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Virgilio

1.1 La vita e le opere


Publio Virgilio Marone nacque ad Andes, vicino Mantova, il 15 ottobre del
70 a.C., da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, e si sarebbe poi formato a
Napoli, frequentandovi, pare, la scuola dell’epicureo Sirone (così indica una poe-
siola attribuitagli, la quinta della raccolta Catalepton, nell’Appendix Vergiliana; cfr.
p. 191 s.), e a Roma.
La prima opera sicura del poeta sono le Bucoliche, una raccolta di dieci com-
ponimenti pastorali, la cui datazione è legata ad un episodio della biografia del poeta
ancora non del tutto chiarito (e fonte dell’interpretazione in chiave allegorica di molti
passi dell’opera): nella storia di alcuni pastori costretti ad abbandonare i loro poderi,
è anche adombrato nelle Bucoliche il dramma dei contadini mantovani espropriati
delle loro terre nel 41 a.C., quando Ottaviano e Antonio ordinarono le confische
destinate ai soldati che avevano combattuto a Filippi l’anno prima. Secondo una
notizia molto antica, lo stesso Virgilio avrebbe perso nelle confische il podere di fami-
glia, per recuperarlo più tardi grazie all’intervento di un potente personaggio. Subito
dopo la pubblicazione delle Bucoliche, Virgilio entra nella cerchia degli intimi di
Mecenate e quindi di Ottaviano. Da ora in poi scompare del tutto dalle sue opere la
figura di Asinio Pollione, che invece ha notevole rilievo nelle Bucoliche. Nel periodo
d’incertezza e lotta politica che va sino alla battaglia di Azio, Virgilio lavora alle
Georgiche, un poema sulla campagna, sul ritorno alla terra e ai valori tradizionali col-
legati a quel mondo. Il poema, in quattro libri di esametri, è finito intorno al 29,
quando Virgilio può leggerlo a Ottaviano, fermo ad Atella in Campania, di ritorno
dall’Oriente, dopo aver sconfitto Antonio ad Azio. Da questo momento in poi,
Virgilio si concentra sull’Eneide, il poema che dovrà celebrare la pace portata da
Roma al mondo. Ottaviano segue con interesse lo sviluppo del lavoro, di cui Virgilio
anticipò alla corte alcune parti, prima di morire, il 21 settembre del 19 a.C., di ritor-
no da un viaggio in Grecia. Prossimo alla fine, il poeta chiederà che l’opera, da lui
giudicata incompiuta, venga distrutta, ma Augusto ne affida la revisione e la pubbli-
cazione a Vario, un amico di Virgilio: l’Eneide ha un successo immediato.
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1.2 Le Bucoliche
Bucolica, sottinteso carmina, «canti dei bovari» (al singolare si preferisce il ter-
mine egloga, «poemetto scelto») è parola di origine greca che indica il tratto fonda-
mentale di questo genere letterario, la rievocazione di uno sfondo rustico in cui i
pastori sono messi in scena come attori e creatori di poesia. L’opera rappresentava
una novità nel panorma poetico latino in quanto ispirata agli Idilli di Teocrito,
poeta greco di Siracusa, vissuto lungamente alla corte dei Tolomei ad Alessandria
d’Egitto. Nonostante la loro forte tendenza ellenizzante, neanche i poetae novi del-
l’età di Catullo avevano frequentato questo poeta, forse considerandolo troppo sem-
plice, delicato e insieme artificioso. L’originalità delle Bucoliche, garantita soprattu-
to dall’essere il primo libro interamente dedicato a questo genere letterario, viene del
resto rivendicata da Virgilio, all’inizio della VI egloga, con un atteggiamento tipica-
mente callimacheo, in contrapposizione alle grandi imprese poetiche dell’epopea.
Nell’opera, dagli esiti particolarmente felici, il giovane poeta, che rileggeva attraver-
so Teocrito il mondo rurale della sua infanzia, mostra non già un semplice proces-
so imitativo (i componimenti non hanno un rapporto diretto di ‘uno a uno’ con
singoli idilli teocritei) quanto piuttosto uno studio ricercato del poeta siracusano,
dei suoi imitatori greci del II-I secolo, e persino dei suoi commentatori. Tutto ciò
porta Virgilio ad una vera interiorizzazione del genere bucolico, di cui assimila
profondamente i codici, fino a realizzare nell’opera una trama di rapporti talmente
complessa col suo modello da essergli realmente alla pari. In questo senso, le
Bucoliche – ancora vicine al gusto neoterico per dottrina, stilizzazione, culto della
poesia – sono davvero il primo testo della letteratura augustea, di cui riescono già a
interpretare l’esigenza di fondo, ‘rifare’ i testi greci trattandoli come classici.

La I egloga è un dialogo fra due pastori: Melibèo è costretto a partire, ad abban-


donare i campi che le confische gli hanno sottratto, mentre Titiro può restare, gra-
zie anche all’aiuto di un giovane di natura divina. La II contiene il lamento d’amore
del pastore Coridone, che si strugge per il giovinetto Alessi. La III è la tenzone poe-
tica fra due pastori, svolta in canti alternati detti «amebèi», a botta e risposta. La IV
è il canto profetico per la nascita di un fanciullo che vedrà l’avvento di una nuova
età dell’oro. La V è un lamento per Dafni, eroe pastorale che, dopo essersi lasciato
morire per amore, viene assunto tra gli dèi. Nella VI, preceduta da una dichiara-
zione di poetica ad introduzione della seconda metà del libro, il vecchio Sileno, cat-
turato da due giovani, canta l’origine del mondo e una serie di miti. Nella VII
Melibeo racconta la gara di canto di due pastori, gli arcadi Tirsi e Coridone. L’VIII
egloga, dedicata ad Asinio Pollione, è ancora una gara di canto. La IX è simile alla
prima, con richiami alla realtà della campagna mantovana e alle espropriazioni
seguite alle guerre civili. Nella X egloga il poeta bucolico Virgilio cerca di confor-
tare le sofferenze d’amore del poeta elegiaco suo amico Cornelio Gallo.

