. Il. 8. 1 = 24. 695):
jHw;ç me;n krokovpeploç ejkivdnato pa`çan ejpΔ ai\an
30
Aurora dal peplo di croco si spandeva su tutta la terra.

e di quel momento dell’Odissea (Od. 23.241–46) in cui


si racconta che la luce di Aurora avrebbe sorpreso ancora
piangenti Odisseo e Penelope se Atena non avesse pro-
lungato la notte sull’estremo occidente trattenendo la
dea sopra l’Oceano senza lasciarle aggiogare i cavalli che,
trasportandola, portano luce agli uomini:
kaiv nuv kΔ ojduromevnoiçi favnh rJododavktuloç ΔHwvç,
eij mh; a[rΔ a[llΔ ejnovhçe qea; glaukw`piç ΔAqhvnh.
nuvkta me;n ejn peravthi dolich;n çcevqen, ΔHw` dΔ au\te
rJuvçatΔ ejpΔ ΔWkeanw`i cruçovqronon oujdΔ e[a i{ppouç
245 zeuvgnuçqΔ wjkuvpodaç favoç ajnqrwvpoiçi fevrontaç,
Lavmpon kai; FaevqonqΔ, oi{ tΔ ΔHw` pw`loi a[gouçi.
E certo piangenti li avrebbe sorpresi Aurora dalle dita di rosa
se altro non avesse meditato Atena dagli occhi azzurri:
prolungò la notte sull’estremo occidente, trattenne Aurora
dall’aureo seggio sopra l’Oceano, né lasciava che aggiogasse
245 i cavalli veloci che portano luce agli uomini.
Lampo e Faetonte, i puledri che trasportano Aurora.

29. Di Hêmerê aveva raccontato Esiodo sia in Th. 123–24 a proposito


della sua nascita da Nyx sia in Th. 748 ss. a proposito dei percorsi alterni di
Giorno e Notte.
30. Non credo che si possa distinguere recisamente fra Hêmerê e Êôs,
che personificano in larga misura la stessa funzione di portatrici di luce
diurna.

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166 Il migliore dei mondi impossibili

Abbiamo come in Parmenide i cavalli che conducono


Aurora attraverso l’etere e abbiamo un «che portano luce
agli uomini» che sembra costituire il modello espressivo
del pherei ... phôta «porta l’uomo» di B 1.3.

6. La dea del v. 22

Anche l’identità della non meglio definita dea del v. 22


è ricavabile dal contesto.
Le Eliadi, indubbiamente figure sapienziali se Pind.
Ol. 7.72–3 definisce i sette figli del Sole «eredi delle più
ingegnose scoperte» (Cerri 1999: 173), persuadono Dikê
a lasciarle transitare attraverso il portale di Giorno e Not-
te, poi attraversano un baratro immenso, infine guidano
veicolo e cavalle fino alla casa di una dea che accoglie
benevolmente il kouros congratulandosi con lui per non 31
essere venuto alla sua casa condotto da sorte maligna.
È lo sviluppo stesso del racconto a suggerire l’identifi-
cazione della dea con Notte grazie alla corrispondenza fra
«la nostra casa» di v. 25 e «la casa della Notte» di v. 9.
Adombrata da Morrison 1955: 60, questa identificazio-
ne è stata ribadita da Burkert 1969: 13 con il richiamo a
seggi oracolari di Notte a Megara (Paus. 1.40.6) e a Delfi
(Plut. Ser. num vind. 566b-c) e da West 1983: 213–14 con
il rimando al ruolo giocato da questa potenza divina nelle
teogonie orfiche (e vedi anche Palmer 2009: 58–61).
In particolare, nell’inno commentato nel papiro di
Derveni (col. 10.9–10, 11.1 e 13.3) si narrava che Notte

31. Con B 1.26 cai`rΔ, ejpei; ou[ti çe moi`ra kakh; prou[pempe


neveçqai Parmenide sembra aver variato una sequenza (Hom. Od. 4. 260
cai`rΔ, ejpei; h[dh moi kradivh tevtrapto neevçqai) nel cui ambito la
forma cai`rΔ non era però II persona dell’imperativo, bensì III singolare di
un imperfetto avente per soggetto il cuore di Elena.

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V. Il ritorno 167

vaticinò dal suo penetrale ciò che Zeus avrebbe dovuto


intraprendere per conquistare l’Olimpo (vedi Kouremenos
in KPT 2006: 183–84), e nella cosiddetta ‘teogonia rapso-
dica’ Notte, «nutrice degli dèi» (OF 112 F), regnava dopo
Phanês, mentre l’ascesa di Zeus al potere era analogamen-
te diretta da Notte, che dalla sua caverna gli consigliava
con una profezia di ingoiare Phanês (OF 240 F).
Era però nella cosiddetta ‘teogonia eudemea’ che emer-
geva il primato di Notte, forza cosmica posta a principio di
ogni cosa (Damasc. Princ. 124 = OF 20 F); e più in generale
anche Aristot. Metaph. 1071b27 fa riferimento ai ‘teologi’
che derivavano dalla Notte le prime entità divine (cf.
anche ‘Orph.’ hymn., proem. 24 e 3.1–2 e vedi Ricciardelli
2000: 227–28 e 241).
D’altra parte già Epim. OF 46 F aveva posto Notte fra i
principii primi insieme con Aêr, e da essi era nato il Tartaro,
e in Hom. Il 14.258–61 Notte, definita «soggiogatrice degli
dèi e degli uomini», suscita il timore dello stesso Zeus.
Un’importante conferma di questa identificazione
sembra venire dall’uso di thea «la dea» senza ulteriori de-
terminazioni al v. 22 se è vero che nella tradizione epica,
a parte i casi in cui thea sottolinea la natura immortale di
Thetis (Hom. Il. 1.280 e 24. 59), l’uso di thea o theoi senza
altre determinazioni è costantemente anaforico.
Se dunque nel proemio di Parmenide è Nyx l’unica divi-
nità femminile al singolare che, a parte Dikê guardiana del
portale, sia richiamata con il suo nome (v. 9 e v. 11) prima
dell’arrivo a destinazione del kouros, è appunto rispetto32a
Notte che doveva porsi come anaforico il thea del v. 22.

32. Cerri 1999: 180–182 sostiene la sua identificazione della qeav con
Persefone (proposta indipendentemente anche da Kingsley 1999: 104 ss. e
accolta da Gemelli Marciano 2008: 35–6) ricordando che «nei culti misterici
gli dei titolari venivano abitualmente chiamati oJ qeovç, hJ qeav, tw; qewv,
oiJ megavloi qeoiv etc.» e che «nelle città della Magna Grecia non è dif-

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168 Il migliore dei mondi impossibili

Particolarmente significativo appare il confronto con


un passo odissiaco (Hom. Od. 10. 308–11) che esibisce lo
stesso tipo di articolazione interna:
ejgw; dΔ ejç dwvmata Kivrkhç
h[ia, polla; dev moi kradivh povrfure kiovnti.
310 e[çthn dΔ eijni; quvrhiçi qea`ç kalliplokavmoio:
e[nqa çta;ç ejbovhça, qea; dev meu e[kluen aujdh`ç.
e verso la casa di Circe
andavo, e forte nell’andare mi batteva il cuore.
310 Sostai davanti alla porta della dea dai riccioli graziosi
e, fermatomi, chiamai con un grido, e la dea udì la mia voce.

