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Il Mulino - Rivisteweb

A cura di Francesca Iurlaro, Davide Ragnolini


Studi hobbesiani
(doi: 10.4479/89725)

Storia del pensiero politico (ISSN 2279-9818)


Fascicolo 1, gennaio-aprile 2018

Ente di afferenza:
Università la Sapienza di Roma (Uniroma1)

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Schede

STUDI HOBBESIANI
a cura di Francesca Iurlaro e Davide Ragnolini

David Boucher, Appropriating Hobbes: Legacies in Political, Legal, and Inter-


national Thought, Oxford, Oxford University Press, 2018, pp. 256.

In occasione del tricentenario della scomparsa di Hobbes, Hedley Bull nella


sua lecture presso l’Hertford College di Oxford ascriveva il malmesburiense
nel novero di quei pensatori la cui attualità viene rinnovata di generazione in
generazione. È nel solco di questa longeva, plurale tradizione di «appropria-
tion» di Hobbes da parte di diversi pensatori che si impone una riflessione
sull’hobbesismo nel corso del XX secolo; ed è ancora a fronte di questa lun-
ga stratificazione di interpretazioni che il nuovo contributo di David Bou-
cher dev’essere letto. Già attento lettore e partecipe di un vivace dibattito sul
metodo contestualista nella storia delle idee, di diversi studi sull’idealismo
britannico, sulla storia delle dottrine politiche e sulla Political Theory of Inter-
national Relations, Boucher nel presente libro si propone di «dare un rapido
sguardo» (p. 2) ai differenti contesti in cui si è articolata tale appropriazione.
Il primo capitolo (pp. 27-49) è dedicato alle avventure e disavventure della
ricezione del pensiero hobbesiano nella tradizione dell’idealismo britannico,
da Green a Bosanquet, da Michael Oakeshott a Collingwood. A monte di una
tradizione idealistica sostanzialmente avversa all’utilitarismo e al materiali-
smo, l’Autore mostra come, attraverso l’obbligato confronto storico-filosofico
con Hobbes, diversi elementi della sua filosofia (logica, linguistica, contrat-
tualista) abbiano condotto a una parziale riabilitazione della sua figura, culmi-
nata con The New Leviathan (1942) di Collingwood che, durante la Seconda

Francesca Iurlaro, European University Institute, Badia Fiesolana, Via dei Roccettini 9, 50014
San Domenico di Fiesole (FI), francesca.iurlaro@eui.eu; Davide Ragnolini, Università di Torino,
Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione, via Sant’Ottavio 20, 10124 Torino, davide.
ragnolini@unito.it. Ha collaborato Simona Azzan (simona.azzan@unimi.it).

STORIA DEL PENSIERO POLITICO 1/2018, 161-170 ISSN 2279-9818 © Società editrice il Mulino
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Guerra Mondiale, intravide la possibilità di una rinnovata interpretazione


