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1) Taoismo-Confucianesimo

Tao è un termine che può essere tradotto come sentiero, cammino, sistema, principio. Anticamente
veniva associato questo termine a quella formula espressiva di essere guidato.
La «scuola taoista» rappresenta la principale di queste tendenze. La condanna del lusso, della
tecnologia, delle istituzioni, l'indifferenza e il distacco per le cose, tutti consigliano un ideale di
sobrietà riferendosi alle piccole ed isolate comunità rurali. Differentemente dal confucianesimo che
è invece prevalentemente morale, e identifica questo termine con il de ossia all’equivalente virtus
latina, intesa come forza, facoltà ed efficacia. Il confucianesimo dunque, rappresenta il lato
pratico, sobrio, sociale della vita e del carattere del popolo cinese, bilanciato, in questo senso, dal
taoismo, che rappresenta l'aspetto metafisico, artistico, allegro. Questa descrizione è basata
principalmente sulle dottrine di Laozi, di Zhuāngzǐ e di Liezi. Dao che può essere detto non è
l'eterno Dao, il nome che può essere nominato non è l'eterno nome.
Il Taoismo appartiene a quei rami di religione come il buddismo, il confucianesimo e il daoismo
sostiene che esista nell'universo una sorta di autoregolazione e che lasciare correre spontaneamente
tale meccanismo dia spazio ad una vita serena, senza violenza. Ma, è importante sottolinearlo, non
legittima la sopraffazione ed il caos. l Wu wei o legge dell'agire senza agire. Wu wei significa
permettere il ritmo naturale delle cose, non deviare o forzare la spontaneità della natura, non
imporre la propria volontà sopra l'organizzazione del mondo. I testi che più trattano questo aspetto
sono il Daodejing ed il Zuangzi. Si sottolinea quindi il raggiungimento di una quiete interna, la
ricerca di una libertà della mente e dello spirito nel tentativo di raggiungere una unità con tutto
l'universo. ll caso di Confucio, inoltre, il problema delle fonti è reso ancora più grave dalla
persecuzione di cui furono fatte oggetto le scuole filosofiche durante la dinastia Qin, oltre due secoli
dopo la morte di Confucio. Confucio è il nome latinizzato di Kung Fu Tse (maestro Kung), nato nel
551 a.C. a Lu, l'odierna Qufu, nello Shandong. Figlio di un funzionario statale in pensione (di
famiglia quindi povera ma aristocratica), dovette affrontare non poche difficoltà materiali.
Aspirando alla vita politica attiva, egli divenne prima prefetto, poi intendente ai lavori pubblici,
infine ministro della giustizia, cercando di riorganizzare, sulla base di norme e ideali di tipo feudale
e pre-feudale, l'amministrazione dello Stato (il Chou orientale, che stimava per la raffinatezza della
sua civiltà e perché aveva conservato e perfezionato i riti delle due dinastie precedenti). Non
abbiamo nulla scritto di suo pugno. Dialoghi sono raggruppati per temi, ma non sviluppano un
discorso strutturato. La sequenza dei capitoli appare del tutto casuale, accostando temi che non sono
in alcun modo collegati fra loro. Alcuni temi centrali si ripetono in vari capitoli, talvolta nella stessa
formulazione e talvolta con lievi variazioni. Viene paragonato a Platone, solo che mentre
quest’ultimo tende verso un discorso . utopico e contemplativo, Confucio si sofferma sul
comportamento e sulla società. La sua visione si fondava sui principi di un'etica individuale e
sociale basata sul senso di rettitudine e giustizia, sull'importanza dell'armonia nelle relazioni sociali,
codificate secondo precise norme etiche e rituali, empatia nei confronti del prossimo,
all'apprendimento inteso come percorso di studio, pratica e riflessione, e alla messa in pratica delle
conoscenze apprese per il miglioramento di sé e della comunità umana.

2) Buddha
Siddhartha meglio conosciuto come Buddha è, filosofo, mistico e asceta indiano, fondatore del
Buddhismo, una delle più importanti figure religiose dell'Asia.
La storia affascinante di questo protagonista racconta che abbandono i propri agi del palazzo e si
privò di tutti i beni per andare fuori dal suo palazzo a mendicare.
I testi di riferimento sono sempre i VEDA,I BRHMANA, e soprattutto le UPANISHAD.
Fornisce a questi testi una nuova interpretazione. I poli di riferimento attraverso i quali l’uomo può
esorcizzare il suo dolore è la sete dell’ASSOLUTO, il punto di equilibrio tra L’ATMAN che
rappresenta l’interiorità, l’anima individuale e il Brahma che rappresenta la divinità. A 35 anni, nel
530 a.C., dopo sette settimane di profondo raccoglimento ininterrotto, in una notte di luna piena del
mese di maggio, seduto sotto un albero di fico a Bodh Gaya[20] a gambe incrociate nella posizione
del loto, a lui si spalancò l'illuminazione perfetta: egli meditò una notte intera fino a raggiungere il
Nirvāṇa
Il Buddha conseguì, con la meditazione, livelli sempre maggiori di consapevolezza: afferrò la
conoscenza delle Quattro nobili verità e dell'Ottuplice sentiero e visse a quel punto la Grande
Illuminazione, che lo liberò per sempre dal ciclo della rinascita (da non confondersi con la dottrina
induista della reincarnazione, che fu esplicitamente rigettata con la dottrina del "non Sé", anatman).
C’è da sottolineare che l’unica via per uscire dal dolore è , utilizzando il linguaggio di Freud, la
totale repressione del desiderio. Con essa l’uomo raggiunge il nirvana di primo grado, che è
differente da quello definitivo, che invece rappresentato dalla morte.
3) Islam
È una religione monoteista, una delle tre religioni rivelate o anche dette «del Libro» Nasce nel VII
secolo d.C. nella penisola arabica per opera di Maometto, un umile cammelliere a cui Dio avrebbe
trasmesso oralmente il Corano e che i musulmani considerano l’ultimo profeta (i musulmani
considerano un profeta anche Gesù). Islamismo Indica l’Islam inteso come ideologia politica.
Islamista è un aggettivo diverso da islamico, nonostante spesso venga u
Sinonimi concettuali sono islam politico e attivismo islamico, e il sinonimo vero e proprio
del movimento islamico è musulmano.

I punti salienti della professione di fede dell’Islam sono dunque i seguenti:

1)unità e unicità di dio (la prima contro il politeismo pagano, la seconda contro il monoteismo
ebraico-cristiano). Il dio musulmano è creatore dell'universo dal nulla, predestina gli uomini al bene
e al male, ed è irrappresentabile perché assolutamente misterioso. Gli si attribuiscono 99 nomi
positivi (, coloro che combattono e muoiono per l'islam vengono accolti subito in paradiso, prima
del Giudizio universale;
accettano le sacre scritture, come il Pentateuco di Mosè, i Salmi di Davide, il Vangelo di Gesù, ma
la fede è solo nei confronti del Corano di Maometto.
La professione di fede, oltre ad aprire tutte le preghiere, rappresenta anche il simbolo dell'islam, in
quanto chiarisce bene la differenza di questa religione da ogni altra, cui generalmente viene vietato
il proselitismo
2)Le cinque preghiere quotidiane, che il fedele, col capo coperto, deve compiere sempre rivolto
verso La Mecca (in moschea vi è una nicchia apposita, ma in casi di necessità ci si può avvalere di
una piccola bussola). Esse avvengono all'alba, a mezzogiorno, di pomeriggio, al tramonto e alla
sera: le ore sono state fissate qualche tempo dopo la morte di Maometto; la più importante è quella
di mezzogiorno, specie al venerdì, che è il giorno festivo (nel quale però non viene imposto il
divieto di lavorare). La preghiera del venerdì in moschea è obbligatoria per ogni fedele di sesso
maschile. Le preghiere devono essere precedute da un'abluzione rituale obbligatoria: con acqua
pulita, non necessariamente corrente, ci si lava la faccia, le braccia fino al gomito e i piedi fino alle
caviglie. Se la "contaminazione" è grave (p.es. nel rapporto sessuale), occorre un bagno completo,
solo dopo il quale è permesso recitare la preghiera e toccare il Corano. In mancanza di acqua si può
usare sabbia o polvere, usando una diversa procedura. Le preghiere si concluderanno con il sermone
dell'imam, cui però è facoltativo assistere. L'officiante non è un sacerdote, in quanto, per diventarlo,
basta conoscere in modo approfondito i testi sacri ed essere eletto dalla comunità. Dall'alto del
minareto della moschea il muezzin, che può avvalersi di amplificatori, chiama i fedeli alla
preghiera, ma si può pregare anche in casa propria o sul luogo del lavoro, ovunque ci si trovi.
Uomini e donne si radunano separatamente in file, mettendosi uno accanto all'altro: il ricco accanto
al povero. Le preghiere, recitate con molta calma, sono brevi e tutte tratte dal Corano e dagli
Hadith, racconti di vita e detti di Maometto scritti da suoi seguaci. All'inizio si prega in piedi, poi vi
sono piccole e grandi prostrazioni, sopra un tappeto o una stuoia, con la fronte poggiata per terra.
3) L'elemosina legale (zakat), che consiste in una esazione statale delle imposte (in genere il 2,5%
del reddito annuale netto), per opere di beneficenza o di pubblico interesse, per le spese comunitarie
e il mantenimento del clero, per i debitori insolventi o per i neo-convertiti, nonché per la diffusione
dell'islam o per la sua difesa. Ma è anche possibile fare delle offerte volontarie per le casse delle
moschee. L'elemosina legale non è ritenuta solo la base della giustizia sociale, insieme al divieto
dell'usura, ma anche un mezzo di espiazione dei peccati, per cui il suo valore è legale e morale. Il
Corano non si preoccupa della quantità ma della qualità del dono (che va fatto secondo coscienza e
senza umiliare il ricevente, tant'è che nella tradizione dei mistici sufi spesso viene considerata
inaccettabile l'elemosina di coloro la cui ricchezza o il cui potere si presume siano stati ottenuti in
maniera illecita). L'importo della zakat è fisso se l'imposta si riferisce a terra e bestiame, variabile se
si riferisce ai commerci.

4) Il digiuno, che implica l'astinenza da qualunque cibo e bevanda, dal fumo, dai profumi e dai
rapporti sessuali, durante il Ramadan, nono mese del calendario islamico, che già era considerato
sacro presso gli antichi arabi. A causa del calendario lunare, il Ramadan cade in stagioni diverse e
per quella estiva il digiuno è particolarmente gravoso. Solo dopo 33 anni ricade nella stessa data.
Maometto aveva cominciato con l'imporre il digiuno ebraico del kippur, che va dal tramonto di un
giorno al tramonto del giorno successivo. Ma a causa della rottura con gli ebrei di Medina, lo
sostituì con questo digiuno mensile, limitato alle ore di luce solare. Naturalmente durante il
Ramadan il ritmo della vita rallenta, fin quasi alla paralisi di ogni attività lavorativa (benché la
maggior parte delle vittorie e delle conquiste nella storia dell'Islam siano state fatte proprio nel mese
di Ramadan!); poi al tramonto un colpo di cannone, in ogni città, permette di nuovo che strade e
piazze si rianimino. Questo tempo è sacro perché è riservato alla riflessione personale, è il periodo
in cui più facilmente si esprime la solidarietà della comunità, la riconciliazione fra parenti e amici, il
perdono delle offese, ecc. La frequenza alle moschee aumenta; anzi, per il carattere collettivo che ha
assunto fin dagli inizi, il precetto viene seguito anche dai fedeli meno praticanti. Alla fine del mese
si commemora, durante "La notte della potenza", la cosiddetta discesa del Corano dal cielo (che
sarebbe appunto avvenuta in questo mese) e l'inizio del ministero di Maometto: è questa la festa più
popolare dell'islam. Il digiuno serve anche a ripristinare l'equilibrio dell'anima col corpo (non però
la soggezione di questo a quella) ed è per Maometto il dovere cultuale prediletto da dio. I
viaggiatori, i malati, gli anziani, le gestanti, le nutrici e ogni persona costretta a un lavoro pesante
sono esonerati, ma solo temporaneamente, oppure devono provvedere con una corrispondente
espiazione (p.es. aiutando i poveri).

5) Il pellegrinaggio, almeno una volta nella vita, alla Mecca, per sottolineare i principi di
sottomissione a dio, uguaglianza tra gli uomini, unità musulmana e purificazione-sacrificio. Qui
infatti si trovano i luoghi più sacri dei musulmani, interdetti agli infedeli. Maometto vi iniziò il
ministero e Abramo vi ricostruì la Kaaba (edificata da Adamo), aiutato dal figlio Ismaele, in segno
della loro sottomissione a dio: così dice il Corano. La Kaaba contiene un'unica stanza senza finestre,
cui si accede per una porta, alcuni metri sotto il livello del suolo. Vi si fanno vedere l'impronta del
piede di Abramo su una sacra pietra, insieme con la tomba di Agar e del figlio Ismaele. L'edificio è
coperto da pesanti drappeggi di broccato nero ricamato in oro con i testi del Corano. Il grande
pellegrinaggio alla Mecca si fa nell'ultimo mese del calendario (per gli altri mesi si parla di "piccolo
pellegrinaggio"). Durante la permanenza in questa città, i fedeli non possono radersi, tagliarsi i
capelli e le unghie, né avere rapporti sessuali, litigare o far del male a qualcuno.

4)Pitagora
La filosofia pitagorica rappresenta il trapasso dalla filosofia realistica alla filosofia
intellettualistica. I filosofi ionici avevano ritrovato l’archè, il principio unificatore della realtà, in
qualcosa di materiale, per lo più in uno degli elementi della natura (acqua, aria, fuoco). I pitagorici
vedono invece nel numero l’essenza di tutte le cose. Il riconoscimento del potere del pensiero fa un
passo ulteriore in avanti: «Si afferma — dice Hegel — che l’essenza non è sensibile; e così qualcosa
del tutto eterogeneo al sensibile, e alla comune rappresentazione, viene dichiarato sostanza e vero
essere». Ai pitagorici si deve la creazione della matematica come scienza.Pitagora nota (come
deduciamo da testimonianze, in quanto egli non ha lasciato alcuno scritto) che il numero è qualcosa
di presente dappertutto; al numero dobbiamo infatti ricorrere se vogliamo descrivere in maniera
oggettiva una qualsiasi realtà. Le varie qualità dei corpi possono apparire diverse a diversi soggetti.
La tesi fondamentale della loro filosofia è che il numero sia sostanza delle cose e che la natura del
mondo è un ordinamento geometrico esprimibile attraverso i numeri e quindi misurabile. La
filosofia dei pitagorici è dualistica in quanto essi o intendono spiegare la realtà attraverso
l'opposizione paridispari del numero, in cui vedono l'opposizione e la dualità delle cose: il dispari è
un'entità limitata, quindi terminata e compiuta, il pari è illimitata. Oltre a questa, essi elaborano 10
opposizioni fondamentali, conciliati nel mondo da un principio di armonia, che per i pitagorici era
la musica, modello di tutte le armonie che si trovano nell'universo. Anche in astronomia, i pitagorici
sostennero molte intuizioni che li fanno riconoscere come i più antichi precursori di Copernico: per
primi sostennero la sfericità della terra e dei corpi celesti,, ammisero che la Terra ruota attorno a un
fuoco centrale detto hestìa, insieme al cielo delle stelle fisse, i 5 pianeti, il Sole, la Luna e
l'Antiterra, successivamente tale ipotesi si trasformò in una cera ipotesi eliocentrica, ponendo il Sole
al centro ma fu sommersa dall'imperante teoria aristotelico-tolemaica, e per primi riconobbero la
rotazione della Terra attorno al suo asse. Le idee matematiche fondarono anche la loro
interpretazione dell'uomo e del mondo: la giustizia concepita come numero quadrato (meriti uguali
con uguali ricompense e colpe uguali con pene uguali), consideravano l'anima come armonia in
quanto risultato della composizione armonica degli elementi del corpo, sono i primi a porre nel
cervello l'organo delle vita spirituale (finora era riconosciuto nel cuore). In Pitagora si profila per la
prima volta la stretta relazione fra conoscenza e moralità propria della filosofia greca. Nella scuola
pitagorica alle superiori conoscenze matematiche e filosofiche veniva «iniziato», cioè introdotto,
soltanto colui che ne era reputato degno dal maestro per aver compiuto passi in avanti sulla via della
purificazione, cioè della virtù, della capacità di autocontrollo. Raggiungere i vertici del sapere
significa imparare a far uso della ragione, senza lasciarsi ingannare da sensi, passioni, istinti. Essere
sapiente diviene equivalente a essere virtuoso. In Pitagora la conoscenza acquista un carattere
esoterico, non è cioè accessibile a tutti (col rischio di un cattivo uso delle conoscenze), bensì è
riservata agli iniziati che si sono dimostrati virtuosi. Pitagora è dunque in qualche modo il primo
esponente dell’intellettualismo etico greco, cioè della tendenza — propria di tutta la filosofia greca
— a far coincidere bene e sapere.
Si è inoltre rilevato come il pitagorismo sia una filosofia della discontinuità: per il parallelismo
posto da Pitagora fra aritmetica e geometria, alla discontinuità fra un numero e un altro corrisponde
un «salto», un vuoto, un non-essere fra un punto (una particella di materia) e l’altro. Ma la scoperta
che la diagonale di un quadrato di lato unitario è uguale a √2, che è un numero irrazionale, cioè con
infiniti decimali, apre la strada alla considerazione che fra un punto e l’altro ci sono infiniti altri
punti, che cioè la realtà non è discontinua e molteplice, bensì continua e unitaria.
5)Sofisti