7. Luce e tenebra

Due divinità femminili dominano dunque il proemio:


un nume della luce (Hêmerê / Aurora) che guida il sapien-
te per le città degli uomini e una dea della tenebra (Nyx)
che promette di impartire al kouros giunto al suo cospetto
una conoscenza globale del mondo.
Che queste entità divine siano considerate ben distinte
è emerso fin qui, ma dobbiamo notare anche la relazione
che strettamente le collega.
Innanzi tutto, quando ai vv. 9–12 l’Io narrante dice
di aver attraversato con le Eliadi il portale dei sentieri di
Notte e di Giorno che cosa intende?
La sequenza del v. 11

ficile imbattersi in iscrizioni dedicatorie arcaiche o tardo–arcaiche del tipo


ta`i qew`i nelle quali ‘la dea’ è senza dubbio Persefone», ma è costante in
questi casi (come anche in perifrasi come hJ ... nertevra qeovç di Soph.
OC 1548 e nuvmfhn th;n e[nerqΔ di ‘Eur.’ Rh. 963) la presenza dell’articolo
(in funzione evocativo–identificatoria).

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V. Il ritorno 169

e[nqa puvlai Nuktovç te kai; “Hmatovç eijçi keleuvqwn


lì sono i battenti dei percorsi della Notte e del Giorno

coincide tranne che nel primo metron e nella desinenza


dell’ultima parola con Hom. Od. 10.86:
ejggu;ç ga;r Nuktovç te kai; [Hmatovç eijçi kevleuqoi
ché sono vicini i percorsi di Notte e Giorno.

Qui si fa riferimento alla contrada dei Lestrigoni, col-


locata nell’estremo oriente, dove regna una ininterrotta
luminosità, anche durante la notte, che si contrappone
all’ininterrotta oscurità (Od. 11.14–24) che domina all’estre-
mo occidente nel paese dei Cimmeri (Heubeck 1983: 226),
e le keleuthoi non sono ‘vie’ o ‘’sentieri’, bensì i ‘percorsi’
o ‘itinerari’ compiuti alternativamente da Giorno e Notte
sulla medesima via non dissimili da quelli descritti, ma in
relazione all’estremo occidente, in Hes. Th. 748–57.
La relazione fra Hêmerê / Êôs e Nyx replica una concezio-
ne antichissima la cui remota origine indo–europea è ben di-
mostrata da due luoghi dei Rgveda richiamati da West 1966:
1.113.2–3 (inno all’Aurora):

La Bella, la Luminosa è venuta con la sua bianca progenie;


a lei l’Oscura ha consegnato la sua dimora. Consanguinei,
immortali, succedendosi l’un l’altro i cieli procedono cam-
biando i propri colori. Comune e senza fine è la via delle So-
relle; ammaestrate dagli dèi, esse viaggiano con vece alterna.
Dalle belle forme ma con diversi colori eppure con mente
concorde, Notte e Aurora non si scontrano né si fermano.

E 1.123.7:

L’una è partita e l’altra è arrivata: dissimili nelle tinte,


le due metà del giorno procedono in successione.

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170 Il migliore dei mondi impossibili

Occorre inoltre ricordare che nella stessa Teogonia Esio-


do dice che da Nyx unitasi a Erebo nacquero Aithêr e Hê-
merê (v. 124). Come ricorda West 1966: 197, Giorno nasce
da Notte, non viceversa, perché la sequenza Giorno–Notte
rappresenta uno stadio più evoluto, quando il mondo ha
raggiunto la sua forma ed è abitato dagli uomini.
Già la tradizione mitica coglieva dunque un’affinità
profonda, genealogica e funzionale, fra Notte e Giorno,
cosicché, contestando Esiodo, Eraclito non faceva che
radicalizzare un dato già implicito nel suo autore di rife-
rimento (22 B 57 D.–K.):
didavçkaloç de; pleivçtwn ÔHçivodoç: tou`ton ejpivçtantai
plei`çta eijdevnai, o{çtiç hJmevrhn kai; eujfrovnhn oujk
ejgivnwçken: e[çti ga;r e{n.
Insegnante dei più Esiodo! Essi sono sicuri che conoscesse
moltissime cose, egli che non sapeva riconoscere il giorno e
la notte: che sono una cosa sola.

In Eraclito giorno e notte sono una sola cosa al pari di


inverno / estate, guerra / pace, sazietà / fame: coppie di
opposti in cui è immanente la divinità (22 B 67 D.–K.):
oJ qeo;ç hJmevrh eujfrovnh, ceimw;n qevroç, povlemoç eijrhvnh,
kovroç limovç: ajlloiou`tai de; o{kwçper ãpu`r, o}Ã oJkovtan
çummigh`i quwvmaçin ojnomavzetai kaqΔ hJdonh;n eJkavçtou.
La divinità è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace,
sazietà e fame, e assume forme diverse come <il fuoco che>,
quando sia mescolato a spezie, prende nome dall’aroma di
ciascuna di esse.

Questo «prende nome» (onomazetai) ci richiama pro-


prio Parmenide sia quando parla del modo in cui i mor-
tali concepiscono il rapporto fra l’essere e i fenomeni sia
quando esamina l’opposizione tra luce e notte come nata
dall’esigenza di dar nome (onomazein) a opposte percezioni
(B 8.53–9 e B 9.1).

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V. Il ritorno 171

La coppia Hêmerê / Nyx si prospetta dunque sul


piano delle personificazioni divine come il correlativo
dell’opposizione fuoco / notte che domina la Via delle
doxai.

8. La dea e le doxai

Nel proemio l’Io narrante (un kouros che solo in parte


rimanda all’individuo Parmenide biograficamente identifi-
cabile perché è ad un tempo ogni kouros che intraprenda il
medesimo percorso) si esprime per la prima e, per quanto
ci consta, ultima volta nel poema in prima persona prima
di cedere la parola a Nyx in B 1.24 e stabilisce il contatto
con il suo uditorio rievocando le tappe del proprio viag-
gio.
Ciò che si racconta in B 1.11–32 è un itinerario inizia-
tico qual è destinato ad apparire al narratore nell’atto
stesso in cui lo rievoca al termine del viaggio; ricon-
siderate alla luce della successiva rivelazione, la dea
del giorno e la dea della notte cessano di porsi come
figure davvero distinte e non possono che prospettarsi
come due ‘nomi’ affissi dagli uomini a una medesima
entità divina.
Cade qui a proposito anche l’osservazione di Morgan
2000: 77 secondo cui il fatto che figlie del Sole quali sono
le fanciulle che guidano il carro portino sul capo veli che
si tolgono al momento di risalire alla luce si spiega in
quanto esse condividono caratteristiche sia di Nyx che di
Hêmerê, sì che «any dichotomy between light and dar-
kness is misguided».
La rigorosa compattezza logica e iconica, razionale e
mistica, ideologica e narrativa che innerva il poema ne
viene ribadita. Se infatti Notte è il nume più idoneo a de-
scrivere il fondamento oscuro e solido del mondo lungo la

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172 Il migliore dei mondi impossibili

Via di Realtà, quella Hêmerê che nasce dal corpo stesso di


Notte emerge con il suo profilo luminoso per raccontare
dell’iridescente spettacolo del migliore dei mondi impos-
sibili: un cosmo attraversato dai corpi celesti e abitato da
uomini e numi sotto la guida di Afrodite.