In omaggio al principio alessandrino della «varietà», la poikilìa, la raccolta di


Teocrito si allargava a un repertorio relativamente ampio di temi, ambienti, situa-
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zioni, avventurandosi anche nel mondo della città; capita così che le figure di
Teocrito si trovino coinvolte in cerimonie pubbliche, feste, parate. Virgilio sfrutta
poco queste aperture: le Bucoliche sono molto più monocordi, concentrate sullo sti-
lizzato mondo dei pastori, e orientano così in senso più specifico la stessa parola
«idillio», che in greco significa soltanto «breve componimento»: da allora, il termi-
ne denota uno scenario ben preciso e tutta un’atmosfera sentimentale malinconico-
contemplativa. Virgilio trasforma quindi Teocrito, accentuando gli elementi di sti-
lizzazione e idealizzazione: i toni dei paesaggi sono meno intensi e gli stessi pastori
sono per lo più figure delicate, quasi tenere. Seppure non fosse Virgilio l’inventore
di queste novità, è comunque con le Bucoliche che si diffonde il mito dell’Arcadia,
la terra beata dei pastori. Questa operazione riduce sensibilmente dunque, nel com-
plesso, i confini del genere idillico, i temi che possono essere affrontati da questa
poesia ‘tenue’ (ad esempio rinunciando, appunto, alle ambientazioni cittadine).
Tutto quanto del reale entra nel mondo bucolico viene travestito nel linguaggio e
nell’immaginazione dei pastori per apparire come se fosse visto da loro, ‘ingenui’
primitivi della campagna. La città e gli eventi della storia, rimangono solo sull’oriz-
zonte ma come spaventose, incomprensibili (come nella I egloga, in cui il pastore
Titiro rievoca Roma come uno spazio sterminato).
L’atmosfera è intensamente malinconica, triste, nel canto di questi pastori:
alcuni di loro devono andare, perché sono stati cacciati da altri, prepotenti nuovi
venuti, soldati. Si rileva così un libero riuso di spunti autobiografici, in cui sta un
altro sostanzioso contributo di Virgilio alla tradizione bucolica. Il dramma dei
pastori esuli nelle egloghe I e IX contiene certamente un nucleo di esperienza per-
sonale; ma, al di là delle sfumature autobiografiche, ciò che importa è cogliere l’o-
riginalità di ispirazione con cui Virgilio ‘rilegge’, soprattutto in questi due compo-
nimenti, attraverso il linguaggio bucolico l’epoca delle guerre civili. Ma in proposi-
to si può citare anche la celebre egloga IV, in cui il poeta annuncia un innalzamen-
to oltre la sfera pastorale (ancora avvertibile nello stile e nella scelta di alcune imma-
gini) per cantare un grande evento.
Per una beffarda congiuntura storica questo componimento, in sé estrema-
mente chiaro, ha dato origine a un enigma sull’identità del puer destinato a riporta-
re l’età dell’oro sul mondo in crisi. L’identificazione tardoantica con Gesù Cristo è
solo la più coraggiosa delle tante congetture avanzate. L’egloga si inserisce nelle aspet-
tative di rigenerazione tipiche dell’età di crisi fra Filippi e Azio, e ha un chiaro paral-
lelo nell’epodo 16 di Orazio. I filoni culturali che nutrono questa poesia visionaria
sono ben distinguibili: le poesie in onore di nozze e nascite avevano una loro tradi-
zione retorica; inoltre Virgilio ha attinto anche a fonti non poetiche, in cui si mesco-
lano influssi filosofici e presenza di dottrine messianiche, aspettative di un salvatore.
I più ritengono comunque che la figura di questo giovane salvatore del mondo debba
avere un referente prossimo e concreto: l’egloga è datata chiaramente al consolato di
Asinio Pollione, nel 40 a.C. L’ipotesi migliore (perché fra l’altro spiega l’oscurità del
riferimento, chiaro per i lettori del momento e misterioso già qualche anno dopo) è
che il bambino dell’egloga fosse atteso in quell’anno ma non sia mai nato. Molte spe-
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ranze si alimentavano allora di un patto di potere, poi rivelatosi effimero, fra gli
uomini politici più importanti del momento: Antonio prendeva in moglie la sorella
di Ottaviano. Il matrimonio durò poco e non diede figli maschi, ma l’egloga, pro-
prio per il suo linguaggio sfumato e oracolare, non perse di valore ed ebbe grande
fortuna come documento di un’aspettativa e di un clima morale. Senza saperlo,
Virgilio apriva così la strada all’interpretazione cristiana della sua poesia, così impor-
tante nel Medioevo.

1.3 Dalle Bucoliche alle Georgiche (38-26 a.C.)


Nel 38 a.C., completate verosimilmente le Bucoliche, già Virgilio ha un
nuovo influente protettore, Mecenate, che lo ammette nel suo circolo come, poco
dopo in quello stesso anno, farà con Orazio. Mecenate non chiede ai giovani let-
terati di talento una partecipazione diretta alle fortune del partito di Ottaviano, ma
la sua influenza è evidente in una nuova generazione di opere poetiche: gli Epodi
oraziani e le Georgiche virgiliane. Nella composizione delle Georgiche una spinta
importante venne forse, nel 37 a.C., dalla diffusione dell’opera di Varrone sull’a-
gricoltura. Nel 29 a.C. sembra che il poema fosse giunto a uno stadio definitivo,
dopo una lunghissima fase di scrittura e rielaborazione dovuta all’accanimento
minuzioso con cui Virgilio, secondo i suoi biografi, lavorava, correggendosi molto.
D’altra parte, le Georgiche presuppongono una straordinaria ricchezza di letture: la
grande poesia greca (Omero, i tragici, gli alessandrini) e romana (Lucrezio,
Catullo), ma anche fonti tecniche in prosa, e trattati filosofici di ogni tipo. I segni
di un lungo processo compositivo sono ravvisabili anche nella differenziazione
delle allusioni storiche sparse nell’opera. Il finale del I libro evoca un’Italia in preda
alle guerre civili, in cui l’ascesa di Ottaviano è solo una speranza insidiata da molti
pericoli: uno scenario coerente con il periodo intorno al 36 a.C., quando il potere
di Ottaviano non è ben assestato neppure in Italia e sono recenti le devastazioni
della guerra civile. In molti altri luoghi il poema mostra invece il principe trionfa-
tore dell’universo pacificato. Virgilio, evidentemente consapevole di queste discre-
panze, ha voluto inglobare nell’opera, accanto alla vittoria del nuovo ordine, anche
le lacerazioni che lo hanno preparato.
La data di pubblicazione del poema coincideva con il momento del grande
trionfo di Ottaviano reduce dall’Oriente: ma questo pone un delicato problema.
Secondo una notizia antica, Virgilio avrebbe sostituito, in una seconda edizione,
parte del poema (le «lodi» di Cornelio Gallo, caduto in disgrazia presso Augusto e
morto suicida) con la storia del pastore Aristeo, che conclude l’opera: Aristeo, perse
le sue api per aver causato la morte di Euridice, moglie di Orfeo, riesce ad ottenere
un nuovo sciame con l’aiuto della madre. Ora, la sostituzione presuppone che, per
non alterare l’equilibrio tra i libri delle Georgiche, le due sezioni avessero un’estensio-
ne equivalente, ma è difficile capire come le «lodi» di Gallo potessero svilupparsi per
gli oltre 200 versi attualmente occupati dall’epillio di Aristeo e a cosa potessero col-
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legarsi. D’altra parte, non sappiamo chi e perché ha inventato la notizia del rifaci-
mento, mentre è sicuro che la ‘digressione’ narrativa di Aristeo non ha niente di
posticcio o improvvisato, essendo robustamente collegata alla trama dell’opera e per-
sino alla strutturazione didascalica del contesto: Aristeo è un eroe che ‘impara’ e che,
nella sua paziente lotta contro la natura, sostenuta da tenace obbedienza ai precetti
divini, rappresenta un prototipo mitico del modello di vita che Virgilio vorrebbe
insegnare ai suoi contemporanei.