Il termine sophistès (sapiente), perde l'antico significato di sophòs (saggio), per individuare gli
intellettuali che facevano della loro sapienza una professione e insegnavano dietro ricompensa, fatto
che alla mentalità aristocratica appariva scandaloso, tanto che i sofisti vennero considerati degli
pseudofilosofi, dei falsi sapienti, negozianti di cultura. Nonostante ciò sono innegabili i grandi
stravolgimenti che essi apportarono alla società, alla cultura e alla filosofia: 1. operarono una
rivoluzione filosofica, spostando l'asse della speculazione dalla natura all'uomo e iniziarono a
concentrarsi sulla politica, le leggi, la religione, l'educazione ecc., divenendo i filosofi dell'uomo e
della città; 2. riguardo proprio all'educazione, i sofisti riconoscono il valore educativo e formativo
del sapere ed elaborarono il concetto di cultura (paidèia), come una formazione globale e non
specialistica, tanto che si dedicarono all'incremento dello scibile ma anche alla sua diffusione; 3. la
sofistica è sovente definita un "illuminismo greco" poiché, così come l'Illuminismo nel XVIII sec.
l'insegna l'uso della ragione e usa la critica come strumento per svincolare l'uomo dal pregiudizio,
così la sofistica vuole criticare i miti e le credenze, per sostituirli con nozioni razionali, svincolando
criticamente così l'uomo dal passato in nome della ragione; 4. grazie ai loro viaggi, si fanno
portatori di istanze cosmopolitiche che contribuiscono a un allargamento della mentalità greca e
antica. I sofisti non costituirono una scuola compatta, presentano infatti diverse dottrine spesso
opposte e discordanti. è bene quindi distinguere tra i maestri della prima generazione (Protagora,
Gorgia, Ippia, Antifonte) e della seconda generazione, gli "eristi", che segnano la fase di crisi e
dissoluzione. Protagora è sicuramente il più importante esponente della sofistica. Nacque nel 490
a.C. ad Abdera, la sua formazione fu probabilmente influenzata da Eraclito, tenne scuola in
numerose città, la sua sapienza intellettuale e la sua eloquenza affascinarono tutta la Grecia, ma le
sue idee spregiudicate sulla religione gli crearono notevoli opposizioni e un'accusa pubblica di
empietà che lo costrinse ad abbandonare la città. La tesi fondamentale della sua dottrina è che
"l'uomo è misura di tutte le cose, delle cose che sono in quanto sono, delle cose che non sono in
quanto non sono" (frammento 1). Ciò significa che l'uomo è il soggetto di giudizio della realtà o
dell'irrealtà delle cose e del loro significato. Altre interpretazioni dipendono dal senso che si dà alla
parola uomo e alla parola cose: 1. PLATONE: uomo =individuo, cose = oggetti percepiti attraverso
i sensi le cose appaiono diversamente in base agli individui che le percepiscono e ai loro stati fisici
e psichici; 2. Uomo = umanità/natura umana, cose = realtà gli individui valutano le cose in base ai
parametri della specie razionale a cui appartengono, ovvero l'umanità, ovvero secondo la mentalità
del gruppo a cui appartiene. Si comprende la vera interpretazione nel senso protagoreo se si
fondono insieme queste interpretazioni, in quanto l'uomo valuta le cose sia come singolo sia come
"appartenente a una comunità" e sia a seconda dei suoi stati psicofisici sia a seconda dei parametri
della società in cui vive. Da questa forma di umanismo, fenomenismo e relativismo conoscitivo e
morale della posizione di Protagora, deriva la frantumazione della realtà in miriade di
interpretazioni soggettive e, proprio su questa base, i sofisti insistevano sulla diversità ed
eterogeneità dei valori e ideali che sono alla base della convivenza umana. Da ciò deriva l'idea,
sofista in generale, che non esista il sapere assoluto, che "tutto è vero" e quindi che la verità sia
sempre una forma di conoscenza relativa al soggetto che la produce e, in quanto relativa, l'unica
forma di sapere è l'opinione. Dall'equivalenza ideale di tutte le opinioni decade il criterio assoluto
della scelta e Protagora invita a valutare le affermazioni in base al principio "debole" dell'utilità
privata e pubblica. Infatti, pubblica utilità e sopravvivenza della specie devono essere ciò su cui tutti
dovrebbero essere d'accordo e che deve unire individui e popoli, al di là delle credenze e
convinzioni ideali, perciò l'utile, inteso come bene del singolo e della comunità, diviene strumento
di verifica e legittimazione delle teorie. L'altra grande figura della sofistica è Gorgia di Lentini, che,
rispetto a Protagora, presenta una dottrina più negatica riguardo alle possibilità conoscitive
dell'uomo. Nella sua prima opera, Sul non essere, egli esprime le sue tre tesi fondamentali: 1.
l'essere non esiste non vuole negare la realtà di cui i nostri sensi sono testimoni, ma la possibilità di
una concettualizzazione filosofica, la pensabilità logica e ontologica dell'essere e in particolare
dell'archè, il principio che i presofisti hanno tanto ricercato; 2. se anche esistesse, l'essere non
sarebbe pensabile dovremmo presupporre che la nostra mente fotografi esattamente la realtà, ma
così non è poiché il pensiero non rispecchia esattamente la realtà (distrugge l'equazione eleatica
"pensiero = essere", introducendo una frattura tra mente e cose; 3. se anche fosse pensabile, non
sarebbe dicibile il linguaggio è cosa a sé rispetto alla realtà e non ha possibilità rivelative al
riguardo, le parole sono qualitativamente diverse dalle cose che significano. Le tre tesi acquistano
maggiore densità speculativa se si pensano in relazione all'essere parmenideo, la realtà assoluta
chiamata Dio. Il messaggio che si evince da questa chiave di lettura è il puro agnosticismo, o
scetticismo metafisico, ovvero la consapevolezza dell'impotenza umana nel parlare dell'essere e
delle strutture del reale, portando alla sfiducia completa nelle possibilità della nostra mente. Si trova
quindi qui la prima grande messa in discussione della metafisica, base del pensiero dagli empiristia
Kant e al pensiero contemporaneo. (Prodico di Ceo: per gli antichi era divino ciò che era utile
all'esistenza, sole luna e ciò che giova alla vita; Crizia: gli dei sono invenzioni dei governanti per
controllare i sudditi e le loro coscienze e per punire i comportamenti proibiti dalle leggi). Se in
Protagora c'era ancora un criterio di verità, l'utile, ora in Gorgia non troviamo più alcun criterio e
tutto è falso. In assenza di qualunque verità o certezza, l'unica cosa che conta è il linguaggio, inteso
come forza ammaliatrice e persuasiva che domina gli stati d'animo (Elena e la forza persuasiva della
parola di Paride). L'Elena senza colpa può essere spiegata anche tenendo conto della visione tragica
di Gorgia riguardo alla vita: l'esistenza è qualcosa di irrazionale e misterioso, le azioni dell'uomo
non sono rette dalla logica, ma dalle passioni, dalle circostanze e dal destino che fa sì che gli uomini
siano determinati e incolpevoli. Così come la volontà di elena è stata soggiogata da tali forze e la
sua psiche risulta essere innocente. Nel IV sec. a.C., avviene la crisi e la dissoluzione della sofistica
a causa della creazione della cosiddetta "eristica", cioè l'arte di confutare nelle discussioni le
affermazioni dell'avversario per la loro intrinseca verità o falsità concettuale.
Questa posizione porta a un impoverimento della filosofia, che diventa mera retorica, al venire
meno dei fondamenti della prima sofistica (democrazia, libertà e cultura) e alla missione educativa
che caratterizza la sofistica.