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Capitolo VI

Il tragico

1. La frontiera

Nonostante tutte le analogie e somiglianze che fra real-


tà e illusione, verità e opinione siamo venuti enucleando
le sfere dell’essere e delle doxai restano, e sono destinate
a restare, inconciliabili: c’è un’opposizione irriducibile
fra unitarietà e divisione, atemporalità e tempo, stasi e
movimento, pieno e vuoto, isonomia e conflitto.
Queste incompatibilità hanno una dimensione tragica
in quanto denunciano l’esistenza di una barriera che se-
para due mondi fra i quali la comunicazione può essere
solo precaria, lacunosa, intermittente, destinata comun-
que a un fallimento ontologico. E così, anche se appare
produttiva l’idea, che percorre tutto il meditato saggio di
Robbiano 2005, di una «transformative quality» inerente
al messaggio del poema (e vedi anche Snell 1963: 203-5 e
Stemich 2007: 57–61), becoming being (un’aspirazione che
sarà effettivamente posta come realizzabile da Plotino)
resta in Parmenide un obiettivo irraggiungibile che può
e deve orientare il movimento del noos ma che resta pre-
cluso alla condizione umana se non nell’ora privilegiata
di una rivelazione misterica.
Parmenide non ha mascherato con soluzioni di comodo
la non mediabilità di questo stato di cose, ma ne ha fatto
il punto di partenza delle sue riflessioni.

173

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174 Il migliore dei mondi impossibili

Un orientamento analogo si affaccia, in un contesto di-


verso e con diverse finalità, in Pindaro quando a principio
della Nemea 6 il coro oppone la stirpe degli dèi e quella
degli uomini (vv. 1–9):
’En ajndrw`n, e}n qew`n gevnoç, ejk mia`ç de; pnevomen
matro;ç ajmfovteroi: dieivrgei de; pa`ça kekrimevna
duvnamiç, wJç to; me;n oujdevn, oJ de;
cavlkeoç ajçfale;ç aije;n e{doç
5 mevnei oujranovç, ajllav ti proçfevromen e[mpan h] mevgan
novon h[toi fuvçin ajqanavtoiç,
kaivper ejfamerivan oujk eijdovteç oujde; meta; nuvktaç
a[mme povtmoç
a{ntinΔ e[graye dramei`n poti; çtavqman.
1
Una degli uomini, una degli dèi la stirpe e da unica madre
respiriamo gli uni e gli altri, ma ci divide diversificato
potere: nulla di qua, di là invece
un cielo di bronzo, sede perennemente
salda. E tuttavia ci avviciniamo un poco agli eterni
5 per grande ingegno o per natura
anche se ignoriamo verso il termine di quale giorno
o notte
il destino scrisse che corressimo.

La comune origine dei viventi da uno stesso grembo


materno non toglie che da una parte ci sia il ‘nulla’ (ouden),
dall’altra una sede incrollabile e perenne che si identifica
con il «bronzeo cielo» di Hom. Il. 5.504 e 17.425 e di Od.

1. Come mostrano la ripresa di e{n con mia`ç e la contrapposizione


del successivo dieivrgei dev alla serie trimembre iniziale, il secondo e{n è,
come già intendeva schol. Ne. 1, 3.101–2 Dr., anaforico rispetto al primo,
non oppositivo, e pertanto bisogna intendere che in gioco è la comunanza
originaria, non la divisione, fra uomini e dèi. Un’efficace dimostrazione
ne ha offerto Theunissen 2000: 225–34, che giustamente richiama Hes. Op.
107–8 çu; dΔ ejni; freçi; bavlleo çh`için ⁄ wJç oJmovqen gegavaçi qeoi;
qnhtoiv tΔ a[nqrwpoi (la sospetta autenticità del v. 108 non cancella la
validità del confronto).

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VI. Il tragico 175

3.2 ma che somiglia anche al limite dell’essere e al limite


dell’etere, bloccati entrambi in salde catene da Anankê,
Dikê e Moira (vedi II § 7).
Il cielo è detto bronzeo in quanto saldo, compatto, ma nel
contesto pindarico il metallo, come osservava Kerenyi 1963:
22–3, esprime, più di qualcosa che possa essere visualizzato
in connessione con il cielo, l’incomprensibile durezza di qual-
cosa di intangibile che attiene agli dèi e alla loro dimora.
D’altra parte il divario fra estrema debolezza ed estrema
saldezza può essere ridotto occasionalmente dagli uomini
dimostrando grandi risorse intellettuali o grandi qualità
fisiche (physis allude alle doti dell’atleta di successo).
È difficile dire se Pindaro, come forse nell’Olimpica 6 e
nel Peana 7b (vedi D’Alessio 1995), formulasse queste con-
siderazioni sotto la suggestione del poema di Parmenide
o se entrambi risentissero di comuni radici pitagoriche,
come parrebbe suggerire il fatto che la comune origine
di uomini e dèi è un motivo centrale nelle lamine d’oro
del gruppo IA Pugliese Carratelli (le lamine di Hipponion,
Entella, Petelia, Farsalo: OF 474–477 F), dove al defunto
viene raccomandato di dichiarare al cospetto dei guardiani
del lago di Mnemosyne: «sono figlio della Terra e del Cielo
stellato, ma la mia stirpe è urania» (sul carattere ‘pitago-
rico’ piuttosto che orfico delle lamine del gruppo 2
A vedi
Pugliese Carratelli 2005 e Ferrari 2007: 115–40).

2. Dilemmi

Anche per le articolazioni formali del discorso poetico


un incontro fra Parmenide e la tragedia attica si realizza

2. Da notare che Clemente Alessandrino (Strom. 3.3.17) introduce pro-


prio la citazione dell’incipit della Nemea 6 con «Pindaro, essendo pitago-
rico ...».

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176 Il migliore dei mondi impossibili

invece in primo luogo nella comune elaborazione del


dilemma decisionale.
L’esempio più prossimo è quello di Pelasgo, che in
Aesch. Su. 453 ss. vorrebbe sottrarsi alla contesa fra le
Danaidi e i figli di Egitto ed essere ignaro piuttosto che
esperto di sventure, ma non può eludere il dilemma:
è inevitabile far guerra agli uni o agli altri, non c’è via
d’uscita senza dolore.
Ricorderemo solo di sfuggita il caso di Eteocle, la cui
scelta di affrontare il fratello Polinice alla settima porta
di Tebe sarebbe conclusa senza l’articolazione di un vero
dilemma se le coreute tebane non contrapponessero
alla logica del loro capo la distinzione fra il sangue senza
macchia che sarebbe versato nello scontro con gli Argivi
(v. 680) e la contaminazione (miasma) senza vecchiaia (v.
682) che scaturirebbe dal fratricidio.
Eteocle, pur non essendo in grado di confutare le obie-
zioni del coro, accetta di lasciarsi travolgere dalla brama
di affrontare il fratello perché si considera abbandonato
dagli dèi (v. 701). Vero oplita, si percepisce affilato come
una spada e non è disposto a farsi smussare dalle parole.
Nella parodo dell’Agamennone, di fronte all’imper-
versare dei venti dallo Strimone e al verdetto del vate
Calcante secondo cui Agamennone non ha altro modo
per placare l’ira di Artemide se non quello di immolare la
figlia Ifigenia, il capo della spedizione achea mostra lucida
coscienza, non meno di Pelasgo, dell’insolubilità dell’al-
ternativa: è duro non dare ascolto all’invito di Calcante,
è duro macchiare di flussi di sangue di vergine le proprie
mani di padre. La situazione non si sblocca in seguito a un
ragionamento ma sulla base della constatazione che non
è possibile venir meno ai compiti di capo della spedizione
achea (v. 212).
Come nel caso di Pelasgo, la necessità di decidere si
permuta nella necessità di accogliere uno dei due corni del

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VI. Il tragico 177

dilemma, e questa ‘necessità’ (anankê), che viene assimilata


alla correggia con cui si aggiogano i buoi all’aratro (v. 218),
comporta, come nel caso di Eteocle, un cambiamento
interiore, simile a un cambio di direzione del 3
vento (vv.
219–21), verso uno stato di empia audacia.
Certo già in Omero, e specialmente nell’Iliade, era fre-
quente il caso in cui il narratore riferisse di un’incertezza
del personaggio fra due alternative e successivamente
comunicasse la scelta che intendeva mettere in atto (vedi
Di Benedetto 1998: 158 ss.).
In quattro casi (Hom. Il. 11.404–10 per Odisseo, 17.91–
105 per Menelao, 21.553–70 per Agenore, 22.99–130 per
Ettore) il personaggio arriva a una decisione dopo aver
enunciato due alternative che si elidono a vicenda e aver
pronunciato il verso formulare
ajlla; tivh moi tau`ta fivloç dielevxato qumovç…
ma perché a me l’animo ha detto queste cose?

