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Sei in: Archivio > la Repubblica.it > 2018 > 01 > 14 > Il nostro caro Icaro TOPIC CORRELATI

Il nostro caro Icaro PERSONE


di Sossio Giametta
Se cerco di tracciare una sintesi della figura di Giorgio Colli, mi viene ENTI E SOCIETÀ
naturale paragonarlo a uno dei presocratici da lui amati (una volta mi disse:
"Li vogliamo rispettare questi greci?"). LUOGHI
Non vanamente, dunque, egli tendeva a imitarli.
Secondo me gli stava a cuore soprattutto Empedocle, su cui anche ha
lasciato l'abbozzo di un dramma, sebbene nel comportamento, al di fuori
della cerchia familiare e degli amici, tendesse ad assomigliare piuttosto al
burbero Eraclito. Dei presocratici ha l'intensa e profonda unilateralità. Si
pensi a Parmenide e a Eraclito appunto, così nettamente, così
unilateralmente teorizzatori rispettivamente dell'essere e del divenire. Per il
suo grande assalto all'essere, si potrebbe definire Colli un "cacciatore
dell'essere". In Colli si assiste infatti a un grande dispiegamento di mezzi al
fine di catturare l'essere. Tutta la sua opera mira a cancellare la distanza tra
l'uomo e l'essere, saltando il divenire e la storia, la ragione e la necessità, e
teorizzando il misticismo. Credeva evidentemente nella possibilità di violare il
principium individuationis, così come aveva creduto che avvenisse, nella
compassione, il suo maestro Schopenhauer. Colli pensa all'ebbrezza, alla
mania, ai misteri eleusini, al culto di dioniso e a tutto quello che può aprire un
varco dal mondo dell'espressione, come egli chiama il mondo empirico, verso
la "sostanza primigenia e immutabile" dell'essere.
Ma è ciò possibile? Nell'enunciare in Cortocircuiti
(Milano 2014) il principio di organicità e di massima determinazione ho
mostrato che in nessun modo l'uomo può bucare il manto antropomorfico che
avvolge tutta la sfera umana e lo separa dall'essere, all'uomo assolutamente
inaccessibile, già solo per la sua sicurezza. In nessun modo l'uomo può
attingere la natura naturans. Solo la natura naturata, la realtà empirica, fa per
lui, è alla sua portata, alla portata delle creature, dei viventi. Non che la
natura naturata, quella del divenire eracliteo, sia essenzialmente diversa
dalla natura naturans; non ci sono due nature, ma una sola, la naturans,
quella dell'essere parmenideo, che però diventa naturata
nella percezione umana. La differenza tra le due, e quindi tra Parmenide ed
Eraclito, non è dunque oggettiva, ma soggettiva. Perché è vero che il nostro
organismo è aperto agli estremi, in basso sull'inconscio e in alto sulla
spiritualità, e come tale consente l'afflusso, il passaggio della sostanza, quale
teorizzata nell'antichità da Aristotele e nella modernità da Spinoza, sicché
l'organismo non è solo il tubo digerente, il passaggio di cibo e bevanda che
dice Leonardo, ma una forma vitale che consente appunto il passaggio
dell'eterna sostanza.
Ma d'altra parte questa forma non è modificabile nel senso che si possa
violarla per andare oltre, per traslocare nell'essere. Ogni sano passaggio
della sostanza nell'organismo umano avviene nel persistere della sua forma
vitale. Alterare questa forma, sia pure con le più nobili intenzioni, non porta a
un innalzamento, ma a un abbassamento dell'uomo, come fanno appunto
l'ebbrezza, l'orgia, lo scatenamento degli istinti e lo sfrenamento delle
passioni nel dionisismo. Colli stesso dichiara (nel paragrafo "Giù la
maschera!" in Dopo Nietzsche)
che l'esaltazione della vita, della gioia pagana e della crudeltà in Nietzsche è
una compensazione della sua ripugnanza per la naturalità della vita.
La sola possibilità di innalzare l'uomo è contenuta dentro e non fuori della
forma umana e si esplica nella profunda claritas degli antichi, feconda per sé
e per gli altri, mentre lo stesso misticismo comporta un isolamento
dell'individuo e la sua perdita per il corpo sociale e l'articolazione della
specie. L'unilateralità di Colli a favore dell'essere, con la cancellazione della
storia e del divenire, dunque non funziona.
"Schopenhauer", egli dice, "ha liberato l'Occidente dal mito della storia".
Certo, se della storia si fa un mito, come è avvenuto nell'Ottocento, liberarsi
del mito della storia va bene.
Ma della storia stessa non ci si libera, e lo afferma in sostanza Nietzsche
stesso, che contro il suo mito ha combattuto.
La storia domina in realtà il mondo umano.
Dice Giambattista Vico che l'uomo non può conoscere la natura, che è fatta
da Dio, ma può conoscere la storia, che è fatta dall'uomo.
D'altro lato, però, Hegel afferma che la filosofia è il proprio tempo appreso in
pensieri, cioè che il soggetto è l'epoca da cui la filosofia deriva ed è forgiata,
mentre, da parte sua, Goethe afferma che l'individuo è un organo del suo
