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Dalla mètis alla resilienza: proposte di sopravvivenza nel mondo del “tutto scorre”

di Elena Giorza

M. Detienne, J.-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Laterza,


Roma-Bari 1978.

P. Trabucchi, Resisto dunque sono. Chi sono i campioni della resistenza psicologica
e come fanno a convivere felicemente con lo stress, Corbaccio, Milano 2016.

«Per mètis più che per forza eccelle il boscaiolo. È per la mètis che il pilota sul mare vinoso guida la
rapida nave, a dispetto dei venti. È per la mètis che l’auriga può superare l’auriga».
Iliade, Canto XXIII

«Il mondo spezza tutti quanti, ma solo alcuni diventano più forti là dove sono stati spezzati».
Ernest Hemingway, Addio alle armi

Mètis e resilienza sono due concetti per molti versi distanti, che nascono in epoche e contesti
diversi tra loro. Sembra però che, in rapporto alla modernità, reinterpretare la mètis alla luce
dell’idea di resilienza possa fornire risposte adeguate alla radicale mutevolezza del reale. Se, infatti,
il modello cognitivo rappresentato dalla mètis di per sé finirebbe in definitiva per implicare un
aspetto negativo di ambiguità, esso si rivelerebbe efficace se legato e limitato da un secondo
modello, quello appunto della resilienza.

Si deve chiarire innanzitutto cosa si intenda con “mètis”, termine che nasce nel mondo greco
antico, che non trova un corrispondente adeguato nelle lingue moderne e che merita di essere
conservato e chiarito nelle sfumature della sua complessità.

Nella mitologia, la dea Metis, figlia di Oceano e Teti e simbolo allo stesso tempo di prudenza e
perfidia, è la prima sposa di Zeus. Quest’ultimo, avvertito da Gaia e Urano che Metis, dopo avergli
dato una figlia, avrebbe partorito un figlio che lo avrebbe spodestato (come Zeus stesso aveva fatto
con il padre Crono), la ingoia nel momento in cui lei è gravida di Atena1. Al momento del parto, il re
degli dei ordina a Efesto di procurargli una ferita sul capo con un’ascia: dalla testa di Zeus esce una
giovane in armi, Atena.

Detienne e Vernant, nel loro testo Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia2, definiscono la
mètis come un tipo di intelligenza astuta e applicata, impegnata nella pratica, efficace, capace di
combinare accorta prudenza, intuito, sagacia, capacità di previsione, spigliatezza mentale, finzione,
vigile attenzione, senso dell’opportunità, abilità ed esperienza. Si tratta di un’intelligenza che
rimane sempre sullo sfondo, in profondità: è immersa in una pratica che non si preoccupa mai,
nell’utilizzarla, di verbalizzarne la natura e il modo di procedere. Costituisce quel tipo di pensiero
che garantisce il successo nei più svariati campi di azione: caccia, pesca, arte militare, navigazione,
medicina, politica, mestieri artigianali.

La mètis rappresenta una sorta di fil rouge nel mondo ellenico sebbene non venga mai
problematizzata esplicitamente. Questa mancata teorizzazione si deve al fatto che i filosofi greci
considerano questo tipo di intelligenza distinta dall’autentica conoscenza e ritengono che essa
debba essere ricondotta al livello della pratica e dell’opinione incostante (doxa). La filosofia greca,
infatti, istituisce una netta dicotomia tra l’essere e il divenire, tra l’intelligibile e il sensibile, in
quanto piani della realtà che si escludono a vicenda: in questo quadro, la mètis, parte del regno del
divenire e del molteplice e costituita da una dimensione pratico-tecnica, non può che essere
guardata con sospetto ed essere trattata ironicamente e polemicamente, in modo da mettere in
risalto, per contrasto, quella che si ritiene essere la vera conoscenza. In particolare, per Platone il
pensiero scaltro dipende da una modalità di conoscenza esterno all’epistéme, al sapere, alla verità:
egli, tuttavia, conserva della mètis ciò che delle abilità pratiche artigianali può integrarsi a una
conoscenza di tipo matematico, così come Aristotele fa propri alcuni aspetti tipici della mètis nella
sua idea di prudenza (phrònesis).