SOCRATE. La personalità di Socrate segna un momento fondamentale non solo nella filosofia
greca, ma nell'intera storia intellettuale dell'Occidente. Egli nacque ad Atene nel 470 a.C. e qui
formò la sua educazione, probabilmente scolaro di Anassagora. Si allontanò da Atene per sole 3
volte per compiere il suo dovere di soldato ma, nonostante ciò, si tenne lontano dalla vita politica
attiva, in quanto la sua vocazione e il compito al quale si dedicò fino alla morte fu la filosofia, che
egli intendeva come ricerca ed esame incessante di se stesso, e per a questo esame dedicò la sua
vita, rinunciando all'insegnamento e ad ogni attività pratica. Coerente con la sua dottrina fu la scelta
di non scrivere nulla: la ricerca filosofica non poteva essere continuata dopo di lui da uno scritto, lo
scritto non può suscitare e dirigere il filosofare, può comunicare una dottrina, ma non stimolare la
ricerca. Le fonti principali riguardo alla dottrina di Socrate sono quelle dei socratici minori, di
Aristotele e Platone, ma, non essendo queste sufficienti, oggi si è pervenuti a uno stato di
scetticismo interpretativo, giudicando la filosofia di Socrate un enigma irrisolto. Per comprendere la
figura di Socrate è opportuno collocarla dal punto di vista filosofico, in quanto la storiografia
contemporanea, seguendo erroneamente Platone, fa di Socrate l'anti-sofista per antonomasia,
facendo perdere le radici ambientali e mentali del suo pensiero. Socrate è infatti sia figlio che
avversario della sofistica, in quanto è legato ad essa per diversi aspetti, quali: - l'attenzione per
l'uomo e il disinteresse per le indagini intorno al cosmo; - la ricerca nell'uomo e non fuori i criteri
del pensiero e dell'azione; - la mentalità razionalistica e anticonformistica, che non accetta niente
che non sia passato al vaglio della critica e della discussione; - l'inclinazione al paradosso e alla
dialettica. Aspetti che invece lo allontanano dai sofisti sono: - la volontà di non fare della cultura
mera professione; il rifiuto di ridurre la filosofia a mera retorica o esibizionismo fine a se stesso; il
tentativo di superare il relativismo conoscitivo e morale su cui si era basata la sofistica dopo
Protagora: vuole avvicinare intellettualmente gli uomini, facendo superare i punti di vista soggettivi
cercando verità comuni. Il dialogo. Riguardo all'attenzione per l'uomo e la ricerca del senso
dell'esistenza, sembra che esse derivino da una delusione derivata dalle indagini dei naturalisti, che
sembra egli abbia seguito con interesse in un primo momento, per giungere alla conclusione che alla
mente umana non è dato conoscere l'essere e i principi del mondo. Egli inizi così ad intendere la
filosofia come un'indagine dell'uomo di se stesso, in cui, attraverso la ragione, egli possa capire le
ragioni del suo essere uomo. Per Socrate, la ragione dell'essere uomo è e va ricercata nel rapporto
con gli altri, e da qui nasce il carattere di dialogo della sua filosofia, poiché dialogando con il
prossimo, l'uomo può affrontare e comprendere se stesso, la propria umanità e il senso
dell'esistenza. Il dialogo socratico di sviluppa attraverso 3 diversi momenti: il non sapere: la prima
condizione della ricerca è la coscienza della propria ignoranza. Nell'affermazione "sapiente è
soltanto chi sa di non sapere" va intesa una sottile polemica contro i filosofi della natura (è filosofo
solo chi comprende che non si può dire nulla di certo sulle cause e le strutture del Tutto) e un'eco
all'agnosticismo metafisico di Protagora e Gorgia, attraverso una polemica ai sacerdoti e in generale
a coloro che pensano di avere certezze salde sula vita. La frase, quindi, incoraggia alla ricerca
poiché chi crede di possedere la verità non avrà il bisogno interiore di cercarla e solo chi sa di non
sapere cercherà di sapere; l'ironia: è il gioco di parole o finzioni attraverso cui il filosofo fa cadere
le pseudo-certezze degli individui, gettandoli nel dubbio e l'inquietudine, per svelare oro la loro
ignoranza e lo stato di non sapere in cui si trovano. Egli punta a distruggere la presunzione del
sapere e invogliare alla ricerca del vero; la maieutica: attraverso l'ironia, il filosofo non intende
riempire la mente del discepolo con una propria verità o comunicare una propria dottrina, ma
invogliarlo alla ricerca di una personale. Nasce la maieutica, l'arte di far partorire come dice
Socrate, come la madre, Socrate è l'ostetrico delle anime, aiutando l'intelletto a partorire il proprio
punto di vista sulle cose e la verità è una conquista personale. Il dialogo socratico parte
dall'interrogativo ti ésti (che cosa è?), cioè la richiesta di Socrate all'interlocutore di una definizione
precisa di ciò di cui si sta parlando, e a cui gli interlocutori rispondevano con un mero elenco di
esempi, che Socrate non accettava, poiché era alla ricerca della definizione. Da qui si capisce cosa
intendesse Aristotele quando attribuiva a Socrate la scoperta del "concetto", cioè della definizione
della cosa, e quindi della conoscenza universale che si otteneva da un ragionamento di tipo
induttivo. Tuttavia, a differenza di Aristotele e Platone, Socrate non elabora un "concetto del
concetto", né vede nel concetto una forma di sapere assoluto, che possa rispecchiare entità
metafisiche quali sono per Platone le Idee e per Aristotele le forme. La virtù. Per i Greci, la virtù
(aretè) era il modo d'essere ottimale di qualcosa e, in particolare nell'uomo, è la maniera ottimale di
essere uomo e quindi di comportarsi nella vita, ed era qualcosa di dato e garantito dalla natura. I
sofisti, invece, pensavano che non fosse qualcosa di dato o elargito dagli dei, ma un valore che deve
essere faticosamente cercati e conquistati; essa dipende quindi dall'educazione e dalla paidèia, o
cultura. Inoltre, la virtù è una forma di sapere, quindi prodotto della mente e, in quanto tale, deve
passare al vaglio della ragione e della riflessione, poiché per essere uomini in modo virtuoso è
necessario riflettere, cercare e ragionare, ovvero fare filosofia, riflettere criticamente sull'esistenza.
In quanto razionale, la virtù socratica può essere insegnata e comunicata a tutti, poiché è necessario
che tutti imparino il mestiere di vivere, cioè la scienza del bene e del male. La virtù, quindi, è unica
e comprende in sé tutte le virtù di cui gli uomini parlano al plurale e senza la quale cesserebbero di
esistere, ed è la scienza del bene, che coincide con quella dell'utile. Socrate fa coincidere il campo
delle virtù con i valori dell'interiorità e della ragione, che Platone chiamerà anima: i valori veri non
sono quelli mondani del corpo o della ricchezza o la fama, ma quelli dell'anima, che trovano la loro
sintesi nella conoscenza. Ciò non autorizza a darne un'interpretazione ascetica o moralista che,
come disse Nietzsche, uccise l'istinto e la gioia di vivere. Infatti, Socrate afferma che solo il
virtuoso è felice e non vuole abolire i valori vitali ma solo sottoporli alla ragione. Tale virtù si
risolve nella politicità, poiché l'uomo, essendo un essere sociale, si concretizza nell'arte di saper
vivere con gli altri e da qui scaturisce l'idea di politica come "ragionamento comune" sulle cose
della città, volto alla ricerca del bene comune. Morale. Le equazioni "virtù = sapienza" e "vizio =
ignoranza" hanno fatto sì che Socrate fosse accusato di intellettualismo etico, ovvero di
sopravvalutazione della funzione dell'intelletto e della ragione, dimenticando la parte istintiva e
affettiva della psiche. Un'altra imputazione è quella di formalismo etico, in quanto egli non
definirebbe la virtù, limitandosi a dire che coincide con la scienza, senza specificare il
comportamento da seguire. In realtà, è proprio il dibattito a cui Socrate invita, a far sì che si
raggiunga la consapevolezza attraverso il dialogo, e, conseguentemente, il giusto comportamento.
Socrate fu accusato di riconoscere come dei non quelli tradizionali della città, ma di introdurre
divinità nuove, e di corrompere i giovani. Egli avrebbe potuto scagionarsi o lasciare Atene, ma
dichiarò che in nessun caso avrebbe tralasciato il suo compito, voluto da un ordine divino (egli dice
di sentire la voce di un demone che lo consiglia e considera il filosofare come una missione
affidatagli da una divinità), testimoniando la piena fedeltà di Socrate a se stesso e ai propri principi.
Ne seguì allora la condanna a morte chiesta dagli accusatori (3 democratici oltranzisti). Egli preferì
la condanna per la sua lealtà verso le leggi, poiché sono le leggi a fare sì che l'uomo sia tale, l'uomo
è figlio delle leggi, per questo chi rifiuta le leggi cessa di essere uomo. Platone dirà che Socrate fu
l'unico vero politico ad Atene pur non essendo politico. Socrate è visto come il primo martire del
pensiero occidentale. Scuole socratiche, ognuna accentua un lato dell'insegnamento di Socrate: -
scuola di Megara (Euclide): universalità del bene; - scuola cinica (Antistene): il bene nella virtù; -
scuola cirenaica (Aristippo): il bene nel piacere; - scuola eretriaca (Fedone), si cui non si sa nulla.
PLATONE Platone nacque ad Atene, fu probabilmente scolaro di Cratilo, seguace di Eraclito, a
vent'anni iniziò a frequentare Socrate e fu tra i suoi discepoli fino alla morte del maestro, che
apparve a Platone un'ingiustizia imperdonabile e una condanna generale della politica del tempo. Il
platonismo, infatti, nasce in relazione alla crisi politico-culturale, che investì la Grecia a seguito
della fine dell'età d'oro periclea e la sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso. Platone si
sentiva investito dal compito di far avvertire la crisi imperante e a pensare una nuova stabilità,
soprattutto a livello politico. Egli radicalizza la situazione problematica e, in quanto filosofo, è
indotto a viverla come crisi dell'uomo nella sua totalità: egli, infatti, si convince dell'insufficienza di
un semplice mutamento politico o governativo e della necessità di una riforma globale dell'esistenza
umana, che si può ottenere solo attraverso una meditata filosofia, che proponga nuove certezze,
apporti una rivoluzione culturale e politica che riformino il disordine esistente. Da qui l'idea della
politica filosofica, la sola che potesse fondare una riedificazione esistenziale e politica dell'uomo
alla luce del sapere. Dopo la morte del maestro, Platone fece diversi viaggi, tra i quali parla solo di
quello in Italia meridionale, dove conobbe le comunità pitagoriche, sul cui modello, fondò
l'Accademia. Rimase per il resto della sua vita ad Atene, dedito solo all'insegnamento, e qui morì a
80 anni. Platone è il primo filosofo dell'antichità di cui ci siano rimaste tutte le opere. Grazie allo
studio dello stile dell'autore nelle divere opere e ai rinvii contenuti nei dialoghi, l'attività letteraria
può essere divisa in: - scritti giovanili o socratici (Gorgia, Protagora, Cratilo, Apologia, Repubblica
I); - scritti della maturità (Menone, Fedone, Simposio, Fedro, Repubblica II-IX); - scritti della
vecchiaia (Parmenide, Sofista, Politico, Crizia, Leggi). Sembra che egli abbia tenuto anche corsi
intitolati Intorno al Bene, che però non volle mettere per iscritto, giudicando inopportuno per la
profondità dell'argomento; qui sviluppa una sorta di metafisica. Le forme maggiormente usate nelle
opere di Platone sono il dialogo e il mito. Il dialogo è considerato l'unica modalità dell'indagine
filosofica, rappresenta l'andamento lento e faticoso di una ricerca inesauribile della verità che
l'uomo non possiederà mai totalmente; il mito è uno strumento didattico-espositivo di cui il filosofo
si serve per poter comunicare le dottrine filosofiche in modo accessibile e intuitivo, ma è anche un
modo per parlare di realtà che vanno al di là del limite dell'indagine puramente razionale. Le idee.
Nei primi dialoghi, Platone illustra e difende teorie proprie di Socrate seppur filtrandole attraverso i
propri interessi e la propria speculazione filosofica. Egli giunge così a superare le dottrine insegnate
da Socrate, elaborando un proprio e originale pensiero, a partire dalla teoria delle idee, che segna
l'avvio di questa seconda fase più matura della sua speculazione. L'idea non è, come per noi un
pensiero del nostro intelletto, ma un'usìa, una sostanza autonoma, un'entità immutabile e perfetta
che, con le altre idee, costituisce l'iperuranio. Nonostante la definizione sia diversa dall'idea che
oggi noi concepiamo, per Platone vi è comunque un rapporto oggetto-idea: le sono copie imperfette
delle Idee, e quindi l'Idea rappresenta il modello unico perfetto delle cose molteplici e imperfette.
L'idea platonica congiunge caratteri dell'essere parmenideo (immutabile, eterna, perfetta, non
soggetto a mutazioni, ma non unico), e caratteri dell'eleatismo, quali il dualismo gnoseologico tra
opinione (mutevole e transeunte) e scienza (stabile, duratura, perfetta), tra sensibilità e ragione, che
rappresentano i due livelli di conoscenza, e dualismo ontologico tra le cose e l'essere. Le due
tipologie fondamentali di idee sono: - le idee-valori: supremi principi etici, morali, estetici e politici;
- idee matematiche: entità dell'aritmetica e della geometria; organizzate in una piramide gerarchica,
al cui vertice c'è l'idea del Bene, idea delle idee, supremo valore e perfezione massima. Talora è
assimilata a Dio, benché non si trovi un'attestazione del dio creatore nei testi platonici. Infatti, pur
essendo al di là dell'essere, ovvero delle idee, il Bene non crea le idee. Rapporto idee-cose.
Nonostante la distinzione tra cose e idee, Platone ne sostiene lo stretto legame. Le idee, infatti,
rispetto alle cose sono: 1. criterio di giudizio: per giudicare un oggetto, non possiamo non riferirci
all'idea, perfetta, dell'oggetto stesso per confrontarlo con essa (è condizione della pensabilità delle
cose); 2. causa: le cose sono in quanto imitano le essenze archetipe (è condizione dell'esistenza).
Reminiscenza. Per spiegare come l'uomo, pur vivendo in un mondo imperfetto e mutevole, ha
nozione delle forme ideali, Platone ricorre alla dottrina della reminiscenza: sulla base della teoria
pitagorica della metempsicosi, afferma che l'anima, prima di incarnarsi, è vissuta nel mondo delle
idee dove ha potuto contemplarle e, una volta incarnata, conserva un ricordo di ciò che ha visto
nell'iperuranio e che ricorda grazie alle esperienze sensibili ("conoscere è ricordare". La forma di
conoscenza, la gnoseologia, è innata, non deriva dall'esperienza sensibile, ma da metri di giudizio
preesistenti nell'intelletto e da una verità prenatale, frutti della contemplazione delle idee. La teoria
della reminiscenza rappresenta la vittoria sul principio sofistico secondo il quale non è possibile
indagare né ciò che si sa né ciò che non si sa, poiché apprendere non significa partire da zero, ma
ricordare, attraverso una forma di preconoscenza da cui dobbiamo socraticamente tirare fuori la
vera conoscenza. La riminiscenza postula l'immortalità dell'anima di cui Platone, nel Fedone, da
prove: dei contrari: la morte si genera dalla vita, la vita dalla morte, quindi l'anima rivive dopo la
morte del corpo; della somiglianza: essendo simile alle idee, l'anima è eterna, non generata né
corruttibile; della vitalità: in quanto soffio vitale, l'anima partecipa all'idea di vita e non può
accogliere in sé quella opposta di morte. La teoria dell'immortalità dell'anima serve anche a chiarire
il problema del destino: la sorte delle persone dipende da scelte che l'anima ha compiuto
nell'iperuranio (mito di Er, Repubblica). L'amore. Il sapere stabilisce tra uomo e idee e tra uomini
associati dalla comune ricerca un rapporto non puramente intellettuale, che Platone chiama éros,
amore, alla cui teoria dedica due dialoghi (Simposio e Fedro). Nel primo considera l'oggetto
dell'amore, la bellezza, e ne determina i gradi gerarchici, nel secondo considera l'amore come
aspirazione alla bellezza ed elevazione dell'anima al mondo delle idee, a cui appartiene la bellezza.
Nel Simposio, Platone dialoga con vari interlocutori, ognuno dei quali esprime una concezione
dell'amore, delineando così i caratteri generali dell'amore: eros volgare, verso le cose e i corpi, eros
celeste, verso le anime; forza cosmica dell'amore, che determina l'armonia delle cose, dei fenomeni
e dell'uomo; l'amore è mancanza e insufficienza (mito degli androgini mezzi donna e uomo e divisi
dagli dei), è figlio di Penìa (povertà) e Poros (abbondanza) e in quanto tale non è un dio, ma un
demone intermedio tra uomo e dio, che non ha quindi sapienza ma aspira a possederla; non ha
bellezza, ma aspira a possederla, in quanto è il bene che rende felice l'uomo, e che ha vari gradi a
cui l'uomo può sollevarsi (del corpo, dell'anima, delle leggi e istituzioni, delle scienze e bellezza in
sé, eterna, perfetta, non soggetta al mutamento, fonte di ogni bellezza e oggetto della filosofia. Nel
Fedro, Platone affronta il problema di come l'anima umana possa percorrere i gradi di questa
gerarchia per giungere alla bellezza suprema. L'anima può contemplare la bellezza in sé
nell'iperuranio, dove sono contenute le totalità delle idee, ma solo per poco, quindi ogni anima
contempla l'essere in tempi diversi dalle altre: l'anima che ha visto di più si incarnerà in individui
che saranno piu spinti a ricercare la bellezza e si consacrerà al culto dell'amore, al contrario le
anime che hanno visto meno si incarneranno in corpi di individui più alieni a questa ricerca. Una
volta che l'anima è incarnate, l'uomo può vedere, attraverso il più acuto dei sensi, la bellezza e può
riconoscerla subito per la sua luminosità. La bellezza è quindi mediatrice tra l'uomo caduto e il
mondo delle idee. Quando l'amore viene riconosciuto, vissuto e realizzato nella sua autentica
natura, allora diventa guida dell'anima verso l'essere, attraverso la gerarchia delle bellezze. L'eros
diventa così procedimento razionale, dialettica e ricerca dell'essere. Il concetto della dialettica sarà
il centro della speculazione platonica degli ultimi dialoghi. Lo Stato. Per Platone, la condizione
della nascita e della vita dello Stato è la giustizia. Lo Stato deve essere costituito da 3 classi: i
governanti (la cui virtù caratteristica è la saggezza), i guerrieri (coraggio) e i cittadini; la
temperanza, come accordo tra governanti e governati, deve appartenere a tutte e tre le classi. la
giustizia comprende tutte e tre queste virtù e si realizza quando ogni cittadino sceglie la propria
classe in base a ciò per cui è più adatto e si dedica esclusivamente ad esso, garantendo forza e unità
allo Stato. La divisione degli individui non dipende quindi da un fattore ereditario o per diritti di
nascita, ma da un fattore antropologico e per attitudine naturali. L'anima individuale è divisa in 3
parti: parte razionale (parte che ragiona e che domina - saggezza), parte concupiscibile (principio
degli impulsi corporei - coraggio) e parte irascibile (si sdegna e lotta per ciò che la
Aristotele parte razionale ritiene giusto); la temperanza appartiene a tutte e tre le parti ed è l'accordo
di tutte e tre di lasciare il comando alla parte razionale anche nell'uomo la giustizia si realizza
quando ogni parte svolge solo la propria funzione. La felicità risiede nella giustizia, ovvero
nell'adempimento del proprio compito, in vista della armonia e della felicità complessiva dello Stato
e quindi la migliore forma di governo è l'aristocrazia, simbolo di equilibrio. Al contrario, lo Stato è
"infelice" quando assume forme patologiche quali quelle della timocrazia (governo fondato
sull'onore, i governanti, avidi di comando, si appropriano di terre e case), dell'oligarchia (sul censo,
i governanti sono avidi di ricchezze), della democrazia (sull'eccessiva libertà, si abbandonano a
desideri smodati) e della tirannide (il tiranno è schiavo delle proprie passioni ed è il più infelice
degli uomini). Il ruolo dei governanti spetta ai filosofi poiché solo chi conosce il bene è in grado di
realizzarlo ed è l'unico che possa governare per il bene comune e libero da ogni interesse o fine
personale. Conoscenza ed educazione. L'educazione al sapere coincide con l'educazione alla
filosofia e per questo Platone dedica la parte centrale della Repubblica ai compiti propri del
filosofo, che è solui che ama la conoscenza nella sua totalità. Afferma che ciò che è, è conoscibile e
ciò che non è non è conoscibile. Quindi la scienza (la conoscenza vera) corrisponde all'essere,
l'ignoranza corrisponde al non essere e l'opinione corrisponde a ciò che è in mezzo a essere e non
essere. La prima, la conoscenza razionale (epistème) comprende: la ragione matematica (diànoia) e
l'intelligenza filosofica (noèsis), che hanno per oggetto rispettivamente le idee matematiche e le
idee-valori; la terza, la conoscenza sensibile (doxa) comprende: la congettura (eikasìa) e la credenza
(pìstis), che hanno per oggetto rispettivamente le ombre o le immagini delle cose, ovvero le
impressioni superficiali, e le cose sensibili. Platone considera la filosofia superiore alla ragione
matematica, poiché, pur partendo da ipotesi, le considera come tali, semplici punti di partenza, per
risalire ai principi supremi (le idee) e poi al principio di tutto (il Bene). Tale teoria trova
un'esemplificazione allegorica nel mito della caverna. Schiavi - gli uomini - incatenati - ignoranza e
passioni - nella caverna oscura - il nostro mondo - che guardano solo davanti a loro immagini
riflesse - immagine superficiale, grado gnoseologico - di statuette - cose del mondo sensibile, grado
della credenza - che stanno dietro di loro e raffigurano tutti i tipi di cose e pensano che quella sia la
vera realtà. Solo girandosi capirebbero che non è così e solo uscendo - azione della conoscenza e
della filosofia - capirebbero che vi è una realtà superiore -le idee e che le statuette sono solo
imitazioni. All'inizio riescono a vedere queste cose solo attraverso il riflesso dell'acqua - idee
matematiche che preparano alla filosofia - e solo più tardi riescono a guardare il sole - il Bene-. Egli
vorrebbe rimanere lì a godere delle cose vere - tentazione del filosofo a chiudersi in se stesso - ma
vuole anche tornare nella caverna per rendere i suoi ex compagni partecipi di ciò che ha visto -
dovere del filosofo a far partecipare gli altri alle proprie conoscenze. Qui però l'ex schiavo non
sarebbe più abituato all'oscurità e non riuscirebbe più a vedere le ombre e sarebbe deriso - destino
del filosofo - e alla fine, infastiditi dal suo tentativo di portarli alla luce del Sole, lo ucciderebbero -
morte di Socrate -. - Dualismo gneoseologico e ontologico; - afflato religioso : nostro mondo è il
regno delle tenebre e il regno della luce delle Idee; - finalità politica della filosofia: tutte le
conoscenze devono essere utilizzate per fondare una comunità giusta e felice; finalità educativa:
solo con il ritorno alla caverna, con il confronto con il mondo umano, l'uomo avrà completato la
propria educazione e sarà filosofo. Ultimo Platone. I generi sommi e l'essere. Nei dialoghi della
vecchiaia, Platone approfondisce ulteriormente le sue teorie, giungendo ad esiti in parte nuovi. I
problemi cruciali sono 2: come deve essere pensato il mondo delle idee (Sofista) e il rapporto idee-
realtà naturali. Nel Parmenide, Platone analizza la teoria delle idee rilevando, per bocca di
Parmenide, alcune difficoltà: se l'uno è l'idea e i molti sono gli oggetti di cui l'idea costituisce
l'unità, come può l'idea essere costituita da più oggetti senza essere distrutta nella sua unità? Ogni
volta che si considera una molteplicità nella sua unità, si ha un'idea, ma si ha un'idea anche quando
si considera la totalità di questi oggetti più la loro idea e così all'infinito (argomento del' terzo uomo
attribuito a Polisseno), ma soprattutto, Platone si rende conto che la frase parmenidea, e quindi
l'inesistenza assoluta di ogni forma di non essere, decreta l'inesistenza delle idee e dei loro rapporti,
in quanto molteplici. Nel Teeteto, Platone dimostra che è impossibile giungere a una definizione di
scienza rimanendo nel mondo delle opinioni soggettive degli individui e senza rifarsi alle idee. Se
non è possibile rinunciare alle idee, allora bisogna rinunciare al principio eleatico, giungendo a un
vero e proprio "parmenicidio". Inoltre, per giustificare la molteplicità delle idee e dei loro rapporti,
Platone elabora la teoria dei generi sommi: essere (ogni idea o è o esiste), identico (è identica a se
stessa), diverso (distinta dalle altre) (CRITICA A PARMENIDE: confonde il diverso con il nulla, A
non è B non significa che A non sia, non è il nulla assoluto poiché partecipa comunque all'essere, e
giunge così a dare una forma di essere anche al non essere), quiete (se sta in sé) e movimento (se
entra in un rapporto di comunicazione con le altre). Cos'è l'essere? Alcuni lo identificano con la
corporeità, ma anche le entità incorporee "sono", altri, come egli stesso in una prima fase, nelle
idee, ma giunge ora a una tesi secondo cui l'essere è possibilità: sottintendo il concetto di
"relazione", egli afferma che esiste ciò che entra in un qualsiasi campo di relazione, cioè in una
possibile rete di connessioni, poiché ciò che non ha rapporti con altro, è inesistente. La dialettica.
Da questa nuova definizione di essere, nasce la suprema scienza delle idee, la dialettica, che
consiste nello studio delle connessioni tra le idee e del loro rapporto con il Bene. Essa è definita:
Repubblica: scienza delle idee-valori; Fedro: tecnica del discorso filosofico, divisa in due momenti:
definizione e divisione dell'idea nelle sue articolazioni interne; Sofista: organica messa a punto del
processo dialettico: parte dal presupposto della comunicazione possibile: Se tutte comunicassero,
ogni discorso sarebbe vero e non servirebbe la dialettica; se nessuna comunicasse, non sarebbe
possibile alcun discorso se non quello tautologico; tesi intermedia su cui nasce la dialettica: alcune
idee sono combinabili altre no. Pensare attraverso un processo dialettico può avvenire solo
attraverso un processo di tipo dicotomico o binario progressivo, ovvero avanzando dividendo in due
le varie idee, per giungere a un'idea indivisibile, che fornisce la definizione specifica di ciò che
cercavamo, che ovviamente non è unica, poiché esistono tante possibile mappe del processo
dialettico e si basa su una ricerca inesauribile, quindi, sommando le varie definizioni ottenute si
avrà una maggiore comprensione dell'idea studiata. Il bene nel Filebo. Nella Repubblica, il Bene è
concepito come l'oggetto supremo del pensiero e quindi era posto al sommo della gerarchia delle
Idee e paragonato al sole, che sussiste e rende conoscibili le Idee. Dopo aver riconosciuto che anche
il mondo dell'essere include la soggettività, Platone si ripropone il problema del bene, in particolare
cosa sia il Bene per l'uomo, nel Filebo. Il bene è una forma di vita né divina né anima e per questo
deve essere mista tra ricerca del piacere e esercizio dell'intelligenza. Il problema morale si trasforma
così in indagine metafisica su cosa sia la misura, la proporzione, attraverso cui piacere e intelligenza
si mescolano per creare una vita propriamente umana. Il piacere è un illimitato, a cui l'intelligenza
pone un limite, trasformandolo in qualcosa di proporzionato e armonico, un numero. Nella vita
dell'uomo devono far parte tutte le forme di conoscenza e per questo la scienza da sola non basta ed
è necessario ricorrere anche all'opinione; per il piacere è necessario che entrino a far parte della vita
solo i piaceri puri, cioè quelli che non dipendono dall'appagamento di un bisogno, ma che sono
dovuti dalla contemplazione delle belle forme. Gerarchia: ordine e giusto mezzo, bello e
proporzionato, intelligenza (causa della proporzione), scienza e opinione, piaceri puri. Si risolve
così con Platone il tentativo di riduzione socratica della virtù al sapere, alla scienza della misura,
poiché solo con la misura si può ricondurre la condotta dell'uomo al rigore della scienza. Dottrina
delle idee-numeri e il Timeo. Nel Timeo, Platone approfondisce il tema cosmologico dell'origine e
la formazione dell'universo: introduce una nuova figura, il demiurgo, divino artefice, dotato di
intelligenza e volontà, figura mediatrice tra idee e cose, che dalla chòra, materia priva di vita, ordina
(non crea, ma plasma) le cose a immagine e somiglianza delle idee, dando loro una parte della
perfezione dei modelli iperuranici e un'anima, che ordina e vivifica la materia; genera il tempo,
misurato attraverso il movimento degli astri. Tutto ciò che c'è di positivo e armonico è quindi opera
del demiurgo, alle idee e all'intelligenza, mentre alla materia "ribelle all'opera del demiurgo",
Platone attribuisce le imperfezioni, i mali del mondo e ciò che è negativo e disarmonico. Sul piano
filosofico e metafisico, il Timeo è stato rilevante per aver diffuso il concetto di una mente
intelligente e ordinatrice del mondo, schema su cui si baseranno molti filosofi e l'intero
cristianesimo per spiegare la realtà, tanto che Platone è diventato l'antitesi di ogni forma di
naturalismo e materialismo, incarnando la visione finalistico religiosa che penetrerà nella mentalità
comune fino ai nostri giorni. La vera rilevanza è nell'aver mantenuto viva l'idea pitagorica secondo
cui la matematica è chiave di lettura della realtà e della natura e che sarà alla base della nascita della
scienza moderna con Copernico, Keplero e Galileo. Platone, infatti, si discosta completamente dalle
ricerche dei naturalisti greci, subordinando le cause finali alle nozioni di scopo e Bene, su cui fonda
il proprio modello di spiegazione della natura. Le Leggi e il Politico. Nel Politico, Platone riprende
il tema della mediazione e della misura, in quanto essa risulta essere l'arte propria del reggitore dei
popoli, che deve evitare l'eccesso e il difetto. La cosa migliore sarebbe non avere leggi poiché
essendo generali, non possono prescrivere ciò che è bene per ognuno; ma non si possono dare
prescrizioni individuali, cosicché bisogna limitarsi al generale. Il problema politico e morale
sviluppato nella Repubblica su quale fosse la forma di governo migliore, si trasforma ora nel
problema di quali siano le giuste leggi che possano insegnare come diventare cittadini della
comunità ideale. Platone affronta il problema nelle Leggi, dialogo in 12 libri: egli sottolinea
l'importanza della funzione educativa delle leggi e delle sanzioni penali, che non devono servire
solo a comandare, ma convincere il cittadino all'esercizio della virtù che si identifica con la felicità,
di tutte le virtù poiché tutte sono necessarie alla vita dello Stato. L'educazione ha come fondamento
la religione, vista come un incentivo al rispetto della virtù e delle leggi e fondamento per la
coesione sociale e la stabilità politica, tanto da proporre l'esilio e la pena di morte per chi non
riconosca la divinità. Quella concepita da Platone è comunque una religione a sfondo cosmico, sulla
scia del Timeo, che vede la concretizzazione della divinità nell'ordine e gli astri del cielo, contro la
razionalità scientifica di cui i fisici e Democrito iniziano a farsi portatori. Platone vede nella
teologia astrale la fondazione dell'etica e della politica, poiché se la materia fosse razionale e non
divina, sarebbe impossibile derivarne una valida proposta politica. La sapienza filosofico-religiosa
tende così così a sostituirsi alla dialettica e tradursi in una nuova filosofia politica.
Aristotele
Aristotele definisce la filosofia prima come la base della realtà, che non si basa sull’esperienza
sensibile ma che procede oltre la fisica, per questo denominata Metafisica.
Secondo Aristotele esiste il giusto mezzo, ossia l’equilibrio tra l’eccesso e il difetto, che può essere
raggiunto grazie all’anima intellettiva, alla ragione. Grazie alla filosofia pratica, ossia all’agire
secondo bene, all’abitudine positiva possiamo raggiungere tale equilibrio. La virtù suprema è la
sapienza. La politica e l’etica non sono identificabili come sfera del necessario, dell’assoluto, bensì
de relativo e del possibile. Secondo la filosofia dello stagirita l’anima può essere sensibile,
vegetativa e razionale.
La saggezza è prudentia ed è legata alla sensibilità dell’uomo e alla sua capacita di orientamento.
Quindi l’etica è il campo del possibile.
Dal punto di vista dell’aspetto socio-politico per Aristotele non esiste un ideale, in quanto ci può
essere a monarchia ma la sua forma degenerativa è la tirannide, può esistere l’aristocrazia ma può
degenerare in oligarchia po’ esserci la democrazia e non si degnerà in demagogia. L’importante è
che secondo ARISTOTELE bisogna agire per il bene comune, collettivo e non di una singola parte
della società.
Epicureismo
Hegel afferma che nel pensiero ellenistico al principio dell’universalità del logos affermato dagli
stoici si contrappone quello della sensazione, sostenuto dagli epicurei.
Epicuro nacque nel 306 a.C. fondo ad Atene una scuola chiamata kepos ossia giardino.
La loro filosofia è tripartita in logica, fisica ed etica, a quest’ultima prestava maggiore attenzione
degli epicurei.
La logica è definita canonica in quanto si basa nel distinguere il vero dal falso. Le sensazioni sono
fonte principali delle nostre conoscenze e bisogna riporre in loro il criterio della verità. L’errore
avviene quando i giudizi sono precipitosi , senza conferma certa dell’esperienza. L’etica epicurea è
quella che si avvicina alla visione materialistica della realtà , dove il bene consiste nel piacere, il
male nel dolore e l’uomo dovrà cercare il primo e sfuggire il secondo. La sua filosofia è vicina a
quella di Aristippo, basata sul piacere in quiete o catesmatico, stabile che porta all’atarassia, calma
serena, e l’equilibrio mente-corpo. Il saggio epicureo dovrà perciò vivere nascosto e isolarsi, non
partecipare alla via politica. Epicuro ritiene che la filosofia debba diventare lo strumento, il mezzo,
teorico e pratico, per raggiungere la felicità liberandosi da ogni passione irrequieta.
« Se non fossimo turbati dal pensiero delle cose celesti e della morte e dal non conoscere i limiti dei
dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura »
Propone quindi un "quadrifarmaco" capace di liberare l'uomo dalle sue quattro paure fondamentali:
TETRAFARMACO
Mali Terapia
1) Paura degli dei e della vita dopo la morte Gli dei sono perfetti quindi, per non contaminare la
loro natura divina, non si interessano delle faccende degli uomini mortali e non impartiscono
loro premi o castighi.
2) Paura della morte Quando noi ci siamo ella non c'è, quando lei c'è noi non ci siamo più.
3) Mancanza del piacere Esso è facilmente raggiungibile seguendo il calcolo epicureo dei
bisogni da soddisfare, che saranno quelli fondamentali, e non quelli superflui
4) Dolore fisico Se il male è lieve, il dolore fisico è sopportabile, e non è mai tale da
offuscare la gioia dell'animo; se è acuto, passa presto; se è acutissimo, conduce presto alla
morte, la quale non è che assoluta insensibilità. Per quanto riguarda i mali dell'anima Epicuro
afferma che essi sono prodotti dalle opinioni fallaci e dagli errori della mente, contro i quali ci
sono la filosofia e la saggezza.