Odisseo o Menelao appaiono incerti se fuggire o restare


a combattere, ed entrambi portano argomenti a favore
della decisione che di fatto viene presa, ma i monologhi di

3. Nel caso di Oreste nelle Coefore non si giunge all’articolazione di un


vero dilemma, e neppure a un dibattito decisionale, perché al momento
del suo ritorno ad Argo il figlio di Agamennone è già determinato a com-
piere la sua vendetta. Lo spingono da un lato l’oracolo di Apollo (vv. 269
ss.) che gli ha minacciato atroci patimenti se non porterà a compimento la
sua missione, dall’altro molti impulsi (v. 299 i{meroi): l’ordine di Apollo,
il dolore per la morte del padre, la pressione della povertà, la vergogna
di lasciare il potere nelle mani di Egisto e Clitennestra. D’altra parte al
momento di agire, guardando il seno che la madre gli mostra, Oreste,
improvvisamente esitante, pronuncia il celebre «Pilade, che debbo fare?»
(v. 899 Pulavdh, tiv dravçw…), ma per tornare all’azione basta che l’amico
gli ricordi, con l’unica battuta da lui pronunciata nel corso della tragedia,
i vaticini di Apollo.

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178 Il migliore dei mondi impossibili

Agenore e di Ettore sono più articolati perché entrambi,


dopo aver soppesato le alternative A e B, scelgono, moti-
vandola, una terza soluzione.
Non c’è dubbio che Eschilo dipenda anche formal-
mente da Omero nell’articolazione delle alternative del
dilemma: per fare un esempio, quasi come l’Atride nella
parodo dell’Agamennone Odisseo osserva (Il. 11.404–6):
w[ moi ejgw; tiv pavqw… mevga me;n kako;n ai[ ke fevbwmai
plhqu;n tarbhvçaç: to; de; rJivgion ai[ ken aJlwvw
mou`noç.
Ohimé, che mi succede? Gran male se fuggo
temendo la massa, ma peggio se sono preso
da solo.

La riproposizione, subito dopo, del verso formulare


sopra citato scioglie l’incertezza a favore della reidentifi-
cazione del personaggio nell’etica eroica.
Nel caso di Agenore, il medesimo verso serve a smen-
tire le due prime alternative, entrambe nel segno della
ritirata, suggerendo al personaggio l’idea di affrontare il
Pelide davanti alla città, e nel caso di Ettore l’eroe troia-
no, dopo aver preso in considerazione l’idea di rientrare
dentro le mura e poi quella di intavolare una trattativa
con Achille, arriva attraverso il solito verso formulare
4
alla
risoluzione di affrontare subito l’avversario.
D’altra parte il verso formulare viene utilizzato da
Menelao in Il. 17.97 per motivare una scelta di segno

4. D’altra parte Ettore, subito dopo aver preso la decisione di combat-


tere, alla vista di Achille, che brandisce la lancia e splende nella sua arma-
tura di bronzo come fuoco o sole, viene afferrato dal panico (22.136 e{le
trovmoç, cf. 19.14) e si dà alla fuga, ma né egli stesso né gli altri personaggi
monologanti mostrano dopo la decisione alcuna perplessità che non sia
dovuta a un nuovo elemento esterno, né il narratore mette in discussione
la loro scelta.

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VI. Il tragico 179

opposto: quella di ritirarsi dalla mischia senza recuperare


le armi indossate da Patroclo. Infatti, egli dice, «quando
uno vuol combattere contro il destino con un uomo che
gli dèi onorano, grande rovina si rovescia ben presto su
di lui» (vv. 98–9).
Per quanto penoso possa essere per questi personaggi
rispondere all’urgenza di una situazione, tanto che i loro
monologhi si aprono tutti con un’interiezione dolorosa,
si tratta comunque di una crisi legata alla situazione, di
una impasse di tipo pragmatico, che non comporta una
sfaldatura interiore del personaggio.
Da un punto di vista fattuale il meccanismo tragico è
lo stesso di quello epico perché nella sostanza l’alternativa
non è tanto fra azione di tipo A e azione di tipo B, bensì fra
agire e non agire: in Omero si tratta ogni volta di combat-
tere o di fuggire, in Eschilo di affrontare o non affrontare
degli aggressori (Pelasgo ed Eteocle), di sacrificare o non
sacrificare una vergine innocente (Agamennone), di ucci-
dere o non uccidere una madre sciagurata (Oreste).
Mentre però in Omero i personaggi riescono, come
giocatori d’azzardo, a scegliere quella che sembra loro la
soluzione migliore (e che di volta in volta può consistere
nel combattere o nel ritirarsi) e questa soluzione si correla
senza residui all’opinione che essi hanno della propria forza
e dei propri margini d’azione in rapporto ai dati di fatto e
alla forza presunta del nemico, nei personaggi di Eschilo
la scelta non rappresenta
5
una definitiva risoluzione del
conflitto interiore.

5. Muovendo dalla distinzione fra modelli etico–psicologici ‘sogget-


tivi’ e ‘oggettivi’ Gill 1996 ha sottoposto a critica serrata gli schemi inter-
pretativi della deliberazione in Omero quali furono elaborati un tempo
soprattutto da Bruno Snell (vedi in particolare Snell 1969). Gill osserva
che alla base delle considerazioni di Snell stava «a post–Cartesian concep-
tion of the self and a post–Kantian conception of a (moral) decision»: ad

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180 Il migliore dei mondi impossibili