D’altra parte, a rivalutare radicalmente questo tipo di intelligenza polimorfa sono i sofisti, abili
nell’adattarsi all’avversario, nel rivolgere contro quest’ultimo i suoi stessi argomenti,
nell’intrecciare e torcere i discorsi che divengono trappole, grazie agli artifici retorici basati
sull’astuzia, sulla flessibilità e sul far apparire le cose allo stesso tempo simili e dissimili. In tal
senso basti pensare all’Encomio di Elena di Gorgia: il sofista propone un gioco dialettico che ha
come obiettivo scagionare Elena, moglie di Menelao, dall’accusa di aver provocato la guerra di
Troia, mostrando come il movente del suo gesto sia esterno alla sua responsabilità (e dovuto al
destino, all’eros, alla persuasione o alla forza fisica). Gorgia mette in luce la complessità del reale, il
divenire del sapere e dimostra come un uso opportuno della forza della parola possa ribaltare il
convincimento popolare a proprio piacimento: la parola, in quanto “gran dominatore”, cela il
potere di ingannare.

Detienne e Vernant ritengono che il concetto di mètis sia chiaramente esemplificato nel XXIII
Canto dell’Iliade di Omero, in cui compare l’episodio della corsa di carri. Protagonista è Antiloco,
figlio del vecchio e saggio Nestore (esperto di mètis). Gli avversari di Antiloco sono dati per favoriti,
avendo cavalli più veloci, ma quest’ultimo, apparentemente svantaggiato, è ricco di astuzia. Grazie
a questa risorsa e ai consigli del padre, approfitta di una brusca strettoia della pista per spingere il
suo carro davanti a quello di Menelao, rischiando di provocare uno scontro. L’avversario è costretto
a frenare i cavalli3, ritrovandosi sconfitto da Antiloco.

L’episodio fa emergere tre aspetti fondamentali della mètis4. Il primo ha a che fare con
l’opposizione tra l’uso della forza e il ricorso alla sagacia. In qualsiasi confronto, con un avversario
o con un nemico, si può prevalere in due modi: grazie alla forza (per cui il più debole è destinato ad
avere la peggio) o per mezzo della mètis. Quest’ultima, a differenza della prima, garantisce alla
vittoria un carattere di stabilità e di universalità: Zeus, che ingoia Metis, è il re degli dei proprio
perché è più astuto e non soltanto più forte.

Il secondo riguarda l’orizzonte temporale dell’intelligenza “flessibile”. La mètis si muove tra


passato, presente e futuro. Passato, perché la scaltrezza è sempre il risultato di un’esperienza
acquisita con il tempo: ha in sé tutta la “pesantezza” degli anni e dei pensieri, non è mai “leggera”,
non è mai impulsività improvvisa. Presente, perché l’uomo dotato di sagacia, grazie alla sua vigile
attenzione e al suo saper attendere pazientemente il momento opportuno, è in grado di cogliere al
volo l’occasione, anche quando essa è rapida e improvvisa. Nel mondo greco ci sono due termini
diversi per indicare il tempo: kronos, il tempo cronologico, sequenziale, quantitativo; kairos, il
momento opportuno, a carattere qualitativo. La mètis sa cogliere il kairos5. Futuro, perché si tratta
di possedere una capacità di previsione e progettazione, in termini di prudenza.

Il terzo richiama il carattere molteplice, polimorfo e stratificato della mètis. Il campo di


applicazione del pensiero dotato di perspicacia è il mondo del mutevole, dell’ambiguo: tale
pensiero appare ondeggiante e versatile perché si applica a realtà sfuggenti, mobili, sconcertanti,
fluide, che contengono in sé aspetti contraddittori. Per cogliere l’occasione fugace, bisogna rivelarsi
più rapidi di essa; per dominare una situazione cangiante, occorre divenire più duttili e più
“pieghevoli” degli imprevisti insiti nel flusso del tempo. Solo il simile ha potere di azione sul simile:
il successo su una realtà ondeggiante, non dominabile attraverso regole prestabilite o ricette date e
resa quasi inafferrabile da continue metamorfosi, può essere ottenuto solo coltivando una maggiore
mobilità, una più grande potenza di trasformazione. Il segreto della mètis è la sua capacità di farsi
complice dell’ambiguità del reale.