1.4 Le Georgiche
Le «Georgiche» come poema didascalico

Il titolo Georgica prometteva al lettore colto romano qualcosa di molto più


limitato rispetto alle reali ambizioni dell’opera. Apparentemente, le Georgiche erano
uno dei molti poemi didascalici della tradizione ellenistica: poemi nati da una scel-
ta paradossale, dal gesto di un letterato brillante che affrontava una materia poco
appetibile, perché umile o tecnica, nell’intento di renderla interessante anche all’e-
sigente pubblico ‘colto’ del mondo ellenistico. Queste opere (come i Fenomeni di
Arato, o Il veleno dei serpenti e le Georgiche di Nicandro di Colofone) erano sbilan-
ciate: curatissime sul versante della forma, ma poco interessate a insegnare davvero.
Allo sforzo di argomentare e persuadere (primario nei poemi didascalici arcaici,
quelli di Esiodo, o quelli filosofici di Empedocle o di Parmenide) subentra ormai la
passione del descrivere minuzioso, accattivante. Chi fosse stato interessato propria-
mente alla materia (la caccia, il veleno dei serpenti, le fasi della luna) poteva rivol-
gersi a uno dei molti trattati in prosa (il veicolo ufficiale dell’informazione pratico-
manualistica specializzata).
Lucrezio aveva scosso questa tradizione, risalendo alla poesia didascalica dei
primi poeti-filosofi greci; investita da uno slancio missionario, la sua poesia superava
le esigenze del gioco poetico alessandrino: la bellezza della forma è miele che aiuta
l’assunzione dell’amara medicina filosofica. Descrizioni, digressioni, similitudini non
erano esercizi virtuosistici, ma volevano essere strettamente funzionali alla struttura
dell’opera e alla sua ideologia. A Virgilio, più alessandrino (e neoterico) di Lucrezio,
non è estraneo il gusto delle cose tenui, dei piccoli dettagli, lo sforzo di trasformare
in poesia tutta una realtà di cose ed esseri minuti. Molti brani dell’opera rivelano
emulazione diretta di Arato, Eratostene (altro poeta didascalico ellenistico),
Nicandro e Varrone Atacino. Tuttavia, anche in Virgilio, come in Lucrezio, cui infat-
ti egli si sente particolarmente vicino, è forte e sincero l’interesse contenutistico.

Lo sfondo augusteo
L’appartato mondo agricolo del poema ha una sua costante cintura protettiva
nell’opera di Ottaviano, che prima si profila come l’unico possibile salvatore del
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mondo civilizzato dalla decadenza e dalla guerra civile e poi appare nella sua veste di
trionfatore e portatore di pace. Il nuovo principe garantisce le condizioni di sicurez-
za e prosperità entro cui il mondo dei contadini può ritrovare la sua continuità di
vita. Per questo tipo di cornice ideologica, le Georgiche si possono considerare il
primo vero documento della letteratura latina nell’età del principato. Il primo proe-
mio ne è un chiaro esempio: vi compare – con netta frattura verso la tradizione poli-
tica romana – la figura del principe quale sovrano divinizzato, sviluppo esplicito di
una tradizione ellenistica che tanto aveva faticato per affermarsi a Roma. Augusto, e
accanto a lui il suo consigliere Mecenate, sono accolti nell’opera non solo come illu-
stri dedicatari, ma anche come veri e propri ‘ispiratori’. Il ruolo di destinatario della
comunicazione didattica è assegnato invece alla figura collettiva dell’agricola, che,
assorbito nel testo come orientamento didascalico, cela il destinatario ‘reale’ dell’o-
pera: un pubblico che conosce la vita delle città e le sue crisi. Rivolto formalmente
alla vita dei campi, il poema finisce per affrontare di scorcio anche i problemi della
vita urbana e i più generali problemi del vivere.
È piuttosto difficile credere che le Georgiche siano direttamente ispirate da un
‘programma augusteo’ di risanamento del mondo agricolo. Se mai un tale pro-
gramma fu concepito in quegli anni, non ha lasciato impronta di sé nella storia eco-
nomica; per di più, l’immagine dell’economia rurale che traspare dal poema è una
idealizzata costruzione regressiva, inadeguata alla realtà dell’epoca. L’‘eroe’ del
poema è il piccolo proprietario agricolo, il coltivatore diretto; Virgilio fa al massimo
pallidi cenni alle grandi trasformazioni in corso: l’estensione del latifondo, lo spo-
polamento delle campagne, le assegnazioni di terre ai veterani, il trasferimento di
certe produzioni agricole dall’Italia alle province. Più notevole ancora è la mancan-
za di qualsiasi accenno al lavoro schiavile, vero cardine dell’economia agricola.
L’idealizzazione del colonus che si incarna, ad esempio, nella figura del senex Corycius,
ha, evidentemente, un puro significato morale. Più facile è cogliere, a questo livel-
lo, precise convergenze tra Virgilio e la propaganda ideologica augustea. Ad esem-
pio, l’esaltazione delle tradizioni dell’Italia contadina e guerriera, sentita come
mondo unitario, ha come sfondo il clima della guerra contro Antonio: il partito di
Ottaviano la presentava come uno scontro fra Occidente e Oriente, sostenuto dalla
spontanea concordia dell’Italia che riconosceva in Ottaviano il proprio capo cari-
smatico. Queste coordinate ideologiche producono un’esaltazione specificamente
‘georgica’ della penisola, di cui vengono incensate, oltre alle qualità morali degli abi-
tanti, la fecondità, la salubrità climatica, la perfezione ambientale per la vita umana:
si tratta della formulazione più memorabile della topica della Laus Italiae. Tuttavia,
non va trascurata l’autonomia con cui Virgilio rielabora questo patrimonio di idee:
il suo contributo personale al ‘mito nazionale’ dell’unità italica deve essere stato
molto sensibile. La cosiddetta ideologia augustea non è solo un apparato ideologi-
co preformato, che il poeta si limita a rispecchiare, ma anche, in certa misura, il
risultato di singoli apporti intellettuali.
La complessità di questo mondo ideologico risulterà più evidente se si esamina
la struttura compositiva del poema.
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Struttura e composizione