Cristianesimo- Simbolismo della croce, i rapporti con il pensiero greco. Paolo di


Tarso, la Trinità e la reincarnazione.
La croce rappresenta la morte riservata agli schiavi fuggiti e ai ribelli politici. Il cristianesimo vuole
identificare questo segno di umiliazione e sofferenza in un segno della vittoria sul male.
Tutto il negativo viene identificato con il positivo.
L’incarnazione viene presentata in un linguaggio affine al pensiero greco dell’autore del IV
vangelo , ossia Giovanni che scrisse in merito alla figura di Cristo:
«In principio era il Verbo [Lόgos],
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste»
Cristo rappresenta Il Verbo che si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
Differentemente dal pensiero greco, Dio non rappresenta il pensiero di pensiero o atto puro di
ARISTOTELE, quantomeno l’Uno di Plotino emanane da se il mondo, ma Dio si identifica con la
persona, che in qualità di padre e salvezza permette l’uscita dalla decadenza dovuta al peccato
originale.
Nel mondo greco il valore della persona non è riconosciuto infatti Hegel definisce la figura di
Socrate come un individuo cosmico-storico , in anticipo sui tempi.
Rispetto al Dio distaccato della filosofia greca, il Dio cristiano è colui che è personale e
provvidenziale ed è sempre pronto a soccorrere l’uomo nelle sue difficoltà. Mentre per i greci
l’uomo trova il suo ideale supremo nel sapere la conoscenza teoretica del mondo, invece per i
cristiani l’ideale supremo consiste nel rinnovamento interiore, nella sanificazione del volere
mediante la fede nell’azione redentrice di Gesù.
All’eternità del mondo, data per scontata dai Greci, il cristianesimo oppone il concetto di creazione,
nella sua onnipotenza- Dio crea le cose dal nulla.
Nel cristianesimo l’ASSOLUTO, il Dio, rappresenta il Soggetto pensante e il pensiero pensato, la
seconda figura del Figlio rappresenta il logos. Infine lo Spirito è IL RITORNO AL PADRE. Hegel
evidenzia la differenza della TRINITA, prettamente cristiana da quella della Trimurti dell’induismo,
che sembra ad esso affine. Visnu diventa oltre che uomo anche animale e rappresenta il Dio che
conserva, Brahma è il dio che genera, e Shiva il dio che distrugge.
Per Hegel mentre la Trimurti dell’induismo il terzo passaggio della triade che è rappresentato dallo
Shiva, che è il dio che distrugge, quello della Trinità cristiana invece è rappresentato dal ritorno
all’assoluto, che è rappresentato dallo Spirito Santo.
Feuerbach mette in evidenza un fattore importante sulla personalità di Dio, in quanto il Dio dei
cristiani è un Dio che è unica persona, ed ha una valenza storica permanente, e imponente,
differentemente dalle altre religioni che parlano di incarnazioni, invece nella religione monoteista-
cristiana si contempla la sola personalità e si crede che sia l’unica incarnazione della divinità.
L’apostolo delle genti. Paolo di Tarso è il cittadino romano di nome Saulo, di famiglia ebraica,
perseguitò duramente i cristiani fino a quando, dopo aver avuto una visione, si convertì alla nuova
fede. Assunto il nome di Paolo, si dedicò alla diffusione del messaggio cristiano. Ottenne maggiore
successo con i cosiddetti gentili, ossia con i pagani, e diventò l’‘apostolo delle genti’.
Ai nuovi fedeli indirizzò 13 lettere per esortarli a perseverare nella fede in Gesù Cristo. Nella sua
predicazione mise l’accento sull’importanza della fede, più che delle opere, per ottenere la salvezza.
Da persecutore ad apostolo
Come riferiscono gli Atti degli apostoli, la maggior parte degli Ebrei non credette alla resurrezione
di Gesù e si oppose pertanto alla predicazione degli apostoli, anche se questi ultimi cercarono
inizialmente di evitare una rottura con l’ambiente ebraico.
Saulo, nato a Tarso (Cilicia) all’inizio del 1° secolo da una famiglia ebraica farisea piuttosto
benestante, fu uno dei più accaniti avversari della nuova religione. Gli Atti degli apostoli raccontano
che partecipò da spettatore all’uccisione di Stefano da parte degli Ebrei, i quali lo avevano giudicato
colpevole di bestemmia: coloro che lapidarono Stefano «deposero il loro mantello ai piedi di un
giovane, chiamato Saulo [...]. Saulo era fra coloro che approvarono la sua uccisione [...]. Saulo
intanto infuriava contro la Chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva
mettere in prigione» (Atti 7, 58 e 8, 1-3).
Saulo si convertì alla nuova fede dopo che, caduto da cavallo sulla strada di Damasco, ebbe una
visione nella quale Gesù lo chiamava dicendogli: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Dopo aver
appreso i principi della nuova religione da Anania, si convertì e assunse il nuovo nome di Paolo,
diventando un convinto e deciso propagatore del messaggio di Cristo.
Nella Lettera ai Galati Paolo dichiara di avere ricevuto la rivelazione del Vangelo da Cristo stesso, e
di essere quindi a pieno titolo un apostolo, con gli stessi compiti degli altri dodici che Gesù aveva
nominato durante la sua vita terrena, malgrado si senta indegno per aver perseguitato la Chiesa.
La predicazione
Il centro della predicazione di Paolo era costituito dall’annuncio della morte e resurrezione di Gesù,
il cui sacrificio sulla croce sostituiva i riti e i sacrifici dell’Antico Testamento: perciò non soltanto
gli Ebrei, ma anche i pagani potevano ottenere la salvezza credendo in Gesù come Salvatore e
vivendo una vita nuova in lui, e non più praticando le «opere della legge», ossia i riti previsti dalla
legge di Mosè (come la circoncisione, le purificazioni rituali con l’acqua, i sacrifici di animali).
Egli evangelizzò in un primo tempo soprattutto gli Ebrei di lingua greca, predicando il sabato nelle
sinagoghe per dimostrare loro che Gesù era il Messia atteso dal popolo d’Israele; ma, dopo aver
incontrato forti ostilità tra i membri del suo popolo, si rivolse soprattutto ai pagani, e fondò varie
comunità cristiane a Efeso, Mileto, Corinto, Colossi, Filippi e in altre località dell’Asia Minore e
della Grecia. A Corinto visse per qualche tempo in casa di Aquila e Priscilla, che come lui erano
fabbricanti di tende. In più occasioni Paolo ricorda di avere lavorato con le proprie mani per
mantenersi e non pesare economicamente sulla comunità.
Gli altri apostoli (in particolare Giacomo), che rimanevano più legati alle tradizioni ebraiche,
continuarono invece a evangelizzare soprattutto gli Ebrei. Paolo predicò anche ad Atene, discutendo
con i filosofi, ma di fronte all’annuncio della resurrezione dei morti essi si misero a deriderlo.
Perciò egli si rese conto che la conversione degli uomini non dipende dalla forza degli argomenti
razionali e delle dimostrazioni logiche, ma dalla potenza dello Spirito; e che l’annuncio cristiano,
incentrato sulla figura del Cristo crocefisso, deve fondarsi sulla debolezza della croce.