Attraverso il dilemma decisionale, che si conclude


sempre con l’opzione a favore dell’agire, i personaggi di
Eschilo non solo si scavano la fossa con le proprie mani
(Pelasgo cadrà ucciso in battaglia contro i figli di Egitto nel
secondo dramma della trilogia delle Danaidi; Eteocle muo-
re nel duello con Polinice, Agamennone sarà assassinato
da Clitennestra), ma innescano ulteriori crisi e contrasti.
Se il mondo in cui si muovono i personaggi di Eschilo
sembra irriducibile a quello in cui si muovono i guerrieri
dell’Iliade o anche il polytropos eroe dell’Odissea, esso richia-
ma invece per certi tratti le cosmologie dei Presocratici
e la loro scoperta di un universo diviso da non superabili
contraddizioni.
Anassimandro vede i contrasti fra i costituenti del co-
smo (caldo e freddo, umido e secco) disporsi nei termini
di una reciproca ammenda (tisis) che si rinnova incessan-

essa egli ritiene che dovrebbero essere contrapposti modelli più articolati,
aperti alla considerazione di aspetti pratici e desiderativi di action–theory.
In questa prospettiva i quattro monologhi omerici a cui abbiamo fatto
riferimento si configurerebbero come monologhi che, prendendo in con-
siderazione i mezzi in vista di un fine, sarebbero riconducibili all’analisi
degli atti decisionali svolta da Aristot. Metaph. 1032b6–9: «the speakers
work out the likely consequences of an available course af action (in the
process, establishing whether these courses of action are really available),
and evaluate them in the light of explicit or implied goals. The markedly
syllogistic form of Aristotle’s accounts of deliberation is partly anticipated
by the typical formulation of the Homeric reasoning: ‘if I do x, then y will
happen, and this involves z, which is good or bad’» (Gill 1996: 54). Tuttavia
Gill taglia fuori dalla sua analisi la diversità individuabile nella tragedia (e
all’interno stesso dei diversi poeti tragici) rispetto all’epica, e c’è anche
da notare la contraddizione per cui, mentre alle tensioni interne alla cul-
tura moderna da Cartesio ai nostri giorni egli giustamente attribuisce un
ruolo significativo nella promozione di una nuova consapevolezza delle
motivazioni dell’agire, per la cultura greca presuppone un modello com-
portamentale sostanzialmente impermeabile ai cambiamenti nel tempo
e nello spazio.

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VI. Il tragico 181

temente nel tempo (12 B 1), come nelle catene di delitti


e castighi che nelle trilogie di Eschilo attraversano le
generazioni delle grandi famiglie del mito:
ejx w|n de; hJ gevneçivç ejçti toi`ç ou\çi, kai; th;n fqora;n
eijç tau`ta givneçqai kata; to; crewvn: didovnai ga;r aujta;
divkhn kai; tivçin ajllhvloiç th`ç ajdikivaç kata; th;n tou`
crovnou tavxin.
Ciò da cui deriva la nascita delle cose esistenti è lo stesso in cui
avviene la loro distruzione secondo necessità: infatti a tempo
debito esse pagano l’una all’altra giusta pena e ammenda per
l’ingiustizia perpetrata.

Eraclito scopre che la guerra riguarda ogni evento o


fenomeno e che la giustizia altro non è che perenne con-
tesa (22 B 80):
eijdevnai de; crh; to;n povlemon ejovnta xunovn, kai; divkhn
e[rin, kai; ginovmena pavnta katΔ e[rin kai; crewvn.
Bisogna sapere che la guerra è comune a tutto e che giustizia è
contesa e che ogni cosa avviene secondo contesa e necessità.

Gli stessi limiti dell’anima sembrano slargarsi per chi


dichiara di aver indagato se stesso (22 B 45):
yuch`ç peivrata ijw;n oujk a]n ejxeuvroio, pa`çan ejpipo-
reuovmenoç oJdovn: ou{tw baqu;n lovgon e[cei.
Per quanto viaggi non troverai i limiti dell’anima, anche
6
se
percorressi ogni via, tanto profonda è la sua misura.

Una ‘profondità’ che ci richiama il «profondo pensiero


salvifico» che Pelasgo ritiene necessario per sfuggire alla
stretta del dilemma in cui si sente intrappolato (Aesch.
Su. 407–11):

6. Qui i peivrata sono ‘limiti’ nel senso di ‘capi’, come in una corda, e
lovgon significa «misura», come in 21 B 31 (Marcovich 1978: 257).

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182 Il migliore dei mondi impossibili

dei` toi baqeivaç frontivdoç çwthrivou,


divkhn kolumbhth`roç ejç buqo;n molei`n
dedorko;ç o[mma, mhdΔ a[gan wjinwmevnon,
410 o{pwç a[nata tau`ta prw`ta me;n povlei,
aujtoi`çiv qΔ hJmi`n ejkteleuthvçei kalw`ç.
C’è bisogno di profondo pensiero salvifico
per scendere nell’abisso come un palombaro
con occhio vigile né troppo ebbro,
410 affinché tutto questo non sia rovina per la città
e anche per me personalmente l’esito sia fausto.

Ed è proprio la dinamica eschilea del dilemma che trova


in Parmenide una personale versione nel cozzo fra essere
e non–essere (28 B 8.16–8):
e[çtin h] oujk e[çtin: kevkritai dΔ ou\n, w{çper ajnavgkh,
th;n me;n eja`n ajnovhton ajnwvnumon (ouj ga;r ajlhqhvç
ejçtin oJdovç), th;n dΔ w{çte pevlein kai; ejthvtumon ei\nai.
È o non è. È ormai deciso, come è necessario,
di lasciare una via impensabile e senza nome (non è via
veritiera), ma l’altra così che sia e sia vera.

L’associazione fra la risoluzione di un dilemma («è o


non è») e il ruolo di una ‘necessità’ che mostra quanto la
soluzione del dilemma sia già predeterminata in una certa
direzione la ritroviamo in Aesch. Su. 468–79:
h\ pollach`i ge duçpavlaiçta pravgmata,
kakw`n de; plh`qoç potamo;ç w}ç ejpevrcetai:
470 a[thç dΔ a[buççon pevlagoç ouj mavlΔ eu[poron
tovdΔ ejçbevbhka, koujdamou` limh;n kakw`n.
eij me;n ga;r uJmi`n mh; tovdΔ ejkpravxw crevoç,
mivaçmΔ e[lexaç oujc uJpertoxeuvçimon:
eij dΔ au\qΔ oJmaivmoiç paiçi;n Aijguvptou çevqen
475 çtaqei;ç pro; teicevwn dia; mavchç h{xw tevlouç,
pw`ç oujci; tajnavlwma givgnetai pikrovn,
a[ndraç gunaikw`n ou{necΔ aiJmavxai pevdon…
o{mwç dΔ ajnavgkh Zhno;ç aijdei`çqai kovton
iJkth`roç: u{yiçtoç ga;r ejn brotoi`ç fovboç.

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VI. Il tragico 183

Sì, è da ogni punto di vista un duro cimento,


e come un fiume irrompe una massa di sciagure.
470 Eccomi immerso in un mare senza fondo, inguadabile,
né scorgo un porto che offra riparo ai mali.
Se non assolverò questo obbligo,
tu hai parlato di contaminazione inevitabile,
ma se mi piazzo davanti alle mura e affronto
475 il rischio dello scontro con i figli d’Egitto tuoi cugini,
come può lo spreco non essere amaro?
Insanguinare la piana argiva a causa di donne!
E tuttavia è necessario venerare la collera di Zeus
supplicante: supremamente la temono i mortali.

Da una parte una macchia ineliminabile ove ab-


bandonasse le Danaidi al loro destino,7
dall’altra uno
«spreco amaro» (analôma ... pikron) ove insangui-
nasse il suolo della città: da ultimo la ‘necessità’ di
prendere una decisione (anankê al v. 440) si traforma
nella necessità’ (anankê al v. 478) di decidere in un
determinato modo, optando a favore dell’alternativa
connessa a quell’ira di Zeus che incute suprema paura
ai mortali.
Anche la rappresentazione parmenidea dell’essere
stretto da Anankê (28 B 8.25–31):
25 tw`i xunece;ç pa`n ejçtin: ejo;n ga;r ejovnti pelavzei.
aujta;r ajkivnhton megavlwn ejn peivraçi deçmw`n
e[çtin a[narcon a[pauçton, ejpei; gevneçiç kai; o[leqroç
th`le mavlΔ ejplavgcqhçan, ajpw`çe de; pivçtiç ajlhqhvç.
twujtovn tΔ ejn twujtw`i te mevnon kaqΔ eJautov te kei`tai
30 cou[twç e[mpedon au\qi mevnei: kraterh; ga;r ΔAnavgkh
peivratoç ejn deçmoi`çin e[cei, tov min ajmfi;ç ejevrgei.