I temi dei quattro libri sono, rispettivamente, il lavoro dei campi, l’arboricol-
tura, l’allevamento del bestiame, l’apicoltura. L’ordine in cui questi lavori sono col-
locati nel testo prevede che l’apporto della fatica umana si faccia sempre meno
accentuato e la natura (vista, comunque, in funzione dell’uomo) sia sempre più pro-
tagonista. Allo sforzo incessante dell’aratore, nel libro I, risponde, nel libro IV, la ter-
ribile operosità delle api, animali che, per le loro caratteristiche, si fanno quasi sosti-
tuti dell’impegno umano. La struttura del poema sembra orientata dal grande al
piccolo, dalle leggi cosmiche del lavoro agricolo sino al microcosmo degli alveari:
ma proprio il piccolo mondo delle api è quello che più riavvicina la natura alla cul-
tura dell’uomo.
L’opera è dunque impostata su una serie di libri dotati di chiara autonomia
tematica e collegati da un piano complessivo, ciascuno introdotto da un proemio
e dotato di sezioni digressive. Anche qui è evidente la lezione di Lucrezio. Con
due importanti differenze: da un lato, Virgilio tende a indebolire le costrizioni
logiche del pensiero, i forti nessi argomentativi, i collegamenti fra un tema e l’al-
tro; al contrario, l’architettura formale del poema si fa più regolata e simmetrica.
Nasce così una nuova struttura poetica; il discorso fluisce naturale e talora capric-
cioso, nascondendo i passaggi logici, muovendo per associazioni di idee o con-
trapposizioni; nello stesso tempo, il suo dinamismo finisce per trovare equilibrio
in una studiatissima architettura d’insieme, che si fa trasparente nelle simmetrie
fra libro e libro.
Ogni libro delle Georgiche è dotato di una ‘digressione’ conclusiva, di esten-
sione piuttosto regolare: le guerre civili (1,463-514); la lode della vita agreste
(2,458-540); la peste degli animali nel Norico (3,478-566); la storia di Aristeo e
delle sue api (4,315-558). Hanno chiaro valore di cerniera i proemi: due volte lun-
ghi, ed esorbitanti rispetto al tema georgico dei singoli libri (I, III); due volte brevi
e strettamente introduttivi (II e IV). Queste somiglianze formali hanno anche una
funzione più profonda: I e III libro risultano così accoppiati, e lo sono anche nelle
grandi digressioni finali: guerre civili e pestilenza degli animali (le cui sofferenze
sono esposte con profonda partecipazione) si richiamano quasi a specchio, e gli
orrori della storia corrispondono ai disastri della natura. Rispetto a questi finali
‘oscuri’, rasserenante è l’effetto delle altre digressioni: l’elogio della vita campestre si
oppone alla minaccia della guerra e la rinascita delle api replica allo sterminio della
pestilenza. Queste grandi polarità fra temi di morte e temi di vita danno un senso
all’architettura formale, la tramutano in un chiaro-scuro di pensieri che suscita
riflessione nel lettore. Le Georgiche sono infatti anche un’opera di contrasti e di
incertezze. Lo splendido equilibrio dello stile e la simmetria della struttura non
nascondono l’irrompere di inquietudini e conflitti. La fatica dell’uomo è inviata
dalla Provvidenza divina per una sorta di necessità cosmica (1,121 ss.); ma l’ideale
del contadino si richiama al mito dell’età dell’oro, quando il lavoro non era neces-
sario perché la Natura rispondeva da sola ai bisogni. La vita semplice e laboriosa del
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contadino italico ha portato alla grandezza di Roma: ma Roma è anche la Città,


vista come luogo di degenerazioni e di conflitti, polo opposto all’ideale georgico. Il
paziente eroe contadino Aristeo perviene, secondo i consigli divini, a rigenerare il
suo sciame; ma da un suo gesto poco avveduto, intanto, è nata l’irrimediabile infe-
licità del disobbediente poeta Orfeo 1.

1.5 Dalle Georgiche all’Eneide


L’esperienza delle Georgiche è formativa per Virgilio, che organizza un ampio e
continuo concertato di temi senza rinunciare a una grande elaborazione formale, alla
perfezione nei dettagli. Nello stesso tempo, il poeta approfondisce la natura ‘sogget-
tiva’ del suo stile, descrive e narra senza rinunciare alle emozioni, immergendo ogget-
ti e personaggi nella propria partecipazione soggettiva, o, viceversa, immergendosi
nella prospettiva di altri soggetti. Questa nuova sensibilità lo accompagna nell’af-
frontare la fatica successiva, quella del poema epico, genere che attendeva con ansia
nella cultura augustea una grande realizzazione e da cui Virgilio, al tempo delle
Bucoliche, si era volutamente tenuto lontano (6,3). La tradizione enniana del poema
epico-storico, avversata dai poeti nuovi dell’età di Cesare, non si era mai estinta del
tutto: l’epica serviva per lo più alla celebrazione delle vicende contemporanee. Il pub-
blico, che doveva aspettarsi una sorta di Cesareide, rimase dunque colpito dal risulta-
to proposto da Virgilio.