dell’artificio politico hobbesiano quale mezzo contro il «nuovo barbarismo»
dell’età contemporanea (p. 49).
Proprio da un confronto tra Michael Oakeshott e la scuola contestualista
di Quentin Skinner prende le mosse il secondo capitolo (pp. 50-88), che acco-
sta due diverse forme di contestualismo: da un lato quella di Skinner, incen-
trata sullo studio del terreno storico-linguistico in cui maturarono le attività
intellettuali e le battaglie ideologiche dei grandi protagonisti della storia del
pensiero politico; dall’altro l’approccio di Oakeshott, che per contestualismo
intendeva invece, secondo una differente accezione, il contesto della storia
delle idee in relazione al problema della verità filosofica.
Oakeshott è ancora protagonista della rilettura storico-filosofica novecen-
tesca dell’hobbesismo presentata nel terzo capitolo (pp. 89-126), in cui l’inter-
pretazione dell’idealista inglese è accostata a quella di Carl Schmitt al fine di
esaminare due eclatanti, quanto feconde, divergenze ermeneutiche attorno a
liberalismo ed eccezionalismo, autoritarismo contrattualista e individualismo.
Un altro tassello della tortuosa ricezione hobbesiana è offerto quindi nel quarto
capitolo (pp. 127-153), in cui viene preso in esame il contesto dell’appropriazio-
ne di Hobbes nella storia della filosofia del diritto internazionale. Interpretata
quale «persona giuridica e morale» (p. 149), la sua persona ficta statale da un
lato cominciò a prendere vita all’interno delle riflessioni sul diritto delle genti da
Pufendorf a Wolff, offrendo così un importante appiglio per la fondazione di
una teoria dei diritti e dei doveri degli Stati nei loro reciproci rapporti; dall’al-
tro, Hobbes fu non di rado sottoposto a superficiali letture, che mancarono di
accordare alla sua figura un’importanza internazionalistica, in favore di una sua
riduzione a teorico della sovranità domestica (p. 152).
Nel quinto capitolo (pp. 154-185) è tematizzata l’origine intellettuale che ha
condotto a tale polarizzazione dell’immagine di un Hobbes proto-giuspositivi-
sta, appropriata poi dalla scuola realista all’interno della teoria internazionalisti-
ca. Si tratta cioè della riscoperta della «preveggente» (p. 152) teoria hobbesiana
della non obbligatorietà degli accordi tra Stati, i cui rapporti erano percepiti
come fondati sull’identificazione del diritto naturale col diritto delle genti.
A questa fortunata, quanto unilaterale, ricezione dell’hobbesismo interna-
zionalistico, si è sommata un’ulteriore «appropriation» esaminata nell’ultimo
capitolo (pp. 186-219): il processo di caricaturizzazione di Hobbes (p. 219)
quale decano della tradizione realista secondo un’ermeneutica consolidata
nella pratica disciplinare delle IR.
Il volume di Boucher non pretende affatto, come riconosciuto dall’Auto-
re, di fornire una storia complessiva della ricezione contemporanea di Hob-
bes (p. 220). Il suo punto di forza metodologico sta piuttosto nel carattere
selettivo dei temi ripercorsi, che fornisce un indispensabile punto di orienta-
mento per gli studiosi hobbesiani e gli storici del pensiero politico.
[D. R.]

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Anna Minerbi Belgrado, L’eternità del mondo. Hobbes e la filosofia aristote-


lica, Roma, Carocci, 2016, pp. 238.

Ormai un topos negli studi hobbesiani, il dissenso di Hobbes verso la filosofia


aristotelica dominante nelle università del suo tempo lo avrebbe indotto a
parlare del suo insegnamento come «Aristotelity» in luogo di «philosophy»
(Leviathan, cap. XLVI). A un tale atteggiamento un suo critico contempo-
raneo, Seth Ward (1617-1689), poteva replicare, ironicamente, che il mal-
mesburiense avrebbe voluto soltanto rimpiazzare l’ «Aristotelity» con la sua
«Hobbeity». La tradizione filosofica sembrerebbe aver consolidato queste
circostanziali posizioni polemiche in un vero e proprio paradigma storiogra-
fico. Il contributo di Anna Minerbi Belgrado, per converso, si presenta fin
dall’inizio come una reazione a questa consuetudine, sfidata muovendo a par-
tire da un’indagine attorno alla discussione ingaggiata dal malmesburiense su
un «tema strategico» (p. 12) tanto per lo studio del suo pensiero quanto per
quello del suo rapporto con Aristotele: l’idea di eternità del mondo negata dal
suo avversario Thomas White, autore del De mundo (1642).
Pur avveduta della complessità del dibattito presentato dalla letteratura
secondaria sul tema Hobbes-Aristotele, l’Autrice propende per una «tesi
continuista» (p. 16) tra i due, per illuminare la ricezione hobbesiana dello
Stagirita alla luce di un’attenta indagine testuale. Sarebbe infatti «attraverso
un confronto serrato e per certi aspetti simpatetico con Aristotele» (p. 18)
che Hobbes avrebbe guadagnato una posizione singolare, puntellando il suo
sistema meccanicistico con alcuni elementi della filosofia naturale aristotelica.
Una rilettura del De motu (1643), scritto in polemica con il De mundo di
White, fornisce l’abbrivio per ripensare a un latente recupero e «adesione a
taluni aspetti della filosofia di Aristotele» (p. 182) da parte di Hobbes: per
es., dalla continuità tra eternità del moto celeste e delle generazioni e corru-
zioni avanzata nel De caelo aristotelico (p. 52) all’idea anti-creazionista per
cui la necessità del movimento naturale non subentra nel tempo, ma esiste ab
aeterno (p. 55); o ancora dalla «scoperta» hobbesiana (p. 67) di una definizio-
ne della materia prima come «corpo in generale» desunta espressamente da
Aristotele (p. 65), allo «slittamento concettuale» dell’idea di natura dalla sua
accezione «fisica», descrittiva, a quella «razionale» in senso normativo (pp.
42-43), che avrebbe costituito una profonda, longeva ragione di dissidio in
seno ai commentatori cristiani di Aristotele.
L’Autrice ripercorre quindi il dibattito degli aristotelismi attorno al pro-
blema dell’eternità del mondo ingaggiando un confronto puntuale con una
schiera di commentatori sul tema, e privilegiando in particolare i cosiddet-
ti aristotelici radicali che, nella loro critica all’aristotelismo scolastico, erano
mossi dal programma di valorizzare il ruolo della materia sullo sfondo della
tradizionale dottrina ilemorfistica di coesistenza tra forma e materia. Il pre-
sente lavoro offre una galleria di figure dell’aristotelismo che affrontano il
problema gnoseologico per eccellenza del materialismo, quello dell’autono-