7. Il termine ajnavlwma viene ripreso con analoga valenza metaforica


e analogo giro espressivo in Eur. Su. 547–48 çkaiovn ge tajnavlwma th`ç
glwvççhç tovde,| fovbouç ponhrou;ç kai; kenou;ç dedoikevnai.

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184 Il migliore dei mondi impossibili
8
25 Perciò è tutto continuo: l’essere si stringe all’essere.
Immobile nei limiti di grandi catene,
è senza principio, senza fine, ché nascita e morte
hanno preso a vagare molto lontano: prova veritiera le
respinge.
Resta identico sempre nello stesso luogo e giace in se
stesso,
30 e così resta saldo lì dov’è: Anankê possente lo trattiene
nelle catene del limite che lo chiude all’intorno.

è costruita in modo analogo al modo in cui Eschilo dà


forma all’Anankê, sentita come ‘necessità’ di prendere
comunque una decisione, in Su. 438–441:
kai; dh; pevfraçmai: deu`ro dΔ ejxokevlletai:
h] toi`çin h] toi`ç povlemon ai[reçqai mevgan
440 pa`çΔ e[çtΔ ajnavgkh, kai; gegovmfwtai çkavfoç
çtrevblaiçi nautikai`çin wJç proçhgmevnon.
Sì, ho riflettuto, e qua s’incaglia la cosa:
di muovere guerra agli uni c’è necessità
440 assoluta, e lo scafo è bloccato da cavicchi,
issato su argano navale.

Al limite con cui Anankê blocca l’essere corrisponde


lo scafo della nave compaginato con cavicchi e issato
sull’argano: curvature l’uno e l’altro che garantiscono
compattezza e solidità a masse equilibrate in cui ogni
elemento si integra nel tutto.

3. Un’identità perduta
Sul contrasto parmenideo fra alêtheiê e doxa gravita tut-
ta la prima parte dell’Elena di Euripide, messa in scena nel

8. In relazione all’idea di ‘continuità’ pelavzei non può denotare sem-


plice contiguità o contatto, ma comporta un’implicazione più profonda ed
è pertanto solo apparentemente equivalente all’e[ceçqai di B 4.2.

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VI. Il tragico 185

412 a.C., dove si immagina che non la vera Elena ma un


suo simulacro (eidôlon), copia perfetta della figlia di Leda,
aveva seguito Paride a Troia e che invece la vera Elena
era stata trasportata in Egitto da Hermes e qui accolta
ospitalmente dal re Proteo.
Elena, non appena rivede il marito, non lo riconosce per-
ché ciò che di quell’uomo la impressiona non è la realtà del
suo corpo, bensì il suo aspetto (morphên 545), e specialmente
gli stracci che porta addosso, per cui cade vittima della doxa
scambiando Menelao per uno sgherro del re Teoclimeno.
A contatto con la moglie Menelao sembra cogliere la
verità (v. 559: «non ho mai visto nessuna che nella figura
le somigliasse tanto») seguendo i dati della percezione
immediata, ma, non appena la questione viene dipanata
nel dialogo fra i due coniugi, sopravviene un singolare
rovesciamento: mentre ora Elena riconosce il marito sotto
gli stracci che lo ricoprono, Menelao scambia l’immagine
(opsis) di Elena per un’allucinazione visiva (v.569), e infine
risolve il dubbio fra la sanità della propria mente e quella
del proprio occhio con una dichiarazione che denuncia la
tenacia con cui gli uomini si aggrappano alle illusioni in
cui hanno investito una carica troppo grande di passione
per potersene liberare (v. 593):
toujkei` me mevgeqoç tw`n povnwn peivqei, su; dΔ ou[.
Io credo all’enormità dei patimenti laggiù, non a te.

L’esperienza (l’ethos polypeiron di Parmen. 28 B 7.3)


viene ad associarsi all’apparenza in un dissesto della
relazione fra l’uomo e le cose che porta alla luce (come
avviene anche in tragedie vicine all’Elena nel tempo e nella
struttura come l’Ifigenia fra i Tauri e lo Ione) una fascia di
realtà preliminare alle passioni e ai contrasti del genere
tragico: è in gioco la consistenza fisica del reale, il senso e
la validità di ciò che percepiamo.

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186 Il migliore dei mondi impossibili

Nel primo episodio anche Teucro aveva rifiutato di


identificare nella sposa di Menelao la persona che aveva
incontrato, giudicando che fosse mera ‘immagine’ (eikô
al v.73).
Di qui l’ironico scambio di battute ai vv. 117–19:
El. ei\deç çu; th;n duvçthnon, h] kluw;n levgeiç…
Te. w{çper çev gΔ, oujde;n h|ççon, ojfqalmoi`ç oJrw`.
El. çkopei`te mh; dovkhçin ei[cetΔ ejk qew`n.
ELENA Ma tu l’hai vista, la sciagurata, o parli per sentito dire?
TEUCRO Sì, come ora vedo te con questi occhi, né più né
meno.
ELENA Attenti a non aver avuto un miraggio ad opera
degli dèi!

Attraverso il dramma surreale di un’identità perduta (il


«doxa–aletheia Problem als Identitätsproblem» discusso da
Kannicht 1969, I: 62–8) Euripide sembra sondare i limiti
incerti della nostra capacità di far presa sulla realtà e costru-
isce un gioco pirandelliano che ha lo scintillio dei paradossi
intellettualistici ma insieme recupera il filone che a partire da
Parmenide metteva in discussione la validità delle doxai.

4. La verità di Edipo

Ma è nell’Edipo re di Sofocle, composto verso il 412


(piuttosto che verso il 425 a.C.) e dunque coevo all’Elena di
Euripide, che l’illusione della doxa sprigiona, nel contrasto
con una ‘verità’ che appartiene agli dèi (Apollo) o ai loro
rappresentanti (Tiresia), la più amara delle rivelazioni.
Una nota inconfondibilmente parmenidea anche
nell’inflessione universalizzante risuona nel momento
in cui il coro, preso atto della vera identità di Edipo, ne
assume la vicenda a paradigma della condizione umana
(vv. 1186–92):

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VI. Il tragico 187

ijw; geneai; brotw`n


wJç uJma`ç i[ça kai; to; mh-
de;n zwvçaç ejnariqmw`.
tivç gavr, tivç ajnh;r plevon
1190 ta`ç eujdaimonivaç fevrei
h] toçou`ton o{çon dokei`n
kai; dovxantΔ ajpokli`nai…
Ah, generazioni dei mortali,
il vostro vivere io conto
come pari a nulla!
Quale, quale uomo
conquista felicità maggiore
1190 di quel tanto che appare
e, apparso, declina?