1.6 L’Eneide
Omero e Augusto

All’Eneide, che è la storia della missione di Enea, esule da Troia e scelto dai
Fati perché la sua discendenza fondasse l’impero di Roma, i grammatici antichi
attribuivano una duplice intenzione: imitare Omero e lodare Augusto «partendo
dai suoi antenati». In effetti, nel poema, sono forti la presenza e il modello di
Omero: l’Eneide è insieme la ripetizione dell’Iliade e dell’Odissea e la loro conti-
nuazione fino ad un conclusivo ‘superamento’. Nei travagli del viaggio che lo por-
terà, dopo la fuga da Troia, verso una nuova patria, Enea ripete sia le esperienze di
Odisseo sia le imprese eroiche e sanguinose descritte nell’Iliade (per questo si usa
parlare di una metà «odissiaca» dell’opera, i libri I-VI, e di una metà «iliadica», i
libri VII-XII). Il senso della missione di Enea è nella futura ricostruzione della città

1 Orfeo, il mitico cantore, ha ottenuto dagli dèi inferi di ricondurre sulla terra la sua sposa Euridice
a patto di non volgersi a guardarla prima di essere uscito dall’Ade: disobbedisce e perde per sem-
pre la moglie.
126 L’età di Augusto

che era stata distrutta nell’Iliade: le vicende dell’Eneide, e soprattutto la fratricida


guerra contro i latini, porteranno così all’istituzione di un ordine pacifico e alla
costruzione di una nuova unità. Alla fine, Enea riassumerà in sé l’immagine di
Achille vincitore ma anche quella di Odisseo, che dopo tante prove ha ritrovato la
patria lontana.
Molte vecchie leggende italiche rintracciavano le origini delle città nella venu-
ta di un eroe, spesso un reduce proprio di quella famosa guerra celebrata da Omero.
Una di queste leggende riguardava Albalonga, la città presso il monte Albano da cui,
secondo la tradizione mitica, erano venuti i primi abitatori di Roma: Alba sarebbe
stata fondata da Ascanio, figlio di Enea, detto anche Iulo. Da lui si vantava di discen-
dere la gente Giulia, la famiglia di Cesare e, per adozione, di Ottaviano Augusto. Qui
viene a saldarsi il cerchio tra Virgilio, Augusto e l’epica eroica.
Il piano dell’opera è il seguente.

I. Giunone, nel suo odio per i troiani, scatena una tempesta che decima le
navi di Enea, costringendolo ad approdare in Africa, presso Cartagine.
Qui, favorito dalla madre Venere, l’eroe è accolto da Didone, la regina della
città fenicia, che chiede al suo ospite di narrare la fine di Troia.
II. Enea racconta della distruzione della città, da cui, con la protezione divi-
na, riesce a fuggire portando con sé il padre, il figlioletto e i Penati, sim-
bolo della continuità di una stirpe, ma perdendo la moglie Creùsa.
III. Continua il racconto di Enea: partiti dalla Troade, i troiani capiscono,
attraverso incertezze e misteri, che una nuova patria li aspetta in Occi-
dente. Il racconto retrospettivo si chiude, dopo meravigliose peripezie, con
la morte del vecchio Anchise.
IV. Didone, innamoratasi di Enea, finirà con l’uccidersi quando l’eroe, costret-
to a seguire il corso deciso dal fato, la abbandona. La regina muore male-
dicendo Enea e profetizzando eterno odio fra Cartagine e i discendenti dei
troiani.
V. I troiani fanno tappa in Sicilia. Quasi tutto il libro è occupato dai giochi
funebri in onore di Anchise.
VI. Giunto a Cuma, in Campania, Enea consulta la Sibilla, guadagnando l’ac-
cesso al mondo dei morti. Lì incontra una parte del suo passato: Deìfobo
caduto a Troia, Didone morta per causa sua, lo sfortunato pilota Palinuro,
e soprattutto il padre Anchise, che gli schiude il lontano futuro mostran-
dogli gli eroi, i condottieri che faranno la storia di Roma.
VII. Incoraggiato dall’incontro col padre, Enea sbarca alla foce del Tevere e,
dopo aver riconosciuto da segni prestabiliti la terra promessa, instaura un
patto con il re Latino. Per intervento di Aletto, il dèmone della discordia
inviato da Giunone, la moglie di Latino, Amata, e il principe rùtulo Turno,
promesso sposo della figlia di Latino, fomentano la guerra. Rottosi il patto
e saltato il matrimonio dinastico fra Enea e Lavinia, figlia di Latino, una
coalizione di popoli italici marcia sul campo troiano. Lavinia, nuova Elena,
è al centro della discordia.
VIII. In grave difficoltà, Enea per consiglio divino risale il Tevere con un picco-
lo distaccamento e, nel luogo dove sorgerà Roma, trova l’appoggio di
Virgilio 127

Evandro, re di una piccola nazione di àrcadi. Insieme al figlio di Evandro,


Pallante, Enea trova poi un potente alleato: la coalizione etrusca sollevata
contro Mezenzio, crudele tiranno di Cere ora messo al bando, e alleato di
Turno. Gli dèi fanno dono a Enea di un’armatura forgiata da Vulcano, il
cui scudo è istoriato con il futuro di Roma.
IX. L’assenza di Enea favorisce Turno e i suoi alleati, che ottengono parziali
successi sui troiani. Il coraggioso sacrificio dei giovani troiani Eurìalo e
Niso in spedizione notturna non dà esito.
X. Enea torna con gli alleati e capovolge la situazione. Turno uccide il giova-
ne Pallante, indossandone il balteo in ricordo della vittoria; Enea uccide
allora Mezenzio, fortissimo alleato di Turno.
XI. Enea piange il morto Pallante, offrendo senza successo la pace. Turno tenta
ancora la sorte delle armi. In una grande battaglia equestre cade un altro
eroe di parte latina, la vergine guerriera Camilla.
XII. Provato dagli insuccessi, Turno accetta un duello decisivo con Enea. La
ninfa Giuturna, spinta da Giunone, fa cadere anche questo patto. La bat-
taglia riprende; quando ormai è certa la vittoria dei troiani, Giunone si
riconcilia con Giove e ottiene che nel nuovo popolo non resti più traccia
del nome troiano. Enea sconfigge Turno in duello e, dopo una prima esi-
tazione, spinto dall’ira per avergli visto addosso il balteo di Pallante, lo
uccide.