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mia della materia, a partire da ardite riletture dello Stagirita, tra cui quelle di
Simone Porzio (1496-1554), Francesco Vimercati (1474-1570), Alessandro di
Afrodisia (198-211 c.a), Jacopo Zabarella (1533-1589), e Cesare Cremonini
(1550-1631). Laddove l’Aristothelity non offra una soluzione all’impasse filo-
sofica dell’ilemorfismo, che il meccanicismo ambiva superare, la conclusione
dell’Autore è non soltanto che l’aristotelismo radicale avrebbe suggerito a
Hobbes «la possibilità di letture alternative, più consone ai suoi modelli» (p.
196), ma anche che proprio tali sentieri filosofici possano aiutare i lettori a mi-
surare la crescente distanza che avrebbe separato il filosofo inglese dall’amico
epicureo Gassendi.
Uno studio, quello dell’Autrice, che contribuisce indubbiamente ad al-
largare l’orizzonte storico-filosofico nella discussione dell’aristotelismo di
Hobbes; una discussione che può mostrarsi proficua anche per rileggere, in
particolare, l’antiaristotelismo dello Hobbes politico, fornendo così una pro-
spettiva storiografica stimolante e per certi versi complementare.
[D. R.]

Chia-Yu Chou, Rethinking Hobbes and Kant. The Role and Consequences of
Assumption in Political Theory, London-New York, Routledge, 2017, pp. 164.

Risale probabilmente a una determinata ricezione del saggio kantiano Über


den Gemeinspruch: Das Mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für
die Praxis (1793) la consuetudine storiografico-filosofica di contrapporre il
filosofo tedesco a Hobbes, inficiando un raffronto libero da pregiudizi tra i
due autori. Nessun lavoro presenterebbe il limite ermeneutico di tale modello
dicotomico in modo «more strikingly» (p. 10) del libro di Howard Williams,
Kant’s Critique of Hobbes (2003). Il presente studio del professore taiwanese
Chia-Yu Chou, per converso, ne rappresenterebbe una replica, dal momen-
to che il suo studio intenderebbe «to move beyond the dichotomy between
Hobbism and Kantianism», la quale avrebbe non di rado «inhibit commen-
tators from recognising the affinities between Hobbes’ and Kant’s political
philosophies» (p. 15).
Nel primo capitolo (pp. 18-55) l’Autore muove da una preliminare rico-
gnizione del concetto di libertà politica in Kant mostrando come, nonostante
l’influente dicotomia delle due libertà di Berlin e le diverse concezioni metafi-
siche di Hobbes e Kant, l’opposizione di quest’ultimo rispetto alla concezio-
ne hobbesiana sia stata costruita su una sottovalutazione del problema della
libertà esterna in Kant e, parimenti, dell’importanza attribuita da Hobbes al
carattere normativo delle leggi di natura.
Al problema dell’uguaglianza giuridica e sociale nella filosofia politica di
Hobbes e di Kant è dedicato il secondo capitolo (pp. 56-86), in cui l’Autore si
propone di mostrare come – a partire dall’esigenza hobbesiana di non rinun-