Quest’ultimo aspetto emerge in tutta la sua importanza nella polemica che Guicciardini, nei
Ricordi, sviluppa riguardo alla fiducia, tipica di Machiavelli, nel valore assoluto della storia come
magistra vitae, da cui ricavare norme universali par exempla. In una prospettiva di pragmatismo
storicistico, Guicciardini insiste sull’impossibilità di prevedere il futuro e di individuare regole di
condotta generali: occorre discrezione, perspicacia e prudenza6.

Detienne e Vernant individuano nel polpo e nella volpe due “portatori sani” di mètis. Il polpo è una
creatura multiforme e ricca di astuzia: sa dissimulare, è astuto, vigile, ha membra flessibili,
ondeggianti e innumerevoli. È capace di mimetizzarsi, assumendo il colore e la forma della roccia
su cui si posa: in questo modo, con un unico artificio, si procura il cibo e si sottrae ai predatori.
Inoltre, il polpo non solo è un animale notturno, ma, grazie alla sua capacità di produrre inchiostro,
sa secernere la notte, divenendo imprendibile. Imprendibile proprio come Proteo, divinità marina
che per sfuggire al compito spesso ingrato di vaticinare cambia forma in ogni momento7.

La volpe, a sua volta, è comunemente ritenuta simbolo di furbizia. La sua tana è impenetrabile e
polimorfa. Essa è dotata di potenza di capovolgimento, prudenza, pazienza, capacità di previsione e
di adattamento alla circostanze, sagacia, scaltrezza. Grazie alla sua arte di simulare la morte, si
rivela una trappola vivente. Nelle raffigurazioni del così detto “funerale della volpe” la volpe,
fingendosi morta, riesce a mangiare i due galli che le stanno facendo il funerale.

Quanto detto finora inviterebbe a pensare che l’individuo moderno, nel rispondere alle sfide del
mondo eracliteo del continuo mutamento, non debba far altro che far proprio il modello della mètis
greca, così come appena delineato nei suoi risvolti positivi. Tuttavia, questa convinzione non
terrebbe conto di un elemento essenziale della mètis che, se passato sotto silenzio e non
sufficientemente regolato, finirebbe per implicare conseguenze negative e indesiderate sul piano
etico-morale: la sua ambiguità, con tutte le declinazioni che ne derivano.

La mètis è intrinsecamente legata alla finzione, all’inganno e corre costantemente il rischio di


tramutarsi in furbizia disonesta: essa si serve di illusioni e travestimenti che mascherano la sua
vera natura. La sua doppiezza, giocata tra apparenza e realtà, le consente di presentarsi diversa da
quella che è, assumendo una connotazione menzognera: come un’esca per pescare, dissimula, sotto
apparenze rassicuranti e seducenti, tranelli micidiali.

Essa presenta innegabili risvolti negativi, in particolare quando non è sufficientemente educata e,
quindi, “leggera”, impulsiva, “trasgressiva”8. Alla fine della corsa dei carri, Antiloco sebbene abbia
trionfato su Menelao grazie alla sua scaltrezza, si rende conto di aver compiuto un gesto sleale,
fraudolento e contrario alle regole del gioco e si trova costretto a porre delle scuse all’avversario. La
sua mètis di giovane uomo, manchevole di peso e consistenza, necessita ancora di addestramento.
L’irriflessione e l’impulsività fanno sì che il figlio di Nestore si lasci trascinare dalle circostanze,
senza valutare le conseguenze della sua azione e, quindi, venendo meno alla prudenza, alla
pazienza e alla capacità di previsione e progettazione tipiche di una intelligenza dotata di
esperienza e in grado di vedere insieme passato e futuro.

È in questo quadro quindi che, affinché la mètis possa divenire un tipo di pensiero legittimamente
e opportunamente utile e adeguato nelle nostre vite, emerge la necessità di trovare un “freno” o, più
semplicemente, una declinazione che ne eviti le derive negative. A questo scopo sembra che l’idea
di resilienza possa fungere da chiave di volta. L’integrazione di questi due concetti, attraverso il
consolidamento degli elementi comuni che già di per sé presentano, potrebbe andare a costituire
un modello di intelligenza esemplare.