Va notato che il poeta sottopone il materiale tratto dalle sue fonti storico-anti-
quarie, e quindi i dati tradizionali sulla venuta di Enea nel Lazio, ad una profonda
ristrutturazione. Le variabili notizie su una guerra con i latini, o parte di essi, segui-
ta da un’alleanza, sono state rifuse in un’unica sequenza di guerra, chiusa da una sto-
rica riconciliazione. La guerra è stata rappresentata da Virgilio come scontro tra i
troiani, coalizzati con gli etruschi e con una piccola popolazione greca stanziata sul
suolo della futura Roma, e i latini, appoggiati da numerosi popoli italici (che, in
molti casi, vantano significativamente ascendenza greca). Nello sforzo di creare una
vera epica nazionale romana, Virgilio muove così, nello spazio delle origini, tutte le
grandi forze da cui nascerà l’Italia del suo tempo. Nessun popolo è escluso da un
qualche contributo positivo alla genesi di Roma; gli stessi latini, dopo molti sacrifi-
ci, saranno riconciliati e anzi formeranno il nerbo della nuova gente; la grande
potenza etrusca, estesa dalla Mantova di Virgilio sino al Tevere, si vede riconoscere
un ruolo costruttivo; persino i greci, tradizionali avversari dei troiani, forniscono un
decisivo alleato, l’arcade Pallante, e soprattutto si presentano come la più nobile
‘preistoria’ di Roma. L’Eneide è perciò un’opera di denso significato storico-politico,
ma non è un poema storico. Il taglio dei contenuti è dettato da una selezione ‘dram-
maturgica’ del materiale, che ricorda più Omero che Ennio. Nonostante le aspetta-
tive create dal titolo, l’opera non traccia nemmeno un quadro completo della bio-
grafia di Enea: lasciamo il protagonista prima ancora che possa assaporare il suo
trionfo, non è ben chiaro se vivrà ancora a lungo e il suo futuro di eroe divinizzato
viene solo intravisto di scorcio.
128 L’età di Augusto

Il nuovo stile epico

Virgilio lavora sul verso epico portandolo insieme al massimo di regolarità e al


massimo di flessibilità. Egli plasma il suo esametro come strumento di una narrazio-
ne lunga e continua, articolata e variata, per evitare gli eccessi restrittivi dei suoi pre-
decessori, i poeti neoterici, che avevano imposto all’esametro un sistema rigido di
pause. Con Virgilio, inoltre, la frase si libera da qualsiasi schiavitù nei confronti del
metro: il periodare può farsi ampio o breve, scavalcare o rispettare la coincidenza con
le unità metriche, i piedi dattilici o la linea del verso.
La tradizione del genere epico richiedeva un linguaggio elevato, staccato dalla
lingua d’uso. È naturale quindi che l’Eneide sia l’opera virgiliana più ricca di termini
arcaici e solenni, tipici della poesia sublime. Nel complesso, però, non è questo il trat-
to più significativo del linguaggio virgiliano. Lo stile di Virgilio, notavano già i con-
temporanei, è fatto di ‘parole normali’, cioè termini non marcatamente poetici: per
così dire, parole neutre, in circolazione nella prosa e nella lingua colta. La novità stava
nei nuovi collegamenti che Virgilio imponeva a queste parole: tela exit, «esce dai dardi
(li schiva)»; caeso sanguine, «sangue [di] ucciso». Altri nessi sono più difficili da tra-
durre, perché forzano il senso e la sintassi: rumpit vocem (non «spezza la voce», ma «il
silenzio»); eripe fugam («strappa la fuga», cioè «fuggi»). Questo tipo di elaborazione
del linguaggio quotidiano non ha precedenti nella poesia latina: il pensiero corre
piuttosto a Sofocle o Euripide, i grandi tragici greci. La sperimentazione sintattica
lavora su un lessico che sa mantenersi semplice e diretto; le parole subiscono una for-
zatura di significato che dà loro rilievo nel contesto.
Ma il nuovo stile epico vuole anche piegarsi a una serie di requisiti tradizionali. La
narrazione epica – sin da Omero – deve essere graduale, senza vuoti intermedi, tutta
piena. Azioni ricorrenti e ripetute si prestano a ripetizioni verbali. In Omero certi ogget-
ti e personaggi, ogni volta che ricompaiono, sono accompagnati da epiteti stabili, quasi
diventati ‘naturali’ per loro. Il numero dei guerrieri e delle navi, l’origine degli oggetti, il
nome dei personaggi, sono tutti elementi da catalogare con precisione – questa è la causa
del ritmo ‘rallentato’ così caratteristico dell’epica arcaica. Virgilio accetta questa tradizio-
ne e dà largo spazio a procedimenti formulari, ma la sua tendenza è quella di caricare
questi moduli di una nuova sensibilità. Gli epiteti, ad esempio, fissi e a volte inappro-
priati alla situazione nel contesto omerico, tendono a coinvolgere il lettore nella situa-
zione, e spesso anche nella psicologia dei personaggi che agiscono in quel momento. La
narrazione, attraverso qualche dettaglio, suggerisce più di quello che dice esplicitamente
e il lettore è chiamato a collaborare, esplicitare gli accenni, integrare gli spazi vuoti.
Caratteristica fondamentale dello stile epico di Virgilio è dunque l’aumento di
‘soggettività’: maggiore iniziativa, oltre che al lettore, è data ai personaggi (il cui ‘punto
di vista’ colora a tratti l’azione narrata) e al narratore (che si fa presente a più livelli nel
racconto). Questo aumento di soggettività rischierebbe di disgregare la struttura epica
del racconto se non venisse in più modi controllato. La funzione oggettivante è garan-
tita dall’intervento del poeta, che lascia emergere nel testo i singoli punti di vista sog-
gettivi, ma si incarica sempre di ricomporli in un progetto unitario.
Virgilio 129