Martin Lutero-
Egli afferma che la filosofia è superba, perché l’uomo vuole diventare padrone di se stesso, ma è in
una continua lotta tra il bene e il male. Lutero manifesta un interesse verso il ritorno alle origini, ma
non tanto ai classici, ma non tanto a quelli greci e latini, assumendo quindi una posizione
antiumanistica, perché proclamava il ritorno al Vangelo, l’unica fonte di salvezza per via della fede,
diventando un gesto di rivoluzione e di eversione.
I tre capisaldi della dottrina di Lutero sono i seguenti:
1)La dottrina per giustificazione radicale dell’uomo attraverso la fede
2) la dottrina dell’infallibilità delle Sacre Scritture, come unica fonte di verità
3) la dottrina del sacerdozio universale e della libera interpretazione delle Sacre Scritture.
Machiavelli – Il Principe e Guicciardini
Machiavelli è segretario della Seconda Cancelleria presso la Repubblica di Pier Soderini. Compie
importanti viaggi presso Luigi XII re di Francia, Massimiliano d'Asburgo, Cesare Borgia. Scrive
relazioni a proposito di queste esperienze politiche, ma non ha responsabilità diplomatiche ufficiali
per conto della città di Firenze. Nel 1512, al ritorno dei Medici, cade in disgrazia: è esiliato a
S.Casciano. Scrive il Principe nel 1513 ( dove pensa ad un principato nuovo ) interrompendo i
Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio di ispirazione repubblicana. Nel 1527 c'è
l'allontanamento dei Medici (Repubblica popolare di Pier Capponi). Machiavelli è di nuovo
emarginato e muore nello stesso anno
Pico della Mirandola è morto nel 1494, nel giorno in cui le truppe di Carlo VIII entravano in
Firenze. Machiavelli si affaccia alla vita pubblica proprio nel 1494, ma solo nel 1498 diventa
Segretario della Repubblica. Il tempo di Machiavelli è un tempo di svolta decisiva, che coincide con
l’inizio dell’età moderna. Nel 1492 c’è stata la scoperta dell’America, ma il 1492 segna anche la
morte di Lorenzo il Magnifico, che era stato definito “l’ago della bilancia politica italiana”: con
Lorenzo il Magnifico i cinque principali potentati italiani: Venezia, Milano, Firenze, Roma e
Napoli, erano riusciti equilibrarsi e i vari territori italiani avevano mantenuto l’indipendenza.
Guicciardini. Come dice De Sanctis, con Savonarola si chiude l’età della Divina Commedia. Che
cosa vuol dire De Sanctis con questa espressione? Nella Divina Commedia, e nella mentalità
medievale, tutti gli avvenimenti, i piccoli fatti privati come i grandi eventi pubblici, si comprendono
solo se si iscrivono nel quadro provvidenziale generale, se si stagliano sullo sfondo del
soprannaturale, della vita nell’aldilà. Con Machiavelli inizia una “commedia umana”. All’interno
del opera Il Principe ci sono una serie di esempi concreti. Il suo è stato definito un ragionamento “a
catena”. Dal ragionamento a piramide, di tipo medievale, aristotelico, si passa al ragionamento “a
catena” che poi confluisce nella prosa scientifica moderna. Francesco De Sanctis sostiene che
Machiavelli è il grande scienziato della politica che ha aperto la strada al grande scienziato della
natura Galileo Galilei. Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini sono due importanti umanisti
vissuti a cavallo tra il XV e il XVI secolo. Le opere letterarie più significative che questi personaggi
ci hanno lasciato sono rispettivamente "Il Principe" e "I Ricordi", entrambe focalizzate sulla
politica, anche se con punti di vista abbastanza contrastanti. Guicciardini entra nella carriera
diplomatica come ambasciatore dei Medici presso Ferdinando il Cattolico. E' fedele collaboratore
dei Medici (1512). Sotto il pontificato di Leone X e di Clemente VII ( entrambi della famiglia dei
Medici) fu Governatore di Modena , Reggio e Parma, Presidente della Romagna e luogotenente
delle truppe pontificie e fiorentine. Ricoprì incarichi politici, amministrativi e militari, realizzando
una notevole esperienza politica diretta. Realizzò la famosa Lega di Cognac contro Carlo V ,ma
questa fu sconfitta. Dopo il sacco di Roma (1527) i Medici furono cacciati per tre anni da Firenze e
Guicciardini dovette ritirarsi a vita privata. Risale al 1537 la composizione della Storia d'Italia.
Muore nel 1540 dopo aver contribuito al ritorno dei Medici a Firenze. Il Principe di Niccolò
Machiavelli è un trattato politico in 26 capitoli, scritto nel 1513 e pubblicato nel 1532. Il trattato è
dedicato a Lorenzo de Medici, ma la figura che ispira Machiavelli è Cesare Borgia, il condottiero
famoso come "il Valentino".
Cesare Borgia rappresenta l'ideale dell'uomo di potere: egli sa usare sapientemente la violenza e
l'inganno e soggiogare così il popolo per il bene dello Stato. Secondo Machiavelli infatti la politica
è una scienza razionale, l'unica risposta possibile al caos e all'egoismo individuale degli uomini: per
questo motivo occorre la figura del principe ideale che metta ordine al caos imperante.
Il trattato è struturato in 2 grandi sezioni: nella prima parte (capitoli 1-11) vengono descritti i
diversi tipi di principato; nella seconda (capitoli 12-14) viene affrontato il problema della milizia;
infine, nell'ultima parte (capitoli 15-26) Machiavelli si concentra sulla figura del principe savio. ei
capitoli 1-11 Machiavelli classifica i diversi tipi di principato: principati ereditari, principati nuovi,
principati ecclesiastici e principati misti. Si concentra maggiormente sui principati nuovi,
ponendosi due questioni molto importanti:
come fa un principe a conquistare il potere?
come fa un principe a manterere il potere e a organizzare lo Stato?
Machiavelli dunque si interroga sul mantenimento e sulla sicurezza dello Stato, e risponde ai due
quesiti trovando soluzioni a riguardo. Per conquistare il potere e mantenerlo organizzando
sapientemente lo Stato, il principe deve:
guardare gli esempi valorosi di storia antica e moderna, imitandoli (principio di imitazione)
possedere la virtù individuale, cioè la capacità di agire in modo risoluto per il compimento dei
propri fini, cioè il mantenimento del potere. Con la virtù il principe deve riuscire a gestire la
Fortuna, cioè l'insieme degli eventi imprevedibili portati dal caso. Nei capitoli 12-14 si affronta il
problema della milizia. Secondo Machiavelli ogni Stato deve avere un esercito regolare: egli è
contro gli eserciti mercenari e le compagnie di ventura, in quanto sono causa del crollo dei
principati. infine, la parte finale (capitoli 15-26) del trattato ha come oggetto la figura del principe
savio. Il principe savio deve saper utilizzare i mezzi leciti e illeciti, morali e immorali.
Deve illudere il popolo caratterizzato dalla semplicità (propensione a credere a tutto ciò che gli
viene detto) e dalla tristizia (cattiveria). Rabbonendo il popolo e dominandolo con la forza, il
principe riuscirà a mantenere ordine nel principato, ottenendo il consenso del popolo, elemento
indispensabile per poter governare.