Trabucchi, psicologo che si occupa di prestazione sportiva soprattutto in discipline di resistenza,


nel suo libro significativamente intitolato Resisto dunque sono – ad indicare che il resistere è
premessa, condizione di possibilità ed elemento distintivo ed essenziale, non accidentale e
accessorio, dell’esistenza umana – afferma: «Quando la vita rovescia la nostra barca, alcuni
affogano, altri lottano strenuamente per risalirvi sopra. Gli antichi connotavano il gesto di tentare
di risalire sulle imbarcazioni rovesciate con il verbo “resalio”. Forse il nome della qualità di chi non
perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità, la resilienza, deriva da qui»9.

Questa ipotesi etimologica richiama alla mente una serie di altre parole che con la resilienza hanno
strettamente a che fare. Per cominciare, il sostantivo “crisi”, attualmente inteso sostanzialmente in
senso negativo, ma che deriva dal greco krisis, termine che indica la capacità di discernere e,
quindi, di giudicare. Il verbo da cui discende krisis corrisponde poi a un ideogramma cinese che
indica, nello stesso tempo, il nostro modo negativo di intendere la crisi, ma anche l’opportunità.
Infine il termine kintsugi che fa riferimento a una pratica giapponese che consiste nel riparare
oggetti in ceramica rotti, attraverso l’utilizzo di oro o argento liquido. Il risultato di questa tecnica,
che ha alla base la convinzione che dall’imperfezione e dalle ferite possa derivare una maggiore
perfezione estetica (e, per trasposizione, una maggiore perfezione interiore) è un oggetto più
prezioso dal punto di vista economico e artistico e unico (dal momento che i frammenti di ceramica
hanno forme diverse e casuali anche le linee d’oro e d’argento saranno sempre differenti).

La parola “resilienza” ha origine nel campo metallurgico e indica la facoltà di un metallo di


resistere alle forze a cui è sottoposto. Secondo Trabucchi «è la capacità di persistere nel perseguire
obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si
incontreranno sul cammino»10 ed è normalmente diffusa tra gli esseri umani (non si tratta di
un’eccezione anche se è posseduta in modalità e a livelli differenti e necessita di essere
costantemente alimentata, fin da bambini).

Ma quali sono gli elementi che mètis e resilienza condividono e che meritano di essere conservati e
consolidati? Innanzitutto essi hanno in comune le premesse teoriche: da un lato, l’impossibilità di
eliminare completamente le variabili imprevedibili e ignote, attraverso regole di previsione assolute
e, di conseguenza, l’esigenza di sviluppare una tolleranza alla frustrazione di fronte a situazioni su
cui non si ha modo di avere un totale controllo o di fronte a possibili difficoltà e insuccessi;
dall’altra, l’idea che, attraverso un processo di “educazione” e “addestramento”, per mezzo
dell’esperienza, si possano potenziare, accrescere e migliorare le risorse “naturali” alla base di
entrambe11. Inoltre si applicano agli stessi campi di azione: ovvero a problemi complessi, non
risolvibili per mezzo di una reazione automatica e da gestire in fieri.

Ma gli aspetti che principalmente accomunano mètis e resilienza e che possono avere un ruolo
centrale nella costituzione dell’intelligenza dell’individuo moderno sono quelli che Trabucchi
chiama “senso di controllo” e “capacità di ristrutturazione cognitiva”. A partire dalla constatazione
che la valutazione cognitiva degli eventi – ossia il modo in cui interpretiamo i fatti e ci costruiamo
modelli funzionali o disfunzionali del mondo12 – determina una precisa risposta a livello
emozionale, fisiologico e comportamentale, l’autore ritiene che l’individuo maggiormente resiliente
sia quello che individua al proprio interno il così detto “luogo del controllo”. Ovvero l’individuo che
considera la possibilità di raggiungere o meno un obiettivo dipendente dalle proprie capacità e dal
proprio impegno (che quindi può crescere e mutare nel tempo) e, in definitiva, dalla propria
responsabilità individuale (non per esempio dal talento innato e non acquistabile che rappresenta
un luogo del controllo esterno e un mezzo di deresponsabilizzazione e autogiustificazione in caso di
insuccesso). Dal senso di controllo dipendono strettamente la flessibilità mentale (meno si è
vulnerabili, più si è in grado di tollerare situazioni di incertezza non del tutto dominabili), la
consapevolezza di se stessi e dei propri limiti, la capacità di gestire in modo non rigido le proprie
convinzioni e la propria valutazione cognitiva, l’attitudine a perseverare e a “saper incassare”, tutti
elementi centrali anche per la mètis. In particolare, la facoltà di ristrutturare la nostra valutazione
cognitiva del negativo consente – attraverso per esempio un processo di confutazione delle false
condizioni di impossibilità, per mezzo di meccanismi di raccolta di informazioni e di anticipazione
e della consapevolezza della presenza di uno spazio irriducibile di non controllabilità – di
interpretare quella che in un primo momento si presenta come una sconfitta come un’opportunità,
come un’occasione di cambiamento, in vista del raggiungimento di uno stato finale migliore
rispetto a quello di partenza.