L’ideologia del poema e le ragioni dei vinti

Lo sviluppo della soggettività (che si può contrapporre, schematizzando molto,


all’‘oggettività’ omerica) interessa non solo lo stile epico e la tecnica del narrare, ma
anche l’ideologia del poema virgiliano. L’Eneide è la storia di una missione voluta dal
Fato, che renderà possibile la fondazione di Roma e la sua salvezza per mano di
Augusto. Il poeta è garante e portavoce di questo progetto, e focalizza il suo racconto
su Enea, il portatore di questa missione fatale e pertanto anche un personaggio diver-
so dagli altri. In questo senso, Virgilio si assume in pieno l’eredità dell’epos storico
romano: il suo poema è un’epica nazionale, in cui una collettività deve rispecchiarsi e
sentirsi unita. Eppure l’Eneide non si esaurisce in questo progetto. Sotto la linea ‘ogget-
tiva’ voluta dal Fato si muovono personaggi in contrasto fra loro; la narrazione si adat-
ta a contemplarne le ragioni in conflitto. I sentimenti dei personaggi (non solo dei per-
sonaggi ‘positivi’ come Enea) sono così costantemente in primo piano.
Si pensi a Didone. La cultura romana nell’età delle conquiste rappresentava le
guerre puniche come uno scontro fra diversi: l’identità romana trovava fondamento
nella grande opposizione a Cartagine. Il nemico è infido, crudele, amante del lusso,
dedito a riti perversi. Per Virgilio, invece, la guerra con Cartagine non nasce da una
differenza: riportata al tempo delle origini, la guerra è nata da un eccessivo e tragico
amore fra simili. Didone è vinta dal destino (come lo sarà Cartagine), ma il testo acco-
glie in sé le sue ragioni e le tramanda. È anche il caso di Turno. La guerra che Enea
conduce nel Lazio non è vista come un sacrificio necessario. I popoli divisi dalla guer-
ra sono fin dall’inizio sostanzialmente simili e vicini fra loro 2. La guerra è un tragico
errore voluto da potenze demoniache: è in sostanza una guerra fratricida (un concet-
to martellante dell’Eneide prima ancora che della poesia neroniana e flavia).
L’uccisione di Turno, preparata dalla morte di Pallante, appare necessaria, ma Virgilio
non fa nulla per rendere facile questa scelta. Turno è disarmato, ferito, e chiede pietà.
Enea ha imparato da suo padre a battere i superbi e a risparmiare chi si assoggetta:
Turno è un eroe superbo, ma ora è anche subiectus. La scelta è difficile. Enea uccide
solo perché, in quell’attimo cruciale, la vista del balteo di Pallante lo travolge in uno
slancio d’ira funesta. Così, nell’ultima scena del racconto, il pio Enea assomiglia al ter-
ribile Achille che si vendica su Ettore e non a quello pietoso che, alla fine dell’Iliade,
si ritrova uguale a Priamo.
È chiaro che Virgilio chiede molto ai suoi lettori. Essi devono insieme apprez-
zare la necessità fatale della vittoria, e ricordare le ragioni degli sconfitti; guardare il
mondo da una prospettiva superiore (Giove, il Fato, il narratore onnisciente) e par-
tecipare alle sofferenze degli individui; accettare insieme l’oggettività epica, che con-
templa dall’alto il grande ciclo provvidenziale della storia, e la soggettività propria
della tragedia, disputa di ragioni individuali e di verità relative. In questa luce è faci-

2 Per accentuare questo punto, Virgilio arriva a sostenere che i troiani, attraverso il progenitore
Dardano, hanno origini italiche. In questo senso anche Enea, come Odisseo, è uno che ‘ritorna’.
130 L’età di Augusto

le capire perché la fortuna dell’opera si è mantenuta vitale e problematica ben oltre


l’estinzione del suo messaggio ‘augusteo’.

1.7 La fortuna di Virgilio


Virgilio fu già in vita un personaggio popolare, da molti indicato come il più
grande poeta romano, ai cui versi un grammatico, Epirota, dedicava le sue lezioni
anche prima del 20 a.C., nonostante la sua opera più illustre non fosse ancora, a quel-
l’epoca, di pubblico dominio. Per le cure di Vario, incaricato della sua pubblicazio-
ne, l’Eneide, già parzialmente nota prima del 19, cominciò a circolare poco dopo la
morte del poeta e presto ricevette due chiari contrassegni di classicità: l’adozione
come libro di scuola e la critica di accaniti detrattori (le «fruste» di Virgilio) che accu-
savano il poeta di aver ‘rubato’ versi e frasi a predecessori greci e latini. Questo suc-
cesso, che rende immediatamente Virgilio il ‘classico’ di Roma, stimola l’impegno dei
grammatici a chiarire oscurità, minuti dettagli antiquari. Una pleiade di poeti mino-
ri si dà a imitare i più vari aspetti della poesia virgiliana: nasce di qui quella raccolta
spuria che, come vedremo, prende nome di Appendix Vergiliana. Ma anche persone
di modesta cultura, come certi cittadini di Pompei, si divertono a incidere motti vir-
giliani sui muri. Nell’età dei Flavi, il poeta Silio Italico sarà non solo un fanatico imi-
tatore dell’Eneide, ma anche un collezionista tanto accanito di cimeli virgiliani da
comprarsi persino il terreno su cui sorge il sepolcro del poeta.
Nel II secolo d.C. l’esegesi virgiliana comincia a depositarsi progressivamente
in veri e propri commenti, estesi a tutta la produzione del poeta. Le opere che abbia-
mo, come il grande commento di Servio, le raccolte minori di scolii marginali, il
commento ‘retorico’ di Tiberio Donato, risalgono tutte al IV secolo, ma preservano
i frutti delle ricerche anteriori. Analoga importanza hanno le dissertazioni su Virgilio
ospitate dai Saturnalia di Macrobio, ancora del IV secolo.
L’affermarsi della cultura cristiana segnò un passaggio decisivo nella fortuna di
Virgilio, che nell’alta considerazione di figure come Girolamo e Agostino vede solo
la punta di un fenomeno più vasto: lo sforzo di assimilare la letteratura pagana alla
nuova cultura trovò proprio in Virgilio il suo migliore strumento. Tra i più vistosi
fenomeni di assimilazione si può citare l’interpretazione cristiana della IV egloga,
riletta come un simbolico annuncio dell’avvento del Redentore sulla terra.
Di qui procede un grande filone della cultura medievale, che trasforma Virgilio
in un sapiente, un mago, un profeta, un santo, trovando alimento in nuove letture
condotte secondo il filtro dell’allegoria. Intanto, il modello virgiliano impone il suo
codice in ogni tipo di poesia epica indipendentemente dal soggetto (la Bibbia, le
imprese contro i barbari, le gesta degli imperatori, ecc.). Tra IX e XII secolo, lo stes-
so avviene per nuovi generi di epica, mitologica, cavalleresca, e persino filosofica. Se
è indubbia la continuità dell’ispirazione virgiliana in autori come Dante e Tasso, non
meno rilevanti appaiono gli echi dell’Eneide nell’opera del poeta portoghese Luís Vaz
de Camões e dell’inglese John Milton.
Virgilio 131