Per esempio, i due non sono affatto d'accordo riguardo alla forma di governo migliore che può
vigere in uno stato: il primo ritiene, infatti, che la repubblica sia preferibile ad ogni altra, anche se,
in momenti di particolare crisi come quello che l'Italia stava attraversando alla fine del ‘400,
l'esigenza di un signore, ossia di un'autorità d'eccezione, lo porta a lodare il principato. Il secondo,
al contrario, preferisce un governo di tipo oligarchico o monarchico, cioè autoritario, in quanto
pensa che le forme democratiche siano troppo deboli: è infatti difficile che si riescano a trovare idee
comuni. Per quanto riguarda, invece, il rapporto con la storia e soprattutto con gli avvenimenti
dell'età classica, è da sottolineare il grande interesse che Machiavelli ha nei confronti delle vicende
passate, poiché ne prende ampiamente spunto, utilizzando un metodo induttivo, adattando situazioni
già verificatesi a quelle della sua epoca, ricavando così insegnamenti sempre validi, universali.
Parla infatti di historia magistra vitae. Guicciardini pensa esattamente l'opposto, ossia che occorre
procedere con un metodo deduttivo, studiando ogni circostanza nella sua condizione e nella sua
individualità, e poi agendo di conseguenza. Usando il termine discrezione, dal latino discerno,
sottolinea come si devono valutare con precisione le peculiarità di un avvenimento, in quanto per lui
non si può assolutamente generalizzare, come invece faceva Machiavelli. Della storia romana,
inoltre, egli non tiene assolutamente conto, poiché, come ho già detto, quel modello e quegli schemi
si riferiscono al passato e quindi non sono applicabili al presente. Per di più, è importante ricordare
anche le loro opinioni contrastanti sulla condizione dell'uomo. Niccolò, infatti, ha una visione
aspramente pessimistica sull'umanità, che considera come una massa triste, cioè malvagia, con la
quale si possa trattare solo utilizzando la "componente bestiale" del proprio animo. Francesco, al
contrario, ha una visione più positiva, affermando che gli uomini sono più propensi al bene che al
male, anche se per la loro fragilità spesso scelgono la strada sbagliata. Fondamentale è infine anche
il rapporto virtù-fortuna: per Machiavelli la fortuna, intesa come sorte, "gioca" continuamente con
la vita d'ogni uomo, ma è possibile sfruttare le proprie virtù per fare provvedimenti e con ripari e
argini. Per Guicciardini, invece, la sorte è ciò che ha maggior rilevanza nella realtà, e di
conseguenza non si può parlare di virtù. Per concludere, si può dire che le opinioni di questi due
umanisti sono nettamente discordanti e sull'ideale politico, e sul rapporto con le vicende passate, e
con l'uomo ed il suo rapporto con la realtà.
Machiavelli vede nella storia il ripetersi di scelte e risposte a situazioni già presentatesi nel passato.
I modelli dell'agire politico possono essere tratti dal mondo antico. Valore dell'imitazione.
Occorre cercare di seguire le tracce dei grandi uomini del passato, che seppero abilmente sfruttare la
fortuna, come occasione per dar modo alla loro virtù politica di operare. Virtù politica e virtù
morale non si identificano, in quanto la natura malvagia dell'uomo non consente sempre di operare
onestamente ed equamente. La virtù umana può porre argine agli ostacoli che la fortuna ( il caso )
imprevedibile oppone anche all'uomo più prudente. Ottimismo sostanziale di Machiavelli nelle
capacità dell'agire umano.
Per Guicciardini non esistono modelli assoluti di azione da imitare in ogni tempo. Vale solo
l'esperienza di ogni singolo uomo politico. Egli non ritiene che il passato si ripresenti nel presente
sempre nelle stesse forme. L'uomo non può semplicemente imitare le azioni degli uomini politici di
altri tempi. E' importante la discrezione (capacità di discernere, “dividere" , individuare le
particolari specificità delle singole situazioni), basandosi sulla diretta esperienza politica, prima di
agire. La Virtù , da sola , non serve a prevenire dagli imprevisti del caso (Fortuna).pessimismo
sostanziale di Guicciardini.
Machiavelli ha dato il meglio di sé in opere di analisi politica di tipo scientifico (Il Principe,
Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio) riguardanti i problemi legati alla vita dello stato o legati
ai problemi militari ( Dell'arte della guerra ). Le opere storiche sono di livello minore (Istorie
fiorentine). Gli interessi prevalenti in Machiavelli riguardano grandi problemi legati alla formazione
e al mantenimento degli stati. Soprattutto si occupa del principato nuovo, come organismo politico
capace di ridare solidità e sicurezza all'Italia. In tali analisi c'è anche un notevole slancio ideale a
favore della possibile libertà italiana.
Guicciardini è invece soprattutto uno storico < Storia d'Italia e Storie fiorentine >. Analizza con
spirito critico gli avvenimenti legati alla fine della libertà italiana a causa delle invasioni straniere
( dopo la morte di Lorenzo il Magnifico fino al sacco di Roma). Parla di grandi personalità, che
risultano le vere protagoniste della storia.( Il Magnifico, Leone X, Clemente VII, Martin Lutero )
Collega agli avvenimenti italiani alcuni fatti della storia europea (luteranesimo, scoperta
dell'America). Non compaiono teorie generali sullo stato. A livello di riflessione politica non c'è
nulla di sistematico. Solo alcuni pensieri contenute nei Ricordi e la contestazione della teoria
dell'imitazione del passato sostenuta da Machiavelli. a. Alla virtù del Machiavelli egli sostituisce
pertanto la "discrezione", che è la capacità di analizzare e comprendere i fatti singoli nelle loro
infinite sfumature, per poter inserire la propria azione nel loro corso tumultuoso, senza venirne
travolti, salvaguardando il proprio "particulare", cioè il proprio interesse, i propri scopi e progetti. Si
può in certo modo affermare che, nel suo pensiero, la Fortuna vinca la virtù, e la fiducia
rinascimentale nella capacità costruttiva dell'uomo nel mondo appaia ormai in declino. Questo
spiega perché Guicciardini si dedichi esclusivamente alla storiografia, intesa come ricostruzione e
comprensione a posteriori degli eventi e delle loro cause, rifiutando la forma del trattato politico,
inteso, come in Machiavelli, come codificazione di un sistema organico di leggi e norme universali
finalizzate a guidare e sostenere l'azione politica di costruzione della storia. Anche il Guicciardini,
come il Machiavelli, crede che l'uomo sia un fenomeno della natura soggetto a leggi fisse ed
immutabili, ma, a differenza del grande amico, ritiene che l'uomo sia naturalmente portato più al
bene che al male e se fa nella realtà più spesso il male che il bene, ciò è dovuto al fatto che le
tentazioni sono tante e la coscienza umana debole, ma ancora di più al fatto che proprio facendo il
male l'uomo riesce più facilmente e più spesso a realizzare il proprio tornaconto. Questo tornaconto
personale, che il Guicciardini chiama "particulare", è in effetti la molla che fa scattare tutte le azioni
umane: esso il più delle volte corrisponde al benessere materiale, al potere, ma può anche nobilitarsi
corrispondendo all'interesse dello Stato, alla gloria, alla fama. Per realizzare il "particulare", sia in
senso politico che in senso domestico, non è possibile rifarsi alla storia e trarre insegnamenti da fatti
già accaduti per risolvere i fatti del presente, perché nella storia i fatti non si ripetono mai: anche
quando una circostanza presente sembra riflettere un episodio della storia passata, in effetti la
situazione attuale è ben diversa, diversi essendo gli uomini che si trovano ad affrontarla. Quindi non
c'è da sperare in una scienza della politica, ma contare esclusivamente sulla propria "discrezione",
cioè una qualità innata nell'uomo, ma che solo pochi posseggono in misura rilevante, che fornisce la
capacità di intuire di volta in volta la scelta da operare, la strada da percorrere, per realizzare il
proprio vantaggio e difendersi dai pericoli della vita. Però se la storia non può darci leggi universali
di comportamento, la nostra esperienza personale può bene affinare in noi la "discrezione". E
l'uomo deve attenersi esclusivamente al suo rapporto contingente con la realtà, perché è vana e
semplice esercitazione mentale il volersi interessare di cose soprannaturali ed invisibili. E nel
rispetto di questa considerazione, egli condivide col Machiavelli la necessità di badare solo alla
"verità effettuale", ma della situazione italiana contemporanea dà una valutazione diversa: per luì
non è possibile fare dell'Italia di quel tempo uno stato unitario, e propende invece per una
confederazione di piccoli stati, possibilmente retti a repubblica ma governati comunque da "savi".
Egli è contrario al potere temporale dei papi (anche se li servì per proprio tornaconto) e condivide
col Machiavelli il desiderio di vedere l'Italia liberata dagli stranieri. Significativo a tal riguardo è il
seguente pensiero del Guicciardini: "Tre cose desidero vedere innanzi della mia morte; ma dubito,
ancora che io vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinata nella città
nostra; l'Italia liberata da tutti e barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi preti". Non è un
caso che il Guicciardini - a differenza del Machiavelli - fece una notevole carriera politica. Ma chi è
stato più "premiato" dalla storia? Chi dei due ha potuto beneficiare di una maggiore realizzazione
storica dei propri ideali? Si può forse dire che il Guicciardini fosse più "realista" del Machiavelli
quando pensava di potersi opporre, con le sole risorse del papato o di una Lega provvisoria dei
maggiori Stati italiani, alla potenza di nazioni come la Spagna o la Francia? Era forse più realista
del Machiavelli quando rifiutava l'idea di costituire un esercito non mercenario? Nella fattispecie la
politica del Guicciardini ha avuto più successo di quella del Machiavelli, ma non si può dire che
abbia avuto anche più ragioni. L'ideale del Machiavelli, relativo all'unificazione nazionale, non è
forse fallito anche per l'opposizione di politici miopi come il Guicciardini? Chi ricordiamo oggi più
volentieri: il passionale lungimirante Machiavelli o il freddo calcolatore Guicciardini? La
prospettiva di lungo periodo ha dato ragione al Machiavelli, anche se il rifiuto ostinato, trisecolare,
di accettare il suo ideale, ha fatto regredire così tanto l'Italia, rispetto ad altre nazioni europee, che
ancora oggi ne risentiamo. Se poi volessimo fare i sofisti, dovremmo mettere in discussione anche il
valore contestuale del presunto "realismo" del Guicciardini, quello che lui praticava nell'ambito
ristretto delle circostanze particolari, dei casi specifici. Egli infatti s'è sempre comportato come un
aristocratico, lontano dalle masse popolari: ad es., quando ha cercato di spiegarsi i motivi della
profonda crisi di Firenze, ne ha attribuita la responsabilità ai grandi personaggi della politica, alle
rivendicazioni dei ceti subalterni, alla sfortuna... E' forse questo il vero "realismo"? Si può essere
allo stesso tempo "realisti" e "opportunisti"? L'opportunismo di chi pensa solo al "particulare" è
forse una garanzia di vero successo? Il suo unico trattato teorico-politico è il Dialogo del
reggimento di Firenze, composto tra il '21 e il '25. In esso Guicciardini auspica per Firenze un
governo "misto", sul modello di quello oligarchico-veneziano, che superi i difetti della signoria e
del regime repubblicano. Prevede due magistrature formate dai rappresentanti delle famiglie più
illustri e più ricche, aventi al vertice un gonfaloniere nominato a vita. L'aristocrazia che
Guicciardini difendeva era quel ceto di magnati, astuti e intelligenti, che avevano saputo assumere il
controllo dei traffici commerciali e delle industrie, alleandosi con la nuova borghesia mercantile e
finanziaria. Per lui questa classe era la sola ad essere esperta nell'arte di governare, sia a livello
politico-amministrativo che militare. Guicciardini è un politico conservatore: guarda con sospetto e
diffidenza i tumulti popolari (ad es. quello dei Ciompi), l'assolutismo del principe e ritiene
irrealizzabile l'idea di uno Stato nazionale. La sua preoccupazione principale è quella di conservare
i vecchi istituti comunali e corporativi. I Ricordi politici e civili: sono oltre 400 pensieri di natura
politica e morale, di varia lunghezza, composti tra il '25 e il '30, destinati ad esser letti dai familiari
e dai discendenti (pubblicati, come molte altre sue opere, solo verso la metà dell'Ottocento). In essi
Guicciardini ribadisce il principio rinascimentale dell'autonomia della politica, totalmente separata
dalla religione e dalla morale; sostiene che la storia è un prodotto degli uomini, non della
provvidenza, anche se la fortuna ha una parte rilevante nelle vicende degli uomini. Gli uomini che
fanno la storia sono quelli che hanno intelligenza, forza, astuzia, abilità, autorità. Il popolo non fa
"storia". Gli avvenimenti storici sono indecifrabili se riferiti a uno schema teorico predefinito col
quale li si vorrebbe interpretare. Nella storia le eccezioni, le circostanze fortuite, particolari, i
necessari "distinguo" rendono impossibile una comprensione globale o generale della realtà. I fatti
vanno compresi nelle loro circostanze particolari, caso per caso. La virtù che il politico deve
possedere, a tale scopo, è la discrezione, che è la capacità di discernere con acume, sulla base
dell'esperienza, i singoli fatti (prevale dunque l'analisi sulla sintesi). In questo senso il Guicciardini
si oppone al Machiavelli: non accetta il richiamo costante agli antichi (perché secondo lui il passato
non può aiutarci a vivere il presente, non essendoci una concatenazione logica dei fatti storici), né
apprezza lo sforzo di trarre dalla storia delle leggi universali. I fatti non possono essere ricondotti
entro una visione unitaria, né si può risalire dal particolare al generale: il futuro resta imprevedibile.
Di qui il forte pessimismo intellettuale del Guicciardini, che si manifesta anche nella concezione
dell'uomo: a suo giudizio, infatti, la natura umana è fondamentalmente incline al male, almeno nel
momento stesso in cui accetta di vivere in società. E questa inclinazione è immutabile. Alla politica
idealista e di ampio respiro del Machiavelli, Guicciardini oppone una politica che lui definiva
"realista" ma che sarebbe meglio definire "opportunista": la politica di quel diplomatico, esperto
nell'arte di negoziare e consigliare, molto attento al proprio "particulare", cioè alla propria dignità,
reputazione e carriera politica (ad es. in religione egli avrebbe voluto farsi luterano, ma restò
cattolico; odiava il clericalismo, ma si era adattato a servire il papato). Per "particulare" non si deve
intendere il tornaconto materiale. Nelle Considerazioni sopra i Discorsi del Machiavelli (1530),
Guicciardini contesta che l'unificazione nazionale sia un obiettivo preferibile all'equilibrio tra le
varie entità politiche esistenti e sostiene invece che l'autonomo sviluppo delle varie città e signorie,
oltre ad essere causa di benessere economico, corrisponde meglio alle antiche consuetudini degli
italiani. L'opera più importante, sul piano storiografico, è la Storia d'Italia, in 20 volumi, composta
tra il '36 e il '39. E' il capolavoro di tutta la storiografia del '500. Tratta gli avvenimenti che vanno
dalla discesa di Carlo VIII alla morte di Clemente VII. E' l'unica ch'egli compose espressamente per
la pubblicazione. Guicciardini è il primo che raccoglie in un quadro le vicende di tutta Italia, ed è
anche il primo che pone a fondamento della narrazione documenti autentici e originali: di qui la sua
pretesa imparzialità. La differenza principale fra la sua storiografia e quella del Machiavelli la si
riscontra anche nel giudizio che dà della Repubblica fiorentina. Mentre il Machiavelli aveva
ricercato nelle passate vicende della città le prove della fragilità del piccolo stato corporativo
rispetto alle nazioni europee emergenti; il Guicciardini invece addebitava il declino della città alle
passioni e agli errori di singoli e famosi personaggi, vissuti negli ultimi 40 anni, oppure alle pretese
delle classi più popolari o addirittura all'influsso negativo della fortuna. Guicciardini è noto
soprattutto per la Storia d'Italia, vasto e dettagliato affresco delle vicende italiane tra il 1492 e il
1534 e capolavoro della storiografia della prima epoca moderna e della storiografia scientifica in
generale. Come tale, è un monumento al ceto intellettuale italiano del XVI secolo, e più
specificamente alla scuola fiorentina di storici filosofici (o politici) di cui fecero parte anche
Niccolò Machiavelli, Segni, Pitti, Nardi, Varchi, Francesco Vettori e Donato Giannotti.
L'opera districa la rete attorcigliata della politica degli stati italiani del Rinascimento con pazienza
ed intuito. L'autore volutamente si pone come spettatore imparziale, come critico freddo e curioso,
raggiungendo risultati eccellenti come analista e pensatore (anche se più debole è la comprensione
delle forze in gioco nel più vasto quadro europeo).Guicciardini è l'uomo dei programmi che mutano
"per la varietà delle circunstanze" per cui al saggio è richiesta la discrezione (Ricordi, 6), ovvero la
capacità di percepire "con buono e perspicace occhio" tutti gli elementi da cui si determina la
varietà delle circostanze. La realtà non è quindi costituita da leggi universali immutabili come per
Machiavelli. Altro concetto saliente del pensiero guicciardiniano è il particulare (Ricordi, 28) a cui
si deve attenere il saggio, cioè il proprio interesse inteso nel suo significato più nobile come
realizzazione piena della propria intelligenza e della propria capacità di agire a favore di se stesso e
dello stato.[2] In altre parole il particulare non va inteso egoisticamente, come un invito a prendere
in considerazione solamente l'interesse personale, ma come un invito a considerare
pragmaticamente quanto ognuno può effettivamente realizzare nella specifica situazione in cui si
trova (pensiero che collima con quello di Machiavelli). Francesco De Sanctis non ebbe simpatia per
Guicciardini ed infatti non nascose di apprezzare maggiormente il Machiavelli. Nella sua Storia
della letteratura italiana il critico irpino mise in evidenza come Guicciardini fosse, sì, in linea con le
aspirazioni di Machiavelli, ma se il secondo agì in linea con i suoi ideali, il primo invece "non
metterebbe un dito a realizzarli". Sempre nella sua Storia della letteratura italiana De Sanctis
affermò: “Il dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un dio non meno assorbente che il Dio
degli ascetici, o lo stato del Machiavelli. Tutti gli ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso,
morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che
l'individuo. Ciascuno per sé, verso e contro tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale si
gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita”.
E poco più in basso aggiunse: "Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli,
l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo «speculare» o l'osservare. Né altro è il sistema. Il
Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa, e ammette
quello che è più logico e più conseguente. Poiché la base è il mondo com'è, crede un'illusione a
volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le ha di asino, e lo piglia com'è e
vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento". Nel Romanticismo, la mancanza di evidenti
passioni per l'oggetto dell'opera era infatti vista come un grave difetto, nei confronti sia del lettore
che dell'arte letteraria. A ciò si aggiunga che il Guicciardini vale più come analista e pensatore che
come scrittore. Lo stile è infatti prolisso, preciso a prezzo di circonlocuzioni e di perdita del senso
generale della narrazione. "Qualsiasi oggetto egli tocchi, giace già cadavere sul tavolo delle
autopsie".

Nietzsche N. si è imposto come uno dei "maestri del sospetto" nel pensiero del '900. Più
propriamente egli si propone una trasmutazione di tutti i valori, non volendo restare nel nichilismo,
che aveva implacabilmente smascherato, e tanto mano nella decadenza a cui oppone decisamente la
sua potenza. Il suo compito costruttivo non è stato però eseguito oppure è stato male inteso: ha
dovuto pertanto subire tutta una serie di interpretazioni che non gli hanno reso giustizia (specie da
parte del Nazismo). Forse è più opportuno lasciare a N. la sua provocante e insoddisfatta inattualità.
Il suo pensiero ha influenzato gli ambiti più disparati, dalla letteratura alla musica, dalla pittura e
arte espressionistica alla riflessione sociologica fino alla utilizzazione politico-ideologica.

Significato generale: un irrazionalismo "ottimistico"


Per Nietzsche la filosofia non è questione teoretica (infatti non si dà verità da contemplare), ma è
una scelta, assolutamente arbitraria (è una questione di naso, cioè di gusto, non di ragione: "rispetta
il mio naso, come io rispetto il tuo").
Non si dimostra che la propria tesi è vera o che quella antagonista alla propria è falsa, ma si mostra
come nasce la tesi opposta, e ciò facendo la si distrugge. È il cosiddetto metodo "genealogico", che
dispensa da un serio esame delle tesi avversarie.

In altri termini l'origine soggettiva di qualcosa è la consistenza di questa cosa, la realtà non ha più
una sua struttura intelligibile oggettiva (analogamente a Feuerbach e il Freud "filosofo") non
importa sapere se qualcosa sia vero o no, ma solo quale motivo soggettivo spinga ad affermarlo
come tale.

1) alle origini della menzogna nel mondo classico


Nietzsche si interessò alla cultura classica, che affrontò in modo originale, come documenta la sua
tesi sulla Nascita della tragedia (1872), con la celebre distinzione, divenuta poi largamente
accettata, tra apollineo e dionisiaco.
/ \
Apollo:

dio luminoso, ben definito


forma, plasticità, arti figurative;
razionalità, controllo degli istinti, misura e equilibrio;
distacco (Apollo l'obliquo, che uccide con le frecce, distaccato dalla vittima)
Dioniso:

oscuro e irrazionale, indefinito/ambiguo


informità, musica e danza;
vitale, spontaneità, ebbrezza, orgiastico;
si unisce alle sue vittime. la vita è pervasa dal dolore e dall'assurdo: l'arte tende a trasfigurare tali
aspetti sia nella commedia, sia nella tragedia
La tragedia greca univa questi due aspetti: quello apollineo, espresso dalle arti figurative con la loro
segnicità definita, inalveamento delle domande esistenziali nel logos, e quello dionisiaco, espresso
dalle musica con la sua incontenibilità in forme determinate, simbolo della vita spontanea.
Già Euripide tende a eliminare dalla tragedia l'elemento dionisiaco, col predominio del raziocinio; è
Socrate comunque il principale responsabile dell'inaridimento della cultura occidentale: lui e
Platone sono "gli strumenti della dissoluzione greca, gli pseudogreci, gli anti greci". Loro hanno
usato di quella dialettica, che "può essere solo un'estrema risorsa nelle mani di chi non ha più armi
[..] Quel che si lascia dimostrare ha poco valore." Socrate fu ostile alla vita, volendo dominare e
soffocare l'istintività spontanea in nome della ragione. Fu malato.

2) la menzogna del sapere storico


Il tema è affrontato soprattutto in Sull'utilità e il danno della storia per la vita (seconda delle
Considerazioni inattuali). Nietzsche sostiene che i fatti in sé sono stupidi: occorre l'interpretazione.
Sono le teorie ad essere intelligenti.
Il senso della storia è spesso nemico della vita, in quanto ci rende schiavi del passato, passivi,
costretti a "chinare la schiena e piegare il capo" dinanzi alla "potenza della storia", per l'"idolatria
del fatto" che avviene laddove si verifica una "saturazione" di storia. Ne consegue una sfiducia nella
propria capacità creativa, e il formarsi di una pura erudizione da enciclopedie ambulanti, che
annulla la personalità: "nessuno osa più esporre sé stesso, ma ciascuno prende la maschera di uomo
colto, di dotto, di poeta" Si diventa così "uomini che non vedono quello che anche un bambino
vede".

l'uomo invidia l'animale, che subito dimentica [..] l'animale vive in modo non storico, poiché si
risolve nel presente [..]
l'uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a
terra e lo piega da parte.
Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non solo luce, ma
anche oscurità.
La serenità, la buona coscienza, la lieta azione la fiducia nel futuro dipendono [..] dal fatto che si
sappia tanto bene dimenticare al tempo giusto, quanto ricordare al tempo giusto.
in particolare
la storia archeologica si ferma al mediocre, si attarda ad ammirare il passato, anche nei suoi aspetti
mediocri e meschini, per giustificare la presente mediocrità;
la storia monumentale cerca nel passato esempi e modelli positivi, che mancano nel presente, onde
poter guardare al futuro con sicurezza che ciò che è stato possibile in passato lo sarà ancora;
solo la storia critica è davvero positiva, in quanto non si limita ad favorire l'imitazione del passato,
anche eroico, ma lo vuole superare: essa trascina il passato davanti al tribunale, lo giudica e lo
condanna. [deve ancora venire il momento di pienezza dell'Umanità].
3) la menzogna della scienza
Pur non essendo del tutto negativa (come pensa N. soprattutto in Umano, troppo umano, Aurora, La
gaia scienza), in quanto libera dalla vecchia concezione del mondo, essa facilmente conduce
all'adorazione della verità oggettiva, rende l'uomo schiavo dell'oggettività esterna, e contrapposta
alla vita.