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ciare al conseguimento di una giustizia sociale entro il Commonwealth, da un


lato e dal riconoscimento kantiano della necessità della coercizione sul piano
esterno, dall’altro – entrambe le prospettive collimino nel giustificare la pos-
sibilità di conseguire tale uguaglianza nel quadro di una sostanziale «unequal
relationship between the sovereign and his subjects» (p. 79).
Nel terzo capitolo (87-115) l’Autore sfida il luogo comune storiografico
per cui esisterebbe un’incompatibilità di fondo tra le concezioni di indipen-
denza dei soggetti in Hobbes e Kant: la distanza che separerebbe il modello
di cittadinanza attiva ascritto alle filosofie di Rousseau e Kant in contrap-
posizione a Hobbes potrebbe essere riconsiderato attraverso un opportuno
ripensamento dello stesso nesso tra Rousseau e Hobbes, che condurrebbe
conseguentemente a «close the gap between Hobbes and Kant» (p. 94). Da
un simile raffronto l’Autore fornisce l’immagine di un Kant teorico di un’indi-
pendenza meno assoluta di quanto postulato dall’opposizione tra «Hobbism
and Kantianism» (p. 111), corroborando tale giudizio attraverso un’indagine
attorno al problema del diritto di proprietà (pp. 99-103) e dell’autorità reli-
giosa (pp. 106-110).
Infine, il quarto capitolo (pp. 116-146) affronta la dicotomia tra kantismo
e hobbesismo in un ambito di studio in cui tale opposizione si è mostrata par-
ticolarmente resiliente: la teoria delle relazioni internazionali. A ben guardare,
secondo l’Autore, lungi dal costituire due antitetiche tradizioni del pensiero
internazionalistico, le rispettive vedute in materia di rapporti tra Stati suggeri-
rebbero un differente epilogo: se la prospettiva hobbesiana dello stato di natura
internazionale non può essere ridotta ad uno stato di «perpetual war» privo di
prescrizioni normative per i rispettivi attori, per converso, la «perpetual peace»
kantiana non trascende l’idea di autonomia degli Stati quale condizione delle
loro reciproche relazioni. Il rifiuto da parte di entrambe di un «world sovereign»
quale esito della loro riflessione internazionalistica (p. 130) offrirebbe dunque
la possibilità di illuminare una compatibilità di fondo tra le due prospettive,
offuscata dalle «distorting lenses of Hobbism and Kantianism» (p. 147).
Complessivamente, il presente studio di Chia-Yu Chou costituisce un ap-
prezzabile contributo per una rilettura dei due grandi autori all’insegna di una
«unbiased reconsideration» (p. 149) delle loro rispettive filosofie politiche.
[D. R.]

Deborah Baumgold (ed.), Three-text Edition of Thomas Hobbes’s Political


Theory. The Elements of Law, De Cive and Leviathan, Cambridge, Cambrid-
ge University Press, 2017, pp. 600.

È noto come Hobbes abbia proposto la sua teoria politica in più momenti: nel
1640 con la diffusione degli Elements of Law in copie manoscritte, nel 1642
con l’edizione latina e nel 1647 con quella inglese del De cive, e nel 1651 con