L’umana felicità è apparenza effimera, e illusioni


sono le cose che l’uomo conosce. Edipo cade vittima
della propria insopprimibile volontà di scoprire il vero
(l’origine del morbo che inquina la sua città), ma esso
resta nascosto anche per una serie di combinazioni
fortuite.
Fiducioso nelle proprie risorse intellettuali e sol-
lecito della salvezza della polis (vv. 62–3: «voi soffrite
di un solo dolore, la mia anima soffre per la città»), il
sovrano di Tebe accusa Tiresia di non essere in grado
di raggiungere la verità perché, come i mortali di Par-
menide, è cieco nella mente e nelle orecchie non meno
che negli occhi, ma l’indovino ribatte che è proprio
lui, Edipo, 9a guardare senza vedere (v. 413 dedorkas
kou blepeis).
Alla fine la ‘luce’ della verità si trova a coincidere con
la ‘tenebra’ dell’accecamento (vv. 1182–83):

9. Sulla crisi delle categorie intellettuali nell’Edipo re vedi Di Bene-


detto 1983: 86–104, sulla sfera semantica della luce e del vedere come
modalità illusoria di presa sul reale Seale 1982: 216–60 e Goldhill 1994:
219–20.

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188 Il migliore dei mondi impossibili

ijouv, ijouv: ta; pavntΔ a]n ejxhvkoi çafh`.


w\ fw`ç, teleutai`ovn çe proçblevyaimi nu`n.
Oh, oh! Ogni cosa è diventata chiara.
O luce, che tu ora sia l’ultima che io contemplo!

Nella scoperta dello scarto fra dèi e uomini, realtà e ap-


parenza l’agnizione che segue alla ‘peripezia’ non consiste
per Edipo solo nella scoperta di essere l’assassino del padre
e l’uccisore della madre, ma anche nella percezione che
ogni cosa è accaduta nei termini annunciati dalla profezia
di Tiresia.
L’ignoranza di Edipo, la sua inettitudine a scoprire i
nessi del reale non dipendono da eventuali limiti del suo
metodo d’indagine, inteso a rintracciare almeno un indi-
zio (symbolon) che permetta di ricombinare le tessere del
mistero (vv. 220–21):

ouj ga;r a]n makra;n


i[cneuon aujtovç, mh; oujk e[cwn ti çuvmbolon
Non potrei seguire
a lungo la mia pista se non ho qualche indizio.

Giocasta gli rimprovera di non saper congetturare il


presente sulla base degli indizi che emergono dal passa-
to (vv. 915–16), ma se «Giocasta enuncia, in apparenza,
principii di rigorosa tecnica inferenziale ai quali Edipo
verrebbe meno», per lei essi «dovrebbero indurre ad
accantonare i presenti oracoli sulla base dei fallimentari
oracoli già resi a Laio. Solo Edipo saprà portare fino alle
estreme conseguenze gli indizi che via via emergono nel
corso dell’indagine» (Condello 2009: 162).
L’azione del dramma non gravita infatti su un evento in
fieri, ma sulla ricostruzione di qualcosa che è già accaduto
una volta per tutte nel passato (un’inchiesta retrospettiva
di sapore laico che rimpiazza la mantica di Epimenide), e

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VI. Il tragico 189

se la verità resta così a lungo nascosta e le doxai si succe-


dono sulla scena in frustrante progressione non è perché i
personaggi del dramma, Edipo in primo luogo, non siano
liberi di agire e di scegliere (del resto la lunga ricerca del
protagonista sfocia infine in un successo conoscitivo).
Ciò che gli spettatori scoprono è che le indagini degli
uomini portano alla luce, attraverso indizi e congetture,
una realtà che era già presente nella mente dell’indovino
e del suo dio: presente ma non predeterminata, perché il
piano della verità (il blocco immobile di tutte le cose che
sono) è irriducibilmente sfasato, non diversamente che in
Parmenide, rispetto al piano delle doxai.
Il procedere faticoso dell’indagine si imbatte alla fine
in una ‘verità’ che sembra già stabilita solo perché è col-
locata fuori del tempo e dello spazio degli uomini, i quali
costruiscono autonomamente la loro storia accidentata
solo per scoprire che essa era già lì, scolpita nelle tavole
degli dèi.
Se le storie dei viventi lasciano sempre la sensazione di
essersi concluse come dovevano concludersi non è perché
gli dèi decidano che cosa ognuno dovrà fare, ma perché
esse finiscono con l’intercettare ciò che è davvero deter-
minato da sempre: l’ordine divino del mondo, codificato
nelle salde leggi in cui, come dice il coro ai vv. 863–71, è
presente un dio grande che non invecchia.

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Congedo

Se nell’Edipo re la catastrofe è senza riscatto e al protago-


nista non viene concesso, diversamente da ciò che acccadrà
nell’Edipo a Colono, neppure il conforto di un esilio lontano da
Tebe, in Parmenide proprio il riconoscimento di una realtà
dell’essere considerata come irriducibilmente altra rispetto
alle umane illusioni può dare l’avvio a una terapia che attenui
la fallacia cognitiva e, più in generale, l’inettitudine intellet-
tuale che offusca e irretisce il pensiero degli uomini.
Un orientamento propositivo è possibile proprio perché
alla radice non c’è, da parte di Parmenide, alcuna ricerca di
palliativi rispetto a una discrasia fra realtà e apparenze che
oppone due modalità di esistenza fra loro incompatibili
ma necessariamente collegate nell’orizzonte dell’umana
esperienza.
Empedocle, pochi decenni più tardi, costruisce un mo-
dello cosmico che abbraccia le fasi alterne ma complemen-
tari d’Amore e di Contesa e integra lungo un percorso di
taglio evoluzionistico radici inalterabili e metamorfosi in-
cessanti; Democrito reintroduce la nozione di ‘vuoto’ per
farvi vorticare secondo necessità atomi che riproducono
su scala minimale, pluralizzandola, l’invariabile unitarietà
dell’essere; poi Platone tenta di instaurare un vincolo di
‘partecipazione’ e di ‘presenza’ fra idee e fenomeni per-
petrando quel ‘parricidio’ per cui il non–essere in qualche
modo è e l’essere in qualche modo non è (Soph. 241d).

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192 Il migliore dei mondi impossibili

Aristotele ritiene che gli Eleati rinunciassero alla plura-


lità e al movimento perché non erano in grado di spiegarli
e pertanto abbandonassero la linea speculativa ionica, che
era stata orientata sullo studio della natura: così Parmeni-
de nella seconda parte del suo poema avrebbe fatto ricorso
a una dualità di principii primi in quanto ‘costretto’ a spie-
gare l’esistenza dei fenomeni (cf. Metaph. 1.5, 986b31–34
= 28 A 24 D.–K. e vedi Leszl 2006: 364–65).
Molti secoli più tardi Hegel, nella Scienza della logica
(1812), solleva contro l’essere di Parmenide e la sostanza
di Spinoza la medesima accusa di inadeguatezza: «l’essere
non sarebbe affatto il cominciamento assoluto quando
avesse una determinatezza; in codesto caso dipendereb-
be da un altro, e non sarebbe immediato, non sarebbe il
cominciamento. Se invece è indeterminato, e quindi vero
cominciamento, non ha nulla per cui possa trapassare ad
un altro: è in pari tempo la fine. Nulla può scaturirne,
come nulla può penetrarvi. Presso Parmenide, come pres-
so Spinoza, non si dovrebbe avanzare dall’essere, o dalla
sostanza assoluta, al negativo, al finito» (4.5.2).
É però un anti–hegeliano dichiarato come Nietzsche a
sferrare l’attacco più duro a Parmenide, e a tutta la tradi-
zione parmenidea, nella Filosofia nell’età tragica dei Greci, ri-
veduta per l’ultima volta nel 1876 e poi lasciata per sempre
incompiuta. Risolta nel senso di una presunta evoluzione
interna la relazione fra essere e doxai (queste sarebbero solo
un relitto di un primitivo sistema fisico costruito in risposta
alle questioni sollevate da Anassimandro), Nietzsche vede
nel sapiente di Velia una figura di profeta del vero «foggiata
nel ghiaccio» che si immerge «nel gelido bagno delle sue
tremende astrazioni» e, scindendo dai sensi la capacità di
pensare, polverizza lo stesso intelletto e incoraggia «quel-
la separazione, del tutto fallace, di ‘spirito’ e ‘corpo’ che
particolarmente a partire da Platone pesa sulla filosofia
come una maledizione» (Nietzsche 1980: 78–9). Per altro