secolo che agisce per lo più inconsapevolmente, cioè che il soggetto non è
l'individuo, ma il secolo, come l'organismo di cui l'individuo è un organo.
Quindi non è l'uomo che fa la storia, ma è la storia che fa l'uomo.
Vico ha certamente ragione in superficie.
Perché i protagonisti della storia, gli "uomini rappresentativi", come li chiama
Hegel, fruiscono di una sfera di autonomia grazie alla quale fanno fronte alle
situazioni storiche con motivi e azioni personali e autonomi. Ma questi motivi
e azioni finiscono inevitabilmente con l'obbedire all'eterogenesi dei fini, cioè
agli imperativi storici.
Occorre pertanto un'inversione copernicana, da cui discendono conseguenze
importanti, come per esempio nel caso di Nietzsche. Nietzsche si è vantato
di essere il pensatore più indipendente e più inattuale della sua epoca, e
questo è vero, se lo si paragona ai protagonisti della cultura del suo tempo,
per esempio a David Strauss; ma se si prescinde da quest'ultima, egli è
invece, a sua insaputa, il pensatore più dipendente e il più attuale, essendo
una inconsapevole incarnazione della crisi europea, il cosiddetto Tramonto
dell'Occidente, nei suoi tre aspetti di crisi della filosofia, crisi della civiltà e
crisi della religione. Non è dunque un'entelechia indipendente dalla storia,
come sostiene Giorgio Colli, ma va interpretato essenzialmente sul piano
storico, dove è, come è stato detto, "un fenomeno epocale mitico-
terrificante". Per averlo interpretato invece nei ristretti recinti della storia della
filosofia, gli interpreti se ne sono preclusa la comprensione essenziale. Cioè
sono andati dietro a quello che Nietzsche ha detto, invece che a quello che
Nietzsche ha fatto. Che cosa ha fatto? Il genio Nietzsche ha da un lato
trasfigurato la crisi europea in poesia e filosofia tragica nella visione
dionisiaca, dall'altro ha incorporato la crisi, che era una crisi di esaurimento e
di autodistruzione, conferendole corpo spirituale, legittimandola e
accelerandola.
E questo è quello che fa sempre il genio, che è e non può non essere
l'antenna del suo tempo. Il genio non è infatti quello che la natura esige
dall'uomo, come pensa Nietzsche, che giustifica la vita dei più solo in quanto
serva alla nascita del genio, ma, al contrario, è l'estrema risorsa nelle crisi
dell'umanità, è il rimedio che cresce dove cresce il male, secondo il detto
poetico di Hölderlin.
È l'adattamento all'ambiente storico (ai mutamenti della storia) non dissimile
dall'adattamento all'ambiente fisico degli animali.
Colli non vede che la stessa negazione della storia di Schopenhauer ha una
funzione storica.
Schopenhauer è infatti l'approdo finale della reazione scettica francese alla
decadenza della Chiesa cattolica dopo il Medioevo, ossia il culmine di un
processo che va da Montaigne a Charron, Lipsio, Sanchez, Descartes,
Pascal, Malebranche, attraversa, rinfrescandosi, l'empirismo inglese, e va
fino a Hume e a Kant e da quest'ultimo passa a Schopenhauer, in cui lo
scetticismo degenera in pessimismo e rinuncia.
Come tale, cioè per ragioni eminentemente storiche, Schopenhauer viene a
essere, con la sua negatività, il perfetto antidoto ( mein genauer Antidote) di
Nietzsche, il quale è invece l'approdo finale positivo della reazione diretta, di
contrasto e sostituzione (della teologia con la filosofia e di Dio con la natura),
alla decadenza della Chiesa da parte dei filosofi rinascimentali italiani della
natura: Pomponazzi, Cardano, Telesio, Campanella, Bruno e Vanini, poi
continuata soprattutto da Spinoza e Feuerbach. Quindi il volo spiccato da
Giorgio Colli è un volo di Icaro, destinato alla caduta, al fallimento.
Ma nello stesso tempo è un inaudito ardimento della grandezza servita da
uno stile visionario, a cui ben s'attaglia il sonetto di Tansillo Poi che
spiegat'ho l'ali al bel desio, inserito da Giordano Bruno negli Eroici furori.
Dal settimo verso in poi esso suona:
ch'i' cadrò morto a terra ben m'accorgo: ma qual vita pareggia al morir mio?
La voce del mio cor per l'aria sento: Ove mi mi porti, temerario? China, che
raro è senza duol tropp'ardimento"; " Non temer ( respond'io) l'alta ruina.
Fendi sicur le nubi, e muor contento: s'il ciel si illustre morte ne destina".
© RIPRODUZIONE RISERVATA
L'autore
Sossio Giametta è nato a Frattamaggiore (Napoli) il 20 novembre 1929. È
filosofo e studioso del pensiero di Nietzsche. Recentemente ha pubblicato
due saggi: Grandi problemi risolti in piccoli spazi (Bompiani) e I ritratti di
dodici filosofi (Saletta dell'Uva).
Il testo che pubblichiamo è il discorso tenuto dallo studioso alla Normale di
Pisa in occasione del centenario della nascita di Giorgio Colli

14 gennaio 2018 sez.

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