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l’edizione inglese del Leviathan seguita nel 1668 dalla versione latina, modi-
ficando e rielaborando le proprie argomentazioni adattandole «for changing
time and audiences as well as to the goal of perfecting them» (p. X).
Il volume curato da Deborah Baumgold è la prima tra le edizioni criti-
che delle opere politiche hobbesiane a presentare in parallelo vari paragrafi
degli Elements of Law, del De Cive e del Leviathan sulla base di un criterio
di comunanza di «subject matter, argument or example» tra le tre opere (p.
XXIV). Lo scopo del volume è facilitare la comprensione degli sviluppi del
pensiero hobbesiano sia ad un micro-livello di alterazione tematica, ponendo
in luce aggiunte e modificazioni di specifici argomenti, sia ad un macro-livello
di argomentazione, mostrando come le idee hobbesiane siano strutturate e
sviluppate nelle varie opere in modo differente. Basandosi sull’intero testo
degli Elements, su una traduzione inglese del De Cive (The English Works
of Thomas Hobbes of Malmesbury, vol. II, 1841) e su alcuni passi del Levia-
than inglese, le tematiche poste a confronto riguardano la natura umana (pp.
3-195), la politica (pp. 196-417) e la religione (pp. 418-548). Esse permettono
al lettore di notare come, nello sviluppo decennale del suo pensiero, Hobbes
abbia utilizzato diversi criteri di rielaborazione del proprio materiale. È pos-
sibile infatti evidenziare casi in cui le argomentazioni si ripetono senza sostan-
ziali alterazioni, come nella riflessione sulle «other laws of nature» presentata
nelle tre opere con le stesse parole e nella stessa sequenza; casi in cui vengono
poste in gioco variazioni sulla stessa idea di base, come nell’indagine della
relazione tra legge civile e legge naturale nel De Cive e nel Leviathan; e infi-
ne casi di cambiamenti di prospettiva interni al pensiero hobbesiano, come
l’associazione aristotelica tra democrazia e libertà, accolta negli Elements e
completamente rifiutata nel Leviathan.
Il confronto sinottico tra i passi delle opere hobbesiane, oltre a essere un
utile strumento analitico, permette di aprire riflessioni di natura più generale
sul pensiero politico del filosofo inglese. Nel presentare «an informal gui-
de to major developments» (p. XVII), la curatrice ne fornisce un esempio
interessante per ciò che concerne le parti teologico-religiose nel Leviathan,
evidenziando come la terza parte del testo, spesso considerata la più originale
dell’opera, derivi da una sostanziale riorganizzazione e da un sistematico am-
pliamento del materiale presente nel capitolo 25 e 26 degli Elements e della
sezione «of Religion» del De Cive. Tale rielaborazione è evidente per quanto
riguarda i capitoli 16 e 17 del De Cive sottoposti al più grande esempio di bri-
colage dell’intera produzione hobbesiana, venendo sparsi e successivamente
ampliati in ben sei capitoli differenti della terza parte del Leviathan. Dato
questo aspetto, diventa possibile indagare se la sequenza in cui le idee sono
presentate (in particolare nell’argomentazione del pensatore, secondo cui il
ragionamento è strettamente connesso all’ordine delle parole) sia indice di
un cambiamento di prospettiva tra le varie opere, o quantomeno considerare
quali siano le ragioni per cui Hobbes abbia deciso di ampliare le precedenti

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considerazioni teologiche ponendo, come ben evidenziato nella «Précis Ap-


pendix» (p. 595), accanto alla terza parte dell’opera anche la quarta parte
contenente considerazioni del tutto nuove.
La presente edizione permette pertanto di indagare la complessa storia
testuale delle opere politiche hobbesiane e al contempo di facilitare il con-
fronto con altre parti della produzione del filosofo non contenute nel volume,
come l’edizione latina del Leviathan, il De Corpore e il De Homine, altrettanto
interessanti per comprendere lo sviluppo del pensiero hobbesiano.
[Simona Azzan]

Aloysius P. Martinich, Kinch Hoekstra (eds), The Oxford Handbook of Hob-


bes, New York, Oxford University Press, 2016, pp. 664.