Allo stabilizzarsi dell’opera virgiliana quale canone poetico di riferimento nella


riflessione dell’Umanesimo cinquecentesco si accompagna, nella cultura europea, la
diffusione del riscoperto Omero. Il confronto Omero-Virgilio, già in auge nella cul-
tura romana di età classica, torna attuale e si fa spia delle evoluzioni del gusto. Il pri-
mato riconosciuto a Virgilio dai suoi commentatori del Cinque-Seicento sarà rove-
sciato a vantaggio di Omero dal movimento romantico, la cui esaltazione di una poe-
sia ‘spontanea’ e nazionale penalizzava un poeta che può sembrare eccessivamente
libresco e cortigiano. Ma queste polemiche e gli aspri dibattiti sull’originalità di
Virgilio non sembrano aver spento né la sua fortuna come testo di scuola, né il suo
sempre vivo influsso sulle nuove generazioni poetiche (da Baudelaire a Pascoli, a
Valéry e T.S. Eliot).

Nota bibliografica

Fra le edizioni moderne si ricordano R. SABBADINI, Roma, 1930 (2 voll.); R.A.B.


MYNORS, Oxford, 1969; M. GEYMONAT, Torino, 1973; e l’edizione Loeb, in 2 voll.,
a cura di H.R. FAIRCLOUGH, Cambridge (Mass.)-London, 1999-2000.
Tra i commenti scientifici all’opera intera di Virgilio vedi J. CONINGTON – H.
NETTLESHIP, London, 1881-833, rist. Hildesheim, 1963. Commenti e note a sin-
gole opere o parti di opere: W. CLAUSEN, Virgil Eclogues, Oxford, 1994; Bucoliche,
introduzione, trad. e note a cura di M. GEYMONAT, testo latino a fronte, Milano,
19987. Georgiche, a cura di W. RICHTER, München, 1957; a cura di R.F. THOMAS,
Cambridge, 1988 e di R.A.B. MYNORS, Oxford, 1990; Virgilio, Georgiche, trad. e
note a cura di A. BARCHIESI, testo latino a fronte, introduzione di G.B. CONTE,
Milano, 1980; M. RAMOUS, Georgiche, introduzione, trad. e note a cura di M. R.,
Milano, 19912; A. BIOTTI, Bologna, 1994 (al libro IV). Commenti a singoli libri
dell’Eneide: libro I: R.G. AUSTIN, Oxford, 1971. II: R.G. AUSTIN, Oxford, 19662.
III: P.V. COVA, Milano, 1994. IV: A.S. PEASE, Cambridge (Mass.), 1935, rist.
Darmstadt, 1967; R.G. AUSTIN, Oxford, 1955. V: R.D. WILLIAMS, Oxford, 19652.
VI: E. NORDEN, Leipzig, 19263, rist. Darmstadt, 1957; R.G. AUSTIN, Oxford,
1977. VII: N. HORSFALL, Leiden-Boston-Köln, 2000; VII-VIII: C.J. FORDYCE,
Oxford, 1977 (incompiuto); VIII: P.T. EDEN, Leiden, 1975. IX: PH. HARDIE,
Cambridge, 1994. X: S.J. HARRISON, Oxford, 1991. XI: K.W. GRANSDEN,
Cambridge, 1991; N. HORSFALL, Leiden-Boston, 2003. Vedi anche A. TRAINA,
Virgilio: l’utopia e la storia. Il libro 12 dell’Eneide e antologia delle opere, Torino,
1997; E. PARATORE, 6 voll., Milano, 1977-83 (a tutta l’Eneide). Una buona edi-
zione dell’Eneide con testo latino a fronte è quella di M. RAMOUS, con introduzio-
ne di G.B. CONTE, commento di G.L. BALDO, testo latino a fronte, Venezia, 1998.
132 L’età di Augusto

Sui commenti antichi a Virgilio vedi i due volumi delle Interpretationes vergilianae
minores a cura di N. SCIVOLETTO – A.V. NAZZARO – G. BARABINO, Genova, 1991
e 1994.
Studi: R. HEINZE, Vergils epische Technik, Leipzig-Berlin, 19153, trad. it. (di M.
Martina) La tecnica epica di Virgilio, con introduzione di G.B. CONTE, Bologna,
1996 (fondamentale per l’Eneide); B. OTIS, Virgil. A Study in Civilized Poetry,
Oxford, 1963; F.J. WORSTBROCK, Elemente einer Poetik der Aeneis, Münster, 1963;
V. BUCHHEIT, Virgil über die Sendung Roms, Heidelberg, 1963; A. WLOSCK, Die
Göttin Venus in Vergils Aeneis, Heidelberg, 1967; F. KLINGNER, Virgil. Bucolica
Georgica Aeneis, Zürich-Stuttgart, 1967; PÖSCHL, Die Dichtkunst Virgils. Bild und
Symbol in der Aeneis, Berlin-New York, 19773; F. KLINGNER, Il punto su Virgilio,
trad. it. Roma-Bari, 1987; G.B. CONTE, Virgilio. Il genere e i suoi confini, Milano,
1984; A. BARCHIESI, La traccia del modello. Effetti omerici nella narrazione virgilia-
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Los Angeles, 1987; F. CAIRNS, Virgil’s Augustan Epic, Cambridge, 1989; K.W.
GRANDSEN, Virgil: the Aeneid, Cambridge, 1990; J. FARRELL, Vergil’s Georgics and
the Traditions of Ancient Epic, New York, 1991; S. FARRON, Vergil’s Aeneid: a Poem
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the Study of Virgil, Leiden-New York-Köln, 1995; M.C.J. PUTNAM, Virgil’s Epic
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Studies in Intertextuality, Ann Arbor, 1999; S. TIMPANARO, Virgilianisti antichi e
tradizione indiretta, Firenze, 2001.
Fra gli strumenti di consultazione si ricorda l’Enciclopedia Virgiliana (edita dal-
l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1984-91).

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