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Congedo 193

verso lo stesso Nietzsche, con il mito dell’eterno ritorno,


cerca altrove di conciliare Eraclito con Parmenide, eterno
fluire ed eterna stabilità trasformando la porta parmenidea
sorvegliata da Dikê nella porta dell’attimo che in Cosi parlò
Zarathustra congiunge ciclicamente passato e futuro: «Tut-
te le cose diritte mentono — borbottò sprezzante il nano.
Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo».
Nelle lezioni tenute all’Università di Friburgo nel seme-
stre invernale 1942 / 1943 (è l’inverno della campagna di
Russia) Heidegger riconosce in Parmenide l’indagatore di
una ‘verità’ radicalmente distinta dal verum elaborato dalla
cultura romana: in relazione ad alêtheiê lo ‘svelamento’ o
‘scopertura’ (Aufhebung) degli enti sarebbe complementa-
re all’attivazione di una protezione, da parte dell’essere
stesso, nei confronti del segreto della realtà secondo una
fondamentale dualità fra essere ed ente, ousia e hen.
Pur indulgendo a dilettantesche scorribande etimo-
logiche (basti ricordare l’interpretazione di legein come
«raccogliere» — una ‘raccolta’ per l’essere! — in B 6.1 e
la pretesa che la serie polis «città» / polos «polo» / pelein
«essere» sia rilevante per comprendere 1
il manifestarsi
dell’essere al centro della città greca ), Heidegger ha
però il merito di sottolineare che l’irriducibilità fra essere
e divenire si accompagna alla loro indissociabilità (vedi
Heidegger 1999).
D’altra parte, come ha messo in luce proprio un allievo
di Heidegger, Hans–Georg Gadamer, nel poema di Parme-
nide non c’è distinzione semantica fra l’essere e il singolo
ente dal momento che l’essere è rappresentato come ein
Seiendes. Studiando il rapporto fra noos ed essere, Gadamer

1. A tacer d’altro, mentre una relazione etimologica fra povloç e pev-


lein è corretta sulla base di una comune radice indo–europea condivisa
anche dal latino colo, del tutto inattendibile è quella fra questi due vocaboli
e povliç.

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194 Il migliore dei mondi impossibili

2002: 76–8 ha pertanto intravisto nel noein un ‘fiutare’,


per mezzo di una percezione celata ai più, la presenza
di qualcosa, sospettando che li c’è qualcosa: un ‘aldiqua
dell’essere’ parallelo in certa misura alla valorizzazione del
pensiero di Parmenide 2
messa in atto, inconsapevolmente
o consapevolmente, da scienziati impegnati nel dibattito
sulle dinamiche dello spazio–tempo e sulla relazione tra
fisica atomica e fisica quantistica.
Sussulti epistemologici come la presa di coscienza che
l’interpretazione del mondo fisico è condizionata in modo
decisivo dal ruolo dell’osservatore, il teorema di J. Bell
(1964), confermato sperimentalmente da Alain Aspect
nel 1982, che sembra quasi fornire una dimostrazione
aggiornata di 28 B 4 in quanto stabilisce che l’interazione
fra due particelle sub–atomiche determina fra di esse un
legame in base al quale il comportamento dell’una conti-
nua a condizionare il comportamento dell’altra indipen-
dentemente dallo spazio e dal tempo che le separano, il
paradigma olonomico di David Bohm, le teorie cosmolo-
giche che oppongono il nostro cosmo a un meta–universo
atemporale, la Platonia de La fine del tempo di J. Barbour
(1999), gremita di ‘capsule temporali’ che producono

2. Una rassegna esemplare degli aspetti ‘parmenidei’ nello sviluppo


della fisica del XX secolo si deve a Popper 1998 (ma vedi anche Sambur-
sky 1988 e Soncini–Munari 1996: questi ultimi tendono a identificare con
il cronotopo quadridimensionale einsteiniano l’essere parmenideo, visto
come inclusivo della forma–tempo e come tale suscettibile di articolar-
si sul piano dell’apparenza in leggi del divenire: è una tesi molto simile
a quella già elaborata, indipendentemente da riferimenti alla fisica ein-
steiniana, da Untersteiner 1958: CLVI–CCX). Lo stesso Popper (1974: 133)
racconta di Albert Einstein: «Io cercai di persuaderlo ad abbandonare (...)
l’idea che il mondo fosse un universo chiuso a quattro dimensioni, nel
quale il cambiamento era un’illusione umana, o qualcosa di molto simile.
Egli era d’accordo che questa fosse la sua opinione e discutendo di ciò io
lo chiamai ‘Parmenide’».

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Congedo 195

l’illusione del movimento e del tempo, sono altrettanti


esempi dell’attualità di Parmenide.
Per contro, anche il filone che si richiama alle censure
di Hegel e di Nietzsche non ha cessato di levare in nome
della dialettica o della vita, o di entrambe, la sua prote-
sta contro Parmenide. Theunissen 1992 ne ha offerto la
versione forse più intransigente osservando che in ultima
istanza l’essere parmenideo è un non–essere in quanto
l’essenza dell’essere, indeterminabile in termini positivi
ma solo pensabile per sottrazione, si manifesta come un
non–vivere, in una perfezione che somiglia all’immobilità
della paralisi.
Ancora una volta, tuttavia, il verdetto sull’eredità di
Parmenide taglia fuori la Via delle doxai dimenticando
che già per il sapiente di Velia la costruzione di quella che
Theunissen considera pregiudizialmente una ‘metafisi-
ca’ si elaborava a confronto con una condizione umana
che la scoperta dell’eon e l’enucleazione della sua natura
inalterabile dovevano contribuire a ripensare e rifondare,
non certamente a sopprimere: non era un invito a ‘deser-
tificare’ il mondo ma a guardare alla totalità di ciò che ci
riguarda (il panta in «bisogna che ogni cosa tu apprenda»
di B 1.28) per riconoscerne tanto il fondamento atempo-
rale quanto le ragioni e le forme che animano lo spazio e
cambiano nel tempo.
Senza rivolgere la mente al primo resteremmo sordi e
ciechi, senza le seconde neppure ci saremmo.

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aree scientifico–disciplinari

area 01 – Scienze matematiche e informatiche

area 02 – Scienze fisiche

area 03 – Scienze chimiche

area 04 – Scienze della terra

area 05 – Scienze biologiche

area 06 – Scienze mediche

area 07 – Scienze agrarie e veterinarie

area 08 – Ingegneria civile e Architettura

area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione

AREA 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–


artistiche

area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche

area 12 – Scienze giuridiche

area 13 – Scienze economiche e statistiche

area 14 – Scienze politiche e sociali

Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su

www.aracneeditrice.it

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Finito di stampare nel mese di luglio del 2010
dalla tipografia «Braille Gamma S.r.l.» di Santa Rufina di Cittaducale (Ri)
per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma

CARTE: Copertina: Patinata opaca Bravomatt 300 g/m2


Interno: Patinata opaca Bravomatt 115 g/m2
ALLESTIMENTO: Legatura a filo di refe / brossura

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