Non stupisce che ventisei contributi non siano in grado di esaurire la mole
di riflessioni relative al pensiero di Thomas Hobbes, come avvertono gli stes-
si curatori nell’introduzione di questo utile, corposo e ambizioso handbook.
Non solo perché il pensiero del filosofo è da sempre al centro di dibattiti sui
temi più disparati. Ma anche per via di una certa fascinazione inconscia che
alcune sue intuizioni (specie se non particolarmente argomentate: come sug-
gerito in merito alla potenza evocativa dello stato di natura, a scapito della pa-
radossale carenza di precisione dell’argomentazione hobbesiana, p. 222) con-
tinuano a esercitare sugli studiosi. La proposta dei curatori è dunque quella
di offrire uno studio non esaustivo del pensiero di Hobbes, allo scopo di far
avanzare le conoscenze e lo stato degli studi su questo controverso e fonda-
mentale autore della tradizione occidentale. In questo senso, l’handbook si
presenta come un prezioso strumento di analisi per quanto concerne lo studio
dei testi hobbesiani, interpretati non solo in chiave politica ma nella ben più
ampia prospettiva della circolazione dei saperi e dei dibattiti intellettuali del
contesto in cui visse Hobbes e a cui egli partecipò attivamente.
Nonostante la varietà dei temi affrontati, è possibile individuare tre chiavi
di lettura del testo, che si presta forse più a una consultazione puntuale che
a una lettura unitaria. Una prima linea tematica riguarda la riflessione sul
metodo hobbesiano, articolata secondo un’analisi integrata fra logica, teoria
del linguaggio e metodo scientifico. Di questi tre temi gli autori offrono un’in-
terpretazione contestuale, volta a mostrare come l’indagine sul metodo ma-
tematico di Hobbes debba esser condotta alla luce dei problemi sollevati nel
dibattito a lui contemporaneo circa lo statuto della scienza matematica (così
da mostrare la sostanziale analogia fra leggi matematiche e deduzione ex cau-
sis, p. 76: a tal proposito si vedano, fra gli altri, i contributi di M. Pécharman,
pp. 21-56, K. Dunlop, pp. 76-105, e D. M. Jesseph, pp. 134-148).
Il discorso sul metodo introduce dunque il secondo grande nodo tematico
affrontato dai saggi di questo handbook: come interpretare la riflessione di

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Hobbes circa la psicologia umana, fra libertà intesa come potere (e non più
come volontarismo metafisico, come sostenuto da T. Pink, p. 172), delibera-
zione e passioni? E, con ricadute assai più importanti, come porre una ragio-
ne siffatta, intesa scientificamente come calcolo (ratio), a fondamento della
teoria dell’obbligo politico? Proprio intorno al nodo dell’origine dell’obbligo
politico in Hobbes, interpretato nella sua tensione dialettica con il concetto
di autorità sovrana, si articolano una serie di contributi che spaziano dai temi
della rappresentatività, dell’autorità e della persona del sovrano (A. P. Marti-
nich nota, a tal proposito, che è il sovrano a esser definito persona, non il com-
monwealth, p. 333) all’interpretazione della teoria hobbesiana della sovranità
fra assolutismo, giurisdizione territoriale, controllo sociale e ruolo svolto dalla
religione (una religione senza teologia? si chiede A. Lupoli, p. 453) e dalla
coscienza nella teoria dello stato hobbesiana (R. Tuck, pp. 481-500).
La terza importante novità dell’handbook riguarda l’analisi, affrontata negli
ultimi contributi, sul metodo e l’utilizzo delle fonti storiografiche e poetiche da
parte di Hobbes, interesse che va nella direzione di molti studi attuali sul me-
todo retorico umanistico come potente mezzo di inventio di concetti politici
e giuridici in età moderna. Traduttore di Tucidide, Hobbes considera la sto-
ria come «registro della conoscenza dei fatti»: fatti, però, con una particolare
valenza normativa. Nella sua Historia Ecclesiatica (1671), Hobbes si spinge al
punto di considerare tale storia come «filosofia codificata» (come sottolinea J.
Collins, p. 532); così come l’analisi del Behemoth (1679) mostra Hobbes nelle
vesti di storico della politica, e ci suggerisce non solo come la storia debba
essere fatta, ma anche – e soprattutto – «come debba essere giudicata» (T.
Mastnak, p. 594). Sulla scia dell’importanza degli studia humanitatis per l’ela-
borazione di categorie politiche, un interessante contributo affronta l’impor-
tanza della poesia nel pensiero hobbesiano, utile poiché glorifica le azioni degli
uomini a patto che il poeta le dipinga con «discretion» (T. Raylor, p. 619): la
poesia, per sua stessa essenza e a differenza della storia, manca di veridicità,
motivo per cui deve essere la filosofia morale a guidarla.
[F. I.]

Alan Ryan, On Hobbes: Escaping the War of All Against All, New York-Lon-
don, Liveright Publishing Corporation, 2016, pp. 276.