In realtà non ci sono dati, fatti oggettivi (antipositivisticamente), ma solo interpretazioni


"Si vede che anche la scienza riposa su una fede, che non esiste affatto una scienza "scevra di
presupposti". La domanda se sia necessaria la verità, non soltanto deve avere avuto già in
precedenza risposta affermativa, ma deve averla avuta in grado tale da mettere quivi in evidenza il
principio, la fede, la convinzione che "niente è più necessario della verità e che in rapporto a essa
tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano". Questa incondizionata volontà di verità, che
cos'è dunque? [...] Ebbene, si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una
fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi, uomini della
conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco
dall'incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di
Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina... Ma come è possibile, se proprio questo diventa
sempre plu incredibile, se niente più si rivela divino salvo I'errore, la cecità, la menzogna, se Dio
stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna?" (La gaia scienza, 344)
Nietzsche, ancora, denuncia lo schematismo degli scientisti, che non si accorgono della polimorfia
del reale, pretendendo di ricondurlo a pochi principi meccanici.

4) la menzogna morale
Nietzsche indica nel risentimento l'origine dei valori cristiani, morale dei deboli, dei malati, degli
sconfitti, risentiti contro la vita. Il risentimento è un auto-avvelenamento dell'animo che si produce
in chi, debole e vile, non sa reagire adeguatamente, affidandosi alla sua vitalità spontanea e
aggressiva, alle sfide del contesto. In tal modo alla lunga egli si convince che il suo comportamento,
frutto in realtà di debolezza e viltà, è l'unico ad essere virtuoso: ed eleva così il valore del perdono e
della remissività a valori supremi. Gettando disorientamento e confusione nella società tutta.

5) la menzogna religiosa e la morte di Dio


Nietzsche ha comunque una segreta, profonda nostalgia dell'Assoluto, come testimoniano questi
versi:

All meine Tränenbäche laufen zu Dir den Lauf!


Und meine letzte Herzensflamme -
Dir glüht sie auf!
O, Komm zurück,
Mein unbekannter Gott!
Mein Schmerz! mein letztes Glück!,
(F. Nietzsche, Dionysos - Dithyramben)

Ciò non toglie che il suo sia il più radicale ateismo della storia della filosofia. Per lui infatti Dio in
quanto tale si oppone all'uomo: deve morire, affinché l'uomo viva.
"Egli è morto, noi lo abbiamo ucciso. Ma questo non affare di poco" (Also sprach Zaratustra).
Nietzsche d'altronde si schiera contro gli atei volgari(i ridanciani) che non si rendono conto della
posta in gioco, e credono che sia facile "sbarazzarsi" di Dio. Mentre si tratta di un'opera titanica, da
far tremare le vene ai polsi:

Come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare, bevendolo fino all'ultima goccia? Chi
ci dette la spugna per cancellare l'intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla
catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è
il nostro un eterno precipitare?
Con che acqua potremo lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non
è troppo grande per noi la grandezza di questa azione? (La Gaia scienza, n.125)
interpretazioni della morte di Dio:
Secondo alcuni, tra i quali Vattimo, si tratterebbe di una presa d'atto storica;
secondo altri, tra i quali Abbagnano, si tratta invece di una tesi metafisica.
interpretazioni del nichilismo
Alcuni pretendono che la negazione di un Assoluto non significhi negare ogni valore;
ma più avvedutamente altri interpreti ritengono che, al di là delle intenzioni, forse, di N,, negare i
valori assoluti, propri del Cristianesimo e della religione, significa negare ogni valore. La tragica
conclusione nella pazzia della parabola filosofica di N. è in tal senso significativa.
la volontà di potenza
Ogni azione di ogni uomo é dettata secondo Nietzsche da una volontà di potenza, un desiderio
irresistibile di acquisire potere per dominare su tutti gli altri: "Ogni volta che ho trovato un essere
vivente , ho anche trovato volontà di potenza ; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la
volontà di essere padrone . Il debole é indotto dalla sua volontà a servire il forte , volendo egli
dominare su ciò che é ancora più debole : a questo piacere , però , non sa rinunciare . E come il
piccolo si dà al grande , per avere diletto e potenza sull' ancora più piccolo : così anche ciò che é più
grande dà se stesso e , per amore della potenza , mette a repentaglio la sua vita ." ( Così parlò
Zarathustra )
l'eterno ritorno
La concezione di una storia lineare è fallace poiché la storia è ciclica, esiste un eterno ritorno
dell'uguale, una ciclicità dell'universo, un ritorno alla natura greca che si esprime nel ciclo cosmico
dionisiaco, negando così la finitezza del tempo e lo scopo del divenire. L'attimo dunque nella
concezione di Nietzsche possiede tutto intero il suo senso meritando di essere vissuto per se stesso
come se fosse eterno.
il superuomo
Ai valori tradizionali, propri di una "morale schiava" caratterizzata dalla debolezza dell'individuo e
dal risentimento che nasconde l'interesse (esemplare la morale cristiana del sacrificio), N. oppone
una "trasvalutazione" che darebbe vita alla figura dell'uomo disincantato e consapevole del nulla,
eroicamente responsabile della propria finitezza, il superuomo (Übermensch) nato per andare
"oltre" l'uomo del presente. Il superuomo afferma la vita accettandone la sofferenza, il dolore e le
contraddizioni che l'accompagnano con gioioso (dionisiaco) amore per l'esistenza; è un creatore di
valori ed è per questo privo di valori fissi e immutabili, al di là del bene e del male, artefice di una
"morale autonoma". Laddove gli altri vedono cose ideali, lui vede cose umane, troppo umane. La
"fedeltà alla terra" del superuomo è fedeltà alla vita e al vivere con pienezza, è esaltazione della
salute e sanità del corpo, è altresì affermazione di una volontà creatrice che istituisce valori nuovi.
Non più "tu devi", ma "io voglio".Il superuomo è l'uomo totalmente indipendente dai valori
tradizionali, l'uomo che si pone al di là del bene e del male: l'uomo superiore accetta con gioia la
vita come è. In un mondo dominato dal caso e dall'irrazionalità, la sola necessità è quella della
volontà che vuole riaffermare se stessa; il superuomo ha saputo identificare la propria volontà con
quella del mondo, accettare la nonna terrestre che lo regge: egli è volontà di potenza incarnata.
Contro la tradizione giudaico-cristiana che attribuisce al tempo una direzione lineare e una struttura
articolata in passato, presente e futuro, N. nega l'esistenza di un fine del corso storico che trascenda
i singoli momenti. Significati e direzioni sono solo prospettive interne al gioco di forze della
volontà di potenza: ogni momento, e ciascuna esistenza in ogni attimo, ha tutto il suo senso in sé. Il
superuomo, grazie all'amor fati, all'accettazione gioiosa della vita così come è - nel passato, nel
presente e nell'eternità - deve costruire un'esistenza in cui ogni momento abbia tutto intero il suo
senso: l'eterno presente della vita.
al di là del bene e del male
La morte di Dio rappresenta la fine delle illusioni e delle menzogne della religione e
all’accettazione dell’immanenza della vita. Da qui inizia una vera e propria trasmutazione dei valori
che darà vita al superuomo (oltreuomo), che si pone al di là del bene e del male, non riconosce
limiti e si eleva sopra il gregge degli uomini mediocri. Questo comporta anche una volontà di
potenza, un nichilismo attivo ed una concezioni ciclica della storia.
la gaia scienza
La scienza moderna é soltanto la forma più recente e nobile dell'ideale ascetico, essa ha ancora
fiducia nelle verità come valore in sè, superiore ad ogni altro e, quindi, non é in grado di contrastare
questo ideale. E' tuttavia possibile quella che N. definisce gaia scienza , che si rivolge ai
senzapatria, figli dell'avvenire e a disagio nel proprio tempo, amanti del pericolo e dell'avventura,
avversi a ogni ideale, i quali non hanno intenzione di regredire ad alcun passato nè lavorare per il
progresso, ossia per l'affermarsi dell'uguaglianza e della concordia tra gli uomini. Per raggiungere
questo stato di gaiezza bisogna abbandonare la morale corrente, porsi liberi al di là del bene e del
male e quindi staccarsi da parecchie cose, ma per far questo occorre acquisire una condizione di
leggerezza: e N. paragona questo stato a quello della "danza".
il risentimento
é lo stato d'animo dell'uomo che, impotente a creare nuovi valori e ad affermarsi sulle sofferenze
della vita, dice "no" alla vita stessa asservendosi alla "morale degli schiavi", odiando ciò che non
può essere o non può avere e limitandosi, utilitaristicamente, a difendere le qualità del "gregge"
giudizio
La filosofia di Nietzsche rappresenta l'attacco più frontale e totale al Cristianesimo che la storia del
pensiero conosca. Le tragedie del superomismo di estrema destra (il nazismo e il fascismo in
particolare) hanno trovato in lui certamente una legittimazione teorica, e in molti casi uno stimolo
propulsivo.
Non si può però negare a Nietzsche un atteggiamento sincero, e in qualche modo coerente fino
all'estremo, tanto più notevole se lo paragoniamo a quello di un Comte o di altri filosofi, che, pur
detestando la Verità, hanno finto di esserle devoti (come Hegel), o almeno indifferenti (come tanti
altri).

Hobbes
Hobbes, Thomas - Contrariamente alla concezione aristotelica dell'uomo come "animale
sociale" che tenda cioè a vivere aggregandosi in comune con gli altri, Hobbes è invece convinto che
nello "stato di natura", quando non esiste ancora la società umana, ogni singolo uomo, considerato
nella sua individualità corporea, come ogni corpo tende ad acquisire per sé tutto ciò che favorisce il
suo movimento vitale. Poiché infatti ogni uomo tende all'autoconservazione cerca di acquisire senza
alcun limite tutto ciò che serve alla sua conservazione. Però ciò che fa il singolo lo fanno anche gli
altri individui al punto che le azioni di uno si scontrano con l'uguale tendenza, reazione, degli altri
ed allora alla fine si genera la lotta per la predominanza dell'uno su gli altri, il bellum omnium
contra omnes, la guerra di tutti contro tutti, dove ogni singolo diviene lupo per ogni altro uomo
(homo homini lupus).
In un siffatto stato di natura è assurdo parlare di giusto e ingiusto perché non esiste una legge ma
tutto rientra in un comportamento naturale: «Dove infatti non c'è un potere comune non c'è legge;
dove non c'è legge non c'è ingiustizia» e, non essendovi legge non c'è neppure proprietà, che
appunto viene difesa e mantenuta dalla legge.
Per quel che riguarda la parte filosofica del pensiero hobbesiano bisogna sottolineare una sua
concezione particolare nota come materialismo in base alla quale si possono studiare soltanto gli
elementi di cui possiamo conoscere la causa e possiamo vedere gli effetti, ossia ciò che è generabile
e ciò che è stato generato. Per Hobbes però sono generabili soltanto i corpi, la materia e quindi solo
i corpi devono essere oggetti di studio della filosofia: tale affermazione è prettamente materialistica
in quanto da importanza a ciò che è sensibile. Poi afferma che possiamo distinguere tra i corpi
naturali, che troviamo nella realtà e non creati dall’uomo e i corpi artificiali, creati dall’uomo, che
hanno una causa e sono stati generati (sono effetti) come le leggi, lo stato, una struttura con luogo e
corpi fisici, fatto di cose generabili quindi materiali, le istituzioni: la filosofia nella sua totalità le
studia entrambe.
L' opera più famosa di Hobbes , in cui egli esprime tutte le sue teorie politiche é il Leviatano , che
prende il nome da un mostro mitologico dell' Antico Testamento ; é interessante notare che oltre al
Leviatano , Hobbes scrisse un' altra opera ( meno famosa ) , intitolata Behemoth : anche Behemoth
é un mostro biblico , però , a differenza di Leviathan , é fortemente negativo e simboleggia la
ribellione che , come detto , per Hobbes é una contraddizione logica : quindi Behemoth , la
ribellione , é un mostro distruttivo , che va assolutamente vinto . Il Leviatano , titolo dell' opera ,
non é altro che lo Stato stesso : nel frontespizio della prima edizione dell' opera compare un curioso
disegno : un grande uomo con la corona sul capo che é a sua volta composto da tanti piccoli omini ;
lo Stato per Hobbes non é altro che un insieme di corpi e , poichè il corpo é spiegabile in termini
meccanicistici , così deve essere spiegato anche lo Stato ( che é un insieme di corpi , un corpo
gigante composto da corpi piccoli ) : ricordiamoci che Hobbes é riduzionista . Lo Stato , ossia l'
aggregazione dei cittadini , viene presentato come un mostro positivo , come un " Dio in terra " : lo
Stato é quella realtà , spiega Hobbes , dalla quale , subito dopo Dio , ci si devono aspettare i beni
maggiori : é un vero e proprio Dio sulla terra . Ciò non toglie che questo Dio terreno venga
presentato come un mostro , dipinto cioè in termini ambigui : é sì la realtà da cui ci si devono
aspettare grandi beni , ma lo é proprio perchè dotato di potere immenso ( i cittadini gli cedono tutti i
loro diritti ) e Hobbes non può nascondere che sia comunque un qualcosa di aggressivo e terribile .
Ma il fatto che sia terribile non implica che debba essere evitato : é e rimane l' unico mezzo per non
piombare nello stato di natura , dove vige il diritto del più forte . Questo spiega , tra l' altro , perchè
Hobbes apprezzasse un "rivoluzionario" come Cromwell : ciò che conta é che ci sia un potere forte ,
non importa di qual natura : il potere valido é quello che c' é , purchè sia potente e purchè ci sia.

Kant
La Critica della ragion pura è una sorta di tribunale in cui il giudice delle capacità
conoscitive dell’uomo è la razionalità stessa. Con Kant la ragione impera sovrana: non viene
riconosciuto alcun giudice superiore alla ragione stessa, e la ragione non si sottopone ad alcun altro
tribunale, che a quello in cui giudice è essa stessa. Non c’è un’autorità superiore. Criticismo in Kant
vuol dire bilancio delle facoltà conoscitive umane. Col criticismo kantiano l’Illuminismo raggiunge
il suo culmine e viene superato, ma raggiunge il suo culmine anche la filosofia moderna nella sua
interezza, che aveva avuto il momento di massima accelerazione con Cartesio. Con il criticismo
che implica un profondo riesame delle filosofie precedenti e un bilancio delle facoltà conoscitive
umane quali erano state identificate dalla filosofia dei secoli precedenti. Saggio sull’intelletto
umano di Locke, che segnala già nel titolo un’attenzione alle facoltà conoscitive umane. Lo
spostamento dell’attenzione, del baricentro della filosofia dal mondo oggettivo alle strutture del
soggetto raggiunge l’apice nel criticismo kantiano. Kant conclude la filosofia moderna e apre quella
contemporanea con un discorso sulle facoltà conoscitive dell’uomo.