L’integrazione di mètis e resilienza costituisce, dunque, un modello di consolidamento della


tolleranza alla frustrazione del negativo, attualmente declinanten soprattutto tra le nuove
generazioni. In un mondo come il nostro in cui «piccole delusioni, banali sconfitte quotidiane,
addirittura una minima critica causano spesso ferite irrimediabili»13, si rivela sempre più urgente
creare le condizioni sociali e culturali per addestrarsi a far fronte a difficoltà e insuccessi, non
attraverso una loro utopica eliminazione, ma per mezzo di un ridimensionamento in senso
realistico del sistema di aspettative dell’individuo. Una società che, sulla base di un semplicistico
ottimismo panglossiano, alimenta la costruzione di aspettative irrealistiche e troppo elevate (basti
pensare alle pubblicità in cui si presentano come normalmente accessibili modelli di bellezza,
perfezione e onnipotenza lontani dalla realtà), che tende a eliminare ogni residuo di fatica fisica,
che ha antidoti e cure (illusorie e non, accessibili e non) per ogni minimo fastidio, finirà per
produrre individui sempre più vulnerabili e incapaci di differire la soddisfazione dei desideri.

NOTE
1 Per riuscire a ingannare Metis e a ingoiarla Zeus deve scendere sul suo stesso terreno e servirsi
dei suoi stessi strumenti, ovvero l’inganno e la furbizia: fingendo di lodare le doti metamorfiche di
Metis, Zeus la invita a trasformarsi in una goccia d’acqua e se la beve, incorporandola e
appropriandosi delle sue qualità.

2 Il titolo originale, più significativo, è Les ruses de l’intelligence. La mètis des Grecs.

3 Si tratta di una vera e propria illusione in cui Antiloco fa cadere Menelao, il quale ritiene che il
gesto non sia calcolato, ma conseguenza dell’inesperienza dovuta alla giovane età del figlio di
Nestore.

4 Sarebbe interessante confrontare e integrare il concetto di mètis con due concetti per molti versi
analoghi delineati da Calvino, quelli di rapidità e di molteplicità. Si veda I. Calvino, Lezioni
americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 2002, pp. 37-62, 111-135.

5 Kairos viene tradizionalmente raffigurato senza capelli dietro la testa e con un lungo ciuffo di lato
a significare che bisogna afferrare l’occasione giusta nell’attimo in cui si presenta, dal momento che
subito dopo sarà persa.

6 Si vedano in particolare i Ricordi 6, 114, 117 in F. Guicciardini, Ricordi, Garzanti, Milano 1975,
pp. 12-13, 140, 143.

7 Pico della Mirandola, nel De hominis dignitate, descrive l’uomo proprio come un Proteo, di
natura metamorfica e cangiante, inquieta e mutevole, camaleontica.

8 La mètis ha in sé l’idea di rottura della regola. Per sconvolgere il gioco, per ribaltarlo a suo favore,
non può far altro che uscire dal gioco stesso, sfruttando l’arguzia intellettuale. Ma in tal senso si
rivela analoga alla furbizia disonesta, finendo per trasformarsi da risorsa in espediente di
affermazione della convinzione, tipica dei nostri tempi, che la furbizia a tutti i costi garantisca
successo.

9 P. Trabucchi, Resisto dunque sono, cit., p. 11.

10 Ibid., p. 13.

11 Trabucchi propone diversi esempi tratti dal mondo dello sport, utilizzandoli come metafore delle
difficoltà dell’esistenza da cui è possibile ricavare atteggiamenti e metodologie pratiche per
diventare più resilienti.

12 L’autore si serve del classico esempio del vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.

13 P. Trabucchi, Resisto dunque sono, cit., p. 80.

(13 ottobre 2017)

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