L’autore del monumentale e fortunato On Politics: A History of Political


Thought from Herodotus to the Present (2012) propone in questo più recente
libro, che si rivolge a un ampio pubblico di lettori, un’antologia ragionata di
alcuni passi hobbesiani utili a comprendere la questione della guerra di tutti
contro tutti. L’obiettivo del libro di Alan Ryan è dichiaratamente divulgativo:
invogliare i lettori non specialisti a leggere i testi degli autori classici. Ma se
l’intento divulgativo non preclude la presenza di tesi interpretative originali e

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significative, il pregio del testo è sicuramente quello di riuscire nell’intento di


affascinare il lettore insistendo sull’incredibile valore rivoluzionario dell’im-
presa hobbesiana. La snella introduzione di questo libro, nato come riela-
borazione e ampliamento del capitolo hobbesiano del già citato On Politics,
risolve il problema di inquadrare la figura del filosofo nell’ambito della tradi-
zione di pensiero a lui precedente e nel suo contesto storico. A un altrettanto
agile capitolo è affidato il compito di tracciare un vocabolario concettuale del
tema del bellum omnium contra omnes prima di offrire, nella terza e conclusi-
va parte del libro, un’antologia ragionata di passi hobbesiani. Una celebrazio-
ne, dunque, della letteratura primaria, tanto più necessaria quando si tratta di
autori tanto influenti da diventare oggetto delle più svariate interpretazioni,
interpolazioni e – non di rado – strumentalizzazioni.
A tal proposito, ricordando la nascita del modernismo letterario inglese,
Ryan scrive che «when Virginia Woolf wrote that “on or about December
1910, human nature changed”, she was being playful and provocative» (p. 39).
Al contrario, l’Autore accusa di eccessiva serietà gli storici del pensiero politi-
co quando si interrogano su chi sia il padre della modernità, se Machiavelli o
Hobbes. Ryan si serve di questa scherzosa provocazione per sostenere la tesi
(serissima) che, nella misura in cui la questione della modernità ebbe senso per
gli autori stessi, il primato deve essere attribuito a Hobbes, dal momento che, a
differenza di Machiavelli, riformulò il linguaggio politico europeo a partire da
una rielaborazione (e non già da un rifiuto) della dottrina del diritto naturale (p.
42). Inoltre, secondo Ryan, diverso sarebbe l’atteggiamento di Hobbes nei con-
fronti di un passato non più concepito come archivio di exempla con valore nor-
mativo, ma come uno strumento ausiliare di indagine alle strette dipendenze del
metodo filosofico. Ryan riconosce, tuttavia, l’importanza retorica dell’impresa
filosofica hobbesiana: «rhetoric was acceptable as the servant of reason. If his
discovery of the principles of political science was as original as he thought,
rhetoric would make his new science more digestible» (p. 51).
L’immagine dello stato di natura rientrerebbe, dunque, secondo l’Autore,
nel novero delle più geniali trovate retoriche hobbesiane: di quelle che, per
citare Virginia Woolf, avrebbero sicuramente rivoluzionato le fondamenta
stesse della natura umana. Infatti, a differenza di Machiavelli, Hobbes so-
stiene che uno stato in cui gli uomini sono potenzialmente in guerra contro
tutti si produce come conseguenza non della loro costituzione antropologica,
ma di un cattivo utilizzo delle loro emozioni. Orgoglio, competizione e dif-
fidenza reciproca sono dunque all’origine sia del bellum hobbesiano, sia della
sua fortunata ricezione nel secondo dopoguerra: «this was the situation in the
international sphere, when the United States and the Soviet Union possessed
enough nuclear weapons to take out the other’s side weapons, but not enough
to survive a first strike with enough weapons to retaliate» (p. 78). La differenza
con gli individui nello stato di natura hobbesiano è proprio che essi non posseg-
gono la stessa capacità di difendersi degli Stati: essere attaccati significa morire.

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Da qui l’idea che debba esserci un’autorità statale a proteggere gli individui da
sé stessi.
Un’ultima questione riguarda quella del contemporaneo problema del
free rider, cioè colui che rifiuta di seguire i teoremi delle leggi di natura per
suo proprio egoismo (p. 83). Questo problema secondo l’Autore è malposto
in riferimento a Hobbes: non vi è contraddizione fra il fatto che gli individui
siano naturalmente «self-centered» e la possibilità che siano onesti, giusti e
generosi: «it is a necessary truth that we do what leads to our happiness. It is
not a truth at all that we cannot be made happy by being honest, honorable,
and benevolent».
[F. I.]

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