La forma “a priori” che ne esercita l’universalità sul sapere sintetico è definita trascendentale.
Nella critica della ragion pura Kant distingue l’ “estetica trascendentale” dall’ “logica
trascendentale”. Per estetica Kant intende la sensibilità e afferma che essa si fonde su 2 conoscenze
“a priori”: spazio e tempo.
• Lo spazio è la conoscenza “a priori” del senso esterno, ovvero la concezione esterna di un corpo,
ed è alla base della geometria;
• Il tempo invece è una conoscenza “a priori” che concepisce un corpo basandosi sulla successione
del prima e del dopo, e sta alla base dell’aritmetica ( che è una successione di numeri).
Dopo aver stabilito su cosa si basa l’estetica è necessario ricordare che Kant scrisse la pratica della
ragion pura con l’intenzione di stabilire i limiti della ragione che, secondo lui, non può essere
infinita. A tal proposito egli distingue nell’estetica trascendentale il “fenomeno” e il “noumeno”:
• Il fenomeno è la realtà per come è concepita da noi, secondo le nostre forme “a priori” innate in
noi, le quali determinano la nostra concezione della realtà;
• Il noumeno invece è la realtà effettiva, per come è, indipendentemente dal soggetto che la
conosce; essa può essere per noi una concezione solo pensabile (teoricamente), ma non conoscibile
(empiricamente). Passiamo ora alla logica trascendentale che si suddivide in: analitica e dialettica.
L’analitica studia le funzioni dell’intelletto, il quale dopo aver stabilito la conoscenza sensibile
secondo le forme di spazio e tempo, stabilisce spontaneamente la categorie di appartenenza. Come
afferma kant, infatti, esso determina una conoscenza secondo la tavola delle 12 categorie,che
possiamo raggruppare in 4 gruppi: quantità, relazione, qualità e modalità ( questa tavola della
categorie si differenzia da quella di Aristotele, poiché Aristotele la suddivise ontologicamente, in
base ai modi di essere). Inoltre, visto che secondo Kant “pensare è giudicare” egli associa ai
rispettivi gruppi della tavola delle categorie, una tavola dei giudizi.
L’ultimo tassello della teoria kantiana della conoscenza è rappresentato dall’ “io penso”, ovvero
quel processo unificatore di tutte le rappresentazioni (estetiche e analitiche) stabilite fin’ora.
È importante precisare inoltre che l’ “io” deve essere concepito come un “io” oggettivo (l’umanità)
e non individuale: esso infatti è l’unità fondatrice della conoscenza oggettiva dei giudizi sintetici “a
priori”; infine esso deve essere concepito come una funzione logica e non creatrice. Nella critica
della ragion pura Kant si interroga sul "cosa posso conoscere?" , e si pone come scopo di fondare un
sapere che può essere considerato valido come il sapere scientifico, il quale a differenza della
metafisica (basata su semplici concetti che non derivano dall'esperienza) unisce esperienza e
concetto, teoria e pratica. A tal proposito, egli classifica 2 tipi di giudizi, di conoscenze: · I giudizi
analitici "a priori", che non derivano dall'esperienza ma che hanno carattere universale (teorici); · I
giudizi sintetici "a posteriori", derivati dall'esperienza ma che non hanno carattere universale
(pratici). Questi 2 tipi di giudizi presi singolarmente non possono essere alla base di sapere valido,
che per essere considerato tale deve unire concetto ed esperienza; dunque Kant li fonde assieme e
nascono i giudizi sintetici "a priori", ovvero quei giudizi derivati dall'esperienza che hanno carattere
universale. La forma "a priori" che ne esercita l'universalità sul sapere sintetico è definita
trascendentale. Nella critica della ragion pura Kant distingue l' "estetica trascendentale" dall' "logica
trascendentale". L'estetica trascendentale Per estetica Kant intende la sensibilità e afferma che essa
si fonde su 2 conoscenze "a priori": spazio e tempo. · Lo spazio è la conoscenza "a priori" del senso
esterno, ovvero la concezione esterna di un corpo, ed è alla base della geometria; · Il tempo invece è
una conoscenza "a priori" che concepisce un corpo basandosi sulla successione del prima e del
dopo, e sta alla base dell'aritmetica ( che è una successione di numeri). Dopo aver stabilito su cosa
si basa l'estetica è necessario ricordare che Kant scrisse la pratica della ragion pura con l'intenzione
di stabilire i limiti della ragione che, secondo lui, non può essere infinita. A tal proposito egli
distingue nell'estetica trascendentale il "fenomeno" e il "noumeno": · Il fenomeno è la realtà per
come è concepita da noi, secondo le nostre forme "a priori" innate in noi, le quali determinano la
nostra concezione della realtà; · Il noumeno invece è la realtà effettiva, per come è,
indipendentemente dal soggetto che la conosce; essa può essere per noi una concezione solo
pensabile (teoricamente), ma non conoscibile (empiricamente). La logica trascendentale Passiamo
ora alla logica trascendentale che si suddivide in: analitica e dialettica. L'analitica studia le funzioni
dell'intelletto, il quale dopo aver stabilito la conoscenza sensibile secondo le forme di spazio e
tempo, stabilisce spontaneamente la categorie di appartenenza. Come afferma kant, infatti, esso
determina una conoscenza secondo la tavola delle 12 categorie,che possiamo raggruppare in 4
gruppi: quantità, relazione, qualità e modalità ( questa tavola della categorie si differenzia da quella
di Aristotele, poiché Aristotele la suddivise ontologicamente, in base ai modi di essere). Inoltre,
visto che secondo Kant "pensare è giudicare" egli associa ai rispettivi gruppi della tavola delle
categorie, una tavola dei giudizi. L'ultimo tassello della teoria kantiana della conoscenza è
rappresentato dall' "io penso", ovvero quel processo unificatore di tutte le rappresentazioni
(estetiche e analitiche) stabilite fin'ora. È importante precisare inoltre che l' "io" deve essere
concepito come un "io" oggettivo (l'umanità) e non individuale: esso infatti è l'unità fondatrice della
conoscenza oggettiva dei giudizi sintetici "a priori"; infine esso deve essere concepito come una
funzione logica e non creatrice. Dopo aver definito quando una scienza può essere considerata
valida, Kant passa ad analizzare la dialettica trascendentale, ovvero dimostra come la metafisica
non può essere considerata una scienza. A tal proposito, afferma nuovamente i limiti dell'intelletto,
ma precisa che ciò che noi non possiamo concepire con l'intelletto, non vuol dire che non esista:
semplicemente non possiamo conoscerlo ( concettualmente ed empiricamente) ma possiamo
pensarlo (solo concettualmente). Dunque introduce il concetto di "ragione", ovvero quel desiderio
inevitabile dell'uomo di conoscenza infinita, che lo condusse a " pensare" alla metafisica". La
metafisica (che include l'idea di anima, di cosmo e di Dio) è un idea della ragione, ovvero un
concetto illusorio (poiché è privo di esperienza) e che ha una funzione regolativa per la nostra
conoscenza, poiché la conduce ad un ideale di completezza; a dimostrazione di ciò Kant elenca tutte
le contraddizioni della metafisica razionale tradizionale, secondo le quali la metafisica non può
essere considerata una scienza. Critica della ragion pratica Nella critica della ragion pratica, Kant
tratta di etica e si chiede "Cosa devo fare?". Per rispondere a questa domanda, egli introduce un
etica deontologica ( dal greco to deòn "il dovere") secondo cui ogni uomo possiede "a priori" una
legge morale dentro di sé, che agisce indipendentemente e incondizionata da cause esterne. Questa
legge morale deriva dall' "imperativo categorico" che impone all'uomo di agire " secondo dovere" a
differenza dell' "imperativo ipotetico", secondo cui l'uomo agisce per un secondo fine e quindi " per
dovere" ( esempio: studio per l'interrogazione). Tuttavia, Kant non stabilisce dei precisi
comportamenti da seguire per rispettare la legge morale; a proposito di questo egli introduce
semplicemente il principio di "universalizzazione", ovvero per capire se agisce secondo legge
morale, un individuo deve chiedersi "sarebbe giusto che questa mia azione fosse compiuta da tutto
il mondo?", quindi universalizzare il proprio agire. Inoltre, kant pone 3 restrizioni per riconoscere la
legge morale: · Per essere considerata legge morale, "una massima (un'azione soggettiva,
individuale) può diventare legge universale (azione oggettiva); · L'uomo deve essere considerato
sempre come fine e mai come mezzo; · La volontà deve agire sempre spontaneamente, secondo
legge morale, appunto. Kant infine ribadisce che l'etica morale non deve puntare al raggiungimento
di secondi fini, nemmeno Dio può essere considerato lo scopo della legge morale. Tuttavia, Kant
ammettendo l'esistenza della legge morale, ammette altresì l'esistenza di Dio. Infatti: kant dimostra
che effettivamente in vita la virtù morale non sempre corrisponde alla felicità, ma dopo la morte
Dio farà corrispondere la vita virtuosa a cotanta felicità. Dicendo ciò, inoltre Kant ammette anche la
vita dopo la morte e quindi l'esistenza dell'anima; e infine ammette la libertà esercitata agendo
spontaneamente secondo legge morale.
Critica del giudizio Nella critica dl giudizio, Kant affronta il problema estetico e si occupa di 2
temi: il iudizio estetico e il giudizio teleologico. Il giudizio estetico Nel giudizio estetico kant
afferma che l'uomo coglie "il bello" tramite il giudizio di gusto che è disinteressato (in quanto
deriva dalla rappresentazione dell'oggetto elaborata dal soggetto) e scaturisce dal sentimento di
apprezzamento, di piacere del soggetto. Kant distingue poi 2 tipi di giudizi estetici: · "il giudizio
determinante" ( conoscitivo) che è universale e deriva dalle funzioni dell'intelletto; · Il giudizio
riflettente, che è sempre universale ma deriva dal sentimento (quest'ultimo è considerato universale
poiché è costituito dal "senso comune del gusto", che appartiene "a priori" a tutti gli uomini). Nel
giudizio estetico, oltre al bello, kant considera anche il "sublime", quel sentimento di piacere
negativo (fascino e inquietudine insieme)che provocano le forze della natura. Kant distingue 2 tipi
di sublime: · Il sublime matematico, suscitato dalla grandezza della natura ( il mare, il cielo,..); · Il
sublime dinamico, suscitato dalla potenza della natura (i terremoti, le tempeste,...). Infine kant
afferma che solo il genio (l'artista) capace di cogliere il sublime nella natura. Il giudizio teleologico
Esso invece, consiste nell'attribuire finalità alla natura ( uno scopo, una causa) , in particolare
intende ricondurre uno scopo alle interazioni tra gli esseri viventi. Tale giudizio deriva dalla
tendenza umana a ricercare le cause universali, e ciò conduce gli uomini a giustificare la teleologia
con la teologia (cause naturali = Dio). Tuttavia, tale giudizio ha solo valore regolativo, non
scientifico.

Idealismo Tedesco
FICHTE (1762-1814) Dogmatismo e idealismo: la filosofia di F. parte dall'analisi del criticismo di
Kant e si pone il problema del rapporto tra soggetto e oggetto. Dinanzi all' IO che pensa c'è una
cosa in se che gli preesiste attività dal pensiero condizionata e limitata da essa. Superiorità
dell'idealismo sul dogmatismo: La scelta dei 2 indirizzi filosofici è di carattere etico: animo
fiaccoRealismo; animo libero idealismo Il nuovo fondamento filosofico è l'io puro che produce la
realtà nella sua totalità. scompare la divisione tra mondo fenomenico e mondo noumenico. I 3
principi della dottrina della scienza: la produzione della realtà da parte del pensiero avviene
attraverso un processo dialettico composto in 3 momenti: 1. TESI: l'io pone se stesso: A=A
(identità) questo è il principio logico da cui si deduce che IO=IO; il pensiero non può affermare
nulla senza prima affermare se stesso. 2. ANTITESI: l'io pone nell'io il non io: L'io sarebbe vuoto se
non ci fosse in non io, ossia qualcosa che gli resiste. Perciò non solo l'io pone se stesso, ma oppone
a se stesso qualcosa che essendo opposto è un non io. 3. SINTESI: l'io oppone, nell'io,all'io
divisibile, un non io divisibile. Ora l'io e limitato da l non io e questo è limitato dall'io. Nel mondo
ci sono tanti io finiti (individui) trovano davanti a se molti oggetti finiti che si presentano come
limite. Questo ostacolo viene superato in quanto il non io non ha una sua autonomia, esso è solo una
produzione dell'io. L'ostacolo viene saltato ma non abbattuto. L'io produce altri non io e così si ha
un processo all'infinito che non conosce una conclusione. L'idealismo come scelta di libertà: libertà
del pensiero si sviluppa con un processo dialettico infinito di produzione di limiti che vengono
superati. La missione dell'uomo: Il superamento della condizione del finito è il compito dell'uomo,
teso ad affermare la libertà dello spirito sul mondo della natura e della passività filosofia di F. =
senso etico. Il diritto: La libertà del singolo presuppone la libertà del altri. Nasce così il diritto che
considera l'io empirico limitato non solo dal non io ma anche da altri io empirici. Lo Stato è la forza
che vigila sul rispetto di questi limiti, deve permettere a tutti gli individui libertà, lavoro e una
esistenza giuridica. Domande: Perché la filosofia di Fichte può essere definita la filosofia della
libertà? Negazione della cosa in se- non io (natura) come produzione dialettica dell'io- io assoluto
fondamento del sapere. Quale concezione di stato delinea nei discorsi alla nazione tedesca Fichte?
Nazionalismo e primato della nazione tedesca- riconoscimento della spiritualità e purezza della
cultura della Germania in opposizione al materialismo.
Fichte nella Dottrina della scienza afferma: «Nell’intelligenza dunque, per usare un’immagine, vi è
una doppia serie, dell’essere e del guardare, del reale e dell’ideale [in altri termini ci sono l’oggetto
ed il soggetto]; ed è appunto nell’indivisibilità di questa doppia serie che consiste la sua essenza, la
quale è dunque sintetica, mentre invece alla cosa non compete che una serie semplice, quella del
reale e cioè dell’esser posto. Intelligenza e cosa sono perciò direttamente opposte, si trovano
rispettivamente in due mondi, tra i quali non c’è ponte di passaggio».
onseguirà la realizzazione dell’io, bensí la perdita dell’io, il non-io, l’an- nientamento dell’io.
«Poiché l’uomo è fine a se stesso, egli deve determinarsi da sé e non lasciarsi mai determinare da
qualcosa di esterno. Egli deve essere ciò che è, soltanto perché egli vuole e deve voler essere così.
L’io empirico deve essere determinato nel modo in cui potrebbe essere determinato eternamente.
Esprimerei dunque il principio della morale con la formula seguente: “agisci in modo che tu possa
pensare la massima della tua volontà come legge eterna per te”». È chiaro che anche qui Fichte sta
seguendo le orme di Kant, ma dice qualche cosa di più forte di Kant stesso. Kant afferma: «Agisci
in modo che la tua volontà possa valere come legislatrice universale». È come se Fichte dicesse:
«Non puoi agire immerso nella banalità, pensando che potresti fare questo, poi potresti fare
quest’altro, ecc. No, in ogni circostanza c’è una sola cosa che puoi fare per ampliare gli orizzonti
della libertà. Se fai quello, ti iscrivi nella storia dell’eternità, perché stai facendo compiere
all’umanità che è in te quel famoso piccolo passo in avanti per ampliare i propri orizzonti di libertà.
Se tu non fai esattamente quel passo, compi una banalità, ti perdi nel non-io, ti perdi nell’esteriorità.
Devi invece agire in ogni momento pensando che quel momento è un momento decisivo, perché in
te si gioca l’umanità, ma l’umanità che è in gioco in te lo è in tutti gli altri uomini». Ogni momento
in cui ci si lascia andare a un’esteriorità, a una banalità, a una dissipazione, a un cedimento al
carrierismo, all’egoismo, alle inclinazioni, è un momento in cui invece di vincere l’umanità, invece
di far fare quell’altro piccolissimo passo in avanti all’umanità sulla via della sua liberazione (capire
un problema, rimuovere un ostacolo pratico, ecc.) vince l’esterno, cioè vince il non-io, e allora non
ci si iscrive nell’eternità, ci si iscrive nell’inferno della banalità quotidiana.
«L’uomo ha la missione di vivere in società; egli deve vivere in società; se viene isolato, non è un
uomo intero e completo, anzi contraddice a se stesso». Il cammino di liberazione per Fichte non può
avvenire se non in comunicazione con gli altri io. Per Fichte il concetto di “io” non è un concetto di
carattere solipsistico, egoistico: l’io è la struttura trascendentale comune a tutti gli uomini; quando
parla di io, parla in sostanza dell’umanità. Non è possibile la realizzazione della libertà se non
all’interno della comunità.
«Dice Rousseau: taluni si ritengono padroni di altri uomini, mentre sono invece più schiavi di loro,
ma avrebbe potuto dire ancora più esattamente: chiunque si ritiene padrone di altri uomini è uno
schiavo egli stesso. Se anche non sempre lo sia in realtà, pure ha certamente un’anima da schiavo e
striscerà bassamente ai piedi del primo che sia più forte di lui e lo sottometta. È davvero libero solo
colui che vuol rendere libero tutto ciò che lo circonda, e che riesce a diffondere effettivamente
intorno a sé la libertà, grazie ad un’influenza di efficacia sicura, anche se l’origine di essa possa
passare inosservata». È qui ripreso il concetto kantiano espresso nella seconda formula
dell’imperativo categorico per cui gli uomini sono tutti fini in sé, cioè sono tutti membri
dell’umanità razionale, quindi non si deve mai avere un atteggiamento di strumentalità verso l’altro
uomo. «A nessuno è lecito agire su altri uomini come su materia bruta o sull’animale, onde
realizzare per mezzo loro un qualsiasi scopo suo senza far conto alcuno della loro libertà. Non gli è
concesso neppure rendere virtuoso o saggio o felice alcun essere ragionevole contro la sua volontà.
A prescindere dal fatto che questo sforzo sarebbe vano, che nessuno può divenire virtuoso o saggio
o felice se non col proprio lavoro e con la propria fatica, è certo che egli non deve neppure volerlo
fare, quand’anche potesse o credesse di potere, perché ciò è ingiusto ed egli si porrebbe così in
contraddizione con se stesso. Il fine supremo ed ultimo della società è la completa unità e l’intimo
consentimento di tutti i suoi